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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 317952 volte)
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« Risposta #480 inserito:: Febbraio 11, 2014, 05:23:16 pm »

Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Letteratura silenziosa
Socrate parlava poco e non scriveva affatto. I suoi discepoli li educava con i suoi comportamenti.
E anche oggi questa forma di linguaggio assorbe una parte crescente della società. Cultura e informazione sono diffuse on line


Il tema del linguaggio mi ha sempre molto intrigato. Soprattutto il linguaggio silenzioso che comincia con Socrate. Parlava molto poco, Socrate, e non scriveva affatto.

I suoi dialoghi infatti sono una libera ricostruzione di Platone e anche di altri, scritti quasi tutti dopo la sua morte.

Platone scriveva e parlava, Socrate no. Socrate leggeva silenziosamente.

Ci si può chiedere in che modo educasse i suoi discepoli e la risposta è: li educava con i suoi comportamenti.

Nel dialogo che Platone intitolò “Fedone” si racconta che il maestro, essendo stato imprigionato dai tiranni che governavano Atene con l’accusa di avere complottato contro il governo della città e anche di aver corrotto i giovani con costumi che si ispiravano ad una sorta di pedofilia, decidesse di suicidarsi perché la legge allora vigente prevedeva la pena di morte. A giudizio di Socrate si trattava di una legge ingiusta ma andava comunque rispettata e lui aveva deciso di anticiparne l’esecuzione suicidandosi.

Nel "Fedone" i discepoli, riuniti intorno al suo giaciglio, gli pongono molte domande e lui gli risponde e domanda a sua volta ma parlando con monosillabi o poco più. I suoi interlocutori forniscono ampie risposte e pongono ancor più ampie domande, sull’anima, sulla sua immortalità, sull’etica, ma anche sulla possibilità di difendersi da quella legge ingiusta o di organizzare una fuga che essi ritenevano possibile perché - dicevano - i tiranni l’avrebbero favorita per poi poter usare l’argomento della fuga per diffamarlo di fronte agli ateniesi. Ma proprio per evitare questa fondata ipotesi il maestro aveva preso la decisione d’avvelenarsi con la cicuta e mentre essi parlavano lui cominciò a bere il suo veleno.

Quando parlavano dell’anima lui con i suoi monosillabi li condusse alla conclusione che le anime sono immortali e quando quella conclusione la dichiararono lui rispose assentendo con il capo. Poi cominciò a sentire un gelo alle gambe e se le coprì con una coperta. Il gelo procedeva rapidamente e il maestro (così racconta Platone) si coprì anche la testa. Infine poche parole prima di esalare l’ultimo respiro: «Ricordatevi di sacrificare un gallo ad Asclepio». Furono le sue ultime parole.

Ho sunteggiato il “Fedone” per sottolineare che una delle maggiori figure della filosofia greca che sta all’origine della civiltà occidentale era basata sul silenzio, sulla lettura silenziosa. Ai tempi narrati da Omero, che precedono Socrate di quasi un millennio, non c’era affatto la cultura silenziosa, al contrario: gli aedi raccontavano i fatti avvenuti, la vita degli Dei, le guerre tra gli uomini e i loro amori cantando sulle corde della cetra o soffiando nello zufolo. La cultura silenziosa fu dunque una conquista relativamente moderna, interrotta però nel medioevo dalla comparsa dei menestrelli e dei “trovatori” che poetavano cantando sulle mandole o soffiando nei corni e nei flauti. Così nacque lo “stil novo” nei castelli della Cornovaglia, della Bretagna, della Provenza e dell’Aquitania e in Sicilia da dove salì fino alla Toscana e infine alla Lombardia ed alla Baviera.

Per ritrovare la cultura silenziosa dobbiamo arrivare al Rinascimento, all’invenzione della stampa e dei libri, di Gutenberg, di Aldo Manuzio e di Erasmo. Allora riappare la lettura silenziosa che si è sempre più diffusa. Oggi si è trasferita sulle nuove tecnologie.

La cultura silenziosa assorbe ormai per ore, giornate e nottate una parte crescente della popolazione mondiale. Cultura e informazione sono diffuse “on line” e di questo abbiamo già parlato Umberto Eco ed io su questa pagina nelle scorse settimane.

Leggiamo con gli occhi. La declamazione c’è ancora ed è la televisione ed il cinema a tenerla in vita, il pensiero passa silenziosamente attraverso questi mezzi di comunicazione. Non so dire se sia un pensiero più ricco o più povero di prima. Sembra un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Il numero delle parole usate è comunque in netta diminuzione. Forse ci risparmia uno sforzo, si passa sempre di più dalle corde vocali alla percezione attraverso gli occhi. Il mondo gira perennemente e noi con lui.
06 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da -http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/01/29/news/letteratura-silenziosa-1.150433
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« Risposta #481 inserito:: Febbraio 16, 2014, 11:04:54 pm »

Matteo il seduttore e i conti con la realtà

di EUGENIO SCALFARI
   
ENRICO Letta si è dimesso irrevocabilmente dopo il voto della direzione del Pd che l’ha bocciato quasi all’unanimità dopo la relazione di Matteo Renzi che ne ha ipocritamente lodato l’azione di governo e poi l’ha distrutta come inefficace, sbagliata, inesistente. Un anno perduto — ha detto — con gravi conseguenze sull’economia, sui sacrifici vessatori su tutti gli italiani e sulla rabbia sociale che hanno provocato.

Fino a pochi giorni prima il segretario del Pd non se n’era accorto e così risulta dalle sue pubbliche dichiarazioni molte volte ripetute, nelle quali si impegnava a sostenere il governo fino al semestre di presidenza europea assegnato all’Italia che avrà inizio nel prossimo giugno. Ma poi, improvvisamente, ha cambiato idea e la direzione del Pd con lui.

È stata una sorta di mannaia crudele e senza sconti, senza precedenti nella nostra storia repubblicana. I governi della Dc cambiarono frequentemente ma senza strepiti e condanne “ad personam”. Il premier fiutava l’aria e si dimetteva, il Parlamento votava il suo successore e il presidente della Repubblica ratificava. Il premier decaduto rientrava nella schiera dei notabili, pronti per altri incarichi e persino per un ritorno a palazzo Chigi. Così si alternarono Fanfani, Scelba, Andreotti, Moro, Segni, Piccioni, Forlani, Cossiga, De Mita. Staffetta e gioco dei quattro cantoni, ai quali partecipavano i cavalli di razza. La partitocrazia, bellezza, che nell’ultima fase si estese a Craxi e si estinse con Mani Pulite.

Non fu un bel periodo, ma quello venuto dopo, costato al paese il ventennio berlusconiano, è stato certamente peggiore. Tuttavia la mannaia d’un partito che fa a pezzi un governo guidato da uno dei suoi maggiori dirigenti non si era ancora mai visto. Evidentemente i tempi sono bui, “Stormy Weather”.

Ho riascoltato quella canzone subito dopo avere seguito la cronaca televisiva della direzione del Pd. La voce di Ella Fitzgerald si alternava alla tromba di Louis Armstrong: «I tempi sono bui, il mio uomo mi ha abbandonata e fuori continua a piovere».

Qui non è l’uomo che ha abbandonato il partito, al quale con estrema lealtà voterà la fiducia tra pochi giorni quando toccherà al Parlamento di esprimersi, ma è il partito ad averlo massacrato. Stormy Weather.

***

Grillo e la Lega, che stanno scoprendo tra loro sorprendenti analogie (i populismi hanno diversi colori ma identica natura) attaccano Napolitano perché ha accettato una crisi extraparlamentare. Ma è un procedimento che ha numerosissimi precedenti nella storia dell’Italia repubblicana e anche di quella monarchica. Se un governo viene sfiduciato da un partito che ha la maggioranza assoluta in almeno una delle Camere e se il suo premier dà le dimissioni irrevocabili nelle mani del Capo dello Stato, spetta a quest’ultimo la scelta di accettarle o rimandarlo in Parlamento che comunque avrà l’ultima parola sull’esistenza del nuovo governo nominato dal Quirinale.

Rinviare Letta in Parlamento l’avrebbe esposto ad un’altra umiliazione perché avrebbe avuto contro di lui non solo i voti del Pd ma anche quelli della Lega, dei grillini e di Forza Italia. Cioè la quasi totalità, forse con l’astensione di Alfano e dello sparuto gruppo centrista. In più si sarebbe perso tempo mentre è interesse del paese che la discontinuità nel personale di governo venga superata al più presto per impedire che i mercati e l’Europa entrino in allarme sulla stabilità italiana. Questo spiega perché Napolitano ha accettato la procedura extra-parlamentare che non spossessa affatto il Parlamento dal suo giudizio finale.

Su quel giudizio però si fanno alcune ipotesi in queste ore. Due soprattutto, che riguardano Berlusconi e Alfano. In un certo senso la seconda è condizionata dalla prima.

***

La maggioranza che appoggerà il costituendo governo Renzi dovrebbe essere la stessa di quella che appoggiò Letta anche se il personale di governo sarà quasi interamente modificato. La vera piattaforma su cui l’esperimento di Renzi si basa sta nell’impegno a durare per l’intera legislatura, cioè per altri quattro anni fino al 2018.

Per i deputati questa è una manna e in parte lo è anche per i senatori poiché l’attuale forma del Senato, che dovrà comunque essere cambiata, invece di realizzare il cambiamento entro i prossimi sei mesi, potrà tranquillamente attendere un anno o addirittura due. Non c’è più molta fretta perché ora l’obiettivo si sposta sulla politica economica e sociale. La legge elettorale sarà approvata subito per quanto riguarda la Camera, ma per il Senato non c’è fretta.

Veniamo alle ipotesi: come voterà Forza Italia sul governo Renzi? Non fa parte di quel governo e quindi voterà contro. Ma fa parte del programma di Renzi per quanto riguarda la legge elettorale e le riforme costituzionali. Renzi si è impegnato a non fare governi con Forza Italia e — si spera — manterrà l’impegno, ma gli accordi con Berlusconi si estendono ad una buona parte del suo programma di riforme. Non comprendono la politica economica e i provvedimenti che la riguardano. Ma, nelle ancora vaghe dichiarazioni di Renzi in proposito, non si ravvisano sostanziali diversità da Forza Italia: sgravi ai lavoratori e alle imprese e quindi cuneo fiscale ridotto per quanto possibile; prevalenza del contratto di lavoro aziendale su quello nazionale; nuove forme di ammortizzatori sociali; semplificazione delle procedure, più elasticità finanziaria rispetto ai vincoli di Bruxelles; diminuzione delle tasse e tagli delle spese.

Queste finora sono le dichiarazioni di Renzi. Ricordano sia quelle di Letta sia quelle di Squinzi e della Confindustria, sia quelle della Cgil, sia quelle di Forza Italia quando ancora si chiamava Pdl.

Il pregio di Renzi è sempre stato quello d’essere d’accordo con tutti affinché tutti siano d’accordo con lui. In più — e non è poco — ci mette la sua «smisurata ambizione» e la sua smisurata vitalità.

A mio avviso somiglia moltissimo a Berlusconi per quanto riguarda le sue capacità di seduzione. È un leader a 24 carati come il Berlusconi giovane. E perché il Berlusconi vecchio dovrebbe lesinargli la sua comprensione e il suo appoggio?

Questo gli consiglia Giuliano Ferrara sul Foglio e questo gli consiglia anche Verdini e anche Bondi e anche Confalonieri. È un padre della patria? Ma è Renzi che l’ha fatto risorgere dalle ceneri. Berlusconi votò per Monti e anche per Letta fino a quando ci fu la scissione di Alfano che Letta agevolò in tutti i modi. Ma ora Letta non c’è più e c’è Renzi al suo posto, Renzi il simpatico, Renzi che è un Berlusconi giovane. Allora perché non votargli la fiducia? O almeno astenersi? La Santanché è contraria a questo progetto, ma chi se ne frega della Santanché.

Berlusconi forse ha pensato a questa soluzione ma alla fine ha scelto l’opzione negativa e l’ha comunicata a Napolitano e alla pubblica opinione durante le consultazioni di ieri: non voterà la fiducia a Renzi né si asterrà ma voterà contro. Naturalmente sarà un’opposizione costruttiva e comunque manterrà il patto sulle riforme. È un padre della patria, che diamine! E quindi i provvedimenti che giudicherà buoni li voterà.

Per ora dunque Alfano è salvo ma il tremore sotto i piedi lo sente, perciò ha messo i suoi paletti prima di sottoscrivere la continuazione dell’alleanza col Pd: niente accordi a sinistra e tanto meno a destra. Posti chiave nel ministero, programma economico messo in carta e firmato prima del voto di fiducia. Se questi paletti non verranno condivisi Alfano esce dal governo. Ci vorrà comunque il doppio di tempo per soddisfarne le condizioni.
***

Qualcuno rimprovera Napolitano perché non si è opposto all’arrivo in scena al Quirinale per le consultazioni di ieri. Aveva invitato anche Grillo e la Lega e si è irritato per la loro risposta negativa. Quindi non poteva mettere un veto a Berlusconi, ancorché condannato con sentenza definitiva per frode fiscale e decaduto da senatore.

Questo impedisce a Napolitano di concedergli quella grazia “motu proprio” che Berlusconi da tempo chiede anzi pretende. Quella grazia non ci sarà mai perché Napolitano mai la darà in assenza d’una ammissione di colpevolezza da parte del richiedente che significa assunzione delle sue responsabilità e rinuncia a proclamarsi innocente. Ma quest’aspetto della questione è completamente diverso dal Berlusconi uomo politico e leader di un partito con rilevante seguito parlamentare. Se ci sono consultazioni al Quirinale, al capo d’un partito presente in Parlamento non può essere opposto un veto.
Su questo punto debbo dire che, per quel che vale il mio parere, la Costituzione non prevede consultazioni e descrive l’andamento della crisi in un modo estremamente semplice e chiarissimo: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri». Questo dice e basta, sicché, secondo la lettera della Carta, Napolitano non ha alcun obbligo di consultarsi con chicchessia. Naturalmente può consultarsi con chi vuole ma è lui a stabilire come e con chi; perciò avrebbe potuto anche limitarsi ai presidenti delle Camere o estenderlo ai presidenti dei gruppi parlamentari o addirittura a nessuno. I precedenti non mancano. Luigi Einaudi non consultò nessuno quando nominò il governo Pella; Scalfaro agì nello stesso modo quando nominò Ciampi dopo aver consultato soltanto Giuliano Amato all’epoca presidente del Consiglio. Anzi fu Amato a fargli il nome di Ciampi.

***

Resta il tema della politica economica che è il solo che stabilirà il successo del governo Renzi o la sconfitta sua e del suo partito.

Quello che vuole fare e i problemi che dovrà affrontare sono gli stessi del governo Letta, indicati e aggiornati nelle proposte da lui inviate alla direzione del Pd e giudicate da Renzi come contributi (marginali) ma non erano solo contributi, era l’elenco del fattibile, in parte già in corso di attuazione e positivamente considerato dalle autorità europee e dalla Bce di Mario Draghi.

Ora è il programma di Renzi ma con una differenza non da poco: Renzi vuole andare oltre le coperture previste dagli impegni europei, come vuole Squinzi, come vuole la Camusso, come vuole Vendola, cioè le parti sociali e la destra come la sinistra. Ma possono fare queste operazioni in barba all’Europa e agli impegni assunti dal governo precedente?

Questa è la domanda e la risposta è questa: se rispetta gli impegni con l’Europa il suo governo sarà eguale a quello di Letta e non molto più veloce nelle realizzazioni; se non li rispetta innescherà il commissariamento europeo e i sacrifici ancora maggiori sugli italiani.

