LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 10:54:10 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 22 23 [24] 25 26 ... 47
  Stampa  
Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318190 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #345 inserito:: Febbraio 17, 2012, 05:06:33 pm »

Opinione

Internet sfida la madre Russia

di Eugenio Scalfari

A Mosca il senso di sicurezza e di protezione dall'alto ancora oggi fa premio sulla libertà.

E una gracile società civile difficilmente batterà l'oligarchia economica che comanda attraverso Putin

(09 febbraio 2012)

Avevo letto qualche giorno fa il racconto di Ezio Mauro che era andato a Mosca e aveva incontrato i capi della protesta anti-Putin che preparavano la manifestazione del 4 febbraio. Quando è tornato mi ha raccontato la sua esperienza. Ezio a Mosca ha vissuto per due anni come corrispondente di "Repubblica" nel periodo della "Glasnost" e della "Perestroika", al tempo di Gorbaciov e poi di Eltsin e il suo racconto mi ha ricordato quei tempi.

Andai anch'io due volte a Mosca e intervistai Gorbaciov, insieme alla nostra Fiammetta Cucurnia. Avevamo molta simpatia per quel leader che si batteva per instaurare il "comunismo dal volto umano". Allora non c'era la rete di Internet, i blog e gli i-Pod attraverso i quali Aleksej Navalny ha mobilitato 120 mila persone e le ha guidate in corteo a piazza Bolotnaja. Scandivano lo spot "Russia senza Putin", gridavano "libertà" e cantavano l'inno del film "Spartacus" che ha messo in scena la rivolta degli schiavi contro Roma.

Gorbaciov nei giorni scorsi è tornato a Mosca e ha pubblicamente manifestato apprezzamento per i "protestanti". Spera che Putin si convinca a smantellare l'autocrazia che è la sostanza del suo regime e riprenda il filo gorbacioviano che fu bruscamente interrotto dal colpo di stato di Eltsin. Avranno, gli indignati russi di oggi, la forza di imporre una così radicale trasformazione? E Putin sarebbe disposto a cambiare fino a questo punto il suo modo di governare?

I "protestati" non lo pensano e soprattutto non lo vogliono. La loro parola d'ordine è "Repubblica e libertà". Sanno che non riusciranno a impedire la vittoria di Putin alle presidenziali del 4 marzo, ma credono nella rivoluzione pacifica che - dice la scrittrice Ulitskaja - farà nascere in Russia quella società civile che non c'è mai stata.

I "protestanti" hanno vari punti di riferimento storico. Il più lontano è la rivoluzione russa del 1905 che impose allo zar una forma sia pur timida di Parlamento e l'effettiva soppressione della servitù della gleba nelle campagne che era stata decretata 40 anni prima ma mai realmente attuata.

Il secondo punto di riferimento è quella della nascita dei "figli dei fiori" che ebbe come punto di partenza i campus delle università californiane e i grandi concerti di massa al ritmo del rock, nei primi anni Sessanta. Il terzo è il Sessantotto francese ed europeo. Il quarto gli "indignados" dei giorni nostri e - forse - i giovani egiziani di piazza Tahrir. Ma la Russia è un'altra cosa, un'altra realtà.

A me pare, per quel poco che ne so, che - a differenza di ciò che pensa la Ulitskaja - la Russia abbia avuto e abbia una società civile. Ce l'ha fin dai tempi della grande letteratura dell'Ottocento, dei Puskin, dei Turgenev, dei Gogol, dei Cechov e di Dostoevskij e Tolstoj. Ce l'ha soprattutto dalla rivoluzione della primavera del 1917, che proclamò la Repubblica, guidata dai menscevichi e dal partito socialista-rivoluzionario. Lì nacquero i soviet che furono, all'inizio, l'espressione d'una società civile formata da intellettuali, borghesi e operai.

Certo non fu mai una società numerosa e capillarmente diffusa, mancava una classe borghese capace di sostenere i suoi valori liberali. Era una società civile gracile e fu quella gracilità che indusse Marx a vaticinare la rivoluzione proletaria in Germania e in Inghilterra ma non certo in Russia e indusse Trotzkij a predicare la rivoluzione mondiale avversando il socialismo in un solo paese adottato da Stalin.
Ma la Russia, quella di oggi come quella di ieri, è ancora per molti "la madre Russia" e la "Santa Russia", dove il senso di sicurezza e di protezione dall'alto fa premio sulla libertà. La borghesia adesso esiste ma è nata dalla corruzione, dalla svendita dell'industria di Stato e dalla nascita degli oligarchi.
L'autocrazia di Putin - se vogliamo applicare il lessico marxiano - è la sovrastruttura dell'oligarchia economica. Questo è l'ostacolo. Basterà Internet a farlo saltare?


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/internet-sfida-la-madre-russia/2173764/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #346 inserito:: Febbraio 19, 2012, 11:33:12 am »

IL COMMENTO

Perché nel Paese si continua a rubare

di EUGENIO SCALFARI

VENT'ANNI dopo Tangentopoli la Corte dei conti, ripetendo una denuncia più volte portata all'attenzione del governo, del Parlamento e della pubblica opinione, ha segnalato che la corruzione è il male più diffuso nella società italiana e l'ha quantificata in 60 miliardi annui. Sommandola all'effetto tributario di minori entrate derivanti dall'evasione (quantificabile in 120 miliardi), si ha una cifra complessiva di 180 miliardi.
C'è una differenza tra il 1992 ed oggi, è stato chiesto a Gerardo D'Ambrosio che fu uno dei protagonisti della stagione di Mani pulite? Ha risposto: "Sì, allora si rubava per il partito, oggi si ruba per se stessi". Comunque si continua a rubare. Abbiamo un primato sugli altri Paesi dell'Occidente, in fatto di corruzione li superiamo largamente ed invece siamo largamente in coda alla classifica per quanto riguarda la competitività. Evidentemente esiste un nesso tra quei due fenomeni.

Ci sono poi altri aspetti della nostra società che fanno riflettere: la disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è del 31 per cento (nel Sud molto di più); il precariato è alto in tutte le fasce di età (fino ai 50 anni) e rappresenta ormai un quarto della forza-lavoro; la criminalità organizzata accresce il suo peso delinquenziale e il suo reddito, ha ormai invaso anche il Nord e fa parte di una vasta rete internazionale con propri codici di comportamento, propri valori, proprie istituzioni. Insomma quasi uno Stato nello Stato.
Tutti questi
elementi non fanno che creare un clima di corruttela generale. Non a caso l'inizio di Mani pulite coincise con l'assassinio di Falcone e Borsellino.

Ha detto D'Ambrosio rispondendo ad una domanda dell'Avvenire: "Emerse un sistema generalizzato che aveva contribuito ad una spesa pubblica fuori controllo. Si arrivava perfino a bandire appalti inesistenti pur di ottenere denaro per i partiti. Gli imprenditori sapevano che non c'era altra possibilità di ottenere lavoro se non quella di trovarsi padrini politici, con ripercussioni deleterie nella pubblica amministrazione".

I partiti dal canto loro partecipavano collegialmente al ladrocinio; esistevano percentuali di ripartizione stabilite di comune accordo; la Dc e il Psi incassavano dal 10 al 15 per cento del valore dei lavori appaltati, gli altri decrescevano secondo il peso elettorale e politico; l'opposizione, più che denari contanti, otteneva quote di lavoro per le cooperative ed erano poi queste a trasferire una parte del ricavato al Pci.

Mani pulite rivelò che lo Stato era corrotto fino al midollo perché la partitocrazia aveva occupato le istituzioni. Di qui partì la questione morale denunciata da Enrico Berlinguer. Interrogati oggi su Tangentopoli, alcuni degli esponenti del "pool" di Mani pulite, rispondendo alla domanda del perché le Procure si siano mosse soltanto nel 1992 mentre il fenomeno era in atto dai primi anni Ottanta, hanno risposto che non sapevano nulla fino a quando scoppiò il caso Chiesa e le mazzette del Pio Albergo Trivulzio. Forse non leggevano i giornali quei procuratori, o almeno non leggevano Repubblica. Noi denunciammo sistematicamente la corruttela di Stato a partire dal 1985. Nel '87 denunziammo anche il corrotto sodalizio Craxi-Berlusconi.

Conclusione: Mani pulite fu una benedizione. L'effetto di quell'inchiesta fu l'affondamento della partitocrazia. Ma purtroppo non bastò.

***

Non bastò per tre ragioni. La prima: non vi fu una lotta continuativa, sistemica come ora si usa dire, contro la corruzione. Una legge in proposito fu varata da Giuliano Amato ma era solo un inizio che non ebbe alcun seguito.

La seconda ragione fu il berlusconismo che era caratterizzato da una polemica di alta intensità contro la magistratura inquirente e giudicante e da leggi che indebolirono fortemente le sanzioni contro i reati tipici della corruzione, a cominciare da quelli sul falso in bilancio.

La terza fu l'ischeletrirsi dei partiti che si preoccupavano sempre meno del loro rapporto con gli elettori e si rattrappirono su se stessi. L'antipolitica  -  da sempre latente nello spirito degli italiani - tornò ad essere un fenomeno di massa alimentato dal populismo, dalla demagogia e dal pessimo esempio fornito dalla classe dirigente.

Il solo punto di riferimento positivo e in controtendenza fu la presidenza della Repubblica durante i settennati di Ciampi e di Napolitano. Quest'ultimo - ancora in corso fino al maggio del 2013 - si trovò a dover affrontare la più grave crisi economica dopo quella del '29, ancora in pieno svolgimento. Se il Quirinale non fosse stato e tuttora non sia in mani sicure ed efficienti dal punto di vista della democrazia e dell'economia sociale di mercato, navigheremmo in mari assai più tempestosi di quelli pur agitati che il governo Monti sta affrontando.

***

Il nostro circuito mediatico ha dato in questi giorni molta evidenza alla notizia dell'Istat che negli ultimi due trimestri del 2011 l'Italia è entrata in recessione e all'altra notizia di ottantamila giovani che hanno perso il posto di lavoro nei nove mesi dello scorso anno.

Sono due notizie molto spiacevoli ma erano note da tempo anche se l'Istat ha dato loro il crisma dell'ufficialità; sicché il clamore mediatico è francamente eccessivo. Il vero tema da porre oggi è quello di capire se la recessione continuerà, fino a quando e con quale intensità.

Continuerà, non c'è dubbio, non solo in Italia ma anche in Europa. In Usa sembrerebbe invece che sia in vista una moderata ripresa, ma non tale da far da locomotiva al convoglio. La durata dipende da vari fattori: provvedimenti di crescita adottati dall'Unione europea, provvedimenti di crescita nei singoli Paesi dell'Unione, definitiva soluzione della questione greca, politica monetaria della Bce.

Sui provvedimenti di crescita dell'Unione europea non c'è da farsi molte illusioni, anche se le ultime vicende politico-costituzionali della Germania hanno cambiato sostanzialmente il quadro. Lo si è visto all'evidenza nelle telefonate Merkel-Sarkozy con le quali la Cancelliera ha dovuto motivare con le dimissioni del presidente della Repubblica Wulff la sua impossibilità di abbandonare Berlino. Da quello che è trapelato la Merkel si trova ora in uno stato di notevole difficoltà e le ragioni ne sono ampiamente spiegate nelle nostre pagine dedicate a questo tema. La sua debolezza politica comporta di pari passo un'accresciuta capacità di negoziato da parte di quegli europei che puntano sulla crescita e su una più costruttiva pietas nei confronti del governo e soprattutto del popolo greco. Questi uomini hanno un nome e vedi caso il nome è il medesimo e si tratta di due italiani, Monti e Draghi.  Al punto in cui siamo, per fugare ogni dubbio sulla ripresa dell'Europa occorrerebbe il trasferimento, sia pur parziale, dei debiti sovrani dagli Stati all'Unione. Finora la Germania non è stata d'accordo; sarà possibile una resipiscenza dopo quanto sopra detto? In alternativa ci vorrebbero trasferimenti più corposi dall'Unione agli Stati per aiutare le politiche di sviluppo dei medesimi, ma bisognerebbe stabilire un'imposta europea per rimpinguarne il bilancio; per esempio un'Iva europea, provvedimento peraltro non privo di effetti depressivi e/o inflazionistici.

Ma stimolare la domanda nei singoli Stati è un'impresa necessaria. Il governo Monti ci sta pensando ed è auspicabile che dai pensieri si passi ai fatti. Dal recupero dell'evasione e dal taglio delle agevolazioni fiscali inutili (spending review) ci si possono attendere una ventina di miliardi. La riforma delle pensioni e le liberalizzazioni ne possono dare almeno altri dieci e forse più, ma non prima del 2013-14.

Per quella data si può dunque prevedere una massa d'urto di 40 miliardi strutturali e con un bilancio in pareggio un saldo positivo delle partite correnti di 5 punti di Pil da destinare alla graduale diminuzione del debito sempre che lo spread diminuisca sotto quota 200 o più.

La massa d'urto dovrebbe finanziare sgravi fiscali alle fasce di reddito medio-basse, ai contributi delle imprese sugli stipendi dei dipendenti, agli ammortizzatori sociali. Concludendo: nel 2013 la recessione dovrebbe esser finita e nel 2014 il reddito italiano dovrebbe poter crescere del 2 per cento annuo.
Alla base di questi miglioramenti è prevedibile, anzi è sicura perché già in atto (e se ne stanno infatti vedendo i primi positivi effetti) una politica monetaria espansiva da parte della Bce.

Il temuto default del debito greco sarà certamente tamponato fin da domani, ma lascia quel Paese in condizioni drammatiche. Sappiamo quali sono stati gli errori colposi e per certi aspetti perfino dolosi dei governi greci degli ultimi dieci anni (compreso il dispendio per le Olimpiadi). Ma la responsabilità dell'Europa tedesca in questa triste vicenda è stata gravissima.

Non si può commissariare un Paese solo per tutelare la propria ricchezza nazionale. Non si può giocare con i bisogni primari di un popolo sovrano. Non si può provocare una quasi guerra civile per una manciata di spiccioli lesinati. Non si può mettere a rischio il sistema bancario internazionale.

Due parole ancora sulla Germania. È il nostro principale alleato europeo ma nessuno può dimenticare che la Germania è responsabile di due guerre mondiali e di un genocidio. Dovrebbe tener presente questi dati della sua recente storia e operare con estrema cautela prima di assumersi altre altrettanto gravose responsabilità. Mettere a rischio non solo la Grecia ma il destino stesso dell'Europa è un pericolo che  -  se non segnalato in tempo  -  può creare una situazione politicamente invivibile nel nostro continente e nella sua pubblica opinione che finirebbe con l'additare la Germania per la quarta volta in un secolo come il nemico pubblico numero uno.

Forse è venuto il momento che le voci autorevoli dell'Europa politica, culturale e mediatica lancino questo avvertimento alla Germania democratica. Bloccato il default a durissime condizioni, la Grecia deve essere aiutata a ritrovare un minimo di prosperità alla quale i suoi cittadini, che sono anche cittadini europei, hanno anch'essi diritto.

Post scriptum. Bene Elsa Fornero e bene i sindacati confederali. Il negoziato è cominciato costruttivamente e ci si augura che così possa concludersi togliendo al mercato del lavoro tante inutili ingessature che favoriscono la precarietà e impediscono la necessaria flessibilità in tempi di globalizzazione. Lascino da parte l'articolo 18. La sua esistenza è utile soltanto per impedire licenziamenti discriminatori che vanno comunque bloccati e sanzionati. Per il resto è un numero che non ha alcun significato, sia che rimanga sia che venga abolito.

(19 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/19/news/editoriale_scalfari_19_febbraio-30134098/?ref=HREC1-21
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #347 inserito:: Febbraio 26, 2012, 06:23:11 pm »

IL COMMENTO

Il governo Monti tra destra e sinistra

di EUGENIO SCALFARI


Fino a poco tempo fa si diceva che l'Europa avesse molti problemi, uno dei quali era la Grecia ma i più preoccupanti erano la Spagna e soprattutto l'Italia. Oggi però risulta chiaro che il vero problema è l'Europa, anzi l'Europa tedesca perché è la Germania a dare il "la" a tutta l'orchestra delle istituzioni europee. Il presidente del Consiglio, Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione Manuel Barroso, i commissari, i direttori generali e i loro vice, i segretari del Parlamento di Strasburgo e i funzionari delle commissioni parlamentari: una vasta e potente burocrazia plurinazionale dove i posti-chiave sono in mano a tedeschi e francesi e ai loro stretti alleati e dove le funzioni politiche sono esercitate da una tecnostruttura che ha gli occhi costantemente rivolti a Berlino.

Il voto all'unanimità, che è ancora la regola per le decisioni più importanti dell'Unione, costituisce una delle varie armi a disposizione della Germania. È vero che esso conferisce un diritto di veto a tutti i Paesi dell'Unione, ma quei veti possono essere controllati, ammorbiditi, aggirati quando a porli sia uno degli altri 26 Paesi membri; ma quando è la Cancelliera tedesca a dire "no", quel no è insuperabile perché  -  tutti ormai l'hanno capito - è Berlino che fa la legge. Anche la Francia infatti ha ormai piegato la testa riconoscendo d'esser figlia di un Dio minore. La Germania è il Paese europeo più ricco, più produttivo, più
innovativo dell'Unione; è il centro geopolitico del continente ed è ormai l'alleato privilegiato degli Stati Uniti.

Questo è lo stato dei fatti anche se formalmente non appare, anzi non appariva fino a qualche anno fa, ma adesso l'egemonia tedesca sulla politica economica dell'intero Continente è conclamata. Purtroppo si tratta d'una politica ottusamente deflazionistica, ottusamente "virtuosa", ottusamente manichea e quindi socialmente crudele. Per conservare ed accrescere la sua egemonia la Germania rifiuta o rallenta il percorso che dovrebbe portarci alla nascita di un'Europa federale come previsto dallo spirito dei trattati fondativi della Comunità. Rifiuta che l'Europa sia rappresentata da una sola voce e che un suo rappresentante (dell'Europa) entri a far parte come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. Rifiuta che lo stesso avvenga nel Fondo monetario (Fmi) e nelle altre istituzioni internazionali. Rifiuta infine che la Banca centrale europea abbia lo "status" delle Banche centrali di tutto il mondo.

La Germania vuole invece che l'Unione rimanga a mezza strada tra una semplice Confederazione di libero scambio e un vero Stato con elezioni popolari dirette e organi federali. A mezza strada significa una struttura intergovernativa dove i governi più forti fanno la legge e dove gli Stati nazionali mantengano piena autonomia salvo alcuni spicchi di sovranità trasferiti all'Unione (vedi il rigorismo economico) se quel trasferimento rafforza l'egemonia dello Stato-guida. La situazione attuale si può dunque riassumere così: la Germania impedisce che ai cittadini degli Stati nazionali siano riconosciuti tutti i diritti che una piena cittadinanza europea comporta. Questo è il problema europeo.

Da qualche mese però si è aperta una falla nella carena dell'Europa tedesca. L'hanno aperta Mario Monti da un lato e Mario Draghi dall'altro. Non credo che ci sia un accordo tra loro, ma una convergenza oggettiva la si vede senza bisogno di lenti d'ingrandimento. L'obiettivo di Monti è di far tornare l'Italia in prima fila sulla scena della politica europea e di favorire ulteriori cessioni di sovranità dagli Stati nazionali alle istituzioni dell'Unione. Il documento firmato da Monti e da Cameron, dalla Spagna e dalla Polonia, dall'Olanda, dalla Repubblica Ceca e dagli Stati Baltici, che chiede di concentrare nella Commissione europea la gestione della concorrenza e delle regole che la tutelino soprattutto nel settore dei servizi fin qui trascurato, marcia in quella direzione. Non a caso Germania e Francia per ora non hanno aderito a quell'iniziativa. I "media" dal canto loro l'hanno sottovalutata sebbene essa possieda una forte carica di liberalizzazione intra-europea, mirata non più al rigore già acquisito ma alla crescita. Si tratta in realtà di un'iniziativa contro le "lobby" a livello continentale.

Monti conosce bene quel tema, fa parte della sua lunga esperienza di commissario dell'Unione. Non è un caso che la sua iniziativa europea avvenga in sintonia con il decreto sulle liberalizzazioni in discussione nel Parlamento italiano e non è un caso che proprio l'altro ieri il presidente del Consiglio abbia deciso di disconoscere tutti gli emendamenti che le lobby hanno tentato di introdurre nel decreto attraverso la compiacenza dei partiti di riferimento.

Il presidente della Repubblica  -  che segue con la massima attenzione quanto sta accadendo su questo tema sia in Italia sia in Europa  -  è intervenuto giovedì scorso contro la pioggia di emendamenti eterogenei sul decreto delle semplificazioni ed ha contemporaneamente ricordato l'importanza della politica di liberalizzazioni. Anche il Partito democratico s'è schierato sullo stesso terreno che del resto fu proprio Bersani ad anticipare come ministro dell'Industria all'epoca del governo Prodi. Mario Draghi batte anche lui su quel tasto ad ogni sua uscita pubblica. I veri nodi strategici di questa politica non sono i tassisti, le farmacie e neppure gli ordini professionali. I veri nodi da sciogliere sono i costi dell'energia, la rendita metanifera dell'Eni, l'intreccio degli interessi tra le banche, le fondazioni, le compagnie d'assicurazione. E anche, ovviamente, il mercato del lavoro.

La battaglia delle liberalizzazioni non ha niente a che vedere con l'ideologia liberista. Soltanto una sinistra becera e aggrappata alle mitologie e alle ideologie del secolo scorso può identificare la lotta contro le corporazioni e contro gli intrecci d'interesse con il thatcherismo e il reaganismo. Il capitalismo democratico e la politica sociale di mercato furono l'esatto contrario del liberismo selvaggio che porta sempre nel suo ventre l'oligopolio e il monopolio. L'economia globale ha riaperto questo problema ponendolo su basi del tutto nuove. Il capitalismo democratico rese possibile l'incontro con il riformismo socialista nel felice trentennio che va dal 1945 alla metà degli anni Settanta. Ora quel modello va ricostruito su nuove basi.

Nuovo modello ma identici obiettivi. Per questo è un'assurdità porre la domanda se Mario Monti sia di destra o di sinistra. Monti è un riformista e un innovatore. Ci può essere una destra riformista e innovatrice (la Destra storica lo fu) e una sinistra riformista e innovatrice e così pure un sindacato e un'imprenditoria con quei medesimi obiettivi. Qualche nome del nostro passato, tanto per avere concreti riferimenti? Li ho già fatti in altre occasioni quei nomi ma forse è bene ripetersi per chi non ha orecchi per ascoltare o cervello per intendere: Luigi Einaudi, Ezio Varoni, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Raffaele Mattioli, Altiero Spinelli, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Luciano Lama, Pasquale Saraceno, Nino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi. L'elenco è assai più lungo, per fortuna c'è stata e c'è ancora un'Italia perbene, responsabile e consapevole, che antepone l'interesse generale a tutti gli altri. Credo che i nostri due Mario facciano parte di questo elenco.

La riforma del mercato del lavoro fa parte della politica di liberalizzazione la quale non si limita a liberalizzare le merci e i servizi. Questa è la parte più facile ed è già in gran parte avvenuta in Europa con la nascita della Comunità e i trattati di Roma del 1957. Può e dev'essere migliorata e completata, ma il nodo da sciogliere ora è un altro e riguarda le persone. Il mercato del lavoro non è uno spazio unitario ma uno spazio segmentato. C'è un mercato del Sud e uno del Nord, un mercato del lavoro per gli uomini e uno per le donne, uno per i giovani e uno per gli anziani, uno a tempo indeterminato e uno a tempo determinato, uno alla luce del sole e uno sommerso, uno per le piccole imprese e uno per le grandi, uno per i privati e uno per lo Stato e gli enti pubblici, uno per i cittadini e uno per gli immigrati. Infine ci sono gli occupati, i sotto-occupati e i disoccupati e ci sono tutele sociali per alcuni e nessuna tutela per altri.

Si può dire che il mercato del lavoro in Italia in queste condizioni di intensa segmentazione fatta di veri e propri compartimenti-stagno non comunicanti tra loro, sia un mercato libero dove liberamente si confrontano la domanda e l'offerta di lavoro? Certamente no e lo sanno benissimo le rappresentanze sindacali dei lavoratori e quelle degli imprenditori. Un vero mercato libero e unitario non ci sarà mai perché alcune segmentazioni dipendono dalle diverse tipologie di lavoro; ma l'intensità delle segmentazioni attuali è irrazionale e insostenibile, impastata da privilegi e da rendite di posizione. Un governo che voglia modernizzare la società e accrescerne la produttività puntando sulla liberalizzazione del sistema ha dunque tra i primi obiettivi quello di riformare il mercato del lavoro, gli strumenti contrattuali che ne costituiscono le nervature, i meccanismi di tutela sociale e la parità di accesso e di recesso privilegiando i settori più sfavoriti e più deboli, cioè i giovani e le donne.

In un quadro di queste dimensioni la discussione sull'articolo 18 dovrebbe essere del tutto marginale. Forse simbolica, ma nella sostanza marginale sia per il governo sia per le parti sociali riunite intorno a quel tavolo. Quell'articolo sta per tutela della giusta causa. È evidente a tutti che la giusta causa in un Paese moderno e civile è un canone da rispettare. Non si può licenziare un lavoratore solo perché è antipatico al padrone; tanto meno per le sue opinioni o per il colore della pelle. Ma si deve poter licenziare se il lavoratore non rispetta i ritmi di lavoro previsti dal contratto, se rompe la disciplina che il contratto prevede, se l'azienda deve ridurre la produzione per ragioni economiche dimostrate. Questo complesso di elementi che configura sia l'accesso al lavoro sia il recesso, sono tutelabili in vari modi. L'articolo 18 è alquanto generico ed ha generato una giurisprudenza discutibile e discussa. Può esser sostituito da un testo diverso oppure modificato oppure lasciato tal quale chiarendo meglio la giurisprudenza. In ogni caso  -  come giustamente ha detto Anna Finocchiaro in una pubblica e recente intervista  -  le norme che regolano l'entrata e l'uscita dal lavoro vanno estese a tutte le aziende e a tutti i lavoratori mentre l'articolo 18 restringe la tutela agli occupati in aziende che occupano più di 15 dipendenti. I dipendenti di imprese al di sotto di quella soglia sono privi di tutela e questo non è ammissibile.

Il mercato del lavoro non è mai stato così frastagliato. Lo è da vent'anni in qua. Bloccare l'orologio agli anni Ottanta dell'altro secolo è una richiesta irricevibile e se questo fosse lo spirito del sindacato bisognerebbe concluderne che esso è fuori dal tempo; ma ancor più fuori dal tempo sono coloro che in Confindustria o in altre consimili associazioni vorrebbero tornare all'epoca del "padrone delle ferriere". Le basi per un accordo ci sono perché l'obiettivo comune non può che essere liberalizzazioni moderne, coesione sociale e tutele per i più deboli. Due parole sul governo tecnico e quello politico. In una democrazia parlamentare questa distinzione non può esistere, ogni governo deve avere la fiducia del Parlamento e perciò tutti i governi sono politici. Ci sono invece vari modi per scegliere il Capo del governo. Lo può scegliere direttamente il popolo, lo possono scegliere i partiti e i loro gruppi parlamentari, lo può scegliere il Capo dello Stato. Nel primo caso  -  scelta popolare diretta  -  siamo però fuori dalla democrazia parlamentare. Nel secondo e nel terzo caso ci siamo dentro. La nostra Costituzione prevede il secondo e il terzo caso. Durante la prima Repubblica si praticò la scelta affidata ai partiti e ratificata dal presidente della Repubblica. Nella seconda Repubblica il sistema si avvicinò a quello presidenziale e si distaccò notevolmente da quello parlamentare. Complessivamente sono stati molto rari i casi nei quali è stato rispettato il dettato costituzionale. Avvenne durante il settennato di Luigi Einaudi, un paio di volte in quello di Scalfaro (l'incarico a Ciampi e l'incarico a Dini) e con la nomina di Monti e del suo governo da parte di Giorgio Napolitano.

Chi continua a sostenere che il governo Monti sia soltanto "tecnico" e dettato dall'emergenza, sostiene una cosa giusta (l'emergenza) e un'altra falsa (il governo dei tecnici). A mio avviso il meccanismo adottato da Napolitano è quello che meglio corrisponde al dettato costituzionale e deve dunque sopravvivere al governo Monti diventando norma stabile visto che è l'unica prevista in Costituzione. Nel frattempo il governo governi. L'economia soprattutto, perché l'emergenza lo richiede, ma anche tutti gli altri temi e problemi che riguardano la vita del paese e del suo futuro.

Post scriptum. Il processo Mills-Berlusconi si è concluso con la prescrizione, decisa in sentenza dal Tribunale di Milano. È prassi consolidata che se l'imputato è giudicato innocente, il dispositivo della sentenza ne dia atto. Se invece è giudicato colpevole o se seriamente indiziato di colpevolezza, ma sia caduto in prescrizione, la sentenza applichi la prescrizione nel dispositivo e parli della colpevolezza nelle motivazioni. Attendiamo dunque di leggerle. La difesa dell'imputato sembra orientata ad appellarsi contro le motivazioni della sentenza se esse accogliessero la tesi della colpevolezza. È evidente tuttavia che non ci si può appellare contro le motivazioni se non si fa formale rifiuto della prescrizione. Se questo fosse la decisione della difesa e dell'imputato prescritto, essa sarebbe altamente apprezzabile e noi saremmo pronti a riconoscerlo, ma qualche cosa ci fa pensare che questo non avverrà.

(26 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/26/news/il_governo_monti_tra_destra_e_sinistra-30515312/?ref=HREC1-3
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #348 inserito:: Marzo 04, 2012, 11:07:03 am »

Opinione

Il trionfo dei nuovi barbari

di Eugenio Scalfari

C'è una massa che vive il presente senza progetti e con uno sbiadito ricordo del passato.

Il Festival di Sanremo è l'apoteosi di questa società. Che non ha una visione politica del bene comune

(23 febbraio 2012)

Ho letto domenica scorsa sulla "Repubblica" tre articoli che riguardano un tema molto importante, visto da diverse angolazioni. Ne cito gli autori perché vale la pena di leggerli: Massimo Recalcati, Benedetta Tobagi, Giuseppe Videtti. Il tema è questo: "E' sempre più difficile crescere in un mondo che sogna l'eterna giovinezza. Dai videogame ai social network si è diffuso un modello di società a "responsabilità zero"".

E' un bel tema, non è vero? Ne parlò un anno fa il compianto Tommaso Padoa-Schioppa con la parola "bamboccioni" che allora fece molto discutere. Più recentemente l'ha ripreso Mario Monti a proposito della monotonia del posto di lavoro fisso. Ma qui si tratta d'altro. Non più e non soltanto di giovani che non vogliono invecchiare ma di adulti che non sono tali e diventeranno vecchi essendo rimasti bambini per tutta la vita. Ce ne sono sempre stati al mondo di tipi così, a cominciare da Telemaco col padre Odisseo; ma ora sono diventati massa, una massa che vive il presente senza progetti e speranza di futuro e con uno sbiadito ricordo del passato.

Questo tema dell'eterno presente mi è familiare e gli ho dedicato molte pagine nei miei ultimi libri, ma forse vi stupirete se dico che, dopo aver letto gli articoli sopracitati, m'è venuto in mente per associazione di idee il Festival di Sanremo da poco concluso. Gianni Morandi, Pupo, i cantanti e il pubblico, quello dell'Ariston e quello appiccicato ai televisori: 12-14 milioni di persone con punte anche superiori.

Bamboccioni? Adulti non cresciuti? E Celentano, bravissimo cantante e modesto profeta, per il quale vale la perfetta definizione datagli all'Ariston da Geppi Cucciari: "Nessuno deve sapere prima che cosa dirà e nessuno deve capire dopo che cosa ha detto". Ma forse siamo noi, io e voi che mi leggete, a essere fuori del tempo, chiusi in torri non certo d'avorio ma di plastica per ripararci dal nuovo che avanza?

Il discorso è lungo e per quanto mi riguarda l'ho già fatto nel mio libro "Per l'alto mare aperto" dove racconto che cosa è stata l'epoca della modernità fino all'arrivo dei nuovi barbari.

Io vedo i nuovi barbari come una generazione di giovani vigorosi che scelgono nuove forme di linguaggio e lottano per costruire un futuro del tutto diverso dal nostro lascito, ma confesso che questa visione positiva dei barbari ha trovato fin qui scarso riscontro.

La modernità è certamente un'epoca ormai conclusa, ma la società attuale è profondamente imbarbarita, non crea nuovi valori e si limita a deturpare quelli ricevuti dal passato. Non è capace né di custodire il ricordo della modernità né di rinnovarla e di proiettarla verso il futuro.

Una società imbarbarita può avere una visione politica del bene comune? Ne dubito. Una visione del bene comune comporta un'assunzione di responsabilità poco compatibile con l'imbarbarimento. Le società imbarbarite sono piuttosto sedotte dal populismo e dall'antipolitica. Gli interessi particolari soverchiano quelli generali, lo Stato è considerato un nemico, la Costituzione un vincolo inutile, la legalità una parola vuota, una sorta di plastilina che ciascun interesse lobbistico modella a proprio uso e consumo. E questa è appunto la situazione dalla quale il nostro Paese è appena uscito, o almeno così sembra. Naturalmente il rischio di ricascarci dentro è tutt'altro che scongiurato.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-trionfo-dei-nuovi-barbari/2175021/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #349 inserito:: Marzo 04, 2012, 11:08:23 am »

L'EDITORIALE

Una strana gioventù che odia la velocità

di EUGENIO SCALFARI

Ieri è stato il sabato dei No-Tav in Valle e fuori Valle, a Roma e a Milano, a Mantova, ad Imperia, a Pisa, ad Alessandria, a Pesaro, ad Avellino e in molti altri luoghi urbani e universitari. Gli studenti sono infatti molto impegnati e la Tav  -  cioè l'Alta Velocità  -  è diventata l'obiettivo su cui puntare i fucili della polemica, la sfida alla politica e al governo, alle banche e al capitale, all'Europa dei tecnocrati e ai "media" servi dei padroni.

Però i cortei di ieri erano colorati e anche festosi. Qua e là qualche incidente e qualche occupazione stradale ma per fortuna nulla di grave.

Resta pur sempre il problema di come sbloccare la situazione nella Valle. L'idea d'una moratoria (Di Pietro) è bizzarra: i lavori sono in ritardo di sei anni e tutte le indagini geologiche, economiche, ambientali, impiantistiche che dovevano esser fatte sono state fatte; le modifiche al tracciato per venire incontro ad alcune richieste dei sindaci e delle popolazioni che rappresentano, sono state effettuate.

L'idea avanzata da Adriano Sofri d'una consultazione para-referendaria solleverebbe una quantità di questioni molto più spinose di quelle che in teoria dovrebbe risolvere. Anzitutto: chi dovrebbe votare in quella consultazione? I residenti nella Valle o anche le popolazioni servite dalla linea ferroviaria direttamente e indirettamente? E quali sono quelle popolazioni? Torino? Alessandria? Genova? Modena? Il Nordest?

O addirittura tutta l'Italia
se si sta discutendo d'un interesse generale che confligge con alcuni interessi particolari? Per questo c'è un Parlamento e un governo. Il referendum non è previsto né prevedibile, specie quando c'è di mezzo una direttiva europea ed un accordo internazionale tra Italia e Francia.
Infine, una consultazione para-referendiaria creerebbe un precedente che sarebbe certamente invocato per ogni opera pubblica. Capisco le buone intenzioni di Sofri, ma in questo modo si sfascerebbe definitivamente l'amministrazione di un Paese che è già molto sfasciata.

Mi stupisce in particolare la posizione degli studenti, ostile all'Alta Velocità. I treni stanno accrescendo le loro "performance" in tutto il mondo. Sono palesemente in gara con i trasporti aerei. Le linee "dorsali" consentono la costruzione di nuove reti che sviluppino i trasporti locali e "pendolari". Cinquant'anni fa un meccanismo analogo e un'analoga rete furono creati per i trasporti su gomma. Ricordo che la sinistra italiana pose il problema dell'altissimo livello di inquinamento creato dal trasporto su gomma. Il problema fu discusso fin dagli inizi degli anni Cinquanta dello scorso secolo; lo sostenevano uomini come Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, La Malfa, Natoli, ma furono sconfitti: l'alleanza tra l'Eni e la Fiat puntava sul trasporto su gomma e fu quella la scelta. Ma oggi la tecnologia consente di riproporre il treno e gli ecologisti dovrebbero essere in festa ai cortei favorevoli all'Alta Velocità. E i giovani insieme a loro.

Perché sono contrari? Ho letto che tra i più contrari ci sono gli studenti dell'Università della Calabria. Sono di origini calabresi e conosco bene quei territori. Le amministrazioni locali non avevano mai raggiunto un livello di degrado organizzativo e morale come adesso. I giovani dell'Università della Calabria ne avrebbero di problemi da affrontare. Invece si mobilitano contro l'Alta Velocità. Ma che senso ha? Lo "sfasciume pendulo" calabrese segnalato da Giustino Fortunato 150 anni fa continua a far precipitare le montagne fangose nei torrenti e nel mare sottostante. Cristo si era fermato a Eboli, ma nel frattempo la 'Ndrangheta ha fatto man bassa su tutti i territori di quelle zone.

Si teme che le organizzazioni mafiose si aggiudichino le commesse per la costruzione delle reti Tav. Questo sì, è un problema assai grave che va affrontato; non per impedire le opere ma per farle con tutti i crismi di legalità. Se il movimento e i sindaci della Valle si mobilitassero per garantire questi obiettivi; se gli studenti, i giovani, i lavoratori, lottassero per consimili risultati in tutto il Paese: questa sì, sarebbe una battaglia che potrebbe rappresentare un salto in avanti di tutta la società italiana e l'inno per quei cortei è già bello e pronto: "When the Saints / go marching in / I want to be in that number". Coraggio, studenti del Duemila. I vostri padri e i vostri nonni avrebbero voluto qualche cosa di simile, ma rimasero a mezza strada e le loro speranze furono riassorbite dagli interessi delle "lobby". Oggi si può tentare una spallata a quegli interessi, ma bisogna stare dalla parte giusta, non da quella sbagliata.

                                                                    * * *

Le riflessioni fin qui fatte ci portano a riconsiderare (l'ho già fatto più volte nelle scorse settimane) la politica di Monti e il tema del "dopo Monti" che col passare dei mesi si pone con crescente attualità.

Il governo ha compiuto da poco i suoi cento giorni. Ha fatto qualche errore di percorso (chi non ne fa?) sostanzialmente veniale. In qualche punto ha dovuto tener conto della maggioranza che lo sostiene e degli interessi che i vari partiti rappresentano. Ma nel complesso la sua azione si è svolta nella giusta direzione e con la massima velocità.

I dati economici e finanziari parlano da soli e il loro linguaggio è talmente univoco che non vale la pena di sottoporli di nuovo all'attenzione dei lettori.

Nei prossimi giorni entrerà nel concreto la riforma del mercato del lavoro. Ci sono ancora molti punti da decidere tra le parti, ma la sensazione è che un accordo si stia profilando anche se la sua messa in opera avverrà per fasi successive. La sostanza della riforma è che l'accordo copra tutti i vari aspetti del sociale e proceda in modo bilanciato, senza abbandonare vecchie tutele se non quando le nuove saranno pronte e le relative coperture finanziarie disponibili.

Ci vorranno anni perché la riforma possa dirsi compiuta e i suoi obiettivi raggiunti: l'eliminazione del precariato, la flessibilità in entrata e in uscita, il mantenimento della giusta causa per tutti i lavoratori, lo sfoltimento delle diverse tipologie contrattuali, le tutele estese a tutti indipendentemente dal contratto e dalle dimensioni dell'azienda, i processi di formazione.

Ma soprattutto ci vorrà la crescita del sistema e della sua produttività che richiede interventi del governo e impegno degli imprenditori e dei lavoratori. C'è un grosso equivoco ancora da chiarire su questo punto: la responsabilità degli imprenditori per quanto riguarda la produttività è nettamente superiore a quella dei lavoratori. Sarà molto opportuno che questo elemento del problema sia sottolineato e rappresenti un impegno concreto delle associazioni imprenditoriali.

A questo punto si pone la questione del "dopo Monti". Il presidente del Consiglio  -  al quale l'ironia non fa certo difetto  -  ha detto qualche giorno fa che "se farà bene, alla scadenza della legislatura la sua presenza non sarà più necessaria né richiesta; se farà male invece gli si chiederà di restare". Ma c'è una terza ipotesi: che abbia fatto bene ma che il lavoro sia ancora incompiuto. Questa è una parte del tema che chiamiamo "il dopo Monti". Ma c'è un'altra parte non meno importante (anzi di più): la discontinuità che il governo Monti ha prodotto e non perché interamente composto da tecnici ma per le modalità che hanno determinato la sua nascita. Questo è il vero tema del "dopo Monti".

                                                                     * * *

Per colmare quella discontinuità occorre una riforma seria dei partiti, del loro modo di funzionare e soprattutto del loro ruolo nella società. Spetta agli interessati riformarsi anche se non è facile che il malato sappia auto-curarsi. Questa comunque è la prova cui tutte le forze politiche, nessuna esclusa, sono chiamate e che incrocia la riforma della legge elettorale e le riforme istituzionali della "governance".

Ci sono poi le operazioni di schieramento. Berlusconi ha lanciato il "tutti per l'Italia" proponendo che sia Monti a guidare una coalizione basata su due pilastri: i moderati da un lato (con Casini e Fini sottobraccio a lui medesimo) e il Pd dall'altro.

Quest'operazione (l'ha scritto Massimo Giannini ed è l'esatta verità) è disperata: è il solo modo che resta a Berlusconi di garantire l'esistenza del suo partito e la propria. Ma proprio per questo, né Casini né Fini e tantomeno Bersani accetteranno quest'ipotesi. Anzi l'hanno già proclamato e quindi l'ipotesi è inesistente.
L'altra possibilità è un'alleanza (elettorale o post-elettorale) tra il Centro e la Sinistra riformista. Un Centro ovviamente rinforzato dall'implosione del Pdl e una Sinistra riformista che recuperi l'ampia fuga che l'ha assottigliata rispetto alle politiche del 2008.

Su questo tema si discute molto ma spesso con idee assai confuse. Se può essere utile l'esperienza d'un vecchio testimone della politica italiana, il mio parere è questo: il Partito democratico è cosa diversa sia dall'Ulivo sia  -  ancor più  -  dai partiti post-comunisti e post-democristiani che lo precedettero. Si può definire un "cappuccino", fatto di latte e di caffè. Questi due elementi possono essere diversamente dosati secondo le contingenze, ma nessuno dei due può essere eliminato perché  -  se lo fosse  -  il cappuccino non esisterebbe più e ci sarebbe soltanto il caffè da una parte e il latte dall'altra.

Ho usato un'immagine pedestre per esser chiaro e me ne scuso, ma la sostanza è quella.

Il Pd e il Centro possono allearsi per una legislatura costituente. Possono chiedere a Monti di presiedere il governo. Monti risponderà come crede, ma ove la risposta fosse positiva penso che il Parlamento riunito per eleggere il presidente della Repubblica dovrebbe votare per un nuovo settennato di Giorgio Napolitano. Lui e Monti ci stanno portando fuori dal tunnel. Se il lavoro si deve compiere nessuno meglio di quel tandem può farlo. Napolitano  -  lo conosco bene  -  dirà risolutamente di no, ma se il nuovo Parlamento decidesse in quel senso penso che dovrebbe arrendersi alla volontà dei rappresentanti del popolo sovrano. 

(04 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/04/news/una_strana_giovent_che_odia_la_velocit-30907056/?ref=HRER1-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #350 inserito:: Marzo 15, 2012, 12:18:35 pm »

Opinione

Perché Vendola non entra nel Pd?

di Eugenio Scalfari

Il Pd deve restare un partito liberal-socialista se vuole vincere.

Ma nulla vieta che la quantità di latte e di caffè nella miscela possano cambiare. Per esempio, con l'ingresso di Vendola

(14 marzo 2012)

Domenica scorsa, in un articolo su "Repubblica", ho paragonato il Partito democratico a un cappuccino, non un frate ma la bevanda che è una gustosa mistura di latte e caffè. Ho aggiunto che il dosaggio può variare secondo le vicende congiunturali, ma né il caffè né il latte possono essere eliminati o ridotti a dosi impercettibili, altrimenti il cappuccino cessa di esistere. Poi mi sono scusato con i lettori per aver proposto un esempio pedestre per dare la maggior chiarezza possibile all'argomento.

Non immaginavo l'eco che quell'esempio ha suscitato. La mia posta elettronica in poche ore mi ha recapitato una quantità insolita di messaggi; altri sono arrivati via telefono o con lettere recapitate di persona. Quasi tutti gli interlocutori si dichiaravano d'accordo; qualcuno però - giustamente - mi ha chiesto di dare all'immagine del cappuccino uno sfondo culturale e politico. Raccolgo con piacere questa richiesta.

Quando il gruppo dirigente dell'Ulivo - l'alleanza elettorale e politica che si era raccolta attorno a Romano Prodi nel 2006 - incaricò Veltroni di dare sviluppo al nuovo partito del quale l'Ulivo costituiva il seme, le primarie confermarono quella scelta politica e quella candidatura con 3 milioni di voti. Era l'autunno del 2007, le elezioni generali erano state indette per la primavera e Veltroni espose al Lingotto di Torino il programma del nuovo partito che fu approvato con grande entusiasmo e all'unanimità.

Il programma era molto chiaro: vocazione maggioritaria, riforme strutturali di modernizzazione del sistema-paese, lotta contro ogni discriminazione, piena libertà religiosa, lotta contro le mafie, le lobby e i monopoli. Non sarebbe stato un partito post-comunista né post-popolare, ma riformista e innovatore. Giovani, donne e Mezzogiorno dovevano essere obiettivi di massima importanza. La cultura doveva rappresentare lo strumento-principe della modernizzazione, a cominciare dai partiti il cui ruolo era stato deformato dalla partitocrazia della prima Repubblica e dal populismo della seconda.

Assistetti a quella lunga giornata del Lingotto e nei giorni seguenti pensai a quali ne fossero i precedenti culturali e politici nella storia d'Italia. Mi vennero in mente Turati, Gobetti, il socialismo riformista dei fratelli Rosselli, il liberalsocialismo di Guido Calogero e infine Norberto Bobbio, Piero Calamandrei e Galante Garrone. Queste furono le patenti nobili del riformismo italiano che transitò assai brevemente nel Partito d'Azione ma segnò una traccia profonda nella cultura politica italiana che dura tuttora e che a mio avviso rappresenta (o dovrebbe rappresentare) l'identità profonda del Partito democratico.

Capisco che l'immagine del cappuccino non sia all'altezza di questi precedenti, ma è servita se non altro a suscitare riflessioni che credo utili per il proseguimento di quell'esperienza che conta soltanto quattro anni di vita.
Purtroppo negli ultimi tempi si sono levate alcune voci che contestano quell'identità e si riconoscono piuttosto nella "narrazione" di Nichi Vendola e nelle "declamazioni" di Antonio Di Pietro. Non sono iscritto al Pd ma ho votato alle primarie di quel partito e nelle varie elezioni politiche, europee e amministrative. Faccio un mestiere che mi induce a occuparmi della politica italiana con la maggiore oggettività possibile.

Ebbene: se Vendola si riconoscesse nell'identità del Pd e decidesse di farne parte per accrescere la dose di caffè in quel cappuccino, credo che sarebbe un fatto positivo. Caffè inteso come socialismo riformista. Ma il liberalsocialismo resta lo spirito di fondo d'un partito riformista, senza il quale si ripeterà l'esperienza della "gioiosa macchina da guerra" di Occhetto e la sinistra italiana uscirà di scena per altri dieci o vent'anni.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-vendola-non-entra-nel-pd/2176156/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #351 inserito:: Marzo 25, 2012, 11:55:44 am »

L'EDITORIALE

Governo e sindacato uniti nell'errore

di EUGENIO SCALFARI


Due simbolismi contrapposti: l'ha detto Giorgio Napolitano definendo perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell'articolo 18. Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno egemonizzato i media, l'opinione pubblica e il dibattito politico.

I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all'estremo. E poiché ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno scontro.
Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l'uccisione del delfino degli Asburgo da parte d'un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta milioni, genocidio della Shoah a parte.

Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra italiana finirebbe in soffitta, lo "spread" potrebbe tornare a livelli intollerabili con conseguenze nefaste per tutta l'Europa e tutto
questo perché le due parti contrapposte vogliono stabilire  -  mi si passi un'espressione scurrile ma appropriata  -  chi ce l'ha più lungo.

Infatti il peso e l'importanza dell'articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell'economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell'articolo gli investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile, essa è già contenuta in leggi precedenti all'articolo 18 e può essere sempre sollevata dinanzi al magistrato.

Conosco bene l'obiezione di Monti: i mercati vogliono un segnale che li rassicuri sulla fine dei poteri di veto del sindacato, vogliono cioè la fine della concertazione con le parti sociali. Non credo che attribuire ai mercati questa richiesta corrisponda a verità. I mercati non sono un soggetto unitario, ma una moltitudine di soggetti ciascuno dei quali è portatore di una propria visione e d'una propria valutazione. Mi domando piuttosto che cosa accadrebbe se le conseguenze di quella norma determinassero uno sconquasso sociale.

Finora il disagio sociale provocato dai sacrifici (necessari) del "salva Italia" ha trovato una sua barriera nel No-Tav, ma è una bandiera troppo localistica per essere innalzata a lungo da Palermo a Torino. Se però la bandiera diventasse quella del no ai licenziamenti in tempi di recessione, allora la pace sociale rischierebbe di saltar per aria e probabilmente sarebbero proprio i mercati a giudicarla negativamente ai fini della crescita.
Infine osservo che l'articolo 1 della Costituzione recita che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Si tratta d'una banalità o d'un principio che deve ispirare il legislatore?

Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin dall'inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le sue parti, nella lotta al precariato, nell'estensione delle tutele a tutta la platea dei disoccupati, nell'estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità all'entrata ed anche all'uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo tecnico - come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere - ma è un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave.

Certo, spetta al Parlamento decidere e spetta ai partiti correggere l'errore modificando il testo del governo per quanto riguarda l'articolo 18. I partiti della maggioranza saranno concordi su questa questione?

* * *

Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil perché anch'essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il compromesso sul quale sarebbe d'accordo il sindacato. Il modello tedesco sui licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe? Alcuni ministri affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla posizione che l'articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere l'intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo quelli della legalità, dell'etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge.

Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove è stato violato va assolutamente recuperato.
L'articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità della sua applicazione non è intoccabile.

Con Susanna Camusso ho avuto su queste questioni una polemica: citai un'intervista fatta nel 1984 con Luciano Lama e lei se ne risentì. Ebbene desidero oggi rievocare ancora la posizione di Luciano Lama che fu anche, allora, quella di Carniti, di Benvenuto e di Trentin. Sto parlando dei dirigenti storici del sindacalismo italiano, dopo Bruno Buozzi e Di Vittorio.

La loro ambizione non fu soltanto quella di conquistare nuovi diritti per i lavoratori ma soprattutto quella di trasformare la classe operaia in classe generale. C'era un solo modo di realizzare quell'obiettivo: fare della classe operaia la principale e coerente portatrice degli interessi generali del Paese e dello Stato mettendo in seconda fila i suoi interessi particolari di classe.

Quei dirigenti sono entrati a giusto titolo nel Pantheon della nostra storia nazionale. Dubito molto che ci si possa entrare soltanto difendendo l'articolo 18.

Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi. Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono fatti sentire all'interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d'allarme.

Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della "strana" maggioranza si deve chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento.

* * *

Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra l'imprenditore e il sindacato d'azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche le trattative fallite sono soltanto l'11 per cento dei casi) si va dal magistrato del lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo indennizzo.

Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D'Alema, a Franceschini, a Letta, a Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione. Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare questa soluzione.

L'incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito. Vedremo il risultato delle votazioni. Il Parlamento è sovrano ed è positivo che in questo caso la fiducia non venga posta dal governo. La posta in gioco è la coesione sociale. I riformisti lottano per difenderla. Auguriamoci che vincano, e che passi la riforma che il governo ha predisposto con questa modifica: sarebbe un passo avanti verso l'equità e la pre-condizione d'una crescita che d'ora in avanti dovrà essere la sola preoccupazione e obiettivo di tutti.
 

(25 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/25/news/governo_e_sindacato_uniti_nell_errore-32158824/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #352 inserito:: Aprile 01, 2012, 12:15:25 pm »

L'EDITORIALE

Tre chiavi per aprire la gabbia della crisi

di EUGENIO SCALFARI

 
I PROBLEMI da risolvere sono tanti, economici e politici, ma tre sovrastano tutti gli altri perché rappresentano la chiave che può aprire la porta oltre la quale c'è la salvezza, e sono: l'evasione fiscale, il precariato, la creazione di nuovi posti di lavoro.

Ce n'era un quarto, la messa in sicurezza dei conti pubblici e del debito sovrano, ma questi sono già stati risolti nei primi tre mesi del governo Monti dalle congiunte azioni dei due Mario, quello che lavora a Palazzo Chigi e l'altro che sta a Francoforte nella sede turrita della Bce. Le dimensioni dell'evasione appaiono lampanti dalla tavola dei redditi resa nota nei giorni scorsi, aggiornata al 2010. Di solito, nelle società dove le imposte sono normalmente pagate, la distribuzione del reddito configura una trottola con un vertice sottile, una coda altrettanto sottile e un grosso corpo al centro; i ricchi, i poveri e la grossa pancia dove si addensa il ceto medio. Ma in Italia non è così, non è mai stato così. In Italia la grossa pancia poggia quasi a terra, sorretta da un piolo corto, mentre in alto si impenna un sottilissimo vertice. La grande pancia di questa trottola sui generis non si può definire ceto medio perché la fascia dei redditi che la compongono sta tra i 12 e i 20mila euro annui. Non sono tecnicamente poveri ma stentano molto a campar la vita e sono composti da pensionati, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi con partite Iva e piccoli imprenditori.

Le prime due categorie pagano le imposte fino all'ultimo centesimo col sistema della ritenuta alla fonte cui non possono sfuggire; le altre categorie dichiarano il loro reddito e sono soggette agli accertamenti del fisco.

L'evasione è fondatamente stimata in 280 miliardi di reddito che equivalgono ad un minor gettito fiscale di 130 miliardi. Le sue dimensioni ammontano a un quinto del reddito nazionale. Criminalizzare nominativamente i contribuenti collocati nelle suddette categorie sarebbe scorretto, ma che gli evasori si trovino lì, in quella vastissima pancia schiacciata verso il basso nell'anomala trottola sopra descritta, è una certissima realtà, inesistente negli altri Paesi di capitalismo evoluto. Una lotta seria per recuperare il maltolto che danneggia al tempo stesso il fisco e la vasta platea dei contribuenti (forzatamente) onesti, non è mai stata fatta ma fino agli anni Ottanta dello scorso secolo la figura della distribuzione del reddito aveva la forma della piramide.

L'anomalia dell'evasione di massa è diventata intollerabile negli ultimi trent'anni e  -  vedi caso  -  è andata crescendo di pari passo con la crescita del debito pubblico.

Evidentemente c'è un nesso tra questi due fenomeni.

Quest'anno i primi risultati della lotta contro l'evasione sembrano positivi: 13 miliardi sono stati già recuperati; la cifra prudenzialmente prevista dall'Agenzia delle entrate è di 20 miliardi, ma potrebbe essere anche di più. Il governo non vuole ipotecare la sua distribuzione ma è logico pensare che il primo obiettivo debba essere quello di evitare l'inasprimento dell'Iva previsto  -  se necessario  -  dal prossimo settembre. Altri obiettivi, non necessariamente alternativi, potrebbero essere sgravi fiscali ai ceti medio-bassi, riduzione del cuneo fiscale e contributivo, infine una diminuzione delle aliquote Irpef cioè un generale sgravio fiscale socialmente modulato.
Il buon risultato della lotta all'evasione costituisce dunque la pre-condizione per risolvere le altre due emergenze: la creazione di nuovi posti di lavoro e la lotta contro il lavoro precario.

                                                                        * * *

C'è un'altra verità da tenere molto presente per avviarsi verso la porta oltre la quale c'è l'uscita dalla crisi attuale: l'importanza di diminuire la pressione fiscale. I conti pubblici sono stati messi in sicurezza, il pareggio del bilancio sarà raggiunto senza altre manovre, ma la pressione fiscale è poco diffusa (evasione) e troppo alta.
Purtroppo la diminuzione della spesa corrente, che pure rappresenta uno degli obiettivi dell'attuale governo, non si è verificata poiché la sua diminuzione si è finora ottenuta soltanto trasferendola a carico di Regioni e Comuni. Alcuni autorevoli economisti (Boeri, Penati, Giavazzi, Alesina) segnalano da tempo questo tema. Oggi certamente il rigore è necessario ma tagliare la spesa è meglio che accrescere la fiscalità. Spostare in futuro il peso delle imposte da quelle dirette a quelle indirette è una riforma da meditare con estrema cautela perché le indirette di solito hanno effetti socialmente regressivi per contrastare i quali sarebbe necessaria una patrimoniale ordinaria a bassa aliquota. Comunque la spesa corrente va contenuta, magari compensandola con l'aumento degli investimenti pubblici attualmente ridotti quasi allo zero.


                                                                         * * *

Oltre a quelli economici incombono con crescente urgenza alcuni problemi politici che richiedono un più attento coordinamento per i prossimi appuntamenti parlamentari e la riforma del lavoro che dovrebbe finalmente decollare con i cambiamenti necessari a recuperare una pace sociale gravemente turbata.
Se l'obiettivo di Monti e Fornero è quello di rassicurare gli investitori sul fatto che la concertazione con le parti sociali è ormai definitivamente archiviata, ci permettiamo di osservare quanto segue: ai fini dell'occupazione, della stabilità e dello sviluppo, la concertazione tra il governo e le parti sociali è di grandissima importanza purché non intacchi l'autonomia e la responsabilità di ogni istituzione. Non si deve confondere la concertazione con il consociativismo. Quest'ultimo, indebolendo l'autonomia e la responsabilità delle istituzioni, snerva le decisioni e impedisce di chiamare l'opera di governo con il suo nome appropriato che è "azione". Il consenso invece - che proviene dalla concertazione  -  è l'aria che deve sempre respirare un governo democratico, specie in una democrazia complessa e difficile che ha come riferimento economico il mercato aperto. Gli accordi di concertazione sono stati, a partire da quello del luglio 1992, la trama istituzionale su cui si è raccolto il consenso del Paese.

Leggete con attenzione questa frase che viene subito dopo i due punti.

Non è mia, ma potrebbe esserlo tanto è attuale e calzante con i fatti di questi ultimi giorni. Si tratta d'una citazione letterale del discorso che Ciampi, ancora presidente del Consiglio, tenne a Verona nell'aprile 1994, dopo aver già rassegnato le dimissioni a pochi giorni dalle elezioni che dettero inizio all'era berlusconiana: "La concertazione è la trama istituzionale su cui si è raccolto il consenso del Paese".
Questo è il punto di fondo e fu un tecnico emerito a dirlo dopo averne sperimentato gli esiti come capo del governo. Ci auguriamo che su questa inoppugnabile realtà meditino insieme Monti, i leader dei partiti, i ministri Passera e Fornero e Susanna Camusso. L'impasse sull'articolo 18 va superato con un accordo imposto dalla logica. Se il lavoratore licenziato per motivi economici ricorre al giudice com'è suo diritto e il giudice non ravvisa l'esistenza di quei motivi economici, la motivazione del licenziamento cade e con essa viene meno la limitazione dei poteri del giudice prevista dall'attuale bozza di legge. Il giudice cioè ha la potestà di annullare il licenziamento oppure di stabilirne l'indennizzo. Se questa potestà gli fosse negata saremmo davanti ad un impedimento del libero convincimento del magistrato, tutelato dalla Costituzione.


                                                                     * * *

L'altro e anch'esso incombente problema politico non riguarda il governo ma i partiti ed è la necessaria e urgente riforma della legge elettorale.

Anche qui c'è una bozza che diventerà, stando ai reciproci impegni dei tre partiti della "strana" maggioranza, una proposta di legge entro il corrente mese d'aprile.

Stando alla bozza, si tratta d'un meccanismo elettorale che ha la sua base nella proporzionalità del voto affidata a liste di candidati in collegi a base territoriale limitata; una soglia di sbarramento al 5 per cento, diritto di tribuna per i partiti che non superano la soglia e, infine, iscrizione sulla scheda elettorale del nome del leader del partito. È abolito l'apparentamento di coalizione tra partiti. Nulla invece si dice sul premio di maggioranza al partito che ottenga il maggior numero di voti, ma l'ipotesi più logica in un meccanismo dove ogni partito si presenta da solo, è che il premio sia abrogato o condizionato al raggiungimento d'un livello molto elevato e prossimo alla maggioranza assoluta dei voti espressi.

Viene dunque sancita la fine del bipolarismo. Le coalizioni si faranno nel nuovo Parlamento ad elezioni avvenute poiché è fin troppo ovvio prevedere che nessun partito da solo potrà mai raggiungere il 50,1 dei voti espressi.
Gli elettori non voteranno la coalizione ma il partito, il suo programma e i candidati in liste non bloccate. Può dispiacere la fine del bipolarismo, ma può piacere che in una legislatura con forte impegno costituente il consenso popolare sia equamente distribuito e la proporzionalità sia moderatamente corretta in favore della governabilità.

Sembra però del tutto inutile e inutilmente scorretto nei confronti del capo dello Stato l'iscrizione sulle schede elettorali del nome di riferimento dei leader di partito. A che cosa serve? A nulla per quanto riguarda la formazione del governo per la quale resta ferma l'indicazione costituzionale che attribuisce la nomina del presidente del Consiglio al capo dello Stato senza alcuna indicazione di procedure consultative. È stata questa la procedura adottata da Napolitano per la nomina di Monti e fu questa la procedura adottata da Pertini per la nomina di Spadolini e da Scalfaro per la nomina di Ciampi. Ci auguriamo che continui ad esser questa fino a quando l'attuale Costituzione sarà vigente e le sue norme non saranno manipolate dalla partitocrazia nella prima Repubblica e dal populismo nella seconda.

Post  scriptum. Formulo gli auguri più sinceri e affettuosi a Pietro Ingrao in occasione del compimento dei suoi 97 anni, nel corso dei quali è stato dirigente autorevole del Partito comunista italiano ed anche presidente della Camera dei deputati al servizio dello Stato democratico e della Costituzione.
 

(01 aprile 2012) © Riproduzione riservata

 da - http://www.repubblica.it/economia/2012/04/01/news/tre_chiavi_per_aprire_la_gabbia_della_crisi-32552093/?ref=HREA-1     
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #353 inserito:: Aprile 03, 2012, 09:49:47 am »

LA STORIA

Piazza Fontana, il film che racconta quarant'anni di misteri italiani

Esce la settimana prossima la pellicola di Giordana sull'attentato del 1969.

Destra estrema, sinistra estrema, Stato deviato hanno "impestato" il Paese impedendo alla democrazia di crescere. Ed ora l'opera cinematografica riapre il caso

di EUGENIO SCALFARI

ROMANZO di una strage è un film e non è un film. I personaggi sono veri ma ovviamente rappresentati da (bravissimi) attori. I fatti sono realmente accaduti e fanno parte della galleria storica del nostro Paese, ma alcuni sono frutto di induzioni e libere interpretazioni degli sceneggiatori e del regista Marco Tullio Giordana. Gli eventi narrati sono costellati di morti, violenze, congiure, complotti. Le donne sono poche ma emergono, amorevoli, devote ai loro uomini, fiere nel loro coraggio e nella loro dignità. A descriverlo così sembrerebbe una storia triste, anzi disperata, fortemente ansiogena, dove l'invenzione rende ancora più cupa la realtà. Ma tuttavia è affascinante.

Comincia con la strage di piazza Fontana a Milano, nella Banca Nazionale dell'Agricoltura, 1969, e si conclude con l'uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, finito a colpi di pistola a pochi passi da casa sua. Al centro della storia la morte di Giuseppe Pinelli, anarchico ma non violento, caduto (o gettato) da una finestra della Questura milanese in via Fatebenefratelli qualche giorno dopo la bomba (o le bombe) di piazza Fontana.

Quella scena ti fa stare col cuore in gola per dieci minuti nei quali la macchina da presa è centrata sul volto di Pinelli e poi si allarga in campo lungo sul gruppetto di poliziotti che lo interrogano, sempre più accesi d'ira verso quell'anarchico strano che sembra un pastore protestante che predica il socialismo del Vangelo
più che un bombarolo di professione.

Pinelli è digiuno da trenta ore, non gli danno nemmeno l'acqua da bere, il volto è stravolto dalla stanchezza, gli occhi di tanto in tanto si chiudono e i poliziotti lo risvegliano a suon di ceffoni. Solo il commissario Calabresi che partecipa all'interrogatorio cerca di riportare i suoi uomini alla calma e ad un minimo di equità ma non sempre ci riesce, loro sono furibondi perché le trenta ore d'interrogatorio pesano anche sui loro volti e sulle loro gambe. A un certo punto Calabresi è chiamato dal Questore e lascia la stanza. Allora i poliziotti si scatenano, spintonano Pinelli, lo trascinano verso la finestra. La macchina da presa si sposta su Calabresi che sta discutendo col Questore e sente all'improvviso un tonfo proveniente dal cortile. Come presago si slancia verso la stanza dell'interrogatorio e vede i suoi uomini alla ringhiera della finestra e il corpo di Pinelli sfracellato sui ciottoli del cortile.

Ho detto che è un film affascinante. Merito del regista, degli attori, del produttore Riccardo Tozzi che ha affrontato il rischio dell'impresa garantendo a Giordana piena libertà d'espressione senza la quale sarebbe stato impossibile girare quelle scene realizzando una testimonianza così incisiva e terribile. Anzi tremenda. Il terribile sgomenta, il tremendo è invece qualche cosa che ti fa consapevole e ti aiuta a crescere. Per questo affascina: esci da quell'ora e mezza di spettacolo sapendone di più sull'Italia, sullo Stato in cui vivi, sulla gente con la quale condividi le tue sorti nel bene e nel male, sui veleni che inquinano la società e sul doppio o addirittura triplo livello sui cui piani si è svolta la storia dell'Italia del Novecento, la nostra storia.

Alcuni storici illustri hanno definito il Novecento come "il secolo breve" perché sarebbe cominciato nel 1914 (la "Belle Époque" non sarebbe altro che la continuazione del secolo precedente) e sarebbe finito con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Settantacinque anni invece dei cento canonici. Ma non è vero, fu invece un secolo lungo. Cominciò con le cannonate di Bava Beccaris contro i socialisti e gli anarchici milanesi (1898) e poco dopo con l'uccisione di Umberto I e a dire il vero non è ancora finito sicché il doppio o triplo livello sul quale scorre il flusso dei fatti non è ancora stato smantellato, la verità non è ancora stata compiutamente svelata e le cricche, le lobby, le clientele, le mafie, non sono ancora state debellate.

Forse l'Europa, forse l'esperimento del governo Monti, forse Giorgio Napolitano, riusciranno a purificare l'aria ammorbata che ancora ci opprime. Forse il nocciolo duro delle complicità sarà portato alla luce. Forse la P2 che continua a riprodursi sotto forme diverse ma con identica sostanza sarà infine sterilizzata. Forse la democrazia conquisterà il capitalismo invece di esserne conquistata e confiscata. Forse. Ma non è ancora avvenