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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 319110 volte)
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« Risposta #555 inserito:: Aprile 04, 2015, 11:30:24 am »

Bisogna aiutare Matteo a difendersi da se stesso

Di EUGENIO SCALFARI
29 marzo 2015
   
DI FATTI politici ed economici ne sono in questi giorni avvenuti quantità innumerevoli ed anche di fatti di cronaca, uno dei quali, quello dell'aereo caduto sulle Alpi francesi, ha trascinato l'opinione pubblica di tutta l'Europa nel mondo dell'orrore e della disperazione.

Insieme ai fatti ci sono i personaggi protagonisti, quelli che non sono identificabili con un solo avvenimento ma con una serie che copre un periodo, guida un percorso, adotta una strategia. Quelli che più ci interessano operano sulla scena italiana ed europea. Non sono molti, è ovvio: i protagonisti tengono la scena riducendo gli altri al ruolo di comprimari o addirittura di comparse. Per capire il meglio possibile ciò che sta avvenendo dobbiamo dunque identificarli, per scriverne pregi e difetti, eventualmente proporre i possibili rimedi, cercando a nostra volta un possibile Virgilio che ci aiuti nel viaggio.

Io quel Virgilio lo indicai già domenica scorsa. Si discuteva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione e feci il nome di Marco Minghetti. Visse e scrisse (e governò) 150 anni fa, e credo che come tutti i maestri sia ancora di attualità. Tra le tante cose che disse c'è una frase che trovo molto significativa: "Napoleone governò per vent'anni la Francia e il suo fu un governo che ammodernò il Paese e tutelò l'eguaglianza ma non la libertà e perciò ebbe più difetti che virtù". Ecco, già queste righe mi confermano nell'idea che è un buon Virgilio.

Il personaggio che oggi mi sembra opportuno esaminare è Matteo Renzi. In poco più di due anni è passato dal ruolo di comparsa a quello di protagonista. Quindi ha se non altro i pregi dell'innovazione, del coraggio e della volontà. Queste doti gli hanno consentito d'essere alla testa del Partito democratico, di farne il più forte partito italiano e portare lui alla guida del Paese. È ispirato dal desiderio d'essere giovevole agli italiani, molti dei quali ripongono in lui la fiducia e quell'obiettivo ha già cominciato a realizzarsi e in tempo breve lo raggiungerà pienamente. Naturalmente ha anche molti avversari e ancora di più molti perplessi che attendono risultati che ancora non vedono.

Attendendo si astengono dal voto o lo danno ad un movimento (quello di Grillo) che equivale da tutti i punti di vista ad un'astensione fortemente critica. Se si sommano insieme i grillini e gli astenuti così come sono registrati dai vari sondaggi, si astiene più o meno il 60 per cento degli elettori. Quindi la partita che Matteo Renzi sta giocando ha come terreno il 40 per cento degli aventi diritto al voto, ma di quelli che andranno alle urne, ivi compresi i grillini che votano ma non giocano.

Questa è dunque la situazione. Dimenticavo però di dire che un altro elemento fondamentale di Renzi è il suo Narciso. L'amore per se stessi c'è in tutti gli umani e particolarmente in quelli che si occupano professionalmente della conquista del potere. Qualunque potere, quello politico e quello economico in particolare e spesso quei due poteri sono affiancati. Renzi ama molto se stesso, ma questo è normale. Resta solo da sapere se quest'amore non disturba il suo desiderio di giovare agli altri.

Il mio Virgilio a questo proposito dice che "l'uomo mira all'utile proprio e non all'altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello. L'uomo singolo, come l'unione di molti e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre a esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui ". Ma poi concede che questo principio illegittimo può essere contenuto dall'intelligenza di chi governa e vuole essere di giovamento agli altri sicché tiene per la briglia il suo Narciso affinché gli altri gli rinnovino la fiducia e rafforzino il suo ruolo di protagonista.
* * *
Io credo che questo progetto corrisponda alla politica di Renzi e quindi possa essere di qualche giovamento anche al Paese. Ma è dunque indispensabile per produrre questi effetti per lui positivi che il potere effettivo si concentri nelle sue mani. Questo spiega molte cose, la prima delle quali è un progressivo indebolimento dei vari ministeri e la costruzione di uno staff a palazzo Chigi capace di determinare le linee concrete dell'azione governativa. La prova più recente è quella del suo interim al ministero delle Infrastrutture e Trasporti che doveva durare pochi giorni e durerà invece più a lungo, almeno fino a quando Renzi non lo avrà completamente disossato; lo scheletro rimane ma la polpa se la porta alla presidenza del Consiglio.

Così si spiega anche l'abolizione del Senato e soprattutto dei senatori che non saranno scelti dal popolo ma dai consigli regionali. L'effetto come più volte abbiamo sottolineato è la costruzione d'un sistema monocamerale con una Camera in gran parte "nominata" dal segretario del partito di maggioranza, il che significa che il governo ha la Camera a propria disposizione e non viceversa come in teoria la democrazia parlamentare prevede.

Questo sistema risulta ulteriormente aggravato dal fatto che la legge elettorale denominata Italicum è dominata dal principio della governabilità mentre non trova spazio alcuno il principio di rappresentanza; l'effetto di tutto il sistema che abbiamo considerato è evidentemente quello di evocare la tentazione dell'autoritarismo. Non è detto che si ceda a questa tentazione ma certo ne esistono tutte le condizioni perché il solo freno a questa deriva resta il capo dello Stato. Un freno tuttavia limitato ai poteri arbitrali di cui il presidente della Repubblica dispone, basati certamente sulla Costituzione come principio ma in pratica sulla legislazione ordinaria la quale ultima è in larga misura nelle mani del presidente del Consiglio date le tante circostanze qui ricordate.

In questo quadro si iscrive anche l'eventuale conquista della Rai. Che una riforma della maggiore istituzione culturale del Paese sia opportuna, se non addirittura necessaria, è evidente ma non dovrebbe avere come elemento fondamentale il passaggio dei poteri dal Parlamento e quindi dai partiti al governo. La nomina dell'amministratore delegato dell'azienda, dotato di poteri quasi assoluti, è formalmente del consiglio d'amministrazione ma nella pratica non è così anche perché quel consiglio è di fatto nominato -  come del resto è giusto che sia -  dal governo e in teoria dal ministro dell'Economia che ha la completa proprietà dell'azienda. L'ideale sarebbe affidare la scelta dei consiglieri d'amministrazione e dell'amministratore delegato ad una Fondazione composta da persone non politiche ma autorevolissime per i meriti acquisiti nei vari campi del loro interesse culturale. La Bbc inglese è per l'appunto sotto la tutela di una fondazione di questo tipo che le consente piena libertà d'azione. È sperabile che la legge opti per questa soluzione, ma è un auspicio che sicuramente non sarà raccolto.
* * *
Il tema della corruzione è un altro con i quali il governo dovrà misurarsi, anzi ha già cominciato. Il mio Virgilio ne sa assai poco di questo tema: lui fu uno dei dirigenti della Destra storica e nella fase in cui fu la destra a governare la corruzione era pressoché assente dalla società e dallo Stato. Oggi la corruzione è un malanno molto diffuso, dovunque nel mondo e in Italia in particolare. Su questo tema mi dovrò ripetere perché non solo io ho già scritto più volte ma altri come e meglio di me: intellettuali "disorganici", operatori, esperti e politici di buon conio (rari).

La prima distinzione da fare è tra il reato penale (le cui pene sono state aumentate nel disegno di legge in discussione) e il codice etico che dovrebbe essere applicato dalla pubblica amministrazione attraverso le necessarie inchieste effettuate anzitutto sulla medesima pubblica amministrazione e poi anche dal consiglio della magistratura per quanto lo riguarda e dal governo sui suoi membri. Quello che abbiamo chiamato codice etico si può anche chiamare con più chiarezza un peccato e la distinzione è dunque fra il peccato e il reato. La punizione del peccato non può prevedere restrizioni della libertà personale ma semplicemente sospensione o rimozione dall'incarico e relativa denuncia, ove ne ricorrano gli estremi, alla magistratura. Per il reato vale il principio della presunta innocenza fino a sentenza definitiva, per il peccato questo principio non vale e quindi una volta acquisiti i risultati delle varie inchieste, la punizione può e deve avvenire subito, come del resto è avvenuto nel caso Lupi. Si continua dunque a non comprendere le ragioni per le quali nel governo esistano ancora quattro persone che mantengono la loro attività governativa nonostante siano oggetto di indagine giudiziaria. E non si comprende neppure perché esistano dei candidati del Partito democratico per i quali ricorrono tutti i requisiti del "peccato" (ovviamente anche i partiti debbono indagare sugli eventuali peccati dei loro membri).
* * *
Un altro rimedio per diminuire il rischio d'un governo che abbia una vocazione autoritaria riguarda la creazione di corpi intermedi e su questo tema il mio Virgilio la sapeva lunga: "Ministri, senatori, deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell'amministrazione per trarne profitto per se medesimi e per gli aderenti ai loro partiti per mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto pericolo che spunta sempre dove il governo di partito cresce e giganteggia si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliamenti e di adattamenti. Ma il vero rimedio è quello di creare o favorire le istituzioni autonome, gli enti morali e le associazioni che tengano insieme una parte dei cittadini. Con cittadini disgregati ogni conato di resistenza sarà vano ed è per questo che le democrazie sgranate si acconciano facilmente ad un padrone e purché egli rispetti l'eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà. L'associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e le prepara a resistere ad ogni usurpazione. Ho sovente considerato quanto poco ci siano istituzioni del genere in Italia rispetto a tutti gli altri Paesi d'Europa ".

Questi corpi intermedi che il Minghetti auspicava poiché ne sentiva la mancanza già all'epoca sua, dovrebbero dare oggi in Italia maggior peso alle forze sindacali che rappresentano gli interessi di categorie e le tutelano attraverso i contratti ma hanno anche un interesse politico per rafforzare i diritti dei lavoratori. A questo proposito è interessante la nascita della Coalizione sociale la quale ha promosso ieri una manifestazione nelle strade di Roma per iniziativa del sindacato Fiom e alla quale ha partecipato anche tutta la segreteria della Cgil. Quell'associazione si propone di rappresentare i lavoratori non più per categorie né per luoghi di lavoro né con modalità contrattuali ma di fare in modo che la politica generale del Paese tenga conto del lavoro e dei lavoratori come del resto è previsto addirittura nel primo articolo della nostra Costituzione.

D'altra parte i sindacati hanno sempre partecipato alla politica generale dai tempi di Lama, di Trentin, di Cofferati e dei loro successori. Da questo punto di vista la concertazione costruita da Amato, da Ciampi e da Prodi fu uno dei passaggi fondamentali che consentì la creazione della moneta comune europea con la partecipazione fin dall'inizio dell'Italia. Era stata ottenuta attraverso una politica di moderazione salariale che fu riconosciuta più volte nelle conclusioni finali che ogni anno il governatore della Banca d'Italia legge nell'assemblea generale dell'istituto. Bisognerebbe dunque che questi corpi intermedi e in particolare quelli dei lavoratori fossero sviluppati e opportunamente riconosciuti.

C'erano alcuni altri temi molto importanti da trattare fin da oggi, di politica estera, di terrorismo, dell'andamento dell'economia e della congiuntura. Ne parleremo nel prossimo futuro. Per ora mi limito ad attirare l'attenzione su quello che sta accadendo sul mercato monetario. Draghi sta portando
 
l'Europa fuori dalla deflazione e sta favorendo in ogni modo una ripresa del finanziamento delle banche alla clientela, un aumento della domanda interna e delle esportazioni e quindi dell'occupazione. L'ho già scritto una volta ma lo ripeto. Meno male che Draghi c'è.
© Riproduzione riservata 29 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/29/news/bisogna_aiutare_matteo_a_difendersi_da_se_stesso-110735933/?ref=HRER2-1
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« Risposta #556 inserito:: Aprile 05, 2015, 11:00:29 pm »

Un mondo sconvolto e la Chiesa missionaria di Francesco

Di EUGENIO SCALFARI
05 aprile 2015
   
 NELLA religione cattolica quella che si chiama settimana santa rappresenta il culmine della teologia: l'ultima cena di Gesù con gli apostoli dove nasce il sacramento dell'eucarestia, il tradimento di Giuda Iscariota, il ritiro nel giardino di Getsemani, l'arresto del Signore, il processo e la fustigazione ordinata da Pilato, la crocifissione, la morte e la resurrezione.

Non c'è in nessun'altra religione un processo simile a questo e la ragione è evidente: soltanto nel cristianesimo Dio si incarna attraverso il Figlio, che a quel punto non è soltanto Figlio di Dio ma anche dell'uomo, con le gioie, i dolori, le tentazioni dell'uomo e la morte che ne è l'inevitabile conclusione. E perfino la disperazione di dover morire che si manifesta sia nella notte di preghiera al Getsemani sia sulla croce nel momento dell'ultimo respiro. La capacità di penetrazione del cristianesimo nelle anime degli individui, delle comunità, nei popoli del mondo a cominciare dall'Europa, risiede principalmente nella morte dell'uomo Gesù che lo rende simile a tutti noi; ci sono però altri due elementi che rafforzano grandemente quella religione: la predicazione dell'amore verso gli altri che è il modo per amare Dio attraverso il suo Figlio e la misericordia inesauribile che Dio concede alle sue creature.

La misericordia, il perdono sono concessi se c'è, sia pure un minuto prima che la morte sopraggiunga, il sincero pentimento. In quel caso la morte diventa un passaggio verso la vita eterna, una promessa che campeggia nella vita dei mortali, sia pure circondata dal dubbio ricorrente.

Ma riconquistata giorno per giorno poiché non esiste effetto consolatorio maggiore di questo: il passaggio sulla terra come transito per poi ascendere al cielo delle beatitudini al cospetto del Dio creatore alla cui destra siede il Figlio che fino a lì ha guidato le anime dei credenti.

Eppure questa religione così affascinante che sembra ed è tagliata su misura per le deboli creature che tutti siamo ha attraversato una fase di secolarizzazione, di distacco, di rifiuto che è diventato un fenomeno di massa da almeno un secolo. I non credenti ci sono sempre stati, ma nel Novecento sono diventati una maggioranza in Europa ma anche nell'America del Nord. Le radici di questa non credenza di massa stanno nell'illuminismo, ma il fenomeno è esploso nella seconda metà del XIX secolo e dura tuttora. Si pensava anzi da parte dei filosofi, dei sociologi e di gran parte delle persone che studiano se stesse e la società in cui vivono, che fosse ormai un fenomeno irreversibile.

Invece alcuni più attenti osservatori ritengono che la teologia e la fede stiano riacquistando forza. Le cause di questa inversione nel nostro modo di pensare sono molte e stanno suscitando analisi, libri, approfondimento che le Chiese seguono con molta attenzione.

Ho letto qualche giorno fa su queste pagine un articolo molto informato e come sempre lucido di Roberto Esposito, che segnala quanto sta avvenendo: la secolarizzazione nei Paesi dell'Occidente sta perdendo terreno mentre la Chiesa accresce la sua vocazione missionaria e si espande sempre di più nell'America Latina, in Africa e in vaste zone del Pacifico.
Non sempre questo fenomeno è positivo: suscita profondi conflitti all'interno delle Chiese cristiane ed anche in quella cattolica, divide drammaticamente l'Islam sconvolto da guerre, scontri armati e terrorismo. E tuttavia la secolarizzazione appare in declino, complice anche la tecnologia che ha di fatto indebolita o annullata del tutto la separazione tra il pubblico e il privato mettendo in questo modo in difficoltà il laicismo che proprio su quella separazione ha il suo fondamento.

* * *

Questa diagnosi contiene a mio avviso una parte di verità, ma non tutta. Le contraddizioni che mette in rilievo nei confronti del laicismo sono esatte ma altrettanto significative sono quelle esistenti all'interno delle religioni.

L'Islam è diviso di dritto e di rovescio; i terroristi del Califfato e di ciò che resta di Al Qaeda si battono armi in pugno contro l'Islam non violento; ma al tempo stesso anche la divisione tra sciiti e sunniti alimenta una guerra religiosa sempre più aspra. Infine la Siria, la Turchia, l'Iraq sono in crisi e Israele, dopo la vittoria elettorale della destra, rappresenta un deposito di dinamite che può scoppiare ogni giorno e comunque alimenta una "intifada" che semina morte, rappresaglia e odio dentro e fuori dallo Stato ebraico.

Questa fragilità delle religioni alimenta inevitabilmente il fondamentalismo, nel senso che ciascuna di esse tende a "nazionalizzare" il proprio dio contrapponendolo agli altri o meglio rivendicando soltanto al proprio l'ecumenicità e tacciando come infedeli tutti i popoli che credono in un dio diverso, con una diversa dottrina, diverse scritture, diversi profeti, diversi catechismi e liturgie.
La situazione che fin qui abbiamo descritto non sembra tale da dare alle religioni la capacità di insidiare il laicismo e riassorbire la secolarizzazione. Tutt'al più i non credenti possono non dichiararsi più tali e indulgere verso forme di "teismo" o di agnosticismo. Alla domanda "Tu credi in qualche cosa che ci trascende?", possono rispondere "Sì". E alla domanda "In che cosa?", rispondono "Non lo so, in qualche cosa". Del resto, mentre Diderot era materialista, Voltaire era teista. Credeva in un dio creativo che aveva creato il mondo e poi si era ritirato nel profondo dei cieli lasciando che la creazione si evolvesse secondo le sue leggi senza mai più intervenire. Questo pensava Voltaire, che fu anche un cultore di Newton, non a caso per molti anni fu il compagno- amante di madame du Châtelet, prima traduttrice in francese dell'opera di quel grande scienziato.

Diciamo dunque che la secolarizzazione può traballare ma non pare che arretri di molto. Il mondo delle idee è sempre più libero, quello della fede sempre più diviso e fondamentalista; la conclusione non può che constatare che viviamo in un mondo assai confuso, dal quale può emergere una nuova civiltà. Libera o dominata da chi detiene il potere? Anarchica o disciplinata? Credente in un'Autorità trascendente o nell'immanenza d'una scintilla di divinità presente in ogni fibra del creato? E infine, consapevole dell'autonomia della coscienza che è propria dell'animale pensante che noi siamo; consapevole altresì che all'origine dell'universo le particelle elementari vagavano in un caotico vuoto, prive di leggi proprie e d'una forza che le dominasse che poi apparve e le tenne insieme dando al caos una capacità creativa; tutto ciò detto perché non arguire che in ogni essere vivente c'è una scintilla di caos che alimenta tutte le forme, ne accoglie l'energia quando quelle forme si estinguono e continua incessantemente a far emergere dal caos nuove forme con proprie leggi e una propria durata? Non è anche giusto  -  a suo modo  -  un resurrexit incessante?

* * *

Tornando alle religioni, che sono una delle più durature categorie del pensiero umano, anzi la prima che la fantasia dell'animale pensante concepì per spiegare quanto accadeva attorno a lui e dentro di lui, vorrei segnalare nel giorno della Pasqua cristiana, la presenza al vertice della Chiesa cattolica e apostolica d'un uomo eccezionale, che sta trasformando non la fede in Dio e nel suo Figlio che interamente lo possiede, ma l'Istituzione che ha ereditato dai suoi predecessori.

Secondo me papa Francesco ha pochissimi predecessori che tentarono di modificare profondamente l'Istituzione, indebolendo il potere temporale che essa ha sempre esercitato, a partire dall'editto di Costantino. In epoca moderna i predecessori furono Giovanni XXIII e Paolo VI. Non a caso il suo vero predecessore è stato il Concilio Vaticano II del quale Francesco vuole perseguire l'opera di confronto con il mondo moderno.

Ho già scritto altre volte che questo Papa è gesuita fino in fondo perché il compito primario della Compagnia fondata da Ignazio di Loyola è sempre stato un compito missionario d'una Chiesa missionaria che doveva anzitutto capire il linguaggio spirituale degli altri ed entrare in sintonia con loro.

Il secondo compito era non il proselitismo ma l'amore per i diversi, per i deboli, per gli esclusi stimolando in loro, ma anche nei ricchi e nei potenti, la vocazione verso il bene.
Il terzo compito era la misericordia, la pace, il perdono.

Questo sta tentando di realizzare papa Francesco. L'abolizione del potere temporale dell'Istituzione è lo strumento che apre la strada agli altri obiettivi suddetti. Il Sinodo è l'altro strumento che affida ai Vescovi la soluzione dei tanti problemi che la trasformazione della Chiesa pone ai successori degli apostoli. Ma al di là di questo profondo rinnovamento della cattolicità c'è un altro immenso tema che Francesco si pone: l'affratellamento tra le varie Chiese cristiane e non solo ma anche l'avvicinamento con le altre religioni. Dio è ecumenico e quindi unico. Ogni religione ci arriva percorrendo strade diverse con Scritture diverse e diversi profeti, ma Dio è unico. Guai a coloro che lo agitano come proprio stendardo e non ne riconoscono l'unicità. Guai ai fondamentalisti che allignano in tutte le religioni e, credendo di portarle alla vittoria, le inquinano e le distruggono.

Francesco vuole che tutte le religioni si affratellino nella fede per l'unico Dio. Va nelle moschee, va nelle sinagoghe, va nelle chiese dei protestanti cristiani. Tra qualche settimana andrà a Torino per la benedizione della sacra Sindone e con l'occasione visiterà anche la chiesa Valdese. Pietro Valdo fu uno dei cristiani più devoti a Cristo e a Dio. La sua chiesa non è un'istituzione, non ha alcun potere temporale, ma i suoi sacerdoti hanno piena libertà di sposarsi e di avere figli. Francesco andrà a trovarli. È probabile che sarebbe felice se i valdesi si riconoscessero cattolici ma ecco perché il Sinodo ha dinanzi a sé anche il problema del celibato, già posto da alcune conversioni di pastori anglicani al cattolicesimo. E gli ortodossi, e i copti.

In questo giorno della Pasqua cristiana non saprei chiudere questo tentativo di capire quanto avviene nello spirito della nostra civiltà senza formulare, da non credente, gli auguri più affettuosi verso papa Francesco e l'opera di estrema importanza da lui intrapresa.
© Riproduzione riservata
05 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/04/05/news/un_mondo_sconvolto_e_la_chiesa_missionaria_di_francesco-111232264/?ref=HRER2-1
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« Risposta #557 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:27:05 pm »

Senza appoggio popolare la sinistra diventa un inutile club

Di EUGENIO SCALFARI
12 aprile 2015
   
 COMINCIO con una citazione dello storico francese Jacques Julliard ne "Le Monde" di venerdì scorso: "Que serait une gauche sans le peuple? Le socialisme, certes, c'est une moral mais doublée d'une empathie populaire. Or une partie du peuple des gauche fait sécession et exprime un vote de désaffiliation. Il y a surtout 50 pour cent d'abstensions, c'est-à-dire une gigantesque crise du politique, un incontestable malaise dans la représentation. Les professionnels de la politique ont rongé la vie democratique".

Non si poteva descrivere meglio quello che sta accadendo in Francia: "Un paysage bouleversé" che anche in Italia presenta esattamente la stessa crisi: i professionisti della politica stanno distruggendo la democrazia, la sinistra sta perdendo l'appoggio popolare e la sinistra senza il suo popolo non esiste più.

Ed ora citerò un grande discorso che De Gasperi tenne in Parlamento il 17 gennaio del 1953, alla vigilia del voto sulla legge elettorale che pochi mesi dopo fu battuta dalle opposizioni di destra e di sinistra. Fu chiamata legge truffa, ma non lo era affatto; dava un premio al partito o alla coalizione che aveva ottenuto il 50,1 per cento dei voti. "Questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse sarebbe un tradimento della democrazia. Si limita a rafforzare la maggioranza affinché sia più solida e possa governare come è suo diritto. Ma se perdesse il 50 meno un voto sarebbe sconfitta da chi invece prendesse due voti di più. Vi sembra che questa sia un'intollerabile sopraffazione?".

Così diceva De Gasperi. Mettete insieme questi concetti espressi cinquantuno anni fa e quelli de "Le Monde" di tre giorni fa e vedrete una perfetta identità di ragionamento che descrive in tutta la sua evidenza lo stato della democrazia nel nostro Paese, aggravato in più da altri due fatti salienti: l'abolizione del Senato e una legge elettorale che non solo trasforma in maggioranza una minoranza cui mancano dieci punti percentuali per arrivare al 50 più uno, ma che è anche una legge di "nominati".

Le conseguenze di queste decisioni che stanno per essere approvate tra pochi giorni sono di fatto l'abolizione della democrazia parlamentare.
Un Parlamento di "nominati" in un sistema monocamerale è una "dependance" del potere esecutivo che fa e disfà senza più alcun controllo salvo quello della magistratura se dovesse trovare un reato contemplato dal codice penale.

Resta naturalmente la Corte costituzionale ma anch'essa può finire con l'essere una Corte nominata dall'esecutivo se desse troppa noia all'autoritarismo d'un governo a sua volta sottomesso alla decisione d'un autocrate e del suo cerchio magico. Gli interessati si sono assai doluti perché avevamo usato il termine di democratura per descrivere l'essenza di quanto rischia di accadere. Ma quale altra parola lo descriverebbe in modo più appropriato?
Aggiungeteci la ciliegina che riguarda la dipendenza della Rai dal governo che sta per essere decisa tra poche settimane e avrete una gustosissima torta che saranno in pochi a gustare.
***
Detto questo ci sono questioni economiche e sociali altrettanto urgenti e importanti da affrontare. Comincerò spiegando che cosa è e da dove proviene quel cosiddetto tesoretto di un miliardo e 600 milioni che improvvisamente il presidente del Consiglio ha estratto venerdì scorso dal cilindro tra la sorpresa del Consiglio dei ministri che stava esaminando la legge di stabilità presentata dal ministro dell'Economia.

A leggere la maggior parte dei giornali le madri del tesoretto sarebbero il miglioramento del Pil, la ripresa dell'occupazione, il mutamento delle aspettative e gli effetti che questo determina sui consumi e sulla domanda.

Ebbene, non è così. Il tesoretto viene dagli effetti della manovra monetaria di Mario Draghi che come primo risultato ha prodotto un ribasso consistente del rendimento dei titoli pubblici e quindi una diminuzione di circa due miliardi di euro negli oneri che il Tesoro sopporta per pagare gli interessi sui titoli in circolazione.

Due settimane fa avevo chiuso il mio articolo scrivendo "meno male che Draghi c'è". Non voglio ripetermi, del resto i fatti stanno a provarlo e non solo per quanto riguarda l'Italia ma l'Eurozona nel suo complesso.
***
Un altro problemino da chiarire riguarda il Jobs act e il ministro Poletti, che chiacchiera molto e spesso a sproposito. Quale giorno fa, citando fonte Istat e interpretandola a suo modo, informò la pubblica opinione che il primo bimestre di quest'anno, paragonato al corrispondente bimestre dell'anno scorso, registrava una crescita dell'occupazione di oltre 79 mila unità. Poco ma buono, un inizio d'anno comunque confortante.

Gli fu obiettato che doveva tener conto dei contratti stipulati sulla base del Jobs act ma non aveva tenuto conto dei licenziamenti che erano stati nel frattempo effettuati.

E così si scoprì che, fatte le debite sottrazioni, il saldo tra nuove assunzioni di precari e licenziamenti era di 44 mila occupati in più.

Molto poco ma pur sempre una cifretta positiva e comunque un indizio confortante che sarebbe certamente aumentato con rapidità. Ma poi, impietosamente, ieri sono usciti i dati dell'Inps sull'occupazione nel suo complesso. Va infatti chiarito che i contratti sulla base del Jobs act non sono vere e proprie assunzioni ma semplicemente un consolidamento di alcune forme di precariato con contratti a tempo indeterminato per tre anni, salvo la facoltà di licenziamento alla scadenza del triennio.

L'Inps invece parla di occupazione e disoccupazione vera e propria, chi lavora sotto qualunque forma contrattuale e chi non lavora affatto.

Anche qui il saldo è positivo e sapete qual è la cifra: 13 persone in più.

La scrivo in lettere per esser sicuro che la lettura sia corretta: tredici persone in più. Una cifra che percentualmente è espressa con il numero zero perché non è matematicamente percepibile come percentuale.

Questo fatto conferma che Jobs act è una buona legge se e quando riprenderanno investimenti e domanda, ma finché questo non accadrà il Jobs act è un oggetto esposto in vetrina. Gli imprenditori lo guardano ma in vetrina rimane.

Salvo un punto: ha abolito l'articolo 18 per i lavoratori che saranno assunti con quella legge. Proposta da un partito che si proclama di centrosinistra mi ricorda la citazione poc'anzi riportata di Julliard: la sinistra senza popolo è morta. Renzi sostiene che si tratta di una sinistra nuova, moderna, cambiata e forse è vero. Però a me ricorda alcuni personaggi che provenivano tutti dal socialismo e che instaurarono qualche cosa che somiglia molto alla democratura. Si tratta di Crispi, Mussolini, Craxi. E chiedendo scusa ai tre precedenti (come ho già detto tutti e tre provenienti dal socialismo) mi viene anche da aggiungere Berlusconi che ai tempi del suo sodalizio con Bettino si proclamava socialista anche lui.

Io speriamo che me la cavo, è un vecchio detto sempre attuale di fronte a rischi di tal genere.
***
In questi ultimi venti giorni sono accaduti fatti orrendi nel mondo: la strage di massa del cosiddetto Califfato che avviene in tutto l'agitatissimo Medio Oriente ma anche in Europa; il fondamentalismo nelle religioni, la strage-suicidio nell'aereo della Lufthansa voluta da un pazzo; il massacro di un altro pazzoide al tribunale di Milano, il tema della tortura e quello della corruzione.

Secondo me c'è stata una sola stella in un cielo così denso di nuvole nere: la stella è papa Francesco, il solo in grado di gestire il presente con lo sguardo verso il futuro.

Chi vive il presente e non vede il tempo lungo, chi ama il potere per il potere e non guarda al bene dei figli e dei nipoti, rischia di annaspare in una palude di acque morte.

È quello il rischio, è quello il pericolo che ci sovrasta e neppure Francesco riuscirà ad evitarlo.

Noi abitiamo un Paese di grandi individui e di grande civiltà ma pochi ne hanno goduto. Una aristocrazia di geni che ha educato attraverso i secoli un popolo di persone consapevoli e responsabili, un popolo sovrano ma minoritario in patria. Il resto era plebe fatta di poveri, di deboli, di esclusi, ma anche di corrotti, di tiranni, d'avventurieri, di buffoni e di voltagabbana.

Questo avviene in tutto il mondo, la violenza, la cupidigia, l'avidità, l'avarizia di sé sono dovunque è l'animale uomo, bestia pensante che oscilla di continuo tra l'istinto animalesco e la coscienza, il bene suo e il bene degli altri.

Stiamo attraversando un fine d'epoca dominata dall'egoismo.

Non potrebbe essere altrimenti, quando un'epoca tramonta e la nuova non ha ancora preso forma e creato nuovi valori.
Ho scritto molte volte queste riflessioni e mi scuserete se le ripeto. Non sono certo un oracolo e spero sempre di sbagliarmi, ma i fatti purtroppo mi danno ragione o almeno così mi sembra.

Può darsi che la comunicazione di massa che mai prima d'ora aveva raggiunto questa intensità, sottolinei le cattive notizie e trascuri le buone. Comunque suscita nuovi istinti e nuovi pensieri.

L'elemento dominante nel mondo di oggi è la società globale. Questo è il tema del quale tutti dovremo tener conto. Facciamolo questo sforzo: è già il presente ma richiede tempo lungo per essere costruito a misura dell'uomo e non della bestia dalla quale proveniamo.

© Riproduzione riservata
12 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/12/news/senza_appoggio_popolare_la_sinistra_diventa_un_inutile_club-111735021/?ref=HRER2-1
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« Risposta #558 inserito:: Aprile 20, 2015, 05:58:51 pm »

Col suo viaggio il nostro premier porta a casa due corone

Di EUGENIO SCALFARI
19 aprile 2015
   
DEBBO dire che in certe cose, in certe situazioni e in certi incontri Matteo Renzi è di fantastica bravura. Anche i suoi avversari politici dovrebbero riconoscerlo e credo che lo sappiano ed auguro loro che ne tengano conto. L'ha dimostrato quando incontrò per la prima volta Angela Merkel e poi Putin; infine l'altro ieri quando ha passato l'intera mattinata e poi il pranzo e ancora il primo pomeriggio con Barack Obama alla Casa Bianca. Gli ha perfino portato in regalo una cassa di vino d'annata. Toscano naturalmente. Immagino fosse un Brunello di Montalcino.

Angela Merkel, Putin, Obama. Su di loro ha fatto colpo e l'hanno trattato come un grande statista e l'Italia da lui guidata come un grande Paese. Che cosa ha ottenuto in cambio? Quasi nulla o nulla del tutto, ma ha avuto in cambio qualche cosa che a lui più di tutto importava: un riconoscimento da rivendicare in patria. E vi pare poco?

Del resto Silvio Berlusconi ai suoi tempi fece altrettanto. Anche lui all'inizio sedusse la Merkel e fece con lei perfino un passo di danza. Di Putin diventò addirittura socio oltreché amico intimissimo. Fecero affari insieme sul gas russo, fecero insieme il bunga bunga in una dacia assai accogliente, passarono insieme i rispettivi compleanni e quando, dopo la sentenza della Cassazione, volle essere autorevolmente confortato, Silvio volò a Mosca dove il confortatore lo accolse al Cremlino. Ma parliamo anche della sua amicizia per George W. Bush: fece entrare l'Italia in guerra contro l'Iraq insieme a lui, andò più volte a trovarlo a Washington e nel luglio del 2003 a Crawford in Texas nella residenza di campagna del presidente.

Che cosa ottenne l'Italia da questo vasto ventaglio di amicizie di Silvio? Assolutamente nulla, ma lui se ne infiocchettò l'abito da premier sontuosamente. Purtroppo (per lui) dopo le sue sfortunate vicende giudiziarie la Merkel lo scaricò del tutto e gli altri governanti europei fecero altrettanto, al punto che evitarono di farsi fotografare in sua compagnia nelle riunioni internazionali. Avevano capito prima di noi italiani che la sua strada era finita.

Da questo punto di vista Matteo è molto più bravo di lui e col bunga bunga non ha nulla da spartire. Non possiede aziende private, non ha conflitti di interesse. Silvio sperava che fosse il suo erede al potere ma ha fatto un errore: non ha accettato la candidatura di Mattarella. Comunque Renzi non lo abbandonerà, farà in modo che abbia onorata sepoltura (politica ovviamente) e prenderà da lui parecchi voti di ex forzisti in cerca d'autore. E questo è quanto. Ma ora vediamo che cosa veramente è accaduto a Washington a parte i complimenti reciproci, le pacche sulle spalle e il Brunello di Montalcino.

***

Obama l'ha complimentato per le riforme che Renzi ha compiuto. Non ha detto quali. Si è complimentato anche per la sua battaglia per la crescita economica in Europa, che però non è affatto venuta. In aggiunta a questi complimenti Obama si è però lamentato perché l'euro è troppo debole e rende difficili le esportazioni americane su tutta l'area europea. Renzi ha incassato il rimprovero rispondendo che vedrà quel che potrà fare. In che senso? Veramente il nostro premier non vorrebbe consolidare la rivalutazione del dollaro di fronte alla moneta europea? L'autore di quel mutamento del cambio è Mario Draghi che sta lavorando per il bene dell'Europa e quindi dell'Italia. Poi il discorso è passato alla Russia. Poche settimane fa Renzi aveva promesso a Putin un intervento per far togliere le sanzioni economiche contro la Russia. Obama ha invece detto a Renzi che sarebbe un errore gravissimo togliere quelle sanzioni che semmai dovrebbero essere aumentate. Piglia e porta a casa.

A pranzo il discorso si è spostato sulla Libia. Obama tra un bicchiere di Brunello e l'altro ha detto che in Libia gli Usa non intendono intervenire e tantomeno fornire armi ed aerei al governo libico (che di fatto non esiste). Ha detto che bisogna pacificare le tribù e che questo compito spetta senz'altro all'Italia. Quindi l'ha incoronato negoziatore principale della pace in Libia. Naturalmente incoronare qualcuno senza avere la corona da calcargli sulla testa non costa nulla ed è quello che ha fatto Obama. La corona in questo caso ce l'ha l'Onu e sembra difficile che l'Onu la metta in testa ad un italiano che per di più rappresenta un Paese che ebbe la Libia come colonia dal 1911 al 1942, dopo la sconfitta di El Alamein. Obama lo ha simbolicamente incoronato come leader dell'Europa (altra corona che Obama non possiede), ma a scanso di equivoci ha ricordato che gli Usa hanno un rapporto con la Germania che non può e non deve essere indebolito. Infine Obama ha preso atto con piacere che le truppe italiane dislocate in Afghanistan resteranno in quel Paese ancora un paio di anni mentre quelle americane stanno già rientrando in patria.

Insomma: chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Renzi ha dato truppe in Afghanistan e possibilmente un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro. Ha dato anche il suo appoggio al trattato commerciale Usa-Ue attualmente in discussione. In contropartita ha avuto due corone di cartone. Su quelle due Renzi torna a Roma felice e contento. Giornali e televisioni hanno già cominciato a suonare a festa e continueranno. Mi viene in mente la canzone "Madonne fiorentine" quando dice che "Madonna Bice non nega baci/ baciar le piace, che male fa?". Infatti, che male fa mettersi in testa due corone di cartone e far credere che sono d'oro massiccio e ingioiellato.

***

Tornato in Italia Matteo (che Giuliano Ferrara non a caso chiama "Royal baby") comincerà col respingere e far respingere all'unanimità dalla direzione del Pd le dimissioni di Speranza da capogruppo dei deputati del partito. Speranza accetterà quel voto o insisterà nelle dimissioni? Per ora l'interessato ha detto che insisterà ma ha anche spiegato il perché: vuole trattare un compromesso accettabile per tutte e due le parti in causa. E qual è il compromesso? Un cambiamento della riforma del Senato in seconda lettura in Parlamento: elezione diretta dei senatori e voto compatto dei dissidenti sulla legge elettorale. È possibile questo do ut des? Sembrerebbe di no. Secondo la legge vigente le materie già approvate dalle Camere nella prima lettura della legge costituzionale non possono essere più emendate in seconda lettura. Le cose stanno esattamente così, salvo che c'è un impensabile calembour cui appigliarsi: nella prima lettura una Camera ha votato che "i senatori saranno votati nei Consigli regionali" e l'altra Camera ha votato che "i senatori saranno votati dai Consigli regionali". Il significato è identico ma la forma è diversa.

È un appiglio valido che consente un mutamento sostanziale? La risposta sulla base dei regolamenti parlamentari spetta al presidente del Senato. Grasso non è persona che gioca alle quattro carte; in materia di legge e di procedure ha speso tutta la sua vita e perciò la sua risposta, ove fosse necessaria, sarà motivata in modo sicuramente accettabile, quale che sia.

Ma se fosse negativa? Allora mancherebbe la contropartita al voto unanime sulla legge elettorale. E allora Renzi che farà? Metterà la fiducia su quella legge? È avvenuto una sola volta, la mise De Gasperi sulla cosiddetta legge truffa del 1953. Ma in quel caso la sostanza era completamente diversa: il premio scattava soltanto nel caso che ci fosse in Parlamento una maggioranza assoluta del 50 per cento più uno. Solo allora scattava il premio per accrescere la governabilità. Comunque quella legge fu battuta nonostante la fiducia. Figurarsi qui e ora. Perciò il problema resta apertissimo su come si comporteranno i dissidenti del Pd. Per loro il tema è se osservare la disciplina di partito o non accettarla se sono convinti che quella legge è un passo assai pericoloso verso un governo autoritario. Sta a loro rispondere e decidere come comportarsi.

***

Una parola sulle decisioni di Marchionne di associare i lavoratori della Fiat agli utili dell'azienda; qualora quegli utili ci siano spetterà a lui di stabilire l'entità del premio e la sua ripartizione tra i dipendenti. Tutti i sindacati hanno plaudito salvo la Fiom-Cgil che parla di esproprio dei poteri sindacali. Sembra un'opposizione più corporativa che sindacale. In parte lo è, ma in parte no. Infatti in quasi tutte le aziende esiste un "premio di rendimento" che le imprese discutono con le rappresentanze sindacali, le quali trattano sull'entità del premio (sempre che un profitto ci sia stato), sulla sua ripartizione ed anche su problemi connessi alle condizioni di lavoro nel comune interesse dell'impresa e dei lavoratori. Dunque non è l'imprenditore che decide da solo, ma l'interlocutore sindacale è allo stesso tavolo e si arriva ad una decisione comune.

A me sembra che questo metodo sia buono e che comunque il profitto sia di comune utilità; senza di esso la discussione si dovrebbe spostare sui sacrifici da compiere, sia dall'una che dall'altra parte e questo è il massimo di un capitalismo democratico e di un sindacalismo riformista. Post scriptum. La settimana che si apre domani si concluderà sabato prossimo con la ricorrenza del 25 aprile, festa della Resistenza contro il nazifascismo. Questa festa fa parte della storia d'Italia, dal Risorgimento in poi. Quel movimento ebbe molte ombre e contemporaneamente molte luci. Le figure più rappresentative, molto diverse tra loro ma tutte votate alla fondazione dello Stato unitario e democratico, furono soprattutto tre: Mazzini, Cavour, Garibaldi.

La Resistenza fu una pagina di grande riscatto e anch'essa ebbe molte figure e apporti ideali e politici assai diversi: liberali, comunisti, monarchici, liberal-socialisti, socialisti. Ma il fine era comune e fu sancito dalla Costituzione che tuttora ci detta le regole di comuni principi di democrazia, libertà ed eguaglianza politica e sociale. Per ciò concluderò con le parole con le quali il presidente Mattarella ha concluso due mesi fa il suo discorso di insediamento al Quirinale: "Viva la Repubblica, viva l'Italia".

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19 aprile 2015
Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/19/news/col_suo_viaggio_il_nostro_premier_porta_a_casa_due_corone-112307980/?ref=HRER2-1
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« Risposta #559 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:00:28 pm »

Il Paese smantellò la patria, la Resistenza la ricostruì

Di EUGENIO SCALFARI
26 aprile 2015
   
L'ARTICOLO che ora comincerete a leggere l'ho scritto ovviamente ieri, sabato 25 aprile. L'anniversario ricorda ciò che avvenne settant'anni fa: la liberazione dell'Italia dal giogo nazista ad opera delle armate angloamericane ma con il contributo importante della resistenza partigiana ed anche dei reparti dell'esercito regolare italiano inquadrati nell'VIII Armata a comando inglese.

Le brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le unificò fu l'antifascismo. Nelle varie brigate c'era quello spirito comune a tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed erano le più numerose, ma c'erano anche quelle di Giustizia e Libertà del Partito d'Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche ed anche repubblicane e liberali. Complessivamente erano alcune migliaia di giovani e c'erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e all'arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni.

Fu questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base etica e politica di quell'Italia democratica delle istituzioni repubblicane e della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2 giugno del 1946.

Venerdì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato un'ampia intervista su queste pagine al direttore Ezio Mauro, chiarendo il significato di quel periodo, mettendone anche in evidenza alcune ombre che non hanno però alterato né indebolito la nascita dell'Italia repubblicana e democratica, la ricostruzione sociale ed economica che ne seguì e i martiri che persero la vita nelle camere di tortura fasciste durante quei mesi terribili e tormentati. Ma l'inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima d'ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga.

***

Sulla Resistenza bisognerebbe ora raccontare i numerosi episodi già oggetto di libri, articoli, narrazioni di diverso orientamento perché diversi erano i sentimenti degli autori, ma questo lavoro è già stato fatto da altri colleghi sulle nostre pagine. Giorgio Bocca, tra i tanti, dette testimonianze di cose viste e fatte e il suo è un racconto irripetibile. Piuttosto c'è da spiegare perché la Resistenza è considerata da molti storici e politici come il secondo atto del movimento risorgimentale. Questa tesi è stata compiuta dalla Costituzione e approfondita e diffusa da Carlo Azeglio Ciampi e da Giorgio Napolitano.

Gli esponenti principali di quel glorioso movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli, Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri austriache.

Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare un'organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all'Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo.

La storia è sempre e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e sociale con grande ritardo rispetto al resto d'Europa. Questo sfasamento temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che è stata fin dall'inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente: molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un'entità estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene comune.

La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra.

Ogni tanto ci sono in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso avvengono quando al vertice dello Stato si insedia -  col favore di popolo -  un dittatore.

Le istituzioni per molti italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della fragilità democratica che anche ora è tutt'altro che cessata.

***

I malanni di un Paese fortemente in ritardo rispetto all'orologio della storia dovrebbero tuttavia produrre degli anticorpi. È così che avviene in ogni organismo. Se vive ma ha batteri e virus che lo minacciano, gli anticorpi cercano di migliorare la situazione e di guarire la malattia. Ma accade qualche volta un fenomeno assai singolare: gli anticorpi invece di aggredire virus, batteri e corpi estranei che minacciano la vita, si rivolgono contro se stessi e finiscono per distruggersi lasciando campo libero al male ed anzi aggravandolo con la loro autodistruzione.

Se guardiamo alla storia dell'Italia moderna questo fenomeno è largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli, specialmente ora che alla sua guida c'è un personaggio coraggioso, eloquente, dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da solo. Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto.

***

Prima di esaminare l'altro tema di grande attualità che è quello degli migranti, mi piace ricordare come passai la giornata del 25 aprile del 1945.

Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel '41 andai all'Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall'adolescenza alla giovinezza.

Quella storia e quella giornata l'ho raccontata nel mio libro "L'uomo che non credeva in Dio" edito da Einaudi nel 2008.

Lo cito qui di seguito, è un piccolo spaccato che rende l'atmosfera di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l'ha riscattato. L'8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche.

Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori.
"Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d'improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà.

Dall'inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull'Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.

Finché arrivò l'8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall'inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.
Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell'armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.

All'annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l'intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l'esercito prima di tutto, l'autorità del governo, le leggi, la monarchia.

Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia.
Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C'erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria.

Domandammo se c'erano esplosivi. Risposero: "Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri". "Ci sono anche i cannoni?". Risposero di no. "I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva". Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l'inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po' e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.

Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d'essere venuto. "Ci vedremo presto", gli dissi. "Non credo" rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse "ciau" con la u".

***

Dovrò ora dire qualche parola sulle decisioni dell'Europa (28 capi di Stati e di governo riuniti giovedì a Bruxelles) sul tema posto da Renzi dell'emergenza dell'emigrazione dalla Libia.

Avevano dinanzi, i 28, un problema enorme che doveva e dovrebbe affrontare almeno quattro questioni: portare in salvo i migranti che tentano di raggiungere il Sud d'Europa (praticamente la costa italiana) sfuggendo ad un inferno di povertà, schiavitù, stragi, nell'Africa subequatoriale; sgominare l'organizzazione delinquenziale degli scafisti-schiavisti che organizza i viaggi della morte; stabilizzare la Libia perché fin quando quel Paese non torni ad avere una struttura di governo è impossibile vincere la guerra del mare; infine intervenire a monte dell'emergenza nelle terre del CentroAfrica dove milioni di persone sono in condizioni di stentata sopravvivenza e alimentano la fuga verso il benessere che diventa purtroppo una fuga verso la morte.

Ebbene, questi essendo i problemi intrecciati l'uno con l'altro, l'incontro a Bruxelles ha partorito un topolino: hanno deciso di portare l'assegno mensile europeo alla politica dell'immigrazione da 3 a 9 milioni al mese. Sul resto di fatto è silenzio. La Mogherini è stata incaricata di preparare un memorandum che sarà esaminato dal Consiglio d'Europa, con molti Stati membri che hanno però già detto che più di quanto è stato deciso non faranno. Si tratta di Germania, Gran Bretagna, Paesi baltici, Olanda e via numerando.

Renzi è contento. Noi no. Ma non solo noi: basta leggere su il "Sole 24 Ore" di ieri l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi che comincia dicendo che "la montagna ha partorito il topolino" e lo dimostra con una lucida analisi di quanto (non) è accaduto a Bruxelles. Lo stesso giorno è uscito l'articolo di Prodi sul "Messaggero" dove si spiega che per stabilizzare la Libia bisogna far intervenire le grandi potenze arabe (l'Egitto, l'Arabia Saudita e gli Emirati) e la Turchia e il Qatar, i soli che possono assicurare in Libia un'autorità senza la quale ogni altra azione è impossibile.

Concludo tornando al tema della Resistenza.
Mi dicono che a Renzi non è simpatica la canzone "Bella Ciao" che è proprio quella dei partigiani. Sarebbe stato bello se l'avesse intonata anche lui alla manifestazione dell'Anpi. Non vorrei che invece di "Bella Ciao" dicesse "Ciao Bella". È un cambiamento ma non andrebbe affatto bene.

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26 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/26/news/il_paese_smantello_la_patria_la_resistenza_la_ricostrui_-112863318/?ref=HRER2-1
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« Risposta #560 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:33:20 pm »

L'Inghilterra, l'Europa, Ciampi, Napolitano e Narciso

Di EUGENIO SCALFARI
10 maggio 2015
   
DUNQUE il voto a sorpresa del Regno Unito. Anzi della Gran Bretagna. Anzi del Regno federale d'Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord. Questo è l'esito reale del voto di giovedì scorso mentre l'apparenza è la vittoria piena dei conservatori sui laburisti, i liberaldemocratici e gli antieuropeisti dell'Ukip che hanno un seggio avendo però con loro il 12,6 per cento dell'elettorato (effetto negativo dell'uninominale che mortifica i partiti che hanno una presenza decente ma territorialmente dispersa). Il vincitore Cameron deve ora fronteggiare, con calma ma avendo ben chiare le finalità che persegue, due problemi: il primo è il modello federale e in particolare il rapporto con la Scozia e l'Irlanda; il secondo è il confronto con l'Europa. Quest'ultimo evidentemente richiede che anche l'Europa chiarisca a se stessa e al mondo quali sono le sue finalità, senza di che negozierebbe alla cieca con l'ex Regno Unito. Sulla Repubblica di ieri c'è un articolo illuminante di Timothy Garton Ash che segnala tra tante altre cose una riforma costituzionale che molti politologi ed anche molti uomini politici di varia collocazione stanno considerando: trasformare la Camera dei Lord in un Senato eletto col sistema proporzionale in tutto l'ex Regno Unito che sarebbe il Parlamento di tutto il Regno federale, mentre la Camera dei Comuni sarebbe soltanto il Parlamento inglese, così come esiste già un Parlamento scozzese e un relativo governo. Avrete già notato che la parola regno compare in tutte le varie ipotesi di trasformazione e di denominazione dell'attuale Regno Unito.

Ciò vuol dire che la Monarchia e la sua Regina (o Re) rappresentano il simbolo unico dello Stato federale così come l'eventuale Senato sarebbe l'organo che dà la fiducia al premier dello Stato federale; un premier che può essere nato in uno qualunque dei Paesi federati e che avrebbe come poteri la responsabilità politica della Federazione, e quindi la politica estera, la difesa militare, la giustizia, la politica economica e sociale, lasciando ai primi ministri degli Stati membri della Federazione tutti i problemi locali che li riguardano. Insomma dei governatori come esistono e operano negli Usa. Tutti questi sviluppi sono ancora ipotetici, anche perché Cameron farà di tutto per limitare gli effetti di quanto è accaduto col voto di giovedì che ha visto la sua piena vittoria di conservatore e contemporaneamente la piena vittoria del partito nazionale scozzese, con simpatie laburiste. Cameron dovrà certamente accrescere l'autonomia amministrativa dei Paesi che compongono l'attuale Regno Unito ma tenterà di evitare l'autonomia politica. Ci riuscirà? Molto dipende anche dai nuovi rapporti che avrà con l'Europa nonché l'evoluzione della stessa Europa, altro tema ancora in gran parte da affrontare.

* * *
Segnalo a questo proposito un documento firmato dai presidenti della Repubblica emeriti Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano in occasione della nascita della Comunità europea del carbone e dell'acciaio voluta da Schuman 65 anni fa: il seme dell'Europa che è ormai un'Unione politica ed economica con 28 Paesi membri, 19 dei quali dotati di una moneta comune. Il documento, che si rivolge alle istituzioni e ai popoli dell'Europa, contiene un passo di particolare importanza che qui desidero citare: "Tutto conduce alla conclusione che l'Europa  -  per crescere economicamente e progredire socialmente rendendo operanti i suoi valori per riaffermare la sua identità e il suo ruolo nel mondo  -  non ha dinanzi a sé altra strada che quella di una sempre più stretta integrazione, di una sempre più stretta unione in senso politico tra i suoi Stati e i suoi popoli". Chi ha diffuso questa sorta di manifesto politico di stampo europeista sono due nomi che, sommando insieme i loro periodi di permanenza al vertice del Paese (come presidente del Consiglio e poi della Repubblica Ciampi e come capo dello Stato eletto per due volte di seguito Napolitano) totalizzano continuativamente diciassette anni, terminati con l'elezione di tre mesi fa di Sergio Mattarella. Due uomini che avevano già dato il meglio di sé per il bene comune fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, conosciuti per l'opera loro in Italia, in Europa, in America, le cui parole oggi sul destino dell'Europa sono quindi della massima importanza e del massimo peso. In una società globale come quella in cui viviamo l'Europa non può che trasformarsi da Unione confederale quale tuttora è, in Unione federata con le relative cessioni di sovranità dei singoli Stati membri nella politica fiscale, nel bilancio e nel debito, nella politica estera, nella difesa, nella giustizia, nell'immigrazione e nella politica sociale. L'attuale Regno Unito, quale che sarà il suo futuro assetto, non vorrà annettersi agli Stati Uniti d'Europa, ma dovrebbe altrimenti andrà incontro al destino di piccola potenza, priva di qualsiasi influenza sulla società globale dei Continenti diventati Stati. Dovrebbe, se non vuole chiudersi in una casetta divisa per di più in un condominio di piccoli appartamenti di fronte a sei o sette immensi grattacieli. Winston Churchill lo disse nel 1948 preannunciando che la sorte dell'Union Jack era quella di entrare in un'Europa unita oppure come cinquantesima stella della bandiera americana. Altra via non c'è, il condominio darà solo strettezze economiche e declino politico.

* * *

Ed ora veniamo alle nostre piccole cose (ma per noi assai importanti) anche se (o proprio perché) di livello condominiale. A quel livello la domanda che molti si fanno e ti fanno è se Matteo Renzi ti sia simpatico ed abbia la tua stima oppure no e perché. Per quanto mi riguarda l'ho già detto più volte, in privato e in pubblico rispondendo a bravissimi conduttori televisivi come Giannini, Floris, Gruber, Annunziata: come persona mi è simpatico e gli riconosco un'eccezionale bravura nella capacità di propagandare il suo prodotto e la sua figura. Più bravo addirittura di Berlusconi che fino al suo arrivo sembrava imbattibile. Diciamo che ha carisma, cioè capacità di convincere e di manovrare. Il carisma si muove a vari livelli e con varia intensità. Robespierre aveva carisma, Napoleone aveva carisma, Lenin aveva carisma e, venendo a casa nostra, l'avevano Cavour, Mazzini, Garibaldi, Mussolini, De Gasperi, Togliatti, Fanfani, Moro, Berlinguer. E anche Renzi. Vedete a quanti livelli e con quali diversi personaggi il carisma si manifesta. Invece per Renzi uomo di governo o statista che dir si voglia non ho grande stima anzi ho dentro di me un sottile ma persistente e crescente sentimento di antipatia. Cerco di vincerlo ma finora non ci sono riuscito anche perché le motivazioni non mancano e mi sforzo di verificare che siano obiettive. Oggi però la motivazione obiettiva mi induce a riconoscergli che sul tema degli immigrati, del tentativo di pacificare la Libia e d'intervenire nei Paesi subequatoriali dell'Africa, Renzi è riuscito a smuovere Juncker a condividere quest'obiettivo. Nei prossimi giorni Juncker dovrà ottenere l'appoggio della Commissione di Bruxelles da lui presieduta, del Parlamento di Strasburgo (Schulz che lo presiede è già d'accordo) e poi del Consiglio europeo. Qui, dove i 28 Stati membri sono rappresentati dai capi dei rispettivi governi, l'appoggio è molto dubbio anche se la Germania e la Francia concordano con Juncker e con Renzi. Lui comunque quello che poteva l'ha fatto e anche la Mogherini sta lavorando bene.

Quanto a tutto il resto però il mio dissenso permane e anzi direi che è in fase di ulteriore aumento: sulla legge elettorale, sulla riforma del Senato, sui pericoli d'una tentazione autoritaria che da quelle leggi promana, sulla mancanza di leggi concernenti la creazione di nuovi posti di lavoro e quindi di nuova occupazione, sulla mancanza di contatti con i sindacati dei lavoratori, sulla legge per la riforma della scuola. Infine, essendo lui anche segretario del suo partito, sulla spaccatura del Pd a causa della cancellazione dei valori della sinistra per la tutela dei quali il Pd è nato. Il partito di Renzi è ormai di centro e si propone come tale; aspira a monopolizzare il potere. Marc Lazar, politologo francese e nostro collaboratore, in un articolo di giovedì ha definito queste riforme dello Stato di stampo renziano ma in corso anche in altri Paesi europei, come democrazia esecutiva anziché parlamentare. Perfettamente esatto secondo me. Non c'è un pericolo per la democrazia ma una sua trasformazione da parlamentare ad esecutiva. Il potere esecutivo stabilisce i fini e appronta i mezzi. E in quella parlamentare i fini li stabilivano il Parlamento e il governo possedeva gli strumenti per realizzarli. Ebbene, questa trasformazione a me non piace affatto e debbo dire che non è neppure più una democrazia, a rifletterci bene. Una democrazia esecutiva è un gioco di parole perché demos significa popolo sovrano e come si esprime il popolo sovrano se non con una rappresentanza proporzionale in un Parlamento che non sia una dépendance del potere esecutivo? Molte persone e anche rappresentative di forze politiche e sindacali, stanno pensando di astenersi dal voto o di votare scheda bianca sperando che nel frattempo rinasca una sinistra moderna, cambiata, ma ancora legata ai valori di libertà ed eguaglianza. Spero anch'io che questo avvenga o che Renzi torni sui suoi passi sconsiderati. Altrimenti non saranno i democratici ad abbandonarlo, ma lui ad averli abbandonati. A volte Narciso può giocare pessimi scherzi.

P. S. In una lettera al Corriere della Sera di ieri Silvio Berlusconi ha criticato severamente i capi di governo occidentali che non sono andati alla sfilata di Mosca voluta da Putin per festeggiare la vittoria della seconda guerra mondiale contro il nazismo. "Non bisogna isolare la Russia spingendola verso l'Asia, bisogna invece avvicinarla all'Europa se non vogliamo che sia l'Europa ad essere isolata". Così ha scritto Berlusconi. Si può anche ricordare che lui con Putin ha un'amicizia personale di dubbia qualità che potrebbe averlo indotto a questa pubblica esternazione. Ma quali che siano le possibili ragioni che l'hanno spinto a questa pubblica uscita, Berlusconi ha ragione? Non vi sembri strano, ma anch'io la penso così.

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10 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/10/news/l_inghilterra_l_europa_ciampi_napolitano_e_narciso-113994014/?ref=HRER2-1
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« Risposta #561 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:36:55 am »

5 maggio 2015
Scalfari: "Nel Pd serve un'alternativa a Renzi: potrebbe essere Pisapia"

Ospite di Massimo Giannini a Ballarò, su Rai3, Eugenio Scalfari parla del Pd: "Non è più un partito di sinistra".

E invoca la costruzione di un candidato alternativo a Matteo Renzi.

Il nome indicato è quello del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: "Può interpretare l'anima civica del Paese"

Da - http://video.repubblica.it/politica/scalfari-nel-pd-serve-un-alternativa-a-renzi-potrebbe-essere-pisapia/199974/199014?ref=HRER1-1
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« Risposta #562 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:40:29 am »

E la risorsa del suo mestiere con la donnetta, col cavaliere

Di EUGENIO SCALFARI
   
 MOLTE cose sono accadute nella settimana che oggi si chiude. In Italia, in Europa e nel mondo intero. Non starò ad elencarle, giornali e televisioni ne sono pieni. Mi occuperò soltanto dei fatti italiani, che possono essere guardati da quattro diversi punti di vista: le manifestazioni  -  belle ma anche molto brutte  -  connesse con l'apertura dell'Expo e con il Primo maggio, festa del lavoro; l'economia italiana; il tema del Mare nostrum e gli immigrati; la legge elettorale approvata con quattro voti di fiducia ai quali seguirà il voto definitivo sull'intera legge domani e quanto sta accadendo all'interno del Pd.

Come esergo che tocca un punto assai delicato per la democrazia italiana e per il principale partito che la guida, citerò la vignetta di Altan che apre l'Espresso di questa settimana.

Si vede una giovane donna come quelle tipiche di questo grande artista, che legge il seguente comunicato: "Il popolo potrà visitare la sua sinistra ogni secondo week-end del mese". Con queste dieci parole Altan descrive perfettamente lo stato della politica italiana.
***
Comincio dal tema del lavoro. Le cifre diramate dall'Istat tre giorni fa danno un aumento della disoccupazione e in particolare di quella giovanile; una diminuzione dei consumi, una modifica in peggio delle aspettative che erano invece segnalate in aumento il mese scorso. Le cifre sono anche negative per quanto riguarda il fabbisogno del bilancio, a causa della recente sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni al di sopra dei 1400 euro mensili, che dovranno essere rimborsate con il calcolo degli interessi.

Si tratta di cinque miliardi di euro per l'esercizio in corso, che saliranno a undici nell'anno prossimo. In queste condizioni, l'erogazione di 1,7 miliardi destinati ai ceti più poveri non è più fattibile ed è rinviata "sine die". La donna di Altan ha perfettamente ragione. Ma chi ha commesso l'errore? Non la Fornero, che con quel taglio definito oggi incostituzionale salvò nel 2011 l'Italia dal default, Ma il governo attuale che ha dissipato 10 miliardi l'anno e per i prossimi due anni con la regalia elettoralistica degli 80 euro mensili ai redditi superiori agli ottomila euro annui. Avrebbe dovuto destinare quella cifra al taglio del cuneo fiscale (Irap) e oggi  -  pur dopo la sentenza della Consulta  -  avrebbe ancora le risorse finanziarie per aiutare i non capienti e continuare ancora ad intervenire sull'Irap.

Queste vicende mettono anche in evidenza che il Jobs Act, come ho già scritto più volte, è un prezioso oggetto esposto in vetrina ma con nessuna incidenza sull'occupazione. Non crea nuovi posti di lavoro. Li creerà quando finalmente una vera legge sul lavoro sarà presentata dal governo e votata dal Parlamento come chiede Draghi da mesi. Ma il governo è in tutt'altre faccende affaccendato: legge elettorale, riforma del Senato, Mare nostrum, regolamento di conti con i gufi della minoranza del Pd. "Figaro qua, Figaro là, sono barbiere di qualità". Altan dovrebbe fare su quel barbiere la sua prossima vignetta.
***
Speravamo tutti che il nostro Renzi ottenesse dall'Europa un aiuto sostanziale sulla questione della Libia e degli immigranti, fermo restando che quelle centinaia di migliaia di poveretti che affrontano la morte in mare dovrebbero esser portati in Europa tramite l'Italia. Lo speravamo molto perché Renzi si era pubblicamente impegnato a "metterci la faccia" e a battere decisamente il pugno sul tavolo di Bruxelles.

Non ha battuto nessun pugno ed ha ottenuto soltanto l'aumento dell'aiuto finanziario europeo da tre a nove milioni al mese come rimborso spese del "Triton". Cioè niente e abbiamo anche dovuto ringraziarli.

Le conseguenze sono di chi dovrà salvarli se prendono il mare, ma se cercheremo di non farli partire e resteranno in Libia da chi saranno soccorsi e da chi saranno protetti? Da noi naturalmente perché in quel Paese non esiste un governo ma tribù che si combattono a vicenda e terroristi del Califfato.

La conclusione è che manterremo i nostri soldati in Afghanistan per ingraziarci gli Usa e dovremo anche mandarne altri, con le relative intendenze e medici, sulla costa libica. Se sbaglio, qualcuno mi corregga e ne sarei felice, però temo di no perché non si tratta di congetture ma di fatti preannunciati. A meno che si respingano gli immigrati in Libia e lì si lascino nelle mani degli scafisti-schiavisti. Spero che non si arrivi a tanto perché se ci si arriva la Lega di Salvini avrà vinto la sua battaglia e il popolo di Altan non andrà a trovare la sua sinistra neppure una volta al mese.
***
Ed ora parliamo delle leggi in corso di approvazione in Parlamento: quella elettorale e quella del Senato. Qui lascerei la parola ad alcuni autorevoli interventi di personalità della cultura politica e giuridica, quattro per l'occasione: Michele Salvati sul Corriere della Sera del 29 aprile, Valerio Onida sul Sole 2-4 Ore del 1 maggio, Michele Ainis sul "Corsera" del 30 aprile e infine, "last but not least", Alcide De Gasperi nel suo discorso alla Camera del 17 gennaio 1953. Comincerò appunto da quest'ultimo, unico esempio di un voto di fiducia su una legge elettorale che nonostante quella protezione fu battuta in Parlamento e chiamata "legge truffa", mentre non lo era affatto. A quell'epoca facevo parte del gruppo dei collaboratori del Mondo di Mario Pannunzio. Noi, laici e nient'affatto conservatori, fummo favorevoli a quella legge che avrebbe consentito ai partitini laici alleati con la Dc di prendere più voti di quanto avveniva con il sistema elettorale vigente. E infatti così sarebbe avvenuto.

Ma passiamo al discorso di De Gasperi, che ho già ricordato in un altro mio articolo.

Il presidente del Consiglio sottolineò che non avrebbe proposto mai una riforma elettorale che trasformasse una minoranza in maggioranza. "Il premio viene concesso soltanto nel caso che un partito o un gruppo di partiti conquisti la maggioranza assoluta dei voti, 50 per cento più uno. Nel caso invece che questa ipotesi non si verifichi ci si servirà della legge elettorale vigente, basata sul sistema proporzionale puro. Considererei un tradimento della democrazia trasformare in maggioranza una minoranza, fosse pure del 49 per cento. La legge attuale rafforza solo una maggioranza esistente nel Paese ed espressa con libero voto. Per questa ragione il governo chiede la fiducia al Parlamento".

Dico subito che se l'attuale governo avesse adottato la legge del '53, immagino che il Parlamento l'avrebbe votata all'unanimità. Invece non è stato così. Il premio scatta col 40 per cento dei voti. Se sono di meno i primi due partiti (non coalizioni, che sono vietate) vanno al ballottaggio dove molto probabilmente i voti saranno in cifra assoluta molto minori del primo turno. Sarà quindi una piccola minoranza del popolo sovrano a consegnare il potere al partito vincente tenendo conto che probabilmente gli astenuti saranno il 40 per cento e anche di più.
***
Michele Salvati però non la pensa così. Salvati non è persona culturalmente da poco. Avrà dunque le sue ben motivate ragioni alle quali mi sembra doveroso dare voce.

"Il dissenso della minoranza del Pd arriva a riassumere il vecchio slogan di minaccia alla democrazia già usato al tempo di Berlusconi. Ma quali tabù ha toccato Renzi per suscitare questa reazione? Si tratta del passaggio da un partito di notabili in servizio permanente effettivo ad un partito del leader il quale giudica quando il tempo delle mediazioni è finito. Il governo del leader non è una minaccia della democrazia ma il tentativo di conciliare la democrazia con la decisione nella consapevolezza che la vera minaccia per la democrazia è la sua incapacità di decidere ".

Caro Salvati, è un po' forte affermare che la democrazia è incapace di decisioni. La conseguenza logica è dunque di abolirla. È questo che tu vuoi? Allora è vero che la minaccia c'è e del resto lo si vedrà.
La risposta viene da Ainis: "La riforma del Senato toglie un contrappeso e rafforza il sovrappeso dell'Esecutivo, mentre fa dimagrire l'opposizione con la soglia del 3 per cento. Così in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Non basta trasformare i deputati in soldatini; la governabilità ottenuta con i numeri è una formula rozza e fallace".

Ancora più netto è Valerio Onida, presidente emerito della Consulta, che la vede in questo modo: "La mia valutazione su quella legge è decisamente negativa. C'è un allontanamento da un genuino sistema parlamentare in favore del potere personale di colui che conquista la carica di primo ministro. Pretende che un solo partito occupi la maggioranza assoluta dei seggi anche se non rappresenta la maggioranza degli elettori e dei votanti. Un vero premio di maggioranza dovrebbe spettare ad una vera maggioranza che abbia ottenuto più del 50 per cento dei voti (De Gasperi). Questa invece è una legge che trasforma in maggioranza dei seggi la minoranza più forte. Il ballottaggio a sua volta dà la vittoria ad uno dei due competitori qualunque sia il livello del suo consenso e che sia minore degli elettori al secondo turno. Il problema è dunque la creazione di una maggioranza che può non essere tale e che per di più dà luogo ad un governo monocolore".

A me pare che non ci sia altro da aggiungere. Ricorderò soltanto, per fare sfoggio d'una modesta cultura in questi argomenti, che ai primi dell'Ottocento uno dei maggiori filosofi e pensatori di quella epoca, Wilhelm von Humboldt, sostenne la diminuzione dei poteri del Cancelliere in Prussia e riaffermò che la libertà era il solo vero valore da perseguire. Lo Stato doveva aver un compito puramente negativo: impedire tutto ciò che può indebolire la libertà del singolo. Questa è la base d'ogni liberalismo che sia veramente tale. Un'ultima osservazione credo si debba fare sulla funzione politica dei sindacati dei lavoratori. Molti sostengono che la politica del sindacato si esercita solo attraverso i contratti, ma non è così. I grandi sindacalisti di questo Paese stipulavano i contratti con la controparte ma avevano anche un'attività politica di estrema importanza. Faccio i nomi di Di Vittorio, Lama, Trentin, ma altri ancora potrei farne. Il sindacato visita la sinistra tutti i giorni del calendario. Bisognerebbe ricordarselo.

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03 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/03/news/e_la_risorsa_del_suo_mestiere_con_la_donnetta_col_cavaliere-113407301/?ref=HRER2-1
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« Risposta #563 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:35:06 am »

Chi comanda da solo piace a molti, ma ferisce la democrazia

Di EUGENIO SCALFARI
17 maggio 2015
   
Accade in tutte le trasmissione televisive che, oltre a diffondere informazioni sui fatti avvenuti in quel giorno, cercano anche di capire e di far capire al pubblico che le ascolta qual è il giudizio che gli italiani danno sui vari protagonisti della vita pubblica del nostro paese. E poiché ormai da molti mesi il protagonista è uno soltanto, la domanda ricorrente è: "Che cosa pensa di Renzi?". Le risposte sono varie ma la domanda è sempre questa, a tal punto ripetuta da essere ormai diventata noiosa anche perché è almeno in parte sbagliata. Il problema e quindi le domande che debbono esser poste sono: "Che cosa è il popolo italiano? Che cos'è la destra e cos'è la sinistra?".

Questo tema me lo sono posto da tempo e da tempo lo studio; sono infatti domande che hanno radici lontane, storiche, perché un popolo, la sua mentalità, i suoi comportamenti, la sua sensibilità e infine il suo amor di patria (se c'è) non si formano da un giorno all'altro e neppure da un anno all'altro; ci vogliono secoli per farne un popolo che merita d'esser chiamato sovrano; c'è una storia che l'ha scolpito di virtù e di vizi. È un percorso molto complesso. L'Inghilterra moderna inizia a formarsi con la guida della grande Elisabetta, all'inizio del Seicento; la Francia più o meno nello stesso periodo con Enrico di Borbone e poi con il Re Sole, Luigi XIV; idem la Spagna con Filippo II e la Germania con Carlo d'Asburgo; la Russia con Pietro il Grande e poi con Caterina. Insomma l'Europa moderna nacque sotto il potere assoluto dei monarchi, ma insieme a loro nacque una nobiltà di spada, una magistratura, una borghesia mercantile e culturalizzata.

Tre secoli dopo quella borghesia rovesciò i poteri assoluti e diventò la classe dominante. Ma un secolo dopo anche i lavoratori presero coscienza e nacque il socialismo. Questa, ridotta in pillole, è stata la storia d'Europa con i suoi pregi e i suoi difetti come avviene sempre e dovunque nella vita di cui la storia è il racconto. E in Italia? Anche da noi il tema si pose in quello stesso periodo e furono molti a studiarlo e a tentare di risolverlo. In alcune regioni, specialmente in quelle centrali del Paese, tentarono di risolverlo la casata dei Medici, alcuni capitani di ventura che fondarono tiranniche Signorie, la casata dei Borgia, quella dei Farnese, quella dei Della Rovere e insomma un Papato intriso di temporalismo. Al Sud dominavano gli spagnoli d'Aragona, a Nord i francesi e poi ancora gli spagnoli e infine gli austriaci. Il Piemonte fu per secoli un principato-cuscinetto e in questo modo, con un lavoro assai lungo e tormentato, alla fine diventò indipendente. Non è caso che proprio di lì nacque quel motore che, dopo le cosiddette guerre d'indipendenza, costruì lo Stato d'Italia, proclamato da Cavour nel 1861 pochi mesi prima della sua morte.

Il nostro Stato compare sulla scena europea con un ritardo di tre secoli rispetto agli altri. Ritardo che ebbe un'influenza terribilmente negativa, soprattutto per la cultura del bene comune e della partecipazione del popolo (sovrano se lo è) all'andamento della vita pubblica. Fino ai primi del Novecento la massa degli italiani era contadina, lavorava nelle campagne di proprietà dei latifondisti. Figliava e lavorava, si nutriva di fagioli o di polenta, arava, seminava, zappava, potava, per il padrone. Non aveva diritto al voto. Non era popolo, erano plebi e servitù della gleba. Per sottrarsi a questa situazione di servaggio e di fame, nella seconda metà dell'Ottocento e fino allo scoppio della guerra del 1915 emigrarono 29 milioni di italiani. Giovani soprattutto, in prevalenza dalle terre del Sud, ma non soltanto. Poi si scatenò la grande guerra, 600 mila morti, un milione i feriti. E molte cose cambiarono, ma il nocciolo del problema rimase e c'è ancora: la profonda diseguaglianza tra il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo, dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di essere comandati. Non sembri paradossale: ognuno vuole comandare da solo, al proprio livello. Se ad un livello superiore al suo qualcuno vuole il suo appoggio per comandare da solo, io glielo do incondizionatamente, purché io a mia volta sia autorizzato a comandare da solo. E così via, da livelli alti fino ai più bassi. Alla base c'è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di comando perché è plebe. Ne hai bisogno però in un'epoca di diritti generali. Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo. Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più. Questa, a guardarla e studiarla senza occhiali scuri che ti falsino la vista, è la situazione. Se fosse diversa non saremmo in testa nelle classifiche della corruzione e in coda in quelle dell'efficienza e della produttività.

* * *

Queste cose del resto le avevano già viste e studiate Machiavelli e Guicciardini cinquecento anni fa. Se vi andate a rileggere Il Principe di ser Niccolò e le Storie del Guicciardini, la descrizione del popolo italiano sembra scritta oggi nella sua essenza etico-politica. Machiavelli sperava che, mettendocela tutta, quel popolo sarebbe cresciuto. Guicciardini invece pensava di no. Purtroppo aveva ragione. Anche Mazzini sperava. Cavour no. Ma lo Stato unitario lo fece Cavour. Mazzini avrebbe voluto uno Stato repubblicano creato dal basso, dalle rivoluzioni popolari. Cavour quello Stato lo conquistò; si avvalse anche di Garibaldi che la pensava come Mazzini ma non fu il popolo contadino a farlo trionfare nel Sud, furono i suoi volontari, quasi tutti del Nord, a farlo vincere a Calatafimi, a Marsala e sul Volturno. Con Mazzini nella rivoluzione di Roma del 1849 aveva perso contro i francesi a porta San Pancrazio sul Gianicolo. A Calatafimi vinse con l'appoggio indiretto di Cavour, ma quando tentò da solo di conquistare Roma partendo dalla Calabria, il governo italiano lo fermò (e lo ferì) sull'Aspromonte. Andate a rileggervi il Gattopardo o a rivederne il film di Visconti. Il nucleo essenziale della storia d'Italia (democratica?) è tutto lì.

* * *

Due articoli pubblicati sull'ultimo numero de l'Espresso mi hanno molto colpito. Uno è la Bustina di Minerva di Umberto Eco e racconta l'aneddoto di una signora che, parlando della sinistra italiana, si rallegra per una vittoria elettorale del Pd e dice al suo interlocutore: "Che bellezza, abbiamo vinto ed ora possiamo fare un'opposizione coi fiocchi!". Dal che Eco deduce che la sinistra ha nel sangue il suo compito di opposizione per non mescolarsi con il potere corruttore. La sinistra ha una sua vocazione morale prima ancora che politica e se il suo partito vince e cede alla tentazione del potere, allora molti dei suoi militanti l'abbandonano e ne fanno un altro più radicale (come sta accadendo oggi nel Pd).

L'altro articolo è del direttore de l'Espresso, Luigi Vicinanza, che considera le vicende della destra di Berlusconi che per vent'anni l'ha guidata ed oggi che è allo sfascio pretende ancora di guidarla. Secondo Vicinanza quella destra italiana, quand'anche si presenti come moderata e liberale, ha sempre voluto governare a qualunque costo e con qualunque tipo di alleanza con lobby di varia natura, allo scopo di tutelare e rafforzare gli interessi aziendali del Capo nonché delle lobby e delle varie clientele alleate. Questa essendo la natura della destra berlusconiana, la visione del bene comune è sempre finita sotto i piedi e gli interessi particolari hanno avuto la netta prevalenza. Riassumendo: una sinistra che dà la prevalenza alla questione morale ed ha la vocazione dell'opposizione; una destra che si mette il bene comune sotto i piedi e tutela gli interessi privati. Con la conseguenza che un sistema bipolare diventa inesistente e il partito che spregiudicamente ottiene la maggioranza si colloca al centro e riduce le ali a una poltiglia. È appunto quanto sta accadendo.

Queste cose noi le scriviamo da un pezzo e direi che siamo il solo giornale a dirle in modo compiuto e argomentato. Anche sul Corriere della Sera talvolta affiorano diagnosi analoghe. Ricordo un de Bortoli, già dimissionario, che ha chiarito la natura del partito renziano con parole poco riguardose e cito un articolo di venerdì scorso di Gian Antonio Stella che scrive così: "Come è possibile che dopo tante denunce, inchieste e condanne, tante promesse e assicurazioni di rottamatori più o meno improvvisati, tutti i partiti sono alle prese con cacicchi locali, arroccati nei loro feudi e ben decisi a far pesare le loro rendite di posizione? Accade dappertutto, dalla Campania alla Liguria, alle Marche e soprattutto nel Pd dove la Bindi ha aperto un'inchiesta dell'antimafia sui candidati "discutibili" delle liste sulle quali si voterà il prossimo 31 giugno".

Dopo questo ampio quadro di storia passata e contemporanea, posso rispondere alla domanda su Renzi: è uno dei pochi che sa convincere e sa tradurre in fatto politico il consenso ottenuto. Guida un partito di centrosinistra che cerca di prendere voti al centro, al punto tale che ormai è diventato un partito di centro dove lui decide e lui comanda. E fin qui nulla da dire, salvo due osservazioni. La prima: la sua legge elettorale ha organizzato benissimo il potere decisionale della maggioranza, cioè di lui che è il capo del partito ed anche del governo, ma ha completamente dimenticato l'elemento della rappresentanza che non è presente in un partito di "nominati", i quali non sono soltanto i 100 capolista, ma 200 perché si presentano in tre circoscrizioni e se risultano eletti in più di una optano lasciando il posto a chi viene dopo nella lista, che è stato anche lui scelto centralmente. La seconda: l'abolizione del Senato, come già scritto infine volte, indebolisce ulteriormente il potere legislativo a vantaggio di un esecutivo che si concentra nelle mani di un capo che comanda da solo. In questo modo si passa da una democrazia parlamentare ad una democrazia esecutiva, che è cosa del tutto diversa e sommamente pericolosa in un paese come il nostro. Mazzini avrebbe deprecato. Garibaldi si sarebbe ribellato. Machiavelli ne avrebbe avuto il cuore infranto. Guicciardini avrebbe avuto ragione. Il paese è fatto così. Un governo autoritario gli piace. Renzi dovrà dunque combattere contro questo paese che lo vuole al potere da solo purché si ricordi di chi gliel'ha regalato. Ce la farà a tenersi alla larga da questa po' pò di tentazione? Dovrebbe avere come esempio papa Francesco, ma personalmente ne dubito molto. È uno scout e Crozza lo descrive meglio di tutti.

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17 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/17/news/chi_comanda_da_solo_piace_a_molti_ma_ferisce_la_democrazia-114537233/?ref=HRER2-1
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« Risposta #564 inserito:: Maggio 25, 2015, 11:07:18 am »

Il conflitto sul potere temporale tra la Curia e Francesco

Di EUGENIO SCALFARI
24 maggio 2015

È UN po' di tempo che non scrivo sul Papa e del Papa. Spesso ne cito qualche iniziativa, qualcuna delle frasi che quotidianamente dedica ai fedeli che lo ascoltano; mi è anche capitato di esortare alcuni dei nostri uomini politici a seguirne l'esempio perché Francesco non è soltanto il vescovo di Roma che siede sul soglio di Pietro ma, a mio parere, è il più importante personaggio del secolo che stiamo vivendo.

Oggi però dedicherò a lui quest'articolo. Soprattutto per le parole che ha indirizzato all'assemblea generale della Conferenza episcopale italiana e il giorno dopo, durante la messa da lui celebrata a Santa Marta. Sembra a me che in entrambe queste occasioni papa Francesco abbia fatto un passo ulteriore nella strada intrapresa due anni fa dopo il Conclave che lo elesse.

Un ulteriore passo avanti mentre, dietro l'apparenza di una Curia che lo segue quasi unanime nel suo rivoluzionario rinnovamento della Chiesa, l'opposizione curiale si sta organizzando estendendosi anche ad altre Conferenze episcopali, ad altri cardinali e arcivescovi, specialmente in Europa e nel Nord America.

L'Occidente è molto secolarizzato, aumenta la crisi delle vocazioni, si diffonde sempre più il pensiero laico, il numero dei non credenti, degli indifferenti, della religiosità spersonalizzata.
La reazione della Chiesa a questo fenomeno di distacco è quello di arroccarsi nella tradizione, non soltanto teologica ma anche "politica": in Europa e in Usa sta emergendo una sorta di "moralismo " con aspetti di fondamentalismo che hanno come bersaglio Francesco e la sua rivoluzione.

So bene che lui non ama e non si riconosce in questa parola anche perché la sua rivoluzione non è altro che ritrovare le antichissime radici della Chiesa dei primi secoli dell'era cristiana. Da quelle radici l'allontanamento avvenne molto presto e coincise con l'inizio del potere temporale. Francesco sta combattendo da due anni contro quel potere temporale e lo aggancia al Concilio Vaticano II.

Questo è lo scontro in corso e di questo parlerò oggi per chiarirlo anzitutto a me stesso (mettere per scritto i propri pensieri significa soprattutto precisare ed esplicitare ciò che era ancora informe e perfino inconsapevole) e poi a quanti mi faranno l'onore di leggermi.
***
Ho visto pochi giorni fa un vecchio e bellissimo film che ha come protagonisti Robert De Niro e Jeremy Irons ed è intitolato "Mission". Non starò a raccontarlo, ma in qualche modo ha a che vedere con le dinamiche che papa Francesco ha messo in moto nella Chiesa di oggi.

La sostanza del film è il drammatico scontro tra due missionari gesuiti e le potenze coloniali Spagna e Portogallo nell'America del Sud settecentesca. I due missionari guidano una tribù di nativi in una terra vergine sulle sponde di un fiume e di un'immensa cascata. I nativi indios sono di giovane e giovanissima età e i missionari li hanno convertiti a Dio e civilizzati. Ma questo loro ingresso nella vita civile non piace affatto ai mercanti di schiavi che commerciano in quelle terre traendo dallo schiavismo notevoli ricchezze e non piace neppure alle potenze coloniali europee che sono presenti in Brasile, in Uruguay e in Argentina dei quali il fiume è una via d'acqua comune.

Alla fine un arcivescovo gesuita arriva alla Missione che ormai è diventata un villaggio perfettamente organizzato. L'arcivescovo si compiace con i suoi confratelli per aver civilizzato quegli indios, ma gli impone di distruggere il villaggio e rimandare gli indios nella foresta dalla quale provengono. I due missionari non capiscono quello strano modo di ragionare ma l'arcivescovo gli spiega che se la Missione non sarà rinnegata, il villaggio distrutto e gli indios di nuovo inselvatichiti nella foresta, i soldati delle potenze coloniali stermineranno tutti, missionari compresi. Per di più l'arcivescovo ha timore che i governi di Madrid e di Lisbona facciano pressioni sul Papa affinché sciolga l'Ordine dei gesuiti che sta prendendo nelle colonie dell'America del Sud molte iniziative analoghe a quella Mission. Tutto questo deve essere dunque impedito, evitato, represso.

Questa è la storia che il film racconta terminando con i soldati spagnoli che distruggono il villaggio e uccidono i suoi abitanti compresi i due missionari che hanno rifiutato di obbedire al loro arcivescovo.

Questo episodio non è inventato ma realmente accaduto e il film lo racconta con grande efficacia umana. Lo cito perché, senza ovviamente raggiungere quella sanguinosa drammaticità, un conflitto interno alla Chiesa di oggi si sta verificando ed è ancora una volta motivato da uno scontro tra chi vuole abbattere il temporalismo che domina la vita ecclesiastica da sedici secoli e chi vuole a tutti i costi mantenerlo in nome della tradizione.

Il protagonista di questo scontro è un gesuita eletto Pontefice il quale tra le altre sue iniziative proprio in questi giorni ha beatificato  -  la cerimonia ieri a San Salvador  -  l'arcivescovo Oscar Arnulfo Romero che fu ucciso sull'altare mentre celebrava la messa nella cattedrale della sua diocesi di San Salvador trentacinque anni fa dagli squadroni della morte di quel Paese che erano banditi e assassini assoldati dal governo salvadoregno.

La beatificazione di Romero era stata sempre rinviata nonostante le vive pressioni di don Vincenzo Paglia che da molto tempo insiste affinché quel riconoscimento fosse compiuto. Le resistenze erano motivate dal fatto che Romero aveva riconosciuto, aiutato e solidarizzato con gli esponenti della teologia della liberazione, condannati invece e scomunicati da papa Wojtyla per la loro dichiarata simpatia col marxismo e con il ribellismo di Che Guevara.

Papa Francesco queste cose le sa ma ciò nonostante dopo appena due anni di pontificato ha deciso la beatificazione di Romero, il che conferma che i gesuiti "buoni" coltivano dentro di loro lo stesso spirito del fondatore della Compagnia. È vero che ci sono stati anche gesuiti "non buoni" il cui temporalismo raggiunse il culmine proprio nel XVIII secolo in Spagna, in Francia, in Italia. Voltaire e gli Illuministi ne furono gli avversari più fieri bollandoli come reazionari e fautori dell'alleanza del trono con l'altare. Voltaire li definiva infami e quell'infamità raggiunse un tale livello da obbligare la Chiesa a sciogliere l'Ordine che fu poi ripristinato dopo qualche decina d'anni.

I conflitti che agitano la Chiesa si sono verificati anche all'interno della Compagnia. Ma nell'ultimo mezzo secolo la guida di essa è sempre stata riformatrice e moderna, spesso contestata dalla Curia vaticana. Del resto papa Francesco ne è l'esempio più eloquente.
***
La sua allocuzione alla Conferenza episcopale italiana non nasconde alcune differenze tra Francesco e i vescovi riuniti nella sala del Sinodo. Il Papa parla ai suoi confratelli con dolce fermezza e li invita a raggiungere obiettivi nuovi abbandonando quelli ormai non più adeguati al tempo che stiamo tutti vivendo. Ecco alcuni passi che mi sembrano molto significativi.

"Gesù disse: "Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?"... È assai brutto incontrare un consacrato abbattuto, demotivato o spento: egli è come un pozzo secco dove la gente non trova acqua per dissetarsi... La sensibilità ecclesiale comporta di non essere timidi o irrilevanti nello sconfessare e sconfiggere una diffusa mentalità di corruzione pubblica e privata che è riuscita a impoverire senza alcuna vergogna famiglie, pensionati, lavoratori, scordando i giovani, sistematicamente privati di ogni speranza nel loro futuro e emarginando i deboli e i bisognosi. La sensibilità ecclesiale si manifesta anche nelle scelte pastorali dove non deve prevalere l'aspetto teoretico- dottrinale astratto; dobbiamo invece tradurlo in proposte concrete e comprensibili... I laici che hanno una formazione cristiana non hanno bisogno del vescovopilota né di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, economico, legislativo. Hanno invece tutti bisogno di un vescovo-pastore. Ho fatto alcuni esempi di sensibilità sociale indebolita. Mi fermo qui. Possa il Signore mandarci la gioia di riuscire a render feconda la misericordia di Dio con la quale siamo richiesti di dare conforto ad ogni donna ed a ogni uomo del nostro tempo".

Un vescovo-pastore: è questo che chiede Francesco e non è la prima volta che insiste sulla pastoralità come il requisito principale della Chiesa. Riflettiamo con attenzione su questo suo linguaggio: nel lessico tradizionale della Chiesa e nella sua struttura organizzativa e sacramentale, il vescovo è il successore degli apostoli, possiede la potestà di "sciogliere o legare" i fedeli, di amministrare i sacramenti, di interpretare e spiegare i misteri della morte e la nuova vita che ci attende nell'aldilà. I preti sono delegati dal vescovo e svolgono per delega le sue stesse funzioni. Ma in tutte le altre sette cristiane protestanti, il vescovo e i sacerdoti sono soltanto "pastori". E del resto, stando ai vangeli, gli apostoli chiamavano il Signore con la parola ebraica "Rabbi", cioè maestro, cioè pastore.
Il temporalismo protestante  -  con l'esclusione degli ortodossi in Russia  -  è molto debole e quasi inesistente, se non altro perché le sette sono numerose e autonome l'una dall'altra, con scarsissimi poteri di influire sulla politica del Paese in cui operano. Aggiungiamo che tutti i pastori possono sposarsi ed aver figli.

Che Francesco stia operando per avvicinare le sette protestanti alla Chiesa cattolica non è un'interpretazione di chi segue la sua politica religiosa ma è una verità da lui dichiarata e ripetuta continuamente e avvalorata dai contatti continui con le comunità protestanti. Per non parlare della sua politica verso l'Islam: convivenza e amicizia e comuni iniziative perché Dio è unico e quindi non appartiene ad una religione ma a tutte. Questo è il punto di fondo di Francesco e della sua predicazione: Dio non è cattolico, né musulmano, né ebraico. Dio è di tutti. È una rivoluzione rispetto al passato? Mi sembra difficile negarlo e, come tutte le rivoluzioni, pone problemi nuovi ed estremamente ardui da risolvere. *** Il discorso tenuto a Santa Marta potrebbe intitolarsi quello degli addii. Francesco racconta ai vescovi che l'ascoltano l'addio di Gesù e quello di Paolo sulla spiaggia di Mileto. Qui il tono non è quello tenuto alla Conferenza episcopale, perché il vero tema è quello della morte e della resurrezione. Quest'ultima reca gioia, ma l'addio alla vita è soffuso di dolce tristezza ed anche d'un timore  -  forse inconsapevole  -  del dubbio.

"Nell'ultima cena  -  dice Francesco  -  Gesù si congedò dai suoi discepoli. Era triste perché sapeva di andare alla Passione piangendo nel suo cuore e affidandosi a Dio perché Lui era il figlio, figlio di Dio e dell'uomo, e si affidava a Dio. Ecco qual è il significato dell'addio: a Dio. Anche Paolo si congeda e piange pregando in ginocchio sulla spiaggia di Mileto insieme ai suoi compagni di quella comunità. "Ecco, dice Paolo, io non vedrò più il vostro volto e voi non vedrete più il mio. Per questo piango con voi. Ora lo Spirito mi costringe ad andare a Gerusalemme e non so che cosa mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo mi attesta che non mancheranno catene e tribolazioni".

Poi Francesco parla del suo addio. "Bisogna fare un esame di coscienza pensando al proprio congedo dalla vita. Anche io dovrò dire quella parola addio. A Dio affido la mia anima, la mia storia, i miei cari; a Dio affido tutto. Gesù morto e risorto, ci invii lo Spirito Santo perché noi impariamo a dire esistenzialmente e con tutta la forza quella parola: addio".

Questa, diciamolo, non è una rivoluzione ma una profonda umanità. Verso tutti ed anche verso se stesso. Se c'è una persona in questo secolo che stiamo vivendo degna d'essere presa a modello, questa è Francesco Bergoglio. Lui ha già dato ad una umanità frastornata, avvilita, cinica, corrotta, frustrata, un esempio di dignità che tutti dovrebbero tentare di imitare con sincera riconoscenza.

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24 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/24/news/il_conflitto_sul_potere_temporale_tra_la_curia_e_francesco-115121599/?ref=HRER2-1
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« Risposta #565 inserito:: Maggio 25, 2015, 11:13:43 am »

Guardando la Giovinezza dalla montagna incantata

Di EUGENIO SCALFARI
   
AL FESTIVAL cinematografico di Cannes concorrono quest'anno tre film italiani, uno di Garrone intitolato Il racconto dei racconti, un altro di Moretti con Margherita Buy che si chiama Mia madre e l'altro di Sorrentino che viene proiettato proprio oggi (gli altri due sono già stati visti dalla giuria e dal pubblico) e si intitola La giovinezza.

Sono interessanti, anzi belli tutti e tre in modi assai diversi tra loro e tutti e tre degni d'esser premiati, ma naturalmente debbono competere non soltanto tra loro ma con un notevole numero di film stranieri dei quali nulla so ma che i nostri inviati a Cannes hanno già raccontato e recensito insieme agli italiani. I lettori si chiederanno perché mai io intervenga oggi su un tema che può riguardarmi come spettatore ma non certo come critico cinematografico, che non sono mai stato e mai sarò. La ragione è la seguente: il film di Sorrentino si intitola La giovinezza ma in realtà il suo tema è la vecchiaia.

La giovinezza secondo Paolo Sorrentino
Il protagonista è infatti un vecchio impersonato da un bravissimo e assai conosciuto attore inglese che si chiama Michael Caine (nel film Fred) e dal suo amico, l'americano Harvey Keitel (nel film Mick). Le donne coprotagoniste sono tre: Jane Fonda, l'attrice-feticcio di Mick-Keitel; la figlia di Fred, Rachel Weisz e una Miss Universo, interpretata da Madalina Ghenea, bella e sexy che più non si può, che è poco più che una comparsa da guardare e ammirare per come la natura l'ha scolpita. Ovviamente il cast è numerosissimo ed anima il film in cento diversi modi. Il luogo dove si svolge è una spa ai piedi delle montagne svizzere, con una splendida natura di campagna alpina. Non è stato scelto per caso, era l'albergo, che esiste veramente, dove è ambientato uno dei più affascinanti romanzi di Thomas Mann: La montagna incantata.

Questo è il quadro. Dovevo darlo per inquadrare il tema che mi sta a cuore: la vecchiaia e la giovinezza, come la prima guarda e giudica la seconda e viceversa, come il passato si confronta con il presente ed entrambi con il futuro, come infine da questi confronti emergano gioia e sofferenza, bugie e verità, desideri e rimpianti. Insomma la vita. E la morte e la sua immagine.

Sto scrivendo un libro su questo tema che sarà pubblicato tra qualche mese ed ecco perché il film di Sorrentino mi riguarda sia come autore sia come persona gravata da un'anagrafe piuttosto pesante che può essere cambiata ma certo non sconfitta. Ed ecco il primo confronto affrontato nel film: la natura del tempo.


Il tempo scorre dentro di noi con una velocità assai variabile. Per i giovani scorre oggettivamente in fretta: il neonato cresce con grande velocità, prende conoscenza inconsapevole di quanto lo circonda e quella velocità aumenta e raggiunge il suo massimo quando diventa bambino e la conoscenza emerge ed aumenta insieme alla sua struttura fisica. La velocità oggettiva diventa anche soggettiva, nel senso che il bambino e poi il ragazzo e poi l'adolescente, non solo crescono ma si vedono crescere, vogliono crescere, non sono affatto interessati al loro passato ma soltanto al loro presente. Ancora non immaginano il futuro fin quando non spunta quella che a me sembra la stagione fatata dell'adolescenza.

Comincia insieme alla comparsa dei desideri erotici e un iniziale interesse a ricordare un passato ancora molto vicino al presente. Ma con un'apparizione quasi esplosiva, l'anima è invasa dall'immaginazione del futuro. Non c'è differenza tra uomo e donna per quanto riguarda lo scorrere del tempo dentro di te o fuori di te, nel corpo e nella psiche. Naturalmente le immagini che ciascuno ha del proprio recente passato, del futuro che lo attende e del presente che sta vivendo sono diverse da persona a persona; diverse in qualità e in quantità e quella diversità dipende da chi sei nato, dove sei nato, e dalla tua condizione familiare e sociale.

Nel film di Sorrentino il vecchio Fred, che è vecchio ma non vecchissimo e in buona salute con qualche acciacco che l'anagrafe comporta, ha dentro di sé un vivo ricordo del passato. Anzi è proprio il passato che domina i suoi pensieri. È stato un compositore di musica e un direttore d'orchestra. La creatività del compositore c'è ancora, quella di direttore è andata un po' fuori uso, la sua è l'età della pensione e non si sente più la bacchetta tra le mani.

Sua figlia, una gran bella ragazza che gli è molto accanto con affetto, attraversa una fase ancora giovanile nel corpo ma già matura nella mente e il suo legame con il padre influisce su entrambi, mantiene vivi i desideri di futuro del padre e arricchisce la maturità psicologica nella figlia. Con una differenza fra queste due situazioni: la maturazione psicologica della figlia si accresce molto, sia per ragioni di crescita propria e sia per l'influenza paterna; il desiderio di futuro del padre è invece assai debole e non c'è figlia che possa modificarlo. Aggiungo che Fred ha perso la moglie, un colloquio alla pari per età ce l'ha soltanto con l'amico Mick, si amano teneramente ma anche polemicamente tra loro ed appartengono al medesimo genere e questo rende il rapporto molto diverso.

Qui si pone un altro tema che domina il film ma domina anche la vita: l'amicizia. Che cos'è veramente l'amicizia?
Anche io mi sono posto più volte questo tema e l'ho sperimentato ma anche studiato. Cicerone, tanto per dire, lo considerava come uno dei principali sentimenti che riscaldano l'animo nostro e la vita. Montaigne promuoveva l'amicizia al primo posto dei sentimenti umani, molto più dell'amore che secondo lui era una malattia, un disturbo psicologico. Lui del resto era legato profondamente a Etienne de La Boétie , suo allievo e maestro, che morì da lui assistito prima ancora che scrivesse i suoi "Essais".

Io ho sentito e sento molto l'amicizia ma non la metterei sopra l'amore. L'ideale sarebbe quello di ambedue insieme, amore e amicizia; qualche volta viene ma molto di rado e quando accade è una rara fortuna che a me è capitato di avere.

Non mi pare che sia questo il caso di Fred. È un temperamento molto chiuso in se stesso. La figlia gli è di aiuto e anche Mick. Ma lui, nel fondo dell'animo, è dominato da un suo Narciso. Lo sa e lo tiene a catena, non gli permette di mostrarsi, ma c'è. Incatenato ma presente e lo si vede quando, verso il finale, dirige un concerto in onore della regina Elisabetta a Londra. È un gran successo. Forse sarà l'ultimo, ma il suo Narciso per una volta tanto senza catena, ne è visibilmente felice.

È un bel film, La giovinezza, vivace e profondo.

Da - http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2015/05/20/news/guardando_la_giovinezza_dalla_montagna_incantata-114789588/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_20-05-2015
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« Risposta #566 inserito:: Giugno 09, 2015, 11:25:07 am »

Senza l'Europa federata saremo una pedina sulla scacchiera

Se l'Unione si trasformasse in Stati Uniti Europei, avrebbe qualche possibilità di essere addirittura la Regina del gioco; ma se rimane una Confederazione, ogni Paese sarà una pedina, Germania compresa.
E l'Italia sarà tra quelle più deboli. Il piano di Renzi non punta sulla federazione di Stati. Vuole solo l'accordo sulla crescita e sull'immigrazione


Di EUGENIO SCALFARI
07 giugno 2015

LE ELEZIONI regionali, la scarsissima affluenza degli elettori alle urne, in particolare il Pd in quanto partito e senza le liste d'appoggio ai singoli candidati sceso dal 41 per cento delle europee al 24,9 per cento, mentre il solo partito che ha guadagnato, oltre 250 mila voti, è la Lega di Salvini; la vittoria 5 a 2 del Partito democratico: sono tutti fatti molti rilevanti ai quali vanno aggiunti i disegni di legge sulla scuola e sulla Rai che dovranno affrontare altre contestazioni e - per converso - le discrete notizie che provengono dalle cifre sull'occupazione, peraltro molto fragili e ancora passibili di variazione, sia al miglioramento sia al peggioramento. Ma il primo vero tema da esaminare è quel che avviene nella politica dell'Unione europea della quale l'Italia non è soltanto un Paese membro ma molto di più. L'Italia è anzitutto un Paese fondatore della Comunità europea. Poi, dal 1999, cioè dalla sua nascita, fa parte della moneta comune e quindi dei 19 Paesi dell'Eurozona, azionisti anche della Banca centrale. Infine -  debolezza e forza allo stesso tempo - abbiamo il terzo debito pubblico del mondo dopo il Giappone e gli Usa. Debolezza economica, è evidente, ma con la forza di ricatto politico eventualmente da giocare. Perciò l'Europa è il tema numero uno tra i tanti che affliggono la società globale nella quale ormai tutto il mondo vive. La società globale pone delle regole, che non sono scritte in nessun trattato ma scolpite nei fatti che sono molto più importanti: i trattati si possono cambiare, i fatti no.

E sono questi: la tecnologia ha creato la globalizzazione, l'emergere di grandi potenze di struttura continentale ha dato alla globalizzazione una nuova forma politica. Questo è quanto accaduto negli ultimi trent'anni e quanto ancora avviene con crescente velocità. Tra poco, quei Paesi che non avranno assunto una forma politica di dimensioni continentali diventeranno politicamente irrilevanti. Camperanno lo stesso ma con la forma delle pedine nel gioco degli scacchi: le pedine si muovono soltanto d'un passo alla volta, sempre in una direzione e mai all'indietro, mentre tra loro e spesso contro di loro volteggiano cavalli, alfieri, torri e la Regina che si muove quando e come vuole in tutte le direzioni.

L'Europa, se si trasformasse in Stati Uniti Europei, diventerebbe a dir poco una torre con qualche possibilità d'essere addirittura la Regina del gioco; ma se rimane come adesso una confederazione
di Stati sovrani e soltanto nazionali, ciascuno di loro sarà una pedina, Germania compresa. È inutile dire che tra quelle pedine noi siamo la più debole esclusi Cipro, Malta e la Grecia. Visto che abbiamo un governo che punta sul cambiamento, non spetterebbe ad esso d'esser quello che batte il pugno sul tavolo per ottenerlo? A me sembrava d'aver creduto che il documento presentato e notificato da Renzi a tutte le Autorità europee la scorsa settimana contenesse e indicasse questa politica e ne avevo fatto le lodi al suo estensore. A me Renzi non è molto simpatico, vedo in lui una vena autoritaria che mi desta molte preoccupazioni, ma quando fa un passo positivo credo di essere abbastanza onesto da segnalarlo politicamente e a volte mi inorgoglisce pensare che abbia accettato i miei consigli. Presuntuoso? Forse un po'? Me ne scuso.

Comunque, le mie lodi a Renzi domenica scorsa erano sbagliate, il suo documento all'Europa non puntava affatto sulla federazione degli Stati; voleva l'accordo europeo sulla crescita e sull'immigrazione. La crescita l'aveva già ottenuta sotto forma di flessibilità ma limitata in modo da non incrementare il debito e sempre condizionata agli impegni dovuti al "fiscal compact" cioè alla stabilizzazione del deficit e al pareggio strutturale del bilancio. Quanto all'immigrazione la risposta sostanzialmente è stata negativa. Di Stati Uniti d'Europa Renzi non aveva affatto parlato, anzi....

***
Nel frattempo c'è stato un incontro e un documento comune della Merkel con Hollande su vari e importanti temi: la crescita economica, l'Ucraina, la Gran Bretagna, il rapporto con gli Usa, gli interventi monetari della Bce. E soprattutto il rapporto Francia-Germania di fronte ai movimenti anti-europei e anti-euro, attivi in quasi tutti i Paesi europei e soprattutto in Francia e in Italia. È troppo pensare che, almeno per quanto riguarda Hollande, il vero motivo di questo incontro a due fosse quello di riproporre l'esistenza operativa del direttorio europeo Francia-Germania che negli ultimi cinque o sei anni si era alquanto attenuato se non addirittura spento sotto i colpi della più grave e lunga crisi economica dal 1929 ad oggi? Dell'incontro Merkel-Hollande e dei suoi contenuti il nostro giornale aveva dato per primo la notizia con un'intera pagina di Andrea Bonanni; successivamente ci furono notizie ulteriori sui contenuti e i relativi commenti. Il caso greco e la politica verso l'Europa dell'euro da parte del conservatore inglese Cameron ebbero il loro rilievo da prima scena, insieme agli accordi americani con l'Iran e al prezzo del petrolio. Il direttorio franco-tedesco chiamò a consulto la Commissione di Bruxelles, Draghi e il presidente dell'Eurozona. La Lagarde fu presente come consulente "esterno". Renzi non fu chiamato, evidentemente l'Italia è oggetto e non soggetto di questi vertici. Il motivo c'è: l'Italia vorrebbe cose che le autorità europee non sono disposte a concedere. In Libia ci hanno conferito il comando militare delle operazioni, per ora tuttavia quel comando serve ad evitare coinvolgimenti militari sulla terraferma e ad impedire che i barconi carichi di immigrati escano dalle acque territoriali libiche. Non è granché. Quanto alle quote di immigrati da distribuire in Europa, appare molto difficile progredire: gran parte degli Stati europei (Francia, Spagna, Olanda, Germania, Gran Bretagna) hanno già molti più immigrati dei nostri e noi del resto non riusciamo neppure a ridistribuire tra il nostro Sud e il nostro Nord gli immigrati che affollano la Sicilia e la Calabria. E questo è quanto.

Ma voglio qui ricordare l'ultimo appello che Giorgio Napolitano lanciò al Parlamento e agli italiani alla vigilia delle sue dimissioni. Tra le varie esortazioni che inviava al governo e al Paese c'era quella dell'Unione europea da trasformare in una federazione politica, come del resto prevede il trattato di Lisbona che da alcuni anni giace tuttavia ineseguito. Napolitano insisteva a metterlo in opera, ma finora quell'esortazione non ha avuto nessun seguito. C'è soltanto Draghi che opera in quella direzione ma i suoi strumenti sono soltanto monetari. Spingere il pesante treno europeo in quella direzione trasformando lo strumento monetario in impulso politico non è un compito facile. È la Merkel che bisognerebbe coinvolgere, riconoscendone l'egemonia. La cancelliera ondeggia: una parte di lei vorrebbe gli Stati Uniti Europei sotto la guida tedesca, un'altra parte si ritrae; l'egemonia di fatto è più facile da sopportare (l'egemonia pesa, è una responsabilità angosciante) perché può più facilmente cambiare direzione.

Questa è la situazione e qui l'Italia, se volesse battere il pugno veramente su quel tavolo, avrebbe la forza di farlo e troverebbe forse anche degli alleati. Ma Renzi evidentemente non se la sente perché forse non comprende il problema. O meglio, lo comprende perfettamente ma non si sposa col suo punto di vista. Gli Stati Uniti Europei declassano gli Stati nazionali, che quindi non cessano di esistere ma dentro un livello d'autonomia limitato, come avviene tra un Texas, un Ohio o una California e il potere federale di Washington e della Casa Bianca. Renzi non vuole questo. È uno che conta molto in casa propria fino a quando l'Europa sarà un condominio dove ciascuno dei condomini dice la sua. Pensare che sia lui a battere quel pugno su quel tavolo affinché il trattato di Lisbona sia portato avanti con decisa volontà politica è pura illusione. La settimana scorsa mi ero illuso ma, l'ho già detto, avevo commesso un grave errore.

***
Il nostro presidente del Consiglio, che ieri mattina è venuto a Genova al Festival delle Idee di Repubblica per un dibattito con il nostro direttore, ha dinanzi a sé un percorso abbastanza accidentato: la riforma costituzionale del Senato, la legge elettorale, la riforma della scuola, quella della Rai e "last but not least" quella sui partiti. Sono tutte di grande importanza, specie quest'ultima, ma non è singolare che non vi sia in agenda nessuna legge che riguardi l'economia, come invece Draghi va da tempo predicando?

Sul Senato ho infinite volte espresso il mio parere: è opportuno togliere al Senato la facoltà di esprimere la fiducia al governo riservandola alla sola Camera dei deputati. Il Senato però dovrebbe avere, insieme ma separatamente dalla Camera, il compito di controllare l'attività della pubblica amministrazione, governo compreso, oltreché rappresentare e vigilare sul comportamento delle Regioni. Ma Renzi questa riforma non la farà. La minoranza di sinistra del Pd dovrebbe battersi su questo punto, perché esso è essenziale per la democrazia italiana.

Sulla scuola, Renzi cercherà un accordo e probabilmente ne rinvierà la discussione. Si concentrerà piuttosto sulla riforma della Rai per abolire la pessima legge Gasparri ed anche per esercitare il controllo effettivo della più grande azienda della cultura e dell'informazione italiana. Ma il disegno di legge che desta la maggiore preoccupazione è quello che deve organizzare, come la Costituzione prevede, la vita interna dei partiti. Il principio, per quanto è filtrato dalle segrete stanze di Palazzo Chigi, riguarda i criteri che dovrebbero presiedere tutti gli organi che fanno capo allo Stato di diritto. I partiti sono nati per raccogliere il consenso degli elettori, hanno quindi un compito di estrema importanza nella vita politica e i criteri sono tre: quello della maggioranza, quello della rappresentatività e quello della integrità morale dei singoli candidati alle elezioni di qualunque grado e specie. Dalle "segrete stanze" emergono voci che privilegiano il criterio maggioritario, obbligando la minoranza ad obbedire dopo essersi espressa ed ascoltata. Quanto all'integrità individuale prevarrebbe il principio garantista come infatti sta avvenendo per quanto riguarda un sottosegretario alfaniano sotto inchiesta della Procura di Roma e come sta altresì avvenendo con il caso De Luca. Sul finanziamento dei partiti sembra invece che i pareri siano controversi anche all'interno del governo. Il disegno di legge sui partiti è molto preoccupante anche per il fatto che la legge si applica, una volta che sia stata approvata dal Parlamento, a tutti i partiti escludendo quelli organizzati come movimenti. La sua importanza deriva però soprattutto dal fatto che è studiato su misura per il Partito democratico che, sulla base della sua attuale consistenza, è il maggior partito centrista che esista in Europa. In tutti gli altri Paesi europei esiste lo schieramento bipartitico e la maggioranza può spostarsi dalla sinistra alla destra o viceversa. Al centro c'è solo talvolta un piccolo partito o comunque un piccolo gruppo di elettori, ma non esiste esempio di un grande partito collocato al centro, con alle ali una poltiglia o poco più.

Se quindi il Pd sarà congegnato per dare la prevalenza all'attuale gruppo dirigente renziano, quel gruppo avrebbe l'inamovibilità per molto tempo. Non a caso Renzi affermò qualche giorno fa che avrebbe governato fino al 2023. Nove anni di governo. Poi tornerà a vita privata. Che faticaccia!

***
Due parole sul caso De Luca, sul quale è intervenuto recentemente l'avvocato Gianluigi Pellegrino che ha ottenuto la recente ordinanza della Corte di Cassazione a sezioni unite. De Luca tra pochi giorni sarà proclamato governatore della Campania e con lui saranno proclamati i consiglieri regionali eletti dall'ufficio elettorale della Corte d'Appello di Napoli. A quel punto deve scattare la sospensione di De Luca in base alla legge Severino, tanto più che il codice penale prevede che "qualora l'atto di sospensione dovesse tardare provocando un favore ad altri, il reato di abuso di ufficio graverà sull'autorità che ha ritardato di compierlo". Nel nostro caso l'abuso d'ufficio graverebbe sul presidente del Consiglio, con le conseguenze che possono risultarne. Questo è il caso De Luca. La procedura è chiarissima. Ne vedremo i seguiti.

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07 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/07/news/senza_l_europa_federata_saremo_una_pedina_sulla_scacchiera-116270459/?ref=HRER2-1
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« Risposta #567 inserito:: Giugno 14, 2015, 03:36:31 pm »

Il popolo italiano odia lo Stato ma non può farne a meno

Di EUGENIO SCALFARI
14 giugno 2015

 PIÙ passa il tempo e più la corruzione aumenta, invadendo non soltanto le istituzioni locali e nazionali ma l'anima delle persone, quale che sia la loro collocazione sociale. Si chiama malavita o malgoverno o malaffare, ma meglio sarebbe dire malanimo: le persone pensano soltanto a se stesse e tutt'al più alla loro stretta famiglia. Il loro prossimo non va al di là di quella.

Non pensiate che il fenomeno corruttivo sia un fatto esclusivamente italiano ed esclusivamente moderno: c'è dovunque e c'è sempre stato. Naturalmente ne varia l'intensità da persona a persona, da secolo a secolo e tra i diversi ceti sociali. Ma l'intensità deriva soprattutto dal censo: la corruzione dei ricchi opera su cifre notevolmente più cospicue, quella dei meno abbienti si esercita sugli spiccioli, ma comunque c'è ed è proporzionata al reddito: per un ricco corrompersi per ventimila euro non vale la pena, per un cittadino con reddito da diecimila euro all'anno farsi corrompere per cinquecento euro è già un discreto affare.

Il tutto avviene in vario modo: appalti, racket, commercio di stupefacenti, di prostituzione, di voti elettorali, di agevolazioni di pubblici servizi, di emigranti.

Può sembrare un controsenso ma sta di fatto che il corruttore ha bisogno di una società in cui operare e più vasta è meglio è. La corruzione non consente né l'isolamento né l'anarchia e la ragione è evidente: essa ha bisogno come scopo comune in tutte le sue forme di una società con le sue regole e i poteri che legalmente la amministrano.

La corruzione ha la mira di aiutare alla conquista del potere e all'evasione delle regole o alla loro utilizzazione a vantaggio di alcuni e a danno di altri. Le famiglie (si chiamano così) mafiose, le clientele, gli interessi corporativi, dispongono di un potere capace di infiltrarsi. Ed è un potere che trova nei regimi di democrazia ampi varchi se si tratta di democrazie fragili e di istituzioni quasi sempre infiltrate dai corruttori.

Questa fragilità democratica va combattuta perché è il malanno principale del quale la democrazia soffre. Essa dovrebbe esser portatrice degli ideali di Patria, di onestà, di libertà, di eguaglianza; ma è inevitabilmente terreno di lotta tra il malaffare e il buongoverno. Non c'è un finale a quella lotta: continua e durerà fino a quando durerà la nostra specie. Il bene e il male, il potere e l'amore, la pace e la guerra sono sentimenti in eterno conflitto e ciascuno di loro contiene un tasso elevato di corruzione. La storia ne fornisce eloquenti testimonianze, quella italiana in particolare e la ragione è facile da comprendere: una notevole massa di italiani non ama lo Stato ma desidera che ci sia. Aggiungo: non ama neppure che l'Europa divenga uno Stato federato, ma vuole che l'Europa ci sia.

È assai singolare questo modo di ragionare, ma basta leggere o rileggere i testi di Dante e Petrarca, di Machiavelli e Guicciardini, di Mazzini e di Cavour. Hanno dedicato a diagnosticare questi valori e disvalori e le terapie che ciascuno di loro ha indicato e praticato per comprendere a fondo che cos'è il nostro Paese e soprattutto che cosa pensa e come si comporta la gran parte del nostro popolo.
***
Dante e Petrarca (più il primo che il secondo) conobbero la lotta politica dei Comuni. L'autore della Divina Commedia fu in un certo senso il primo padre della Patria, una Patria però letteraria, cui insegnare un linguaggio che non fosse più un dialetto del latino ma una lingua nazionale e la poesia dello "stilnovo" già anticipata dal Guinizzelli e dai siciliani ma creata da lui e dal suo fraterno amico Guido Cavalcanti.

La loro Italia non aveva alcuna forma politica, salvo alcuni Comuni con una visione soltanto locale. Dante fu guelfo e ghibellino; alla fine fu esiliato da Firenze, ramingo nell'Italia del Nord, e ancora giovane morì a Ravenna. Che cosa fossero gli italiani non lo seppe e non gli importava. In realtà a quell'epoca non c'era un popolo ma soltanto plebi contadine o nascenti borghesie comunali la cui politica era quella delle città difese da mura per impedire ai nobili del contado e alle compagnie di ventura di invaderle.

Ma due secoli dopo la situazione era notevolmente cambiata e la più approfondita diagnosi la fecero Machiavelli e Guicciardini, fiorentini ambedue. Repubblicano il primo, esiliato per molti anni a San Casciano; mediceo il secondo, uomo di corte, ambasciatore, ministro ai tempi del Magnifico, di papa Leone X e di papa Clemente VII, anch'essi rampolli di casa Medici.

La diagnosi di quei due studiosi fu analoga: il popolo non aveva mai pensato all'Italia, era governato e dominato da una borghesia mercantile, specialmente nelle regioni del Centro- Nord, capace di inventare strumenti monetari e bancari che dettero grande impulso dal commercio di tutta Europa, ma privi di amor di Patria. Le passioni politiche sì, quelle c'erano e la corruzione sì, c'era anche quella, ma l'Italia non esisteva mentre nel resto d'Europa gli Stati unitari erano già sorti: in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Svezia, Polonia, Austria, Brandeburgo, Sassonia, Westfalia, Ungheria e le città marinare, quelle tedesche nel Baltico e in Italia Venezia, Genova, Pisa.

Il popolo mercantile in Italia c'era, era accorto e colto e condivideva il potere congiurando o appoggiando i Signori laddove esistevano le Signorie; ma gran parte d'Italia era già dominio degli aragonesi o dei francesi o degli austriaci. Il Papa a sua volta aveva un regno che si estendeva in quasi tutta l'Italia centrale salvo la Toscana ed era dominato da alcune grandi famiglie come i Colonna, gli Orsini, i Borgia, i Farnese.
Ma il resto degli abitanti dello Stivale erano plebe, servi della gleba, analfabeti, con una cultura contadina che aveva ferree regole di maschilismo, di violenza, di pugnale.

La diagnosi di Machiavelli e di Guicciardini non differiva da questa realtà. Anzi la mise in luce con grande chiarezza. Machiavelli però sperava in un Principe che conquistasse il centro d'Italia e sapesse e volesse fondare uno Stato con la forza delle armi, le congiure, le armate dei capitani di ventura e i matrimoni di convenienza tra le famiglie regnanti. Guicciardini faceva più o meno la stessa diagnosi ma la terapia differiva, le speranze di Machiavelli d'avere prima o poi un'Italia come Stato, naturalmente governato da un padrone assoluto come erano i tempi di allora; quel Principe, chiunque fosse, avrebbe dovuto dare all'Italia un rango in Europa e trasformare le plebi in popolo consapevole e collaboratore.

Guicciardini viceversa coincideva nella diagnosi ma differiva profondamente nella terapia. Riteneva auspicabile la fondazione d'uno Stato sovrano che abbracciasse gran parte dell'Italia, salvo quella dominata da potenze straniere che sarebbe stato assai difficile espellere. Ma sperare che gli italiani diventassero da plebe un popolo con il sentimento della Patria nell'animo lo escludeva nel modo più totale. Bisognava secondo lui governare il Paese utilizzando la plebe e questa era la sua conclusione.

Passarono due secoli da allora ed ebbe inizio ai primi dell'Ottocento il movimento risorgimentale con tre protagonisti molto diversi tra loro: Mazzini, Cavour, Garibaldi. Ci furono alti e bassi in quel movimento e tre guerre denominate dell'indipendenza e guidate da Cavour con una diplomazia e una comprensione della realtà che difficilmente si trova nella storia moderna.

Mazzini era un personaggio molto diverso: voleva la repubblica e voleva che nascesse dal basso. La sua era una forma di socialismo che aveva come strumento le insurrezioni popolari. Non insurrezioni di massa, non erano concepibili all'epoca; ma insurrezioni di qualche centinaio di persone se non addirittura qualche decina, che cercavano di sollevare la plebe contadina sperando che i suoi disagi la muovessero a combattere per una situazione migliore. Così non avvenne e le insurrezioni mazziniane non sortirono alcun effetto se non quello di allevare una classe di giovani intellettuali, studenti, docenti, che concepivano la Patria come il maestro aveva indicato. Quasi tutti erano settentrionali di nascita e fu molto singolare che questo drappello di italiani dedicati soprattutto a scuotere le classi meridionali venisse quasi tutto da Milano, da Bergamo, da Brescia, da Genova. Così furono a suo tempo i mille che mossero da Quarto verso Calatafimi. Garibaldi era una via di mezzo molto realistica e molto demiurgica tra Mazzini e Cavour. Era repubblicano come Mazzini ma disponile a trattare con la monarchia quando bisognava compiere un'impresa che richiedesse molte risorse umane e finanziarie. Questa fu l'impresa dei Mille da cui nacque poi lo Stato italiano.

La corruzione certamente non c'era in quei giovani intellettuali e combattenti ma era già ampiamente diffusa in una società che aveva pochi capitali e doveva utilizzare nel proprio interesse quelli che il nuovo stato metteva a disposizione e che forti imprese bancarie e manifatturiere straniere investirono sulla nascita dell'Italia e della sua economia.

Portarono con sé, questi capitali, una corruzione moderna che è quella che conosciamo ma che allora ebbe il suo inizio nelle ferrovie che furono costruite per unificare il territorio, nell'industria dell'elettricità e in quella dell'acciaio e della meccanica. Emigrazione da un lato, corruzione dall'altro, queste furono le due maggiori realtà italiane tra gli ultimi vent'anni dell'Ottocento e la guerra del 1915 che aprì una fase del tutto nuova nel Paese.
Non voglio qui ripetere ciò che ho già scritto in altre occasioni ma mi limito a ricordare che Benito Mussolini fu uno degli esempi tipici del fenomeno italiano.

Personalmente era onesto, aveva tutto e quindi non aveva bisogno di niente; ma i suoi gerarchi erano in gran parte corrotti e lui lo sapeva ma non interveniva perché quella corruzione a lui nota gli dava ancor più potere, li teneva in pugno e li manovrava come il burattinaio fa muovere i burattini.
Disse più volte che senza la dittatura l'Italia non sarebbe stata governabile e che governare il nostro Paese era impossibile e comunque inutile.
***
Chiuderò col caso De Luca che in qualche modo è attinente a quanto finora scritto. De Luca è stato un buon sindaco di Salerno. Un po' autoritario, è il suo carattere, ma a suo modo efficiente: un sindaco-sceriffo e forse ci voleva quel requisito. È sotto processo ed è stato condannato in primo grado. I suoi avvocati sostengono che in appello avrà l'assoluzione. È possibile, glielo auguriamo. Ma sulla base della legge Severino un condannato in primo grado per reati di delinquenza corruttiva deve essere immediatamente sospeso per diciotto mesi dalla carica politica che riveste. Nel caso di specie, come ci ricorda l'avvocato Pellegrino, la sospensione deve essere effettuata non appena egli sia stato eletto a una carica politica. Nel suo caso la carica è quella di governatore della Campania. È già stato eletto a quella carica da pochi giorni insieme alla lista dei consiglieri che hanno ottenuto i voti necessari.

Si aspetta di giorno in giorno la proclamazione degli eletti da parte dell'Ufficio elettorale presso la Corte d'appello di Napoli. Sta controllando le schede con l'attenzione dovuta e quando il controllo sarà terminato la proclamazione avverrà.

A quel punto  -  la Severino è chiarissima  -  De Luca deve essere sospeso per diciotto mesi. Lasciarlo in carica fino a quando avrà nominato la giunta di governo e il suo vice che per diciotto mesi governerà la Campania, significa non rispettare la legge e come prevede il codice penale, l'autorità che deve sospenderlo (nel nostro caso il presidente del Consiglio) ritarda un atto dovuto per favorire una persona. Scatta in questo caso il reato di abuso d'ufficio per l'autorità che ha ritardato il provvedimento.

Questa procedura è estremamente chiara e non lascia nessun margine di autonomia come la stessa ordinanza della Corte di Cassazione a sezioni unite ha esplicitamente detto. Non si tratta in questo caso di corruzione ma in qualche modo un'analogia esiste: si compie un favore per averne il ritorno. Non si chiama corruzione ma gli somiglia terribilmente.

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14 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/14/news/il_popolo_italiano_odia_lo_stato_ma_non_puo_farne_a_meno-116812124/?ref=HRER2-1
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« Risposta #568 inserito:: Giugno 14, 2015, 04:06:54 pm »

RepIdee 2015: Scalfari: io, un Papa per amico e i miei giornali
Un anno fa l'abbraccio con Benigni a Napoli, oggi quello con Ezio Mauro sul palco del Carlo Felice a Genova.
Il Fondatore del nostro giornale racconta i suoi novant'anni di passione

Di MICHELA SCACCHIOLI
07 giugno 2015
   
GENOVA - Un anno fa l'abbraccio con Roberto Benigni a Napoli. Oggi, a Genova, la stretta carica di affetto con Ezio Mauro, "l'amato successore", sul palco del teatro Carlo Felice. Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, ha raccontato i suoi 90 anni di vita e di passione, incrociati con quasi un secolo di storia. "A dire il vero - ha subito precisato - ne ho già compiuti 91 e sto marciando verso i 92".

Un percorso unico e complesso che dentro racchiude tante vite diverse: il giornalista, l'imprenditore, il politico, lo scrittore e il romanziere. "Mi stai descrivendo come Leonardo da Vinci", ironizza Scalfari nel commentare la descrizione che fa di lui Simonetta Fiori, sul palco nella giornata che chiude RepIdee 2015. "Attenzione - precisa il fondatore -, non è che nella vita io non mi sia accontentato. Semplicemente, io sono molto curioso".

"La Liguria mi è particolarmente cara - esordisce Scalfari - perché qui si è svolta la parte fondativa della mia vita. Qui ho incontrato Minerva, il pensiero". Il link con Papa Francesco è immediato: "Noi, oltre a inventarci ipotesi scientifiche, ci siamo inventati Dio che nasce con noi e muore con noi. Da non credente ne ho parlato con Bergoglio il quale mi ha risposto così lei mi stimola. Altri mi hanno detto stai attento che ti farai convertire. L'ho raccontato al pontefice e lui mi ha detto non ci provo nemmeno, sennò poi dopo devo trovarne un altro come lei. Ecco, su questo argomento abbiamo cominciato un lungo discorso. Siamo diventati quasi amici".
RepIdee, Scalfari: "Papa Francesco non ha provato a convertirmi"

E' ricca di citazioni la testimonianza di Scalfari: da Mario Pannunzio, direttore de 'Il Mondo' dove un giovane Eugenio cominciò a scrivere nel 1949, all'amicizia con Federico Fellini al rapporto con Carlo Caracciolo. Fratellanze, rapporti ed esperienze che lo porteranno, nel 1976 a fondare Repubblica: "Io non mi proponevo tanto di cambiare il Paese, ma di cambiare il giornalismo". Prima di Repubblica, nasce L'Espresso: "Noi lo chiamavamo 'il lenzuolo', io avevo fatto il funzionario di banca per 5 anni e dunque mi occupavo dell'impianto industriale del giornale".

Già, perché Scalfari ha sempre scritto in giornali di cui è stato anche proprietario: "All'Espresso abolimmo il cosiddetto pastone, decidemmo che si sceglieva una notizia, ci si andava addosso e la si raccontava". Poi si arriva alla nascita del quotidiano - nel 1976 - che l'anno prossimo festeggerà i suoi primi 40 anni di vita, ai rapporti con Piero Ottone, allora direttore del Corriere della Sera che gli disse: "Divertiti" con questa nuova creatura editoriale, "poi quando lo chiudi puoi venire a scrivere da noi". Repubblica invece riuscì a raggiungere il punto di pareggio in meno di tre anni. A seguire, la crescita. "Quando presentai il giornale, dissi che volevamo superare il Corriere della Sera. Immaginate i commenti..."

Un'esperienza che coincide col settennato di Sandro Pertini al Quirinale. E qui riaffiora un altro ricordo intimo e personale: "Nel Psi - ricorda Scalfari - Sandro era considerato un gran rompicoglioni. A me lui piaceva molto. Fraternizzammo quando divenne presidente della Camera. Poi arrivò a chiamarmi la mattina alle 11 quando noi eravamo in riunione di redazione. Diceva io sono un giornalista, voleva interloquire. Era uno spasso".

Tra le particolarità di Repubblica, i 20 anni di direzione di Scalfari ai quali hanno fatto seguito altri 20 anni di direzione affidata a Ezio Mauro: "Una cosa così non esiste in nessun giornale - dice il fondatore -. Tra di noi esiste un rapporto quotidiano, ci sentiamo e ci confrontiamo sui fatti più importanti. Oggi rispetto al passato vado al giornale di meno per via delle gambe che mi si stancano, ma ci continuiamo a raccontare le cose fino in fondo. Per una direzione è un imbarazzo avere sempre un ex direttore tra le scatole, ma lui ha voluto che io avessi un mio ufficio. Certo, a volte non ci troviamo d'accordo, ma non è necessario essere d'accordo. Quel che è utile è il confronto".

Dall'esperienza nei giornali si passa al racconto più intimo. Si scopre un uomo che non nasconde di "essere diventato vecchio a 7 anni", quando non desiderava altro che i suoi genitori si amassero e rimanessero insieme. "Mio padre era un avvocato calabrese che amava mia madre, ma era uno sciupafemmine. Mia madre invece gli era fedelissima. Tra i due c'era un continuo attrito. Quando ho capito che io ero il loro punto d'incontro, sono diventato il padre dei miei genitori. Ero il più bravo a scuola affinché fossero contenti di me, ma detestavo la matematica e allora copiavo i compiti dai miei compagni di classe". Di contro, Scalfari amava molto la fisica teorica, più simile alla filosofia.

Un passaggio rilevante - quasi un debito di riconoscenza - è dedicato alla sua seconda moglie: grazie a lei "ho iniziato un viaggio dentro di me. Rilessi l'Odissea". Un viaggio che oggi continua per un giornalista - un uomo - che ha ancora tanto da raccontare e che ammette: "La storia è caso". Sul palco assieme a lui sale Mauro: un abbraccio li tiene uniti. "Questo abbraccio - confida il direttore alla platea - ce lo diamo ogni giorno, quando ci incontriamo".

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07 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/genova2015/assolo/2015/06/07/news/repidee_2015_genova_scalfari_90_anni_di_passione-116300453/?ref=HRER3-1
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« Risposta #569 inserito:: Giugno 21, 2015, 05:25:32 pm »

Sognando gli Stati Uniti d'Europa nel paese dei ciechi

Di EUGENIO SCALFARI
21 giugno 2015
   
HO LETTO CON vivo interesse sulle pagine culturali del nostro giornale di venerdì scorso alcuni appunti inediti dello scrittore portoghese José Saramago che ho sempre considerato uno dei più importanti e geniali del secolo scorso. In qualche modo somiglia ad un altro suo conterraneo, Fernando Pessoa; sono due visionari che colgono il nucleo fondamentale del Novecento, un secolo dove le contraddizioni tipiche della nostra specie raggiunsero un'intensità difficile da riscontrare in altre epoche.

Negli appunti inediti Saramago spiega come è nato il "Saggio sulla lucidità" e perché ha voluto che i protagonisti fossero gli stessi personaggi di "Cecità", romanzo scritto nove anni prima. Un Paese immaginario è chiamato al voto ma nel giorno di quelle elezioni infuria senza tregua un terribile maltempo, fulmini e saette in un cielo nero, inondazioni, vento tempestoso. Tutti chiusi in casa  -  pensa la voce parlante dell'autore  -  mentre la radio che è nella mani dei potenti, dominatori del Paese in questione, esorta gli elettori a recarsi comunque nelle cabine elettorali per compiere il loro dovere civico, che è poi quello di dare una apparenza democratica al partito che ha in mano tutto il potere. E gli elettori obbediscono, escono dalle case e faticosamente vanno alle urne a votare. Il risultato è del tutto inatteso: salvo qualche centinaio tra potenti e loro collaboratori, tutti gli altri hanno votato scheda bianca, ciascuno credendo d'essere il solo a farlo e abbattendo in questo modo il potere dei dominatori.

Mi ha molto colpito perché somiglia terribilmente a quanto accaduto nelle "regionali" di pochi giorni fa e rischia di diventare una crescente tendenza degli elettori italiani. Sono ciechi? Sono lucidi? I potenti di oggi si rendono conto di quanto è accaduto e può ripetersi aumentando sempre di più e sempre peggio? Ne stanno ricercando le cause?

***

Cerchiamo anche noi le cause. Il primo tema da affrontare è l'Europa. Noi siamo in Europa, i nostri principali problemi riguardano l'Europa e la nostra presenza, il nostro ruolo, le nostre capacità di proposta, il nostro sguardo lungo sul futuro di questo continente nella società globale che ci circonda. Alcuni giorni fa il nostro ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, scrisse un articolo su Repubblica con un titolo molto significativo: "Così cambiamo il governo dell'Ue". Sullo stesso tema Padoan dette poi alcune interviste ad altri giornali e talk show televisivi. La tesi era chiara: "È necessario un livello crescente di integrazione fiscale basata su un bilancio comune, componente essenziale di qualunque unione monetaria. In una unione monetaria è necessario consolidare la condivisione dei rischi. È vero che nel lungo termine la costruzione di istituzioni più ambiziose potrebbe richiedere una modifica dei Trattati, tuttavia le regole vigenti consentono già oggi di istituire un fondo contro la disoccupazione e un budget dell'Eurozona con finalità diverse dal budget della Ue già esistente". Queste proposte mi hanno molto incuriosito: senza dirlo esplicitamente, secondo me indicano come obiettivo ultimo gli Stati Uniti d'Europa, probabilmente limitato ai Paesi membri dell'Eurozona e ad altri che volessero comunque entrarvi pur mantenendo, almeno in una prima fase, una moneta propria.

Per meglio chiarire gli obiettivi di Padoan ho avuto con lui una lunga conversazione dalla quale sono emersi esplicitamente i seguenti punti: Padoan ritiene che uno Stato europeo federato sia indispensabile in una società globale; ritiene che quest'obiettivo abbia bisogno, per esser costruito, di un periodo di alcuni anni che deve però essere avviato subito; gli Stati membri della Ue hanno già effettuato alcune cessioni di sovranità (per esempio il Fiscal Compact) ma ancora insufficienti: bisogna farne altre e non solo economiche ma anche politiche; per esempio è impensabile che la Bce non abbia un unico interlocutore politico, come è sempre avvenuto in tutti gli Stati. Questa lacuna va colmata. La Bce non può rispondere ai ministri dell'Economia di 19 Paesi, è necessario un ministro del Tesoro unico che rappresenti politicamente l'intera Eurozona.

Ho chiesto a Padoan se aveva concordato con il presidente del Consiglio questi suoi pensieri. Mi ha risposto che quando ritiene opportuno rendere pubbliche le sue idee non consulta nessuno, dice e scrive quello che pensa. Infine gli ho chiesto chi è secondo lui la personalità più impegnata nel suo stesso senso, ammesso che vi sia. La risposta è stata: Mario Draghi. Il presidente della Bce sta ponendo le basi di un'Unione monetaria ben più consistente di quella che esiste attualmente e i risultati li vedremo già nel 2016 e sempre più, fin quando le economie dei Paesi europei saranno arrivate a un tale punto di integrazione che il salto politico diventerà inevitabile e quasi automatico. Non c'è il pericolo  -  ho obiettato  -  che i capi di governo dei Paesi dell'Ue, consapevoli dell'inevitabilità della Federazione europea, ne intralcino il percorso? Il rischio c'è, mi ha risposto, ma contro la realtà è molto difficile opporsi. Solo movimenti antieuropei e che si dichiarano apertamente tali possono bloccare la dinamica europeista, soprattutto disaffezionando i popoli nei confronti dell'Europa. Questo rischio deve essere sgominato.

Personalmente mi auguro che Padoan abbia ragione ed è inutile dire che su Draghi la penso esattamente come lui, ma vedo però il pericolo che una ripresa di nazionalismo non antieuropeo ma fermo alla Confederazione, non sia da sottovalutare. Ne avevo parlato di recente in un'intervista sull'Espresso con Romano Prodi. Aveva idee esattamente identiche a quelle di Padoan ma era più preoccupato di lui sui "confederali" e sul loro "nazionalismo".

La risposta determinante ha un solo nome: la Germania di Angela Merkel. Vuole gli Stati Uniti d'Europa? Io credo di sì, anche perché il Paese con maggiore peso politico in una Federazione sarebbe il suo. Ma i tedeschi, la maggioranza del popolo tedesco, vuole l'Europa federata? Per quanto consta a me, direi di no. Il popolo tedesco è in gran parte autoreferenziale. È convinto  -  sbagliando  -  che la Germania non sarebbe irrilevante in una società globale e navigherebbe nelle acque della globalità anche da sola. Sbagliano, ma ne sono convinti. L'Europa confederale gli va benissimo, ma non più di questo.

Riuscirà la Merkel a convincerli? Questo è l'interrogativo del prossimo futuro. La vera e fondata speranza è che Draghi incastri le tessere di questo complicatissimo mosaico fino a costruire il disegno che noi ci auguriamo. Bisognerebbe che gli europei e gli italiani consapevoli rileggessero la storia di Abramo Lincoln e della guerra americana di secessione. Sarebbe una lettura molto istruttiva e dovrebbero rileggere anche il discorso di Winston Churchill a Zurigo del 1946, appena vinta l'ultima guerra mondiale. L'ho ricordato più volte quel discorso e lo ricordo di nuovo: sosteneva che l'Inghilterra aveva solo due strade dinanzi a sé: entrare a far parte degli Stati Uniti d'America o promuovere gli Stati Uniti d'Europa. E in qualche caso la moneta comune sarebbe stata la sterlina, la lingua ufficiale l'inglese, l'istituzione finanziaria principale la City. Chissà se Cameron se l'è riletto quel discorso e chissà se Tony Blair non faccia il "mea culpa". Sbagliarono tutti in Inghilterra, conservatori e laburisti.

Concludo questo paragrafo citando alcuni passi molto significativi del discorso tenuto all'Accademia americana di Berlino il 17 di questo mese per il conferimento del Premio Kissinger. Eccoli: "Ho dedicato sempre più le mie energie e così continuerò a fare fino a quando la piena unificazione dell'Europa sarà compiuta sulla base di libertà, democrazia e pacifica cooperazione. Il mondo di questi ultimi anni è cambiato radicalmente; esso appare molto diverso dalle aspettative ottimistiche seguite alla fine della Guerra fredda. Questa situazione può essere affrontata solo con l'integrazione europea e la coesione transatlantica, a condizione che l'Europa diventi un attivo partecipante alla costruzione di un nuovo ordine mondiale piuttosto che consumare se stessa nelle proprie problematiche interne. È questo il messaggio che dobbiamo trasmettere ai cittadini e ai leader di oggi". Non si poteva dir meglio, carissimo Giorgio Napolitano.

***

Ci sono molte altre questioni da esaminare ma dedicherò ad esse poche righe perché nei prossimi giorni saranno chiuse in un modo o nell'altro e noi la sfera di cristallo per leggere il futuro non l'abbiamo. La Grecia: entro fine mese la va o la spacca. Personalmente scommetto che si risolverà. Ma è appunto una scommessa.

La riforma del Senato. Anche qui: si farà subito o sarà rinviata? Scommetto che si farà subito questa pessima riforma e questa purtroppo è una scommessa persa in partenza perché la cosiddetta dissidenza interna del Pd non è un diamante che non si spezza.

La "buona scuola" si farà con alcune concessioni di basso profilo, ma il folto popolo dei docenti resterà con l'amaro in bocca e se ne vedranno i riflessi elettorali.
La riforma della Rai. Su questo punto Renzi ha detto cose giuste sulle funzioni di servizio pubblico della principale azienda culturale del nostro Paese. Cose giuste che dipendono però da chi sarà la persona prescelta per guidare culturalmente quell'azienda.

La Cassa depositi e prestiti. Renzi ne ha cambiato la gestione e il profilo. Gli è costato molta fatica perché le resistenze erano plurime, ma alla fine l'ha avuta vinta, compensando in vario modo le vecchie cariche e mettendo al loro posto persone competenti e di riguardo. Ma c'è un punto che è stato alquanto trascurato: la Eurostat che è l'istituzione europea cui è affidata la vigilanza su alcuni mutamenti che avvengono nelle istituzioni economiche dei Paesi membri, sta seguendo con severa attenzione quanto accade e soprattutto accadrà nella nuova Cassa depositi e prestiti. Se si rivelerà una agenzia che interviene di dritto e di rovescio al salvataggio di aziende decotte, l'Eurostat agirà per far rientrare la Cassa nel pubblico bilancio dal quale da tempo è stata tirata fuori. I debiti della Cassa diventeranno in tal modo debito pubblico. Le dimensioni minime di questo ipotetico evento sono di 100 miliardi di euro ma possono essere anche assai maggiori. Qualora si verificasse sarebbe una vera catastrofe finanziaria con ripercussioni assai serie sulla nostra economia.

Infine: i sondaggi del nostro Ilvo Diamanti e del suo istituto, pubblicati venerdì sul nostro giornale, sono assai preoccupanti per il Pd: è passato dal 41 per cento delle europee dell'anno scorso al 32, mentre Salvini è al 14, Forza Italia è anch'essa al 14 e i Cinquestelle al 26. Nel frattempo aumenta l'astensione. Perché? Perché la sinistra di governo non c'è più e i lavoratori che inclusi gli autonomi, le famiglie e l'indotto, sono milioni e milioni, non sono per niente contenti. Fanno lucidamente quello che Saramago aveva previsto nel suo romanzo.

Post scriptum. A proposito di Rai, sere fa ho visto, anzi rivisto dopo anni ed anni, nell'ultima puntata di Fabio Fazio "Che tempo che fa" Renzo Arbore in "Quelli della notte". Un godimento e sapete perché? Perché Arbore è stato il vero grande innovatore della televisione. "Quelli della notte" e prima alla radio "Alto Gradimento" e poi in tv le sue altre trasmissioni, sono state un'innovazione continua, uno scenario volutamente senza copione e  -  come Renzo diceva  -  con un finale sconclusionato. L'uomo è sconclusionato nel senso che è pieno di contraddizioni. Non si riesce a cancellarle quelle contraddizioni perché è impossibile, ma bisogna esserne consapevoli perché solo così vengono tenute a freno e possono diventare un fatto esteticamente apprezzabile. Dall'etica all'estetica, diceva Arbore. Ma se non c'è né etica e neppure estetica, allora sì, è un guaio molto serio.


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21 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/21/news/sognando_gli_stati_uniti_d_europa_nel_paese_dei_ciechi-117334554/?ref=HRER2-1
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