Chi fa il mestiere di informatore e di osservatore non ha che da aspettare seguendo gli eventi con costante e obiettiva vigilanza, dandone conto alla pubblica opinione.

© Riproduzione riservata 16 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/16/news/matteo_il_seduttore_e_i_conti_con_la_realt_di_eugenio_scalfari-78721034/?ref=HRER2-1
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« Risposta #482 inserito:: Febbraio 19, 2014, 12:02:59 pm »

La rivoluzione di Francesco contro i mandarini del Vaticano

È trascorso quasi un anno da quando Jorge Bergoglio è stato eletto papa. E già sono evidenti gli effetti delle sue riforme

di EUGENIO SCALFARI
   
È passato quasi un anno dall'elezione di Jorge Bergoglio al soglio di Pietro ed ora tutta la Chiesa ha fiducia in lui, i fedeli soprattutto per la sua grande capacità di comunicatore, la sua apertura al dialogo, le sue immagini di una Chiesa povera e missionaria, la sua fede nel Dio misericordioso con tutti.

Ma non solo i fedeli affollano le chiese e le piazze per ascoltarlo; anche le strutture istituzionali, in Italia e in tutto il mondo, lo appoggiano senza più le riserve iniziali che non erano né poche né marginali. Lo appoggiano e puntano sul successo della sua azione riformatrice i Vescovi di tutte le nazioni cristiane nell'America Latina, in quelle americane del Nord, in Europa, in Africa, in Asia, in Oceania; lo appoggiano i cardinali, la Curia, le Conferenze episcopali, i presbiteri, le Comunità, gli Ordini religiosi, le Università cattoliche, gli Oratori, i Protestanti. Lo stimano e vogliono dialogare con lui i rabbini e le comunità ebraiche, gli imam che predicano il Corano e perfino - perfino - i non credenti.

Roma è ridiventata la capitale del mondo. Non l'Italia, ma Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo; non Washington, non Brasilia, non Pechino, non Nuova Delhi, non Mosca, non Tokyo, ma Roma. Non avveniva da duemila anni, ma adesso è così.

Dunque un trionfo in appena un anno non ancora compiuto. Apparentemente è così. Sostanzialmente anche, ma solo in parte e, aggiungo, in piccola parte almeno per ciò che riguarda la struttura vaticana e che Francesco chiama l'Istituzione: la Chiesa che ha come principale obiettivo la sua conservazione e il potere, il temporalismo che ne derivano. Quella che Francesco ha in notevole misura degradato al rango di "intendenza", quella che deve fornire i necessari servizi alla Chiesa combattente e missionaria. Insomma i mandarini, come li chiamerebbero in Cina.

I mandarini nella Chiesa cattolica ci sono sempre stati dopo i primi tre secoli della Chiesa patristica. Hanno certamente avuto una funzione storica tutt'altro che trascurabile; hanno evangelizzato l'Europa e le Americhe, hanno continuamente aggiornato e riformato, modernizzato l'Istituzione e il suo linguaggio, il suo modo di proporsi al popolo dei fedeli e alle potenze politiche europee. Hanno combattuto guerre non solo teologiche ma con lance e spade e spingarde e cannoni e navi e cavalieri e inquisizioni e persecuzioni. Sconfitte e vittorie e scismi, eresie e vendette e intrighi e diplomazie e dogmi e scomuniche.

Questa è stata la storia del Papato e della Chiesa; non ad intervalli, ma continuativamente. Una Chiesa verticale assai poco apostolica. Ventuno Concili in duemila anni; molti sinodi ma con pochi poteri. Intrecciata alla storia dei regni e dei poteri politici, Francia, Spagna, Inghilterra, principi elettori di Germania, Bizantini, Saraceni, imperatori e califfi. Spesso la Chiesa ha perso, spesso ha vinto, da sola con le scomuniche, o con le armi alleandosi col vincitore.

Ma non è stata soltanto questo. È stata anche la Chiesa missionaria, la Chiesa povera, la Chiesa martire, la Chiesa dell'amore e della misericordia. Ma il nucleo di questo ampio ventaglio è sempre stato tenuto in mano dall'Istituzione.

Ora - e per la prima volta - l'Istituzione è a rischio di perdere il rango di guida. In parte l'ha già perso ma non del tutto. I mandarini ci sono ancora. Hanno fatto atto di sottomissione, si sono allineati, ma ancora combattono. Come? Credono di convincere Francesco ad attuare buone riforme ma non una rivoluzione, giocando sulla doppia natura di papa Bergoglio che come tutti gli uomini che hanno testa e cuore e quindi contraddizioni dentro di sé possono da quelle contraddizioni ricavare ricchezza, pienezza e armonia tra intelletto ed anima oppure confusione e incoerenza.

I mandarini sono sempre stati al passo dei tempi ma con cautela, prudenza, compromessi nel rafforzamento del loro ruolo. Francesco, non dimentichiamolo, è nato e cresciuto nella Compagnia di Gesù. Si sente ancora gesuita? Ma ha scelto di chiamarsi Francesco, come finora non era mai avvenuto. Che cosa significa questa miscela? Come si può mettere insieme il poverello di Assisi e Ignazio di Loyola? Basta la fede in Cristo? Ma chi è Cristo per papa Francesco e chi è per i mandarini che ancora allignano e non solo in Vaticano.

***

Ad una delle domande qui formulate una risposta me la sono data; naturalmente è la mia e deriva soltanto da quanto credo di aver capito di papa Francesco che, secondo me, è tuttora identificato con la cultura e la testimonianza che la Compagnia di Gesù ha dato della Chiesa per cinque secoli.

Oggi la Compagnia è molto meno potente di un tempo, altre forze sono nate nel tessuto dell'Istituzione, il clero regolare ha perso parte del suo ruolo e i gesuiti non hanno più il primato della cultura e dell'educazione della gioventù cattolica. Il cosiddetto Papa nero, cioè il generale della Compagnia, è definitivamente tramontato e il "perinde ac cadaver", che è ancora il motto della Compagnia, non ha più alcun reale significato.

Del resto non l'ha mai avuto perché i contrasti tra il Papato e la Compagnia sono stati frequenti e per ben due volte portarono all'isolamento dei gesuiti e alla loro cacciata da alcuni paesi europei a cominciare dalla Francia, col beneplacito del Vaticano.

Tuttavia la cultura gesuitica e soprattutto la prassi comportamentale che viene insegnata ai loro novizi e ai cattolici che frequentano le loro scuole, le loro università ed i loro esercizi spirituali è ancora di alto livello e di notevole suggestione. Consiste soprattutto in tre punti: la vocazione missionaria fondata non sul proselitismo ma sull'ascolto e sul dialogo con i diversi; la capacità di guidare, capire e in qualche modo influire sui processi della società dove la Compagnia è presente; dividersi tra di loro identificandosi con processi così diversi l'uno dall'altro restando tuttavia profondamente legati alla Compagnia e ai suoi organi centrali. Insomma una sorta di gioco delle parti nel quadro d'una rappresentazione della quale sono gli attori principali.

Un tempo, l'ho già detto, la loro potenza nella Chiesa e nei paesi cattolici del nostro continente fu di altissimo livello; del resto la Compagnia fu fondata da Ignazio per combattere lo scisma luterano e limitarne le conseguenze. In che modo? Non opponendogli il conservatorismo ma una forte riforma. I laici e i protestanti la chiamarono controriforma dando un significato conservatore a quella parola, ma non era così e basta ricordare l'azione pastorale dei Borromeo, Carlo e Federico, del quale ultimo c'è ampio racconto nei Promessi Sposi del Manzoni.

Papa Bergoglio è intrinseco della cultura e della prassi della Compagnia e non è certo un caso che sia il primo Pontefice che da essa proviene in una fase di estrema laicizzazione del mondo e di estremo isolamento della Chiesa. Vuole una Chiesa missionaria così come la Compagnia l'ha voluta e praticata; esorta i preti regolari e quelli secolari a comprendere l'ambiente in cui operano e adeguare ad esso la loro cura d'anime, ma li esorta anche a confrontarsi con culture religiosamente diverse, con particolare attenzione ad aperture di dialogo con non credenti e atei. E vuole, papa Bergoglio, trasformare in questo senso la Chiesa, il ruolo dei Vescovi e delle Conferenze episcopali, il ruolo della Curia, senza mai abbandonare la dottrina né smontare l'architettura dogmatica, semmai interpretarne il significato.

I gesuiti sono maestri nella casistica, anzi ne sono addirittura gli inventori e Bergoglio è, in quanto Papa, il maestro dei maestri. Nelle sue mani la casistica ha compiuto un salto di qualità ed è diventata una visione plurima del mondo, un ventaglio amplissimo di posizioni diverse e contraddittorie da gestire indirizzandole verso una convivenza proficua e di reciproca comprensione e rispetto.

Ecco, una fedeltà alla Compagnia a 24 carati. Ma il gesuita Bergoglio eletto al soglio di Pietro non si chiama, come pure avrebbe potuto, Ignazio, bensì Francesco, con esplicito riferimento al santo di Assisi. Nessuno aveva mai preso quel nome nella storia del papato. Un gesuita si chiama papa Francesco. Qual è il significato e il senso di questa apparente contraddizione?

***

Molti pensano che Francesco d'Assisi, dopo una "jeunesse dorée" finita piuttosto male, cui seguì una radicale conversione almeno agli inizi vissuta per il suo valore espiatorio, sia stato una sorta di fondamentalista della Chiesa dei poveri: piedi scalzi o con sandali anche nei più rigidi inverni, risorse individuali nessuna, risorse della comunità dei frati scarsissime e frutto di elemosine più spontanee che cercate e chieste, fedeltà totale a Cristo, fratellanza e amore tra i seguaci di Francesco, assenza di conventi accoglienti anteponendo un'itineranza pressoché continua, amore per il prossimo da soccorrere, scarsi contatti con la Chiesa ufficiale e istituzionale, identificazione con la virtù, la natura, la preghiera, la poesia che sgorga dall'anima, nessun timore per "sora nostra morte corporale" perché l'anima è immortale e la vita solo un transito.

Questo racconto dell'iniziazione di Francesco e dei suoi compagni coglie senza dubbio alcuni aspetti comuni della Chiesa povera da loro praticata e predicata, ma ne tralascia altri non meno importanti.

Per esempio i contatti che da un certo momento in poi Francesco ebbe e coltivò con i dignitari della Chiesa e col Papa quando decise di consolidare in un Ordine e nelle sue regole le comunità dei suoi seguaci, di dargli una sede, ferma restando la pratica itinerante intervallata però di soste non di riposo ma di contemplazione dello Spirito e di se stessi.

I contatti con la Chiesa ufficiale furono lunghi e piuttosto complessi. La Curia non era molto propensa a riconoscere un Ordine di quella natura nel momento stesso in cui la Chiesa era già nel pieno delle sue lotte temporali e ancora alle prese con la secolare questione delle investiture, dopo la piena vittoria a Canossa di papa Gregorio VII. Una lotta per il potere dalla quale Francesco e i suoi seguaci erano del tutto estranei, anzi del tutto avversi.

Alla fine fu il Papa stesso a ricevere Francesco colmandolo di lodi e condividendo l'idea che ci fosse un Ordine come egli proponeva, ma condizionandone l'approvazione a modifiche non marginali delle regole proposte da Francesco. La trattativa durò a lungo.

Alla fine gran parte delle modifiche furono accettate dalla comunità francescana e l'Ordine nacque. Sarebbe lungo e fuori posto in questa sede dar conto di questa complessa vicenda che del resto è stata ampiamente esaminata dagli storici della Chiesa. Ricordo però che Francesco ha avuto contatti col Papa e con i suoi dignitari ma la sua itineranza lo portò in varie regioni d'Italia e perfino in Terrasanta dove le Crociate avevano da tempo messo quelle terre a ferro e fuoco creando principati cristiani, eserciti stanziali e Ordini militari e religiosi insieme. Francesco ne conobbe i capi e molti cavalieri, ma conobbe anche alcuni dei capi saraceni e con alcuni di loro pregò il Dio che è universale e del cui nome nessuno dovrebbe appropriarsi e farne bandiera di guerra. Alcuni dei cristiani di Terrasanta si convinsero a quanto Francesco predicava e se ne convinsero perfino alcuni dei capi saraceni da lui incontrati che lo frequentarono ed anche lo ospitarono per qualche giorno dimostrando amicizia alla persona e rispetto per la fede da lui manifestata verso il "Dio di tutti".

***

Questi sono i tratti salienti sia pure accennati in modo estremamente sintetico, della Compagnia fondata da Ignazio e della Chiesa povera guidata dal santo di Assisi. Ci sono, tra i due Ordini e soprattutto tra i loro fondatori alcuni tratti comuni; soprattutto la fede in Gesù Cristo e nella Chiesa sua mistica sposa; ma le differenze sono di gran lunga prevalenti. Papa Francesco porta con sé e dentro di sé entrambe queste due possenti manifestazioni di religiosità, di ruolo e di comportamenti.

Mi sono chiesto se si tratti di una contraddizione apparente o sostanziale e la risposta che mi do è: sostanziale.
Ignazio ebbe anche alcuni momenti di misticismo ma non è su di essi che poggiò la sua azione; amava i mistici, li riteneva indispensabili alla Chiesa, ma la sua fede era radicata nella sua testa e non soltanto nel suo cuore. Da questo punto di vista papa Francesco gli somiglia molto.

Il santo di Assisi visse invece in uno stato di misticismo e di identificazione con Cristo quasi permanenti. Basterebbe il suo rapporto di dolcezza e di dialogo continuo con la natura "sive Deus", le stimmate sulle sue mani, l'amore spirituale con Chiara che fu accanto a lui nel momento saliente della sua esistenza.

Che io sappia per quello che ho colto in papa Francesco, quest'aspetto saliente di misticismo e trasfigurazione in lui non ci sono. C'è l'ammirazione e vorrei dire l'adorazione per il santo di cui ha preso il nome.

L'identificazione tra queste due figure si realizza tuttavia su un piano altrettanto importante ed è quello dell'amore per il prossimo, della misericordia diffusa a tutte le anime, della Chiesa povera e missionaria che dialoga con tutti, che è vicina a tutti i deboli, a tutti i poveri, a tutti gli esclusi, dell'identificazione di questa Chiesa con il popolo di Dio e dei suoi presbiteri con cura di anime, dei Vescovi successori degli apostoli, delle Comunità dedicate al volontariato, delle pecore smarrite e dei "figli prodighi" che tornano perché hanno sentito nel loro profondo d'essere cercati.

La Chiesa-istituzione non è stata quella predicata da Gesù se non in parte. Per secoli e anzi millenni la priorità di ruolo l'ha avuta l'Istituzione consapevole del valore della Chiesa povera ma dedicata soprattutto all'esercizio del potere e quindi della temporalità, comunque aggiornata ai tempi ma dedita al rafforzamento e all'ampliamento della temporalità.

Papa Francesco è sempre stato in guerra con la primazia della temporalità. È flessibile e consapevole ed esperto della forza dei suoi avversari, è astuto nella gradualità e nella necessità di compromessi, ma è anche sagace nel cogliere il momento dell'attacco radicale agli ostacoli che i mandarini gli oppongono. Insomma è una guerra e durerà a lungo.

Ratzinger non si era accorto di questa realtà. I brevi anni del suo pontificato li ha vissuti come una sorta di Truman Show, una città del tutto fittizia costruita da una potente società televisiva e abitata da dipendenti di quella società della quale il protagonista era il solo a non sapere che tutto era finto, finte le famiglie, finto il lavoro degli artigiani, finta l'amicizia e il rispetto che tutti gli dimostravano in quel sito della terra che sembrava il più felice, onesto e agiato del mondo. Finto e inesistente fino a quando...

Fino a quando Benedetto XVI si trovò coinvolto nello scandalo del "Corvo", delle malefatte del suo maggiordomo, nelle ruberie dello Ior e nella complicità della Curia. E scoprì che il mondo in cui credeva d'aver vissuto celava un pantano morale. Ne capì la vastità e il radicamento; misurò la vastità di quel mondo e le proprie forze e decise che la sola cosa che doveva fare era denunciarne l'esistenza e dimettersi. L'energia di affrontare una guerra così lunga e complessa il suo corpo non l'aveva. Sperò e pregò affinché il Conclave seguito alle sue dimissioni scegliesse la persona adatta e così accadde un anno fa.

Il Papa che oggi conduce l'opera di bonifica e di trasformazione che Ratzinger non poté fare ha dentro di sé l'obiettivo del santo d'Assisi e la metodica di Ignazio. La contraddizione è questa: la bonifica della palude è uno scopo che anche Ignazio aveva ben presente ai suoi tempi ma la sua metodica si svolgeva nella palude, utilizzava la palude per rendere ancora più necessaria la presenza della Compagnia. Dopo Ignazio, la Compagnia trasformò la metodica da strumento in obiettivo sicché una parte di quell'Ordine alimentò la palude per sguazzarvi dentro.

Ora si dà il caso che il gesuita Bergoglio abbia riportato la metodica gesuita da metodica a strumento. Per questo ha preso il nome di Francesco. Ma questa non è una posizione riformista che i mandarini tollererebbero e addirittura appoggerebbero. Questa è una rivoluzione. Un gesuita che sceglie quel nome è, forse contro le sue intenzioni, forse anche senza che ne sia interamente consapevole, una bomba. Non era mai accaduto nella storia della Chiesa. Era accaduto invece che la Chiesa, dopo i primi secoli, si fosse impestata, corrotta, penetrata da quello che Dostoevskij chiama, lo "Spirito della terra" e cioè il demonio, la corruzione, la lotta per il potere.
Papa Francesco lo sa ed è questa la sua battaglia. Ha molte doti papa Francesco: carità spirituale, curiosità dei diversi, estrema socievolezza ed allegria di spirito, simpatia ed empatia. È la persona adatta per lo scopo che si prefigge. Oltre il novanta per cento dei fedeli è con lui, ma gli ostacoli sono numerosi e lo Spirito della terra, comunque lo si voglia identificare, è una muraglia di gomma difficilissima da sradicare.

I non credenti dal canto loro, hanno anch'essi un muro di gomma che protegge i malgoverni, gli interessi illeciti, la vanità dei potenti, la demagogia, il semplicismo, l'inconsapevolezza, l'irresponsabilità, il dispotismo e il privilegio.

Francesco è amico dei non credenti che combattono questa battaglia ed essi a loro volta sono suoi amici. Per quanto mi riguarda, io mi sento legato da profonda amicizia con papa Francesco e sono da tempo ammirato dalla predicazione e dalla vita di Gesù che considero un uomo e non un Dio, ma certo un personaggio d'eccezione quale ce lo raccontano i Vangeli che sono la sola fonte della sua esistenza storica.

Ammesso che sia esistito un personaggio di quella fatta, l'Istituzione da lui ispirata dura da due millenni e dentro di essa se ne sono viste di tutti i colori ma anche quei principi di carità fraternità, responsabilità, sofferenza e gioie, desideri, amore, debolezza e forza che insieme ai loro contrari convivono dentro gli animali pensanti che noi siamo.

Caro papa Francesco, su sponde diverse noi combattiamo la stessa battaglia. Purtroppo durerà fino a quando esisterà la nostra specie. I leoni e le formiche, i topi e le gazzelle non hanno i nostri problemi e le nostre contraddizioni. Anch'essi sopportano la fatica del vivere, la paura e la soddisfazione quando appagano i loro bisogni primari. La nostra fatica è diversa e forse maggiore della loro e questa è la nobiltà delle nostre umane vicende.

© Riproduzione riservata 19 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/02/19/news/la_chiesa_di_francesco-79003400/?ref=HRER2-1
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« Risposta #483 inserito:: Febbraio 21, 2014, 04:56:50 pm »

Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Si cerca il successo per non morire
Chi arriva al potere ha una malattia psicopatica, sostiene un libro.
Ma la molla che spinge a cercarlo credo sia il desiderio di essere ricordati dai posteri
   
Il nostro bravissimo collaboratore Gabriele Romagnoli ha scritto venerdì scorso su “Repubblica” un articolo di grande interesse recensendo un libro di Jon Ronson e citando a suo supporto statistiche, sondaggi e altri scrittori che hanno trattato temi pertinenti a quelli di Ronson il cui titolo definisce con estrema chiarezza l’argomento: “Psicopatici al potere”. La tesi è che non alcuni ma tutti quelli che conquistano il potere in qualunque campo sono affetti da quella malattia psicopatica della quale l’autore descrive i sintomi che il suo recensore elenca ed integra. Ho letto anch’io il libro di Ronson oltreché la recensione di Romagnoli. Il tema mi interessa da molto tempo e ne ho a lungo parlato in alcuni dei miei libri, specialmente nell’ultimo pubblicato nello scorso ottobre, ma sono arrivato a conclusioni molto diverse.

Prima però di dire la mia in proposito è necessario che riassuma i punti salienti dell’opera di Ronson, uno scrittore che spazia in vari campi del sapere, dalla psicologia al romanzo, al cinema, alla politica. Chi è lo psicopatico di cui parla Ronson e lo psicologo canadese Hare citato da Romagnoli perché anche lui ha recensito il libro in questione? «Egocentrismo, seduzione, loquacità, tendenza al grandioso, menzogna patologica, abilità nella manipolazione, assenza di rimorsi e complessi di colpa, deficit del controllo comportamentale, promiscuità sessuale, mancanza di obiettivi realistici a lungo termine, desiderio di essere amato dagli altri non amandone nessuno, versatilità criminale». Commento di Romagnoli (assai spiritoso e veristico): «Dove trovare persone rispondenti a questo identikit? In galera ovviamente, ma anche a Wall Street o a Davos».

Bene. L’elenco dei connotati di questo genere di psicopatico è piuttosto ampio ma contiene, secondo me, alcune caratteristiche sbagliate. Per esempio non ritengo vero che il soggetto di cui discutiamo non si ponga obiettivi realistici a lungo termine; di solito se li pone, eccome! Resta da vedere se li realizzerà, ma questo è un requisito tipico di ogni obiettivo a lungo termine. E poi: promiscuità sessuale. C’è una quantità notevole di psicopatici che attribuiscono al sesso poca importanza salvo il bisogno primario che fa parte delle caratteristiche di ogni specie animale. E ancora: propensione alla noia. In alcuni casi questo requisito c’è ma in altri affatto. Per il resto l’elenco Ronson-Hare è pienamente accettabile.

Questi sono gli effetti; quanto alla causa, secondo Ronson, si tratta di solito d’un disturbo mentale congenito, ma anche dell’educazione ricevuta e non appropriata, del ceto sociale cui si appartiene, del luogo dove si è nati e insomma dell’insieme delle condizioni che influenzano la formazione di una persona. Ai quali aggiungerei il caso, gli incontri, le amicizie. Come si vede, si tratta di condizioni che riguardano ogni vivente salvo quella del disturbo mentale.

Qui però comincia il mio dissenso sulla tesi di fondo del libro di Ronson che è il seguente: tutti i viventi, dovunque nati e dovunque educati, ricchi e poveri, colti ed incolti, sono spinti a conquistare il successo, a diventare più ricchi (o meno poveri), a poter comandare, a donare amore per riceverne in abbondanza dagli altri, a pretendere libertà per sé anche se essa può limitare quella degli altri, a privilegiare l’amore per alcune persone rispetto all’amore verso tutti. La causa di questi comportamenti estremamente diffusi non è un disturbo mentale che modifica la psicologia e i comportamenti, ma è l’ineluttabilità della morte che condiziona ogni nostro gesto, ogni nostra decisione, ogni nostro pensiero, dominati come siamo dalla triste certezza che a quell’appuntamento finale non potremo mancare anche se non sappiamo né come né dove né quando avverrà.

Le persone consapevoli (sono poche in rapporto al totale degli umani viventi) sanno di questo perenne confronto che ci accompagna per tutta la vita e la cui percezione ha un confuso inizio all’età di due o tre anni dopo che il cordone ombelicale col ventre materno è stato reciso. Ma la grandissima maggioranza dei viventi è inconsapevole e la paura della morte resta rimossa e confinata nei recessi dell’inconscio. Agisce comunque su di noi e ci condiziona ma non ne siamo consapevoli. In che modo agisce? Nel solo modo di allontanare la morte. Non con cure fisiche che allunghino la vita: ben vengano. Ma l’appuntamento finale resta e il fatto che accada mediamente per tutta la popolazione a 70 anni invece che a 60 ed ora si colloca a 81 per gli uomini e a 83 per le donne non cambia minimamente il problema: la Signora di nero vestita è sempre lì che ci aspetta e prima o poi saremo toccati dalla sua mano e diventeremo una spoglia.

I modi per combatterla ci sono. Uno è quello di credere in un aldilà dove la vita continua in altri modi e altre forme ma senza perdere memoria di noi stessi e dei nostri cari che lì ci attendono o che lì ci raggiungeranno. L’altro modo - che vale per tutti, che abbiano fede nell’aldilà o non l’abbiamo affatto - è di ottenere successo: più potere, più ricchezza, più amore, primazia rispetto agli altri, ciascuno al proprio livello. Per lasciare una qualche memoria di sé. A pochi o a tanti, per dieci giorni dalla morte o per dieci anni o per un secolo. Più è lunga la durata della memoria più ci si allunga la vita nel senso che siamo ricordati. Omero ancora lo leggiamo nelle scuole e sono passati quasi tremila anni; Dante ne sono passati 800, Napoleone 200 e così (per noi italiani) Garibaldi.

Costoro avevano caratteristiche psicopatiche? Forse sì, qualcuno; quella che quasi tutti abbiamo è l’amore per sé. Se non sorpassa certi limiti e non deriva da un disturbo mentale, l’amore per sé è un presidio necessario della nostra vita se ben armonizzato con l’amore per gli altri che è un altro istinto innato nella specie socievole cui apparteniamo.

20 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/02/12/news/si-cerca-il-successo-per-non-morire-1.152778
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« Risposta #484 inserito:: Febbraio 24, 2014, 07:05:52 pm »

Recondita armonia di bellezze diverse

di EUGENIO SCALFARI
   
LA SCORSA settimana ero abbastanza triste per il modo inconsueto e molto crudele col quale la direzione del Pd aveva sfiduciato Enrico Letta. Mi venne in mente la canzone jazz americana "Stormy Weather", tempi bui, e la citai nel mio articolo domenicale e nel titolo. Ma oggi è diverso. Oggi, sia pure con qualche cautela, dobbiamo festeggiare l'ascesa al potere di Matteo Renzi, il rilancio in programma della crescita economica, dell'occupazione, dei giovani, il compimento della riforma elettorale, la diminuzione delle tasse, la riforma della pubblica amministrazione, la semplificazione cioè la modernizzazione dello Stato e il prolungamento della vita del governo fino al termine naturale della legislatura nell'aprile del 2018.

È lungo quest'elenco, anche solo a snocciolarne i titoli. Ricordo che Letta fu contento perché per esporre il suo programma, che la direzione del Pd neppure esaminò, aveva scritto 54 pagine. Ma qui, per illustrare quello di Renzi, ce ne vorrebbero almeno 500. Per ora non ci sono, anzi non ce n'è neppure mezza. C'è soltanto l'elenco dei titoli che abbiamo sopra elencato, c'è un doppio criterio che Renzi ha ribadito più volte venerdì nelle sue dichiarazioni successive alla nomina ricevuta dal Capo dello Stato e cioè: concretezza e trasparenza. E c'è anche la tempistica: sei mesi per la legge elettorale, che invece fino all'altro ieri sembrava doversi collocare entro questo mese ed è stata, giustamente, agganciata alla riforma del Senato che richiede una legge costituzionale e una maggioranza comprensiva di Berlusconi.

Gli altri obiettivi invece saranno "avviati" e in buona parte effettuati entro quattro mesi, uno al mese cominciando dal lavoro e dall'occupazione. No, non state sognando, la tempistica indicata da Renzi è proprio questa: un mese per risolvere quei problemi (quasi secolari). Quattro problemi, quattro mesi e il pranzo è servito. E noi dovremmo festeggiare? Un governo di otto donne e otto uomini, il premier più giovane della storia italiana a partire dal 1861. Un altro esempio di grande gioventù per la presa del potere (ancora molto più giovane di lui) fu quello di Lorenzo il Magnifico, anche lui di Firenze, ma erano altri tempi. Anche Napoleone arrivò al vertice più o meno sui trent'anni e non parliamo di Alessandro Magno. Ma erano appunto tempi diversi.

Tra i moderni in Italia, abbiamo un campione; perciò in alto i calici. Personalmente purtroppo ho il divieto medico di bere alcol perciò - il presidente del Consiglio mi scuserà - brinderò alla salute sua e del governo da lui formato con una Coca light. Spero ne sarà ugualmente contento.

Ci sono però in più due punti che vorrei precisare prima di analizzare la situazione attuale del nostro Paese. E sono questi. Il direttore della Stampa, Mario Calabresi, riscontra nel nuovo governo e in Renzi che lo presiede una leggerezza che gli ricorda il Calvino delle Lezioni americane e ne trae ottimi auspici. Non so quanti siano i membri del nuovo governo che abbiano letto le Lezioni americane. L'amico Calabresi, che formula quell'auspicio, certamente le conosce ma ha dimenticato di dire che il personaggio che Calvino indica come la personificazione della leggerezza che lui intende era - pensate un po' - Guido Cavalcanti. Francamente non pare che Renzi abbia qualche affinità con Cavalcanti. Ezio Mauro nel suo editoriale di ieri giudica Renzi un po' bullo. È chiaro che con Cavalcanti non ha nulla a che fare.

La seconda affermazione si rifà a una dichiarazione del neo-premier subito dopo l'investitura ricevuta al Quirinale. Ha detto testualmente: "Il mio governo è il più di sinistra degli ultimi 30 anni". Dice così ma non sembrerebbe. Personalmente, se dovessi dare un attributo, direi che è un governo pop. Forse la sinistra è diventata pop. Non so se sia un progresso. Speriamo di sì.

***

Una novità c'è sicuramente: questo non è più un governo del presidente della Repubblica, come accadde con Monti e con Letta. Questo nel bene e nel male è il governo di Renzi e del suo partito. Napolitano l'ha nominato e non poteva far altro visto che il partito di Renzi ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato dove la maggioranza assoluta viene raggiunta con i voti di Alfano e dei pochi senatori centristi.

Ma c'è un'altra maggioranza della medesima importanza sulla quale né la legge elettorale né le riforme costituzionali potrebbero esser fatte ed è quella stipulata, con "piena sintonia", con Forza Italia di Silvio Berlusconi, il quale ha manifestato ampia adesione all'incarico che Renzi ha ricevuto.

Al punto che ieri il Cavaliere avrebbe espresso apprezzamento per la nomina della Guidi allo Sviluppo economico e comunicazioni, vantandosi di avere un ministro pur stando all'opposizione. C'è un problema per il premier e non è da poco. Anche perché tutto è confermato da una cena avvenuta lunedì a casa di Berlusconi, con la Guidi e suo padre tra gli invitati.

Ci sono dunque due maggioranze che per ora sostengono il nuovo governo, le quali però - è bene averlo presente - non vanno d'accordo tra loro perché Berlusconi, se solo potesse, vorrebbe distruggere Alfano e reciprocamente. Renzi e il suo partito sono perciò il perno che usa a proprio beneficio questa dicotomia. Durerà fino al 2018 o si sfascerà prima? Molto dipenderà anche dall'esito delle elezioni europee ma soprattutto dai risultati che nel frattempo il nuovo governo otterrà in materia economica.

Napolitano non aveva altre soluzioni, ma alcuni elementi della situazione dipendono pur sempre da lui. Per esempio lo scioglimento delle Camere; per esempio l'approvazione preventiva dei decreti e la promulgazione delle leggi o il loro rinvio al Parlamento nei casi di dubbia costituzionalità. Insomma ha ripreso un ruolo non più determinato dall'emergenza, anche se l'emergenza c'è ancora ma con caratteristiche diverse.

Con intelligenza e coraggio del quale è giusto dargli atto, Renzi ha detto che i rischi d'un insuccesso ci sono ma bisognava correrli ed ha aggiunto che lui e il suo partito ci mettono la faccia; se sbaglieranno pagheranno. Si è però scordato di aggiungere che se sbaglieranno pagherà anche il Paese e sarà esattamente il Paese a pagare il prezzo più alto.

In quel deprecabile caso, che dobbiamo tutti cercar di scongiurare, ciascuno operando responsabilmente nel campo che gli è proprio, quali sono le alternative? Solo il populismo dilagante?

Quello è certamente il pericolo da scongiurare, ma ce n'è un altro che a mio avviso è più concreto: se Renzi dovesse fallire noi saremo commissariati dall'Europa con tutte le conseguenze del caso; ma avremo anche contribuito col nostro fallimento a danneggiare fortemente l'Europa nella sua evoluzione. Il nostro continente diventerebbe irrilevante nell'economia globale con tutte le conseguenze del caso. La faccia di Renzi è a rischio e questo è il suo coraggio, ma se solo fosse questo ce ne potremmo tranquillamente infischiare. Il rischio è in realtà terribilmente più elevato ed è opportuno esserne consapevoli.

***

C'è un punto che resta assolutamente oscuro: fino a cinque o sei giorni prima del pronunciamento della direzione del Pd che abbatté Letta e votò per il nuovo governo, Renzi aveva confermato che mai e poi mai avrebbe messo fuorigioco il governo esistente, almeno fino alla conclusione del semestre italiano di presidenza europea. Non sosteneva che quel semestre fosse di grande importanza (anche Berlusconi la pensa così, ma Renzi ora su questo punto ha completamente cambiato idea) ma lui comunque non sarebbe intervenuto e si sarebbe unicamente occupato del partito, cosa che era di grande importanza e ci aveva preso gusto a portarla avanti.

Proprio in quei giorni, cioè un paio di settimane fa, a me capitò di partecipare nella trasmissione di Lilli Gruber ad un dibatto con Delrio che non conoscevo ma sapevo bene chi fosse.

Delrio, su domanda della Gruber e anche mia, ribadì che Renzi non pensava affatto a sostituire Letta e che lui era dello stesso parere e l'aveva consigliato a mantener ferma quella posizione. Ricordo che Delrio era ministro del governo Letta.

Accadde invece che a pochi giorni di distanza anche Delrio abbia cambiato radicalmente opinione e sia stato tra i più fidati dei luogotenenti del leader a spingerlo verso la presa del potere a Palazzo Chigi. In quei giorni Delrio era in predicato per assumere la guida dell'Economia, del quale non risulta abbia particolare esperienza.

Come si spiega questo improvviso cambiamento, talmente sorprendente che, quando avvenne e ancora fino a venerdì scorso, Renzi non aveva affatto formato la squadra di governo e si aggirava tra i nomi di Montezemolo, Baricco, Farinetti, Guerra, Boeri, Moretti ed altri che alla fine sono risultati indisponibili? Che cosa ha spinto Renzi e Delrio a "metter la faccia" loro e quella dell'intero Paese?

Io non so dare alcuna risposta e neanche Renzi la dà. Dice che la situazione era divenuta insostenibile. Perché? E perché non se n'era accorto nei quattro o cinque giorni prima della direzione del partito? Mi sorge un dubbio: forse aveva capito che la situazione congiunturale stava migliorando e che a metà agosto si sarebbe consolidata la fine della recessione con i primi effetti positivi e con il relativo successo di Letta. Questa prospettiva avrebbe messo lui in una posizione secondaria, perciò non c'era tempo da perdere.

Capisco che questa ipotesi è maliziosa, ma altre non ne vedo e voglio ricordare che Renzi aveva riferito anche a Napolitano le sue intenzioni di non insidiare il governo esistente. Questo rinnova la domanda: perché il neo-premier ha cambiato idea?

***

Il problema che adesso si pone (e dovrebbe esser risolto entro un mese stando alla tempistica renziana) è, per dirla in breve, un abbattimento sostanziale del cuneo fiscale o di qualche provvedimento che gli somigli, la ripresa dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, la ripresa degli investimenti; il tutto insieme ad una diminuzione del debito pubblico e della pressione fiscale sulle fasce povere della popolazione.

Sono gli stessi temi reclamati da Squinzi e dalla Confindustria i quali, però, alle domande rivoltegli, non hanno mai indicato le coperture che rispettino il limite del 3 per cento del deficit, ricordato da Visco a Renzi nel colloquio di tre giorni fa come asticella invalicabile.

Da calcoli fatti da attendibili osservatori le cifre necessarie oscillano tra i 50 e i 70 miliardi. Ma quand'anche ci si limitasse allo strettissimo necessario facendo passare degli straccetti di carne per bistecche alla fiorentina, ce ne vorrebbero come minimo 40. Da prendere attraverso la spending review. Tagliando gran parte delle inutili sovvenzioni ad imprese del tutto improduttive se ne tirano fuori una trentina e un'altra decina tassando le rendite finanziare. Ma per realizzarle se ne parla alla fine dell'anno perché la bacchetta magica Renzi e Delrio non ce l'hanno.

Avevano detto un mese. Ben che vada ce ne vorranno otto di mesi anche se si aggiungesse - come pure sarebbe necessario - un'imposta edilizia con andamento decisamente progressivo per far fronte agli esodati e ai lavorati delle imprese messe a secco dai tagli della spending review. Il compito spetta al ministro del Tesoro Padoan, il solo ministro che a bocca storta Renzi ha dovuto accettare dal fermo suggerimento di Napolitano.

Purtroppo lo stormy weather permane. Al più ci si può consolare con la "Recondita armonia di bellezze diverse" cantata da Mario, il protagonista della Tosca, come apertura dell'opera. Era molto ardito quel fantasioso pittore che amava la bruna, sognava la bionda e intanto cospirava con i repubblicani per buttare giù il Papa. Alla fine fu fucilato e gettato nel Tevere. Segno che troppe cose insieme non si possono fare.

© Riproduzione riservata 23 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/23/news/recondita_armonia_di_bellezze_diverse-79396502/?ref=HRER2-1
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« Risposta #485 inserito:: Marzo 02, 2014, 11:29:07 am »

Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia

di EUGENIO SCALFARI
02 marzo 2014
   
CHI vuol essere lieto, sia / di doman non c'è certezza. Così poetava il Magnifico Lorenzo che a mezzo millennio di distanza Matteo Renzi ha certamente eletto a proprio modello e questi suoi versi ad insegna della sua operazione politica.

Purtroppo - almeno per quanto ne sappiamo - il neo-presidente del Consiglio non sa poetare, ma la sua eloquenza comiziesca è tra le migliori che si siano sentite negli anni dell'Italia repubblicana. Mi viene in mente Pietro Nenni quando ancora esaltava nelle piazze la Resistenza e la vittoria che la classe proletaria doveva realizzare. Mi viene in mente Vanoni e la forza del suo ragionare e Luciano Lama ed Enrico Berlinguer la cui retorica dell'anti-retorica affascinava milioni di persone. Ma mi viene in mente anche Benito Mussolini che, in materia di comizi di Stato, non fu certo secondo a nessuno.

Renzi non somiglia a nessuno di loro, la sua è un'eloquenza casual di notevole efficacia. Racconta la sua vita, le sue speranze, il suo desiderio di successo. Racconta d'un paese che potrebbe esser felice, di giovani creativi che possono battere i loro coetanei di tutto il mondo sol che lo vogliano e li chiama a mettersi all'opera insieme a lui per riavviare la macchina che si è fermata e che solo a spinte può far ripartire il motore bloccato. Con lui naturalmente al volante.

Ma poi gli viene il dubbio che la spinta non basti e che il motore non sia bloccato ma fuso e quindi bisogna cambiarlo.

Se è così la faccenda si complica perché allora occorre modernizzare lo Stato, la pubblica amministrazione, il fisco, gli ammortizzatori sociali. Ci vogliono intelligenza, costanza, risorse. Ci vuole continuità e insieme discontinuità. Ci vuole una squadra, un partito consapevole, una classe dirigente che abbia coraggio e preparazione, nuova, giovane, ma preparata. Ci vuole il partito dei sindaci e il sindaco d'Italia. E risorse. E riforme. E tempo.

Il programma è dunque cambiato: dalla spinta per riavviare il motore in quattro mesi ad un'operazione che impegna il Paese per un'intera generazione.

Va bene uno come Renzi? O forse era meglio Enrico Letta? O qualcun altro che non conosciamo?

Certo non Berlusconi, cui il peggio di Renzi somiglia (ognuno di noi ha il peggio e il meglio dentro di sé e Renzi non fa certo eccezione); certo non Grillo che comincia a perder pezzi come era prevedibile.

Questo comunque è il tema che ci soverchia. Chi vuole esser lieto sia, di doman non c'è certezza. Lorenzo morì giovane, a 43 anni, dopo esser scampato ai pugnali che uccisero suo fratello. Renzi, per sua e nostra fortuna, questi rischi non li corre, ma ne corre altri e il punto che deve esser chiaro a tutti è questo: se non ce la fa, se è incapace di far ripartire il motore, se non ne ha la forza, la capacità e la preparazione, se ha affrontato il compito solo per aver successo, allora lui perderà la faccia ma tutti noi e cioè il Paese finiremo nel baratro, saremo un Paese politicamente fallito ed economicamente commissariato e i sacrifici che abbiamo fin qui sopportato saranno giuggiole di fronte a quelli che ci aspetteranno. Perciò la vigilanza delle persone responsabili non deve mai venire meno.

***

Alcuni obiettivi economici cominciano a delinearsi ed anche qualche indicazione di copertura dopo la nebbia che tuttora circonda il "Jobs Act" (dove la parola job che in italiano significa lavoro è invece declinata al plurale).

Ieri mattina tuttavia è stata diffusa dal palazzo del governo una notizia "eccitante": tutti i disoccupati avranno un salario minimo garantito indipendentemente dalle loro condizioni economiche. Il governo nella persona del ministro del Lavoro non ha avuto ancora il tempo di esaminare il progetto e tantomeno l'ha avuto il Consiglio dei ministri. Tutto è ancora nelle mani di Taddei che è il capo del settore economico del Pd e parla direttamente con Renzi.

Da quanto siamo in grado di sapere finora l'ammontare del salario garantito sarebbe di circa mille euro mensili (al lordo o al netto di tasse e contributi?). Il costo totale sarebbe di 1,6 miliardi. Ma 7,2 miliardi vengono già da tempo destinati a questo compito. Il totale, cioè 7,2 più 1,6, sarebbe poco meno di 9 miliardi, e il nuovo progetto potrebbe essere finanziato pescando nei 2,5 miliardi della Cig in deroga. Sicché il nuovo stanziamento di 1,6 miliardi produrrebbe solo uno spostamento dall'esubero della Cig in deroga al sussidio di disoccupazione per categorie rimaste finora scoperte, con un'operazione a somma zero.

Fin qui la notizia che in questi termini è una vera e propria matassa poco comprensibile dalla quale emerge che il gran fracasso del governo e dei media è fondato non già sullo splendido inizio della scossa per riavviare il rilancio dell'equità e del lavoro, bensì sul nulla.

L'obiettivo principale è comunque il taglio del cuneo fiscale, indicato in 10 miliardi. Anche Letta l'aveva messo e fatto approvare dal Parlamento nella legge di stabilità, ma per 6 miliardi affinché non vi fossero ripercussioni sul limite del 3 per cento del deficit, imposto dalle regole europee e ribadito dal governatore Visco nel suo recente incontro con il nuovo presidente del Consiglio appena nominato.

Oltre al cuneo fiscale un altro obiettivo è il riassetto degli edifici scolastici affidato all'intervento dello Stato per un totale di 2 miliardi. Assistenza alle piccole e medie imprese (ma l'ammontare non è definito), aiuti agli esodati, ai disoccupati, ai precari (ma anche per queste voci manca l'ammontare). Infine il pagamento "to-ta-le" (scandito così) dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, effettuato con fondi della Cassa depositi e prestiti. La Cassa è pronta a far fronte a quest'impegno per un ammontare di 30 miliardi, i debiti to-ta-li sono stimati un'ottantina, ma questa cifra va verificata e il ministro dell'Economia, Padoan, si accinge a farlo sperando che siano di meno. Corrado Passera, ai tempi del governo Monti che sembrano ormai preistorici, ne pagò più di 20. Il ricorso alla Cassa è previsto anche nella legge di stabilità, ma deve esser chiaro un punto: ricorrendo alla Cassa lo Stato non estingue il suo debito ma cambia soltanto il nome del creditore: invece di aziende c'è una banca. L'aspetto positivo dell'operazione è comunque un'iniezione di liquidità nel sistema.

Il complesso di questi interventi si aggira sui 50-60 miliardi. Se si defalcano i 30 della Cdp, ne restano da coprire 20-30. Il commissario alla spending review Cottarelli prevede un taglio immediato di 3 miliardi; per gli altri ci vogliono ancora molti mesi. La lotta contro l'evasione è già stata contabilizzata da Saccomanni, forse potrà dare due o tre miliardi in più; cinque miliardi vengono dalla diminuzione dello spread. Il totale di queste cifre è di circa 10 miliardi. Ne restano scoperti dai 10 ai 20. Ricordiamo che in questi conteggi almeno la metà è stata prevista da Letta e già contabilizzata nella legge di stabilità, perciò in tutto questo non c'è alcuna scossa particolare ma soltanto una continuità con più grinta.

A produrre una scossa sarebbe semmai un'imposta edilizia di natura progressiva, ma qui bisognerebbe superare l'opposizione sia di Berlusconi sia di Alfano. Quanto all'imposta sulle rendite è opportuno non parlare più dei titoli di Stato, a cominciare dai Bot, che già sono ampiamente tassati e non si debbono più oltre toccare per non turbare un importantissimo mercato del risparmio dove ogni anno il Tesoro deve prelevare 400 miliardi per rifinanziare i debiti in scadenza.

Questo è quanto. Citando il poeta dirò: "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie". Tutto dipenderà da Draghi, dalla Merkel, dall'Europa.

Alcuni economisti ed esperti dei mercati e del rapporto del dare e dell'avere tra Italia ed Europa suggeriscono un'altra via. In modi diversi ma analoghi la indicano Roberto Perotti sul Sole24 Ore di giovedì scorso ed Enrico Marro sul Corriere della Sera dello stesso giorno. La via è quella di convincere l'Europa a consentire al governo italiano di sforare il limite del 3 per cento e di scambiare il contributo che l'Italia versa al bilancio della Ue con le somme che la Ue versa all'Italia per aiutare le regioni economicamente depresse del nostro Paese che sono quelle del profondo Sud.

La stessa idea l'aveva anche Letta che ne aveva già discusso con Draghi, Barroso e con i governi dell'area mediterranea (Francia e Spagna in particolare) con l'Olanda e la Germania trovandoli abbastanza disponibili. Il punto di svolta si sarebbe verificato nel corso del semestre di presidenza italiana.

È una strada percorribile anche da Renzi? Noi ce lo auguriamo. Questa sì, sarebbe una scossa decisiva per il rilancio economico e sociale del nostro Paese combinando insieme continuità ed energia politica.

***

Ma a proposito di politica c'è da segnalare una novità: il Movimento 5 stelle sta mostrando segni crescenti di sfaldamento parlamentare, sia alla Camera sia al Senato. Sta prendendo forma un gruppo di dissidenti che darà probabilmente luogo ad una nuova formazione politica con intenti simili a quella di Vendola e di Civati. Questa novità modifica in prospettiva i potenziali orientamenti del Pd e della maggioranza parlamentare che sostiene Renzi.

Fino ad ora il partito renziano disponeva di due distinte maggioranze, non necessariamente alternative: quella con Alfano per governare day by day; quella con Berlusconi (ed anche con Alfano) per le riforme costituzionali del Senato e del Titolo V e la legge elettorale. Ma si profila ora una terza maggioranza, alternativa alle prime due: quella con Vendola e con la dissidenza grillina che all'interno del Pd interessa Civati, l'ala bersaniana ed anche D'Alema e Cuperlo. Sposterebbe il Pd verso una posizione di sinistra-centro anziché di centro-sinistra e favorirebbe il recupero elettorale dei tanti simpatizzanti del Pd che hanno però da tempo abbandonato quel partito scegliendo Grillo o l'astensione dal voto.

Renzi resterebbe alla guida del governo ma la natura del partito registrerebbe un mutamento di notevole rilievo. Se quest'ipotesi si verificasse, la sinistra-centro potrebbe essere bilanciata da una posizione moderata centrista, del tipo Tabacci-Casini-Alfano. Renzi potrebbe essere il perno di quest'ampio schieramento che avrebbe una durata medio-lunga fino al 2018 e anche oltre.

Il sindaco di Bari che è estroso nel linguaggio chiama Renzi col nome di Matteo Bonaparte e, sul Foglio di venerdì scorso scandisce "Na-po-leo-ne". Estroso e per me alquanto preoccupante. Napoleone fu ai suoi tempi un genio militare. Politicamente non ne sapeva granché e si serviva di Talleyrand nel bene e nel male. Non mi pare che Delrio e neppure Carrai abbiano la taglia del duca di Périgord.

Concludo ripetendo: chi vuole essere lieto sia, di doman non c'è certezza.

© Riproduzione riservata 02 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/02/news/quant_bella_giovinezza_che_si_fugge_tuttavia-79995401/?ref=HRER3-1
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« Risposta #486 inserito:: Marzo 07, 2014, 09:01:18 am »

Ma per laici e atei il problema resta: chi ha creato il male?

Alla domanda rispondono, partendo da posizioni contrapposte, il capo della comunità giudaica di Roma e il fondatore di "Repubblica" / L'intervento di Riccardo Di Segni

di EUGENIO SCALFARI 
   
Ringrazio Riccardo Di Segni della gentile citazione che fa dei miei numerosi articoli su papa Francesco e il dialogo che ho avuto con il Pontefice nel settembre scorso. Ma lo ringrazio soprattutto per il contributo che fornisce nella sua lettera qui pubblicata. Come sappiamo e come l'articolo del rabbino di Roma conferma, anche l'ebraismo ha avuto una sua evoluzione col trascorrere del tempo; le religioni si adeguano ai mutamenti delle società nelle quali sono presenti e tanto più l'ha avuta quel "popolo eletto" che fu all'origine del monoteismo e che, disperdendosi nella diaspora nel primo secolo dell'era cristiana, portò le sue scritture e la sua visione religiosa in tutta l'Asia minore, in tutta l'Africa settentrionale, in tutta l'Europa dall'Est all'Ovest e infine, più recentemente, nel Nord America. Dopo infinite persecuzioni, il genocidio della Shoah provocò l'orrore, la solidarietà e il rispetto del mondo intero e rimarrà sempre nella memoria nostra e dei nostri figli.

Aggiungo a queste considerazioni una notizia personale che forse potrà interessare Di Segni: ho appreso solo da qualche anno d'avere dentro di me una derivazione ebraica da parte materna; la famiglia di mia madre si chiamava e si chiama Fanuele, ebrei sefarditi stabilitisi in Italia da alcuni secoli, molti dei quali convertiti nel Settecento alla religione cattolica e alcuni di loro fervidamente credenti come mia madre e mia nonna. Ciò detto, il rabbino di Roma pone alcune questioni che meritano una risposta. Anzitutto pone una domanda a me personalmente: io mi dichiaro e sono non credente, ma - dice lui - anche il non credente crede in qualche cosa. In che cosa credo io? Rispondo brevemente così, come risposi anche a papa Francesco nel nostro incontro stampato poi in un libro a doppia firma: non credo che esista un Aldilà dove le anime degli individui umani proseguono in qualche modo a vivere; non credo in nessuna divinità; non credo che le nostre persone siano composte da un corpo mortale e da un'essenza immortale chiamata anima; non credo che il nostro transito terreno abbia un "senso ultimo". Credo che abbia un senso nell'Aldiqua se l'individuo in questione ritiene di darselo, il che molto spesso non avviene. E questo è tutto circa la mia non credenza. Dovrei dilungarmi molto di più sugli aspetti filosofici e anche scientifici della mia non credenza; ne ho parlato ampiamente in alcuni miei libri, un articolo di giornale non è la sede adatta alla bisogna.

Vengo ora ad alcune osservazioni del mio interlocutore su papa Francesco e sulla Chiesa cattolica in rapporto alla religione ebraica. Soprattutto sul tema dell'amore, della giustizia, della misericordia, del peccato.

Storicamente esistono tre religioni monoteistiche che in ordine alla loro apparizione vedono l'ebraismo al primo posto, il cristianesimo al secondo e l'islamismo al terzo. Tutte e tre credono in un solo Dio il quale, per tutte e tre, non ha un nome pronunciabile e infatti non deve essere nominato. Dio è Dio e basta. Creò l'Universo e tutte le cose esistenti.

Le "sacre scritture" che ciascuno dei tre monoteismi ha prodotto come racconti ed anche come leggi alle quali obbedire e regole alle quali adeguare i propri comportamenti, attribuiscono a Dio una serie di potenzialità che non variano molto tra l'una e l'altra anche se si sono notevolmente modificate attraverso i secoli. Il Dio monoteista è amato, rispettato, pregato e i suoi fedeli lo considerano eterno, onnipotente, onnisciente, onnipresente. Credono anche che sia giusto, misericordioso, severo con i malvagi, amoroso con i buoni. Chi non rispetta le leggi divine e le regole provenienti dalle "scritture" commette peccato, ma se e quando si pente sarà perdonato. Questa è l'essenza dei tre monoteismi.

Come non credente osservo: le potenzialità del Dio monoteista non sono possedute dagli uomini ma sono da tutti desiderate: noi vorremmo essere ardentemente eterni, onnipotenti, onniscienti e onnipresenti. Non lo siamo e perciò attribuiamo a Dio ciò che vorremmo per noi.

Gli attribuiamo sentimenti tipicamente nostri: amori, giustizia, ira, perdono, misericordia. Il male no, Dio è soltanto bene. Il male tuttavia esiste. Chi l'ha creato? La risposta a questa domanda è assai incerta da parte dei tre monoteismi, ma se Dio ha creato tutto l'esistente e se il male esiste, la logica vorrebbe che Dio abbia creato anche il male. Oppure chi?

Da questo brevissimo riassunto per me risulta evidente che il Dio monoteista è profondamente antropomorfo, cioè creato dalla fantasia degli uomini. Ma questa è appunto una delle cause della non credenza.

Infine: i cattolici hanno riconosciuto in tempo recente che gli ebrei non sono stati deicidi, non sono loro ad aver condannato Gesù Cristo. La Chiesa si è pentita di averlo affermato ed anche di avere perseguitato gli ebrei. Questo è certamente un progresso: i papi più recenti e soprattutto Giovanni XXIII, Paolo VI, Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio, hanno dichiarato che gli ebrei sono i nostri "fratelli maggiori" e il loro Dio è anche il nostro. Papa Bergoglio ha addirittura detto nel nostro dialogo sopra richiamato che "Dio non è cattolico perché è universale".

Questa presa di coscienza è certamente encomiabile ma la religione ebraica non contempla il Dio trinitario e tantomeno quella islamica. Quello cristiano è un Dio uno e trino e Gesù di Nazareth è un'articolazione chiamata Figlio. Ma ebrei e musulmani non contemplano alcun Figlio, tantomeno un Figlio incarnato. Gli ebrei credono che verrà un Messia, messaggero del Dio unico, che annuncerà l'arrivo imminente del Regno dei giusti. Anche i cristiani in una prima fase della predicazione di Gesù, pensarono che il loro maestro fosse il Messia ma gli ebrei il Messia lo aspettano ancora e quanto a Gesù di Nazareth non sono neppure certi che sia mai esistito. Non ne hanno la prova né l'hanno mai cercata. In effetti quella prova non c'è se non nei Vangeli.

Da non credente tutto ciò non mi riguarda, ma mi riguardano invece i valori che le religioni contengono, mi riguarda la funzione sociale delle religioni, la loro influenza sui comportamenti e sui sentimenti delle persone. Perciò vedo in modo molto positivo l'azione innovatrice di papa Francesco e il riavvicinamento tra le religioni quando rinunciano all'immagine di un Dio che sia bandiera di superiorità, di fondamentalismo e perfino di guerra come in passato è spesso avvenuto e come tuttora avviene nei fanatici che praticano il terrorismo in nome di un Dio crudele. I terroristi lo hanno trasformato in un demonio che porta stragi e rovine.

© Riproduzione riservata 07 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/07/news/scalfari_a_di_segni-80405480/

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« Risposta #487 inserito:: Marzo 07, 2014, 09:09:39 am »

Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Iperdemocrazia fa rima con utopia
È illusorio pensare che tutto il popolo possa partecipare al processo decisionale. Per far funzionare il sistema ci vogliono una classe dirigente e un libero dibattito
   
Postdemocrazia, iperdemocrazia, antidemocrazia: si discute molto tra gli studiosi, storici, politologi, sociologi, filosofi e perfino religiosi, di questo problema che comporta anche due questioni accessorie ma tutt’altro che marginali: il significato attuale dei due concetti di destra e di sinistra e il ruolo che le nuove tecnologie del Web esercitano sulla discussione principale.

Sulla “Repubblica” di domenica 23 scorso questi temi sono stati affrontati da tre autori molto diversi tra loro: Matteo Renzi in un’introduzione alla ristampa di un libro di Norberto Bobbio che tratta della questione destra sinistra; secondo Renzi quella distinzione ha assunto oggi significati totalmente diversi e sarebbe più appropriato sostituirla con la dialettica tra conservazione e rinnovamento. Gli altri studiosi sono Dominique Schnapper (intervistata da Anais Ginori) sull’iperdemocrazia e Roberto Esposito sul medesimo tema e sul rischio a cui può esporre l’esistenza stessa del sistema. Ovviamente gli autori di riferimento di questi interventi sono Montesquieu e Tocqueville.

Pagine molto interessanti e dense di implicazioni che inducono anche me a dedicare qualche riflessione ai due testi della Schnapper e di Esposito. Su quello di Renzi c’è poco da dire salvo che appena qualche giorno fa aveva detto che il suo governo è il più di sinistra degli ultimi trent’anni mentre oggi ci comunica che secondo lui la parola “sinistra” ha perso ogni significato e si deve parlare di cambiamento il che vuol dire, tanto per fare un paio di esempi, che Giulio Cesare e Napoleone furono - per come intende la questione Renzi - due uomini di sinistra perché cambiarono il sistema senatoriale esistente; ma così pure fu di sinistra Silla nel senso opposto perché anche lui decapitò (da destra) il sistema senatoriale vigente.

Ma veniamo all’iperdemocrazia, ai rischi che comporta e ai nuovi problemi che può suscitare. Anzitutto che cosa si intende per iperdemocrazia? Si intende un aumento dei diritti politici individuali. L’attenuarsi o addirittura la scomparsa della democrazia rappresentativa e un altrettanto aumento della democrazia diretta di tipo referendario. Nell’epoca classica della democrazia ateniese l’istituto referendario era ignoto e la democrazia diretta veniva esercitata dall’ “agorà”, quella che, anche nei Comuni medievali che nacquero soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, si chiamava “la piazza”.

Oggi i modelli dell’Atene del IV secolo a.C. e della Firenze dal Trecento al Cinquecento sono sostituiti dal referendum che prende il posto dei Parlamenti rappresentativi che operano, legiferano, controllano la pubblica amministrazione nell’ampio quadro d’una legge costituzionale, presidio dei valori che guidano i cittadini che l’hanno votata direttamente. La premessa della democrazia rappresentativa e costituzionale si fonda sull’esistenza di tre poteri autonomi l’uno dall’altro, che nel loro insieme compongono lo Stato e sono il potere legislativo di cui è depositario il Parlamento, il potere esecutivo di cui è titolare il governo e quello giudiziario affidato alla magistratura.

L'esistenza e la reciproca autonomia dei poteri e lo Stato che ne deriva costituiscono la premessa della democrazia rappresentativa ma in teoria potrebbero anche sussistere in una democrazia diretta o iperdemocrazia che dir si voglia. Questo è lo schema entro il quale si svolgono gli approfondimenti della Schnapper e di Esposito il quale ultimo segnala il pericolo che una democrazia diretta si trasformi rapidamente in una democrazia plebiscitaria con le relative malformazioni che la fanno precipitare nella dittatura della maggioranza o della minoranza basata su lobbies e corporazioni.

Osservando i percorsi storici e utilizzando la mia personale esperienza che è stata abbastanza lunga ed anche fitta di incontri e situazioni molteplici procuratimi dal mestiere che faccio, sono arrivato ad una conclusione alquanto diversa da quella degli studiosi fin qui citati, salvo il riconoscimento che tutti ci accomuna sull’importanza del quadro delineato da Montesquieu sulla divisione e l’autonomia dei poteri che compongono lo Stato di diritto, senza il quale parlare di democrazia diventa semplicemente un “nonsense”.

Io penso che la sola forma effettiva di democrazia altro non sia che l’esistenza d’una classe dirigente all’interno della quale il dibattito sia costante e libero, dando luogo a maggioranze governanti e a minoranze in grado di esercitare controllo sulla conformità alle leggi del loro operato. Minoranze che possono liberamente rivolgersi alla pubblica opinione la quale fa parte anch’essa della classe dirigente, composta come è da cittadini responsabili ai quali sta a cuore l’interesse comune.

Questa è la classe dirigente, questa è la “polis” che numericamente rappresenta una parte consistente della popolazione. Un’altra parte non sente queste sollecitazioni e non ha una visione chiara né del passato né del futuro. È sensibile soltanto alle proprie condizioni individuali, familiari, sociali, vota quando ne ha voglia o si astiene dal voto sperando che questo sia un segnale o addirittura un’assenza minacciosa che serva a migliorare le proprie condizioni e soddisfare meglio i propri bisogni. Non è infatti un caso che nelle democrazie più mature circa metà degli aventi diritto al voto non lo esercitano.

Storicamente è sempre stato così. L’ipotesi che vi sia un sistema dove la grande maggioranza o addirittura la totalità del popolo partecipi alle scelte che l’interesse generale suggerisce di effettuare non è una speranza ma un’utopia. Può servire a rafforzare quella parte della cittadinanza civilmente impegnata, ma non più di questo ed è già molto.

05 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/02/26/news/iperdemocrazia-fa-rima-con-utopia-1.155082
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« Risposta #488 inserito:: Marzo 10, 2014, 05:42:11 pm »

Caro Matteo chi fa da sé non fa per tre

di EUGENIO SCALFARI
09 marzo 2014
   
La prima comparsa di Matteo Renzi a Bruxelles è stata funestata da due donne: la portavoce del commissario europeo agli affari regionali ha avvertito il giovane presidente del Consiglio che i fondi destinati dalla Ue all'Italia per finanziare le regioni economicamente depresse non possono essere utilizzati per l'abbassamento del cuneo fiscale o per altre finalità diverse da quelle istituzionalmente previste. Quanto ad Angela Merkel, la Cancelliera l'ha buttata sul calcio come lo stesso Renzi ha raccontato al suo ritorno, parlando del calciatore Gomez che provenendo da una squadra tedesca è stato recentemente assunto dalla Fiorentina. E ha detto: "È un giocatore molto bravo, ma atleticamente fragile; bisogna stare molto attenti alla sua fragilità". Gomez infatti ha giocato benissimo sul campo della Fiorentina ma poi ha avuto un incidente al ginocchio, è stato operato, è rimasto in convalescenza per cinque mesi ed ora è tornato ma ancora in panchina perché deve completare l'allenamento per tornare in campo. "Ha ragione la Merkel - ha commentato Renzi - io non me ne ero accorto" ma forse non si è accorto neppure che la Merkel parlava di Gomez ma pensava a lui. Ah, queste donne!

In Italia la macchina della legge elettorale ancora è ferma. Alla Camera tra qualche giorno sarà approvata con pochi e piccoli emendamenti accettati dalla "triplice" Renzi-Alfano-Berlusconi. Ma al Senato la battaglia sarà più dura per le quote rosa ed anche per altre modifiche volute da una notevole dissidenza interna al Pd oltreché da tutti i gruppi di opposizione, in particolare sulle soglie e sulle preferenze. Il rischio che gli emendamenti passino nonostante la contrarietà della "triplice" esiste e potrebbe mettere a rischio il governo Renzi-Gomez. Speriamo bene ma il rischio c'è e non è da poco.

Il centro del problema Italia tuttavia non è questo ma riguarda l'economia. Le notizie che arrivano non sono impreviste ma neppure consolanti. Sembra che gli interventi fattibili siano già stati avviati e in gran parte già contabilizzati da Enrico Letta e dai suoi ministri a cominciare da Fabrizio Saccomanni. Renzi sta studiando qualche passo in più ma si è reso conto che non può trascurare i vincoli europei. A Bruxelles e a Berlino bisogna tentare la strada della convinzione ma non quella dei pugni sul tavolo.

Per saperne di più ho interrogato Letta, rientrato due giorni fa in Italia e da lui ho avuto la sua versione dei fatti e delle prospettive. Eccone il resoconto.

***

1. Il cuneo fiscale già figura nella legge di stabilità approvata dal Parlamento e prevede una riduzione di tre miliardi per il 2014 e di dieci miliardi per il 2015. La copertura proviene dalla "spending review" per l'anno in corso e di metà per l'anno successivo: l'altra metà dovrebbe esser fornita dal recupero dell'evasione fiscale. Saccomanni ritiene che la "spending review" possa dare di più, non meno di cinque miliardi quest'anno e forse sette nel successivo.

2. Il pagamento dei debiti dalla pubblica amministrazione alle imprese è già contabilizzato e i fondi già stanziati per 20 miliardi da erogare quest'anno. La copertura è fornita dalla Cassa depositi e prestiti che può agire subito e mobilitare altri fondi per i prossimi mesi.

3. La legge di stabilità ed altre leggi specifiche prevedono una serie di investimenti da parte di imprese pubbliche, a cominciare da Rete Imprese, dalla Fincantieri e da altre aziende. I fondi sono già stanziati e il totale supera i tre miliardi.

4. Il debito pubblico sarà ridotto attraverso la privatizzazione di "asset" patrimoniali, anche questi già previsti e contabilizzati con apposita legge approvata il 20 gennaio e già in via di esecuzione.

5. L'andamento dello "spread" fornirà dai tre ai quattro miliardi che Letta aveva previsto di utilizzare per le scuole e l'occupazione giovanile.

6. La Commissione europea è disponibile a fornire fondi per la crescita economica e per l'equità sociale per somme rilevanti, da destinare al nuovo sistema di ammortizzatori sociali e di investimenti pubblici e privati. L'obiettivo è di ridurre le imposte sul lavoro e ripristinare con norme semplificate il credito di imposta per la creazione di nuovi posti di lavoro.

7. Durante il semestre di presidenza europea spettante all'Italia era previsto un decisivo passo avanti dell'Unione bancaria e interventi della Bce che stimolassero le banche ad accrescere i loro prestiti alle imprese.

8. L'Italia avrebbe visto la diminuzione del deficit-Pil dall'attuale 2,6 al 2,3 con un miglioramento dell'avanzo delle partite correnti al 5 per cento al netto degli oneri del debito pubblico.

9. In quello stesso semestre e in piena intesa con la Bce, l'Europa avrebbe dovuto affrontare un tema di grandissima importanza e cioè un mutamento del tasso di cambio tra l'euro e il dollaro. Proprio in questi giorni quel tasso ha visto una ulteriore rivalutazione dell'euro che sfiora ormai 1,40 dollari per un euro, una situazione intollerabile per le esportazioni europee verso l'area del dollaro. L'ideale sarebbe un tasso di cambio attorno all'1,20 o addirittura all'1,10 che rilanciando massicciamente le esportazioni europee ed italiane provocherebbe un apprezzabile aumento degli investimenti e della base occupazionale.

***

Questo è quanto il governo Letta ha avviato e in gran parte messo in opera e queste sono le prospettive che avrebbe fatto valere nel corso del semestre europeo.

Difficilmente Renzi potrà fare di più e di diverso. Quanto alle contestazioni della Commissione di Bruxelles sui conti italiani, il parere di Letta è che esse siano state fatte con l'obiettivo di dare al nostro governo un'arma in mano per vincere le resistenze della maggioranza che lo appoggia e che ora comprende di nuovo Berlusconi. Si tratterebbe insomma di una iniziativa figurativa, tanto più utile oggi che la maggioranza comprende di nuovo Forza Italia, contraria al programma che Letta avrebbe voluto presentare alla direzione del suo partito e che invece fu superata dal massiccio voto contrario che lo fece fuori.

Ho riferito, spero con fedeltà e chiarezza, quanto lo stesso Letta mi ha detto e Saccomanni per quanto lo riguarda mi ha confermato.

Se posso dare un suggerimento a Letta è di riferire questi suoi ricordi alla Camera della quale fa parte stimolando Renzi a proseguire con la stessa filosofia. Di fatto questo sta già avvenendo ma - sempre che gli elementi informativi che ho qui riferito corrispondano interamente alla verità dei fatti - Renzi ci sta rivendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione dal suo predecessore.

Se Letta seguirà il suggerimento ne verrebbe una conseguenza positiva: questa volta sarebbe Letta a stimolare il governo esattamente come fece Renzi per un paio di mesi, prima di scomunicare il governo Letta. Questo rischio Renzi non lo corre, la sua maggioranza è infatti senza alternative salvo che Berlusconi non mandi tutto all'aria. È un'ipotesi improbabile ma fa parte della patologia berlusconiana contro la quale non c'è alcun valido rimedio.

Di Berlusconi però si può fare a meno come ne fece a meno Letta quando dalle cosiddette larghe intese passò alle piccole intese favorendo il distacco di Alfano dal Pdl.

È opportuno avere buona memoria di questi fatti e di questi passaggi ricordando il passato prossimo per costruire un futuro più solido. Passare da un Renzi-Gomez ad un Renzi-Letta sarebbe un netto miglioramento per un Paese così disastrato.

© Riproduzione riservata 09 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/09/news/caro_matteo-80558397/?ref=HRER1-1
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« Risposta #489 inserito:: Marzo 10, 2014, 06:18:11 pm »

Eugenio Scalfari: "Matteo Renzi ci vende un programma già formalizzato dal governo di Enrico Letta

L'Huffington Post  |  Pubblicato: 09/03/2014 10:02 CET  |  Aggiornato: 09/03/2014 10:02 CET

"Renzi ci sta rivendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione dal suo predecessore". Si legga Enrico Letta. Queste le parole lapidarie di Eugenio Scalfari che in un editoriale su La Repubblica passa in rassegna ciò che concretamente il nuovo capo dell'esecutivo potrebbe fare per stabilizzare e migliorare i conti dell'Italia, senza trascurare i vincoli europei. "Perché a Bruxelles e Berlino bisogna tentare la strada della convinzione, ma non quella dei pugni sul tavolo", sottolinea Scalfari

Non trascurare i vincoli europei. Ma non trascurare neanche il dettagliato programma che l'ex premier e il suo ministro dell'economia Saccomanni avevano imbastito prima di essere scomunicati. Un programma che sembra essere cristallizzato e rispetto al quale "difficilmente Renzi potrà fare di più o di diverso". L'esclusiva chiacchierata che il fondatore di Repubblica ha fatto con Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni è riportata e riassunta in 9 punti programmatici.

    Per saperne di più ho interrogato Letta, rientrato due giorni fa in Italia e da lui ho avuto la sua versione dei fatti e delle prospettive. Eccone il resoconto.

    1. Il cuneo fiscale già figura nella legge di stabilità approvata dal Parlamento e prevede una riduzione di tre miliardi per il 2014 e di dieci miliardi per il 2015. La copertura proviene dalla "spending review" per l'anno in corso e di metà per l'anno successivo: l'altra metà dovrebbe esser fornita dal recupero dell'evasione fiscale. Saccomanni ritiene che la "spending review" possa dare di più, non meno di cinque miliardi quest'anno e forse sette nel successivo.

    2. Il pagamento dei debiti dalla pubblica amministrazione alle imprese è già contabilizzato e i fondi già stanziati per 20 miliardi da erogare quest'anno. La copertura è fornita dalla Cassa depositi e prestiti che può agire subito e mobilitare altri fondi per i prossimi mesi.

    3. La legge di stabilità ed altre leggi specifiche prevedono una serie di investimenti da parte di imprese pubbliche, a cominciare da Rete Imprese, dalla Fincantieri e da altre aziende. I fondi sono già stanziati e il totale supera i tre miliardi.

    4. Il debito pubblico sarà ridotto attraverso la privatizzazione di "asset" patrimoniali, anche questi già previsti e contabilizzati con apposita legge approvata il 20 gennaio e già in via di esecuzione.

    5. L'andamento dello "spread" fornirà dai tre ai quattro miliardi che Letta aveva previsto di utilizzare per le scuole e l'occupazione giovanile.

    6. La Commissione europea è disponibile a fornire fondi per la crescita economica e per l'equità sociale per somme rilevanti, da destinare al nuovo sistema di ammortizzatori sociali e di investimenti pubblici e privati. L'obiettivo è di ridurre le imposte sul lavoro e ripristinare con norme semplificate il credito di imposta per la creazione di nuovi posti di lavoro.

    7. Durante il semestre di presidenza europea spettante all'Italia era previsto un decisivo passo avanti dell'Unione bancaria e interventi della Bce che stimolassero le banche ad accrescere i loro prestiti alle imprese.

    8. L'Italia avrebbe visto la diminuzione del deficit-Pil dall'attuale 2,6 al 2,3 con un miglioramento dell'avanzo delle partite correnti al 5 per cento al netto degli oneri del debito pubblico.

    9. In quello stesso semestre e in piena intesa con la Bce, l'Europa avrebbe dovuto affrontare un tema di grandissima importanza e cioè un mutamento del tasso di cambio tra l'euro e il dollaro. Proprio in questi giorni quel tasso ha visto una ulteriore rivalutazione dell'euro che sfiora ormai 1,40 dollari per un euro, una situazione intollerabile per le esportazioni europee verso l'area del dollaro. L'ideale sarebbe un tasso di cambio attorno all'1,20 o addirittura all'1,10 che rilanciando massicciamente le esportazioni europee ed italiane provocherebbe un apprezzabile aumento degli investimenti e della base occupazionale.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/03/09/scalfari-renzi-programma-enrico-letta_n_4928666.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #490 inserito:: Marzo 16, 2014, 10:35:30 am »

Berlinguer, perché ti abbiamo voluto bene
Il comunista timido che mi ricorda Papa Francesco


di EUGENIO SCALFARI
   
COMINCIO quest'articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.

Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest'anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.

La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco - l'ho già detto - è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati. Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.

La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del '77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel '78, nell'80, nell'81, nell'83. Morì nel giugno dell'84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.

Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all'uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M'è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d'essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d'un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l'ideologia politica.

Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia. Oltre alle interviste su Repubblica accettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l'idea dell'"arco costituzionale" dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.

In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull'altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d'allora erano altri tempi e altre persone.

Nel corso degli anni, dal 1977 all'84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l'Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l'Italia; il problema da lui sollevato della questione morale. Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l'evoluzione fu comunque coerente.

Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all'Urss, al Pcus e al Cominform. "Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta".

Gli risposi che aveva ragione ma che l'uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall'ideologia leninista stalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. "Hai ragione -  rispose Ugo -  ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo". Gli chiesi chi fosse il "miserabile" che avrebbe cercato di bloccare l'evoluzione democratica del Pci. "Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni".

Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome. Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s'innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.

***
Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l'evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall'intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell'occasione (l'avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare.

Rispose così: "Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista". Mi pare -  dissi io in quel punto -  che voi rifiutate tutto di Lenin. "No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d'accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d'accordo".

Questo, gli dissi io, l'ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. "Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva "alla virtù individuale di un Principe" mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società".

Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell'intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La questione morale era invece l'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l'aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall'81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell'83. "Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell'articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l'esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l'infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev'essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge".

Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). "Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l'indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d'una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo".

Ve l'aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent'anni fa, parlando d'un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medio alti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell'attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent'anni. Berlinguer, proprio trent'anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto "sovversivo".

Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l'austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l'interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.

Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all'aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: "Se n'è andato l'ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà".

Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.

C'era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l'ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s'impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.

© Riproduzione riservata 16 marzo 2014

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« Risposta #491 inserito:: Marzo 21, 2014, 11:48:21 pm »

Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Quel desiderio di pensare Dio
È il solo modo di dargli una forma. Altrimenti per gli umani sarebbe inesistente

Temo che non avrò il tempo (anche se la voglia c’è) di leggere il manuale in tre volumi dal titolo “Storia della filosofia” curato da Umberto Eco e Riccardo Fedriga e edito da Laterza. È una storia del pensiero (della quale per ora è uscito il primo volume) che interessa tutti per la semplice ragione che il pensiero che nasce dal nostro cervello, dal nostro corpo e dagli istinti dai quali siamo animati, è il solo elemento che ci distingue dagli animali. Ma in che modo? E che cos’è il pensiero? Il manuale queste domande se le pone insieme ad una quantità di altre che spaziano nei nostri sentimenti, nelle nostre ideologie, nel nostro vivere e nelle possibili alternative. In un certo senso, sfogliando questo manuale che è anche integrato da descrizioni delle diverse civiltà e società che hanno periodizzato la nostra storia, si colgono i “fondamentali” che caratterizzano la nostra specie. Anzi si coglie il “fondamentale” dal quale tutti gli altri si dipanano ed è, secondo me, una domanda: io chi sono? riferita contemporaneamente all’individuo che se la pone e alla specie dell’homo sapiens cui apparteniamo.

QUESTE DUE DOMANDE sono all’origine di tutte le altre e definiscono la nostra differenza dagli altri animali poiché non risulta che gli altri animali siano in grado di porsele. Gli animali sono animati da istinti primari, quelli che servono a tenerli in vita e a procreare. Alcuni di loro hanno anche sentimenti e memoria, ma non di sé, non si vedono e non si sentono vivere e quindi il loro pensiero (ammesso che si voglia impropriamente usare questa parola) e il loro linguaggio sono profondamente diversi dal nostro. Parliamo ovviamente di animali superiori e non di esseri viventi allo stadio di molluschi o vermi o esseri cellulari.

Allora, la domanda che caratterizza l’homo sapiens è: io chi sono? La risposta può esser data soltanto intraprendendo contemporaneamente due percorsi: quello all’interno del se stesso e quello del mondo circostante. Entrambi questi percorsi, resi possibili dal fatto che noi siamo in grado di osservare noi stessi dal di fuori, presuppongono una continua esperienza del sé e degli altri ed è proprio per consentire le risposte che è nato il “sapere”, cioè il desiderio e il bisogno di conoscenza.

Il “fatti non foste a viver come bruti” unisce insieme Ulisse, cioè Omero chiunque egli fosse, e Dante rappresentando quindi uno dei punti più alti della nostra cultura occidentale.

Il viaggio dell’Ulisse dantesco oltrepassa le colonne d’Ercole che rappresentavano il limite oltre il quale l’uomo non poteva andare. Geograficamente è il braccio di mare che corrisponde allo Stretto di Gibilterra e mette in comunicazione il Mediterraneo con l’Atlantico, ma quel viaggio termina drammaticamente: in vista di una montagna immensa i flutti divengono tempestosi, la nave affonda e gli uomini muoiono “infin che il mar fu sopra noi richiuso”.

Questo è il racconto affascinante che l’anima di Ulisse rivela al poeta; ma qual è il suo significato che possiamo ricostruire poiché Dante non ce lo dice? Che cosa rappresenta quella montagna? Un’interpretazione a sfondo teologico ritiene che essa raffiguri il Purgatorio o addirittura il Paradiso che sono regni celesti dove le virtù degli uomini vengono premiate ma che sono preclusi ad Ulisse che aveva commesso molti peccati in vita e sarebbe perciò stato relegato all’Inferno dove infatti Dante e il suo accompagnatore Virgilio lo trovano. Un’altra interpretazione – filosofica e laica – ravvisa in quella montagna la sede della verità assoluta che l’uomo non può raggiungere perché la verità assoluta non esiste, la mente dell’uomo non è in grado di pensarla e ciò che non è pensabile è per l’uomo inesistente.

DIO È PENSABILE PERCHÉ è l’uomo ad averlo raffigurato con attributi e sentimenti umani; è una figura antropomorfa. Quando l’uomo gli toglie quegli attributi e quei sentimenti anche Dio diventa impensabile e quindi per l’uomo inesistente. Dio muore se non è più raffigurato con caratteristiche antropomorfiche e comunque morirà per tutti quando la nostra specie si estinguerà.

Ma scomparirà anche l’Universo o gli Universi? Se tutto l’esistente scomparisse insieme alla nostra specie, se non ci fossero più né stelle né galassie né particelle elementari né onde e campi magnetici, ci sarebbe il nulla. Attenzione: non il vuoto ma il nulla cioè neppure il vuoto che è uno spazio. Il nulla non è pensabile poiché non prevede il proprio opposto.

Fin qui arriva la conoscenza di quanto ci circonda e le risposte essenziali sono dunque queste: la verità assoluta non è pensabile, un Dio privo di attributi antropomorfi non è pensabile, il nulla non è pensabile e ciò che non è pensabile dalla nostra mente è per la nostra mente inesistente.

QUALCHE DOMANDA ancora: una forza creatrice è pensabile? Sì, lo è e quindi per la nostra mente esiste. Ma se si tratta di una forza creatrice, è pensabile un “prima” della forza creatrice? La risposta è no. Se la forza è creatrice essa crea in continuazione, per noi non esiste né un prima né un dopo perché la forza creatrice non può far altro che creare, senza inizio e senza fine. E che cosa crea? Crea le forme. Possiamo darle un nome? Qualunque nome: Dio, Cosmo, Caos, Essere, Energia, Natura; qualunque nome, visto che siamo provvisti di immaginazione. Ma possiamo anche designarla con un algoritmo, esprimerla con una formula matematica. Le forme hanno un principio e quindi una fine. Nascono e muoiono, nascono come cose create e si disfano tornando ad essere forza creatrice senza più forma. L’Essere esiste in permanenza ma si esprime creando, quindi l’Essere sta e diviene senza soluzione di continuità e senza tempo. Il tempo è una categoria mentale dell’homo sapiens così come lo spazio. La forza creatrice sta in tutte le forme e con esse diviene, è immanente a tutte le forme ed è questo il solo modo in cui è pensabile, non astratto ma concreto.

Benedetto Croce parlò di universale concreto, Spinoza (e Nietzsche dopo di lui) disse: “Deus sive natura”. Questo è l’Essere che sta e diviene; nella storia della filosofia tiene insieme Parmenide ed Eraclito.

Il viaggio dentro noi stessi è un’altra cosa. Sempre alla ricerca della conoscenza ma limitato all’esplorazione dell’io. Questo secondo percorso lo tratteremo nel prossimo “Vetro soffiato” tra quindici giorni. Nel frattempo avremo letto se e come la “Storia della filosofia” di Eco e di Fedriga avrà affrontato queste domande e queste risposte.

17 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/03/12/news/quel-desiderio-di-pensare-dio-1.156884
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« Risposta #492 inserito:: Marzo 23, 2014, 05:18:37 pm »

Se Renzi vincerà vent'anni durerà

Di EUGENIO SCALFARI
23 marzo 2014
   
Spero che ai lettori non sembri una stranezza se comincio questa mia predica domenicale con il film di Veltroni su Enrico Berlinguer, proiettato giovedì scorso all'Auditorium di Roma. Ho conosciuto bene quel personaggio sul quale ho scritto un articolo domenica scorsa; poi ho visto il film ed ho letto i commenti che i giornalisti gli hanno dedicato, tra i quali quello bellissimo di Michele Serra sul nostro giornale. Perché dunque ci torno ancora?

Ci torno per chiarire un punto, per rispondere ad una domanda che molti si sono fatta e molti altri si faranno vedendo quel film nelle sale cinematografiche e alla televisione di Sky: Berlinguer e il partito da lui guidato erano comunisti come si chiamavano e credevano di essere, oppure no?

Certamente lo erano ma a loro modo che non somigliava a nessuno degli altri partiti comunisti al di là e al di qua della cortina di ferro che divideva in due non solo l'Europa ma il mondo intero. Il partito comunista italiano guidato da Berlinguer, e prima di lui da Longo e da Togliatti, era nato a Lione, liquidò Bordiga, che l'aveva fondato nel 1921, e si ispirò all'insegnamento di Gramsci. Tra le sue "sacre scritture" non c'erano soltanto Marx ed Engels ma Antonio Labriola, Giustino Fortunato e perfino Benedetto Croce.

Berlinguer accentuò queste caratteristiche e prese le distanze non solo dal partito-guida di Mosca ma anche dal pensiero di Lenin. Il discrimine riguardava una questione fondamentale: la democrazia, quella sostanziale ed anche quella formale, cioè le cosiddette "libertà borghesi".

La democrazia, secondo il pensiero di Berlinguer, doveva essere rispettata e difesa sempre, nessuno spazio alla "dittatura del proletariato" che Lenin patrocinava come prima fase rivoluzionaria. Una democrazia che prevedeva anche alleanze con forze politiche non comuniste purché anch'esse fossero sinceramente e pienamente democratiche.

Questo fu il partito di Berlinguer e se passò dal 25 per cento dei consensi elettorali ereditati da Togliatti al 34 raggiunto da Berlinguer nel 1977, questo accadde perché una parte dei ceti borghesi si avvicinò a quel partito. In realtà, almeno una parte del suo gruppo dirigente e perfino quella aristocrazia operaia che rappresentava la classe lavoratrice, fece propria la cultura liberal-socialista che aveva ispirato "Giustizia e libertà" e poi il partito d'azione e di cui il maestro coevo alla leadership berlingueriana fu Norberto Bobbio insieme a Galante Garrone, a Calogero, a Omodeo, a Salvatorelli, a La Malfa.

Questo è stato il lascito di Berlinguer. Come e perché questa eredità politica sia poi entrata in crisi è un altro discorso che riguarda la crisi della politica, di tutta la politica, del sistema dei partiti, dei loro rapporti con le istituzioni, quella che Berlinguer aveva già identificato definendola questione morale, occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, oggi più che mai intensa e di assai difficile risanamento.

* * *

Questa crisi è il tema oggi dominante in Italia e in Europa. A me sembra che ci sia molta confusione nei pensieri di chi se ne occupa e se ne preoccupa. Ho letto su Repubblica di ieri un'intervista di Paolo Griseri a Marco Revelli sul suo nuovo libro intitolato Post-sinistra e mi ha stupito l'analisi che l'autore fa sostenendo che l'economia nella società globale ha ucciso la politica diventando una sorta di pilota automatico che porterà il mondo verso la catastrofe.

Mi sembra con tutto il rispetto per il pensiero di Revelli, che questa sia una semplificazione sostanzialmente sbagliata. L'economia moderna è una disciplina nata dal pensiero di Adam Smith e di Ricardo tre secoli fa, di fatto agli albori dell'illuminismo e assunse non a caso il nome di economia politica. Non esiste e non è pensabile un'economia senza politica o addirittura antipolitica come non esiste una politica priva di una sua economia. Lo stesso Carlo Marx questa verità la conosceva benissimo e la teorizzò quando scrisse L'ideologia tedesca e il 18 Brumaio. Marx riteneva che la rivoluzione proletaria dovesse essere preceduta dalla rivoluzione borghese per la quale manifestò addirittura simpatia e che considerava necessaria. Quella rivoluzione era ancora in corso negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo. È evidente che la rivoluzione borghese aveva un enorme contenuto economico così come l'avrebbe avuta nel pensiero di Marx e di Engels la rivoluzione proletaria che ne sarebbe seguita.

La storia prese una strada diversa: la rivoluzione proletaria che secondo Marx sarebbe nata nei paesi europei economicamente più abbienti avvenne invece in Russia, cioè in un paese dove la borghesia non esisteva neppure. Di qui un suo percorso che Marx se fosse stato vivo avrebbe certamente sconfessato poiché non aveva le condizioni per attuare il comunismo annunciato nel manifesto del '48.

Ecco perché ritengo che la post-sinistra descritta profeticamente da Revelli come un'economia che distrugge la politica a me sembra un nonsense. Può essere e probabilmente è un'economia politica non accettabile, ma non distrugge la politica che non è distruttibile visto che è una categoria dello spirito e come tale appartiene alla nostra specie e vivrà con essa fino all'avvento del regno dei cieli (per chi ci crede).

* * *

Oggi abbiamo i populismi e l'antipolitica (che sono tutti e due forme di politica e di economia). Abbiamo un partito che cerca di darsi una nuova forma con la guida di Matteo Renzi e avremo il 25 maggio le elezioni per il Parlamento europeo il quale a sua volta avrà il compito di eleggere il presidente della Commissione di Bruxelles, cosa che non era accaduta prima, quando quell'incarico era di competenza dei governi dei paesi membri della Ue.

Il Partito democratico si può a questo punto definire nei suoi quadri, nei suoi gruppi parlamentari e nei suoi militanti un partito renziano. Fino a qualche tempo fa si diceva che fosse l'unico partito italiano (e forse anche europeo) non personalizzato. Non aveva un Re. Adesso ce l'ha. Per simpatia per il personaggio, per la sua energia e voglia di fare, per il suo desiderio di avere successo e quindi di portare il suo partito al massimo della popolarità elettorale e infine per mancanza di alternative.

Ai tempi dei tempi Pietro Nenni, che fu un tribuno d'eccezione, diceva quando ci fu la scelta istituzionale nel giugno del 1946, "O la Repubblica o il caos". Adesso lo slogan che più corrisponde ai desideri (e alle paure) dei democratici è "O Renzi o il caos".

Questo slogan ovviamente presuppone che Renzi abbia il successo che desidera, ma è un successo che si gioca contemporaneamente su molti tavoli.

Anzitutto su quello della popolarità e Renzi ha scelto: i 10 miliardi (che nell'anno in corso saranno più o meno sette) andranno interamente nelle buste-paga dei lavoratori a partire da quelle del 27 maggio prossimo, due giorni dopo le elezioni europee che sono l'altro tavolo sul quale si giova il successo. Diminuzione dell'Irpef, due giorni dopo le elezioni: il rapporto è chiaro e perfetto.

Naturalmente alcuni settori della società non sono contenti. Non è contenta la Confindustria di Squinzi, non sono contente le imprese che saranno tassate sulle rendite dei titoli e su altri tipi di entrate mobiliari; non sono contente le piccole imprese del Nord-Est in crisi che vorrebbero sostegni e crediti bancari di favore e non è contenta la Cgil che teme un'eccessiva mobilità del lavoro precario. Infine non sono contenti i manager pubblici i cui compensi, secondo la spending review di Cottarelli dovrebbero avere un tetto che tagli il supero così come anche per le pensioni al di sopra di un limite abbastanza elevato.
Renzi questi scontenti li conosce e farà di tutto per placarli usando qualche attenzione concreta nei loro confronti, ma avrà bisogno di tempo.

In realtà avrà bisogno di tempo per tutta questa politica e dovrà prenderselo salvo che sul taglio dei 10 miliardi (sette) da mettere in busta paga per le tasche dei lavoratori fino a 25mila euro di reddito netto annuo. Questa copertura la deve assolutamente trovare.

Ma c'è un altro obiettivo che deve realizzare a corto respiro ed è la riforma elettorale. Questo è a costo zero dal punto di vista finanziario, ma un costo politico ce l'ha. Alla Camera è già passato, al Senato qualche problema ci sarà ma lui spera di risolverlo ed è probabile che ci riesca. Il che tuttavia non risolve il problema della riforma del Senato e quindi della legge elettorale che rimane zoppa a meno che Berlusconi decida di mettersi contro per ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere.

Se questo avvenisse si voterebbe alla Camera con un sistema nettamente maggioritario e al Senato con uno nettamente proporzionale. Una manna per Forza Italia, per la Lega, per Grillo e insomma per quasi tutti ma non per Renzi. Tuttavia qui il manico ce l'ha in mano Berlusconi sempre che si superi l'ostacolo del Quirinale, il che sembra tutt'altro che facile. Napolitano non credo accetterebbe di sciogliere le Camere con due percorsi elettorali così diversi e quindi con maggioranze probabilmente contrapposte. Comunque un rischio c'è perché l'alternativa in questo caso potrebbe essere una crisi di governo.

* * *

Infine c'è il tavolo delle coperture da effettuare, dell'occupazione, del pagamento dei debiti verso le imprese e dell'Europa. Questo gruppo di questioni è strettamente interconnesso ed è qui che si gioca realmente la sorte del governo e del partito renziano.

Segnalo un punto non marginale per capir bene il personaggio Renzi. Fino a quando sembrava che il governo Letta sarebbe durato fino al 2015 e quindi sarebbe stato Letta a presiedere il semestre europeo di spettanza italiana, l'allora (e tuttora) segretario del Pd sosteneva che la presidenza europea semestrale non contava assolutamente niente. Letta diceva il contrario ma Matteo ci rideva sopra. Da quando però è arrivato a Palazzo Chigi Renzi ha immediatamente cambiato linguaggio sostenendo che quel semestre sarà fondamentale per l'Italia e per l'Europa (anche per il mondo?).

È fatto così, il Re del Pd: cambia linguaggio di continuo, secondo con chi parla; dà ragione a tutti, capisce tutti, incanta tutti (o ci prova). La sua vera natura è quella del seduttore. Da questo punto di vista somiglia molto, ma con metà degli anni, a Berlusconi.

Non entro nell'esame delle coperture, dell'accoglienza europea alle proposte renziane, ai tempi necessari per arrivare ad una svolta vera, che certo non è quella dei 10 miliardi (sette) dell'Irpef. Dico solo che sui tagli di Cottarelli bisogna stare attenti perché ci saranno anche effetti negativi sull'occupazione come conseguenza di alcuni dei tagli proposti.

Ma la considerazione con la quale concludo, molto personale, è la seguente: se è vero, ed è vero, che il seduttore Renzi è più bravo del seduttore Berlusconi, esiste l'ipotesi che l'eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent'anni di berlusconismo vent'anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo. Ma magari piacerà agli italiani che in certe cose sono molto strani.

© Riproduzione riservata 23 marzo 2014
La Repubblica quotidiano digitale

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/23/news/se_renzi_vincer_vent_anni_durer-81657430/?ref=HREA-1
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« Risposta #493 inserito:: Marzo 24, 2014, 04:53:46 pm »

Testimone del tempo: Piero, così hai cambiato il giornalismo italiano

Esce "Novanta", il memoir di Ottone sull'avventura nella sua professione.
Ecco la prefazione di Scalfari

di EUGENIO SCALFARI
   
Un giorno dello scorso novembre  -  il mio libro L'amore, la sfida, il destino era appena uscito  -  ricevetti una telefonata da Piero Ottone. Ci conosciamo da oltre quarant'anni, e da più di trentacinque siamo diventati amici. Era esattamente il 1977, quando Piero capì che nella proprietà del Corriere della Sera che lui dirigeva da cinque anni stavano accadendo mutamenti preoccupanti e si dimise.
Te lo ricordi, Piero?

Da allora l'amicizia s'è rinforzata, abbiamo lavorato insieme, lui alla Mondadori alla guida di Mario Formenton ed io alla direzione di Repubblica che per il cinquanta per cento era appunto di proprietà della Mondadori e per l'altra metà del nostro gruppo dell'Espresso; e per anni insieme fino alla famosa guerra di Segrate contro Berlusconi che aveva dato la scalata alla Mondadori. Poi quella guerra finì, Repubblica fu messa in salvo e Piero cominciò a collaborare al nostro giornale e tuttora scrive articoli di politica, di costume, di cultura.

Gli avevo ovviamente mandato il mio libro aspettandone un giudizio che sapevo sarebbe stato imparziale, positivo se gli fosse piaciuto, negativo nel caso contrario e comunque critico nel senso alto del termine. Lui, infatti, appena letto mi telefonò.

Il giudizio fu positivo, mi parlò del capitolo che più di tutti gli era piaciuto, mi chiese alcuni chiarimenti sulla struttura letteraria che era alquanto nuova rispetto ai molti libri precedenti e poi aggiunse: "Quello che più mi ha interessato è l'inizio del tuo libro, che hai intitolato Prologo, dove racconti come si è formata la tua visione della vita durante l'età che definisci fatata dell'adolescenza e poi che cosa ti accadde dopo e come si formò il tuo carattere, la tua coscienza e insomma la tua vita. Anch'io sto scrivendo un libro, molto diverso dal tuo; ma anche il mio comincerà con un Prologo. Vorrei che tu lo leggessi; non il libro che ho già scritto ma leggerai quando tra qualche mese sarà nelle librerie, ma il mio Prologo, e vorrei che tu mi dicessi che cosa ne pensi".

Ebbene, l'ho letto il suo Prologo, mi è molto piaciuto, è scritto benissimo con quello stile piano che si fa leggere senza fatica ma che comunica alcune verità profonde sulle quali il lettore è indotto a riflettere. Contiene però, quel suo Prologo, un giudizio su se stesso che in alcune parti non condivido, e proprio di quelle omissioni voglio parlare. Lo so che dipendono dal suo modo di pensarsi, non si tratta di finta umiltà ma di una convinzione mite e modesta dell'opera sua e della sua presenza e il suo ruolo nella storia del giornalismo italiano. Una presenza che durò a lungo ma un ruolo che durò poco, cinque anni, ma che ebbe un rilievo storico portando la diffusione del giornale a livelli mai raggiunti prima, riunì il meglio dell'intelligenza d'allora e cambiò la collocazione tradizionale di una delle più importanti testate italiane ed europee.

Piero si definisce nelle pagine di introduzione "uno spettatore", avrebbe potuto dire almeno un testimone del tempo, ma evidentemente quest'espressione gli sembrava troppo ridondante. Infatti scrive così: "Questo mestiere sembra fatto apposta per me. Osservo con curiosità quel che succede, non aspiro in alcun modo a far succedere cose diverse. L'animo dello spettatore, insomma: non quello del protagonista".

Ebbene, caro Piero, tu ti vedi certamente così soggettivamente, dal tuo punto di vista. Ma oggettivamente ti sbagli. L'ho già detto prima, ma adesso te lo dimostro.

Tu sei stato il primo della grande stampa italiana allora esistente a dimostrare con le inchieste, le notizie, gli articoli, insomma col tuo modo di fare il giornale, che i comunisti non avevano la coda.

Allora erano ancora in molti a pensarlo, e non solo persone sprovvedute o succubi d'una propaganda politica, ma anche dominate da un pregiudizio rispetto ad un partito legato ancora a doppio filo con Mosca, con il Cominform, con lo stalinismo, senza cogliere i primi segnali di un mutamento sociale, politico e soprattutto culturale.

Qualche segnale in quel senso c'era già stato sulla Stampa, l'altro grande giornale di prestigio nazionale durante la direzione di Giulio De Benedetti; segnali ancor più chiari li aveva manifestati il settimanale l'Espresso, ma il Corriere era un'altra cosa, rappresentava l'intero circuito mediatico del paese in un periodo in cui la televisione non aveva ancora la potenza di fuoco che raggiunse negli anni seguenti, e politicamente era molto legato alla Democrazia cristiana.

Il Pci era chiuso in una sorta di ghetto, per decisione dei suoi avversari ma anche per decisione propria. I suoi dirigenti battevano sul tasto della "diversità comunista", diversità morale ma soprattutto ideologica. Nel ghetto ci volevano stare, sognavano la rivoluzione proletaria che naturalmente sarebbe venuta ma non si sapeva né quando né come; "adda venì Baffone", cioè Stalin, era lo slogan che teneva insieme le masse e quindi era diventato una parola d'ordine da non lasciar cadere.

Ghetto o giardino zoologico, dove dietro le sbarre la gente comune vedeva strani animali e quasi tutti con la coda. La rivoluzione d'Ungheria del '56 aveva dato una scossa potente alle sbarre del ghetto; quella di Dubcek a Praga ancora di più e aveva anche manifestato fortemente la visione politica nuova del gruppo dirigente del Pci. Il Sessantotto aveva coinvolto i licei e le università di tutta Italia, l'immaginazione al potere era stato uno slogan rivoluzionario, ma quella che veniva definita la maggioranza silenziosa non era stata neppure scalfita da queste novità, anzi era diventata ancor più retriva e pronta perfino ad alimentare tentazioni antidemocratiche, sette segrete, servizi di sicurezza deviati, come si diceva con linguaggio criptico e minaccioso.
Non voglio fare qui una storia che è stata già ampiamente esaminata da centinaia di libri e migliaia di articoli. Dico solo che non a caso tu fosti scelto a dirigere il Corriere dalla parte progressista della borghesia milanese (Giulia Maria Crespi per l'esattezza) che non era affatto rappresentativa di quel ceto sociale. Era un'eccezione; prudente, misurata, non certo incline al radicalismo delle posizioni ed anche rispettosa delle tendenze del giornale che aveva avuto in Albertini la sua bandiera nei primi venticinque anni del secolo scorso. Ma un'eccezione che avrebbe oggettivamente dimostrato che i comunisti non avevano la coda o almeno non l'avevano più.

Questo fu il tuo Corriere dal 1972 al '77 e io lo so bene perché Repubblica fu fondata nel '76 ed ebbe fin dall'inizio l'obiettivo di diventare il primo giornale italiano raggiungendo e scavalcando il Corriere. "Hai scelto il momento sbagliato", mi fu detto da molti amici e colleghi. "Proprio adesso che il Corriere si è spostato a sinistra, ti sarà assai difficile inseguirlo con successo".

Ricordo che tu stesso me lo dicesti durante una telefonata amichevole che mi facesti sette od otto mesi dopo l'uscita di Repubblica. Vendevamo fin dall'inizio settantamila copie, era molto per un giornale nuovo ma non sufficiente, e questa cifra iniziale era bloccata e tale rimase fino al '78. In quell'anno ci fu il rapimento di Moro e tu  -  per altre ragioni  -  te n'eri già andato dal Corriere; ma questi due fatti avvenuti quasi contemporaneamente misero in moto la diffusione del nostro giornale che sei anni dopo raggiunse il Corriere e lo sorpassò.

Nella tua telefonata che ho sopra ricordato tu mi consigliasti di sospendere le pubblicazioni. "Lasci", mi dicesti, "nel momento migliore. La vendita attuale del tuo giornale è più che rispettabile e dimostra le tue capacità, ma economicamente non basta, quindi questo è il momento di smetterla, dammi retta, lo dico per te, il Corriere non ha minimamente risentito della vostra uscita, siamo ai massimi della nostra diffusione".

Era vero, ma io non la pensavo affatto in quel modo. Ti ringraziai del consiglio e ti presi anche un po' in giro. Ricordo queste cose per dire che, opinioni tue e mie a parte, oggettivamente tu avevi ragione, il Corriere non sentiva la concorrenza di Repubblica, la scissione di Montanelli e la nascita del Giornale vi avevano intaccato poco. Avevate perso copie a destra ma ne avevate conquistate altre al centrosinistra. Nel frattempo Pasolini era diventato il tuo collaboratore principale e attaccava ogni settimana il Palazzo (fu proprio lui a inventare quella parola per definire il Potere), la tua terza pagina ospitava il meglio dell'intellighenzia italiana, a cominciare da Citati. Quando Pasolini morì tragicamente al suo posto chiamasti Calvino che per certi aspetti era molto più efficace di Pasolini ed io te lo invidiai molto perché ero suo amico fin dai banchi del liceo, ma non potevo certo pensare che sarebbe venuto in un giornale come quello da me fondato ma ancora confinato in un pubblico molto limitato.

Tu hai scritto nel tuo Prologo che non ti sei mai proposto di cambiare la società con il tuo lavoro di giornalista e col tuo carattere di spettatore. Ti ho detto che non condivido il tuo giudizio, che è sbagliato, e spero d'avertelo dimostrato.
 
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« Risposta #494 inserito:: Marzo 29, 2014, 12:09:17 pm »

Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Federalisti sì ma europeisti
La Catalogna in Spagna, la Scozia in Gran Bretagna, la Baviera in Germania, le Fiandre in Belgio: tutti riscoprono il separatismo e l’indipendentismo. Ma dentro un forte Stato europeo. La Lega e i lepenisti francesi invece...
   
La Catalogna farà un referendum sponsorizzato dal governo di quella regione, il cui esito è praticamente già scontato: sarà una regione-nazione che riconosce alla Spagna di rappresentarla nella politica estera e nella Difesa nel solo caso di un’aggressione. Ma anche le altre regioni-nazioni preparano referendum analoghi: l’Andalusia, la Mancia, i Paesi Baschi. Poi voterà la Spagna in quanto tale e probabilmente anche l’esito di questo atto conclusivo sarà la struttura federale dello Stato spagnolo. Un federalismo che va ben oltre l’autonomia amministrativa poiché contiene elementi di forte politicità.

È inutile sottolineare che il linguaggio delle varie regioni-nazioni non ha struttura dialettale; il catalano, il basco, l’andaluso, non sono dialetti ma vere e proprie lingue e hanno alle spalle una vera e propria storia politica che per lunghi secoli ebbe un suo autonomo sviluppo, a cominciare dagli Emirati Arabi di Cordoba e Granada che sopravvissero fino a quando la Castiglia di Isabella e la Catalogna di Alfonso d’Aragona non si unirono e cominciarono la “reconquista”.

Del resto non è soltanto la Spagna a orientarsi verso il separatismo. Il fenomeno della Scozia è ancor più antico e ha fatto già molti passi avanti. Anche lì un referendum è imminente e non è il primo. Dovrebbe sancire nuove e ancor più politiche forme di indipendenza. La realtà è che la Scozia ha da sempre avuto una storia propria, una religione propria e una propria dinastia regnante con un esercito combattente. Perfino quando l’impero di Roma sbarcò, prima con Cesare e poi, più stabilmente, con gli imperatori Antonini, il Vallo di Adriano lasciò fuori dal perimetro di conquista il Galles e la Scozia.

La Scozia fu da sempre cattolica e impose la sua religione a tutta la Gran Bretagna quando il figlio di Maria Stuart divenne re di tutto il paese. Ora la Scozia torna all’indipendenza e l’Inghilterra è d’accordo ma il separatismo si estenderà anche al Galles e alle provincie settentrionali. L’Irlanda è da tempo sulla stessa via. Il medesimo fenomeno si sta manifestando in Francia, il paese dove da almeno mezzo millennio l’unità ha marciato di pari passo con la “grandeur”.

In Germania la tradizione dei principati elettori è invece antica e mai spenta e sta ora manifestando la sua spinta in Baviera, nel Palatinato, in Renania, in Brandeburgo. Le Fiandre riscoprono anch’esse la loro lingua e la loro disposizione indipendentista. Insomma l’Europa intera torna all’ideale federalista, ma con una particolarità un tempo ignota: il federalismo delle regioni-nazioni non solo non è contrario, ma ha come caratteristica essenziale l’esistenza di uno Stato europeo; uno Stato vero, non una confederazione di paesi nazionali guidati da governi nazionali. L’Europa unita e le regioni-nazioni che in essa si riconoscono e in essa trovano quella dimensione continentale, quella moneta unica, quella politica estera che parli con una sola voce e si confronti pacificamente ma affermando i propri valori e interessi rispetto al resto del mondo e alla sua convivenza globale.

Questo è il quadro, questo le forze che lo compongono e in esso si riconoscono e si articolano, con alcune vistose eccezioni: il Fronte nazionale lepenista e la Lega padana.

Queste forze non vogliono affatto uno Stato europeo e tanto meno una moneta comune. Sono forze nazionaliste o favorevoli a confederazioni regionali dove l’accento si ponga contro la globalizzazione mondiale. Quale possa essere il loro futuro è ancora incognito a loro stesse, ma nella situazione attuale è un futuro ignoto che tende soltanto alla totale rottura del presente, nel bene e nel male che in esso convivono.

08 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

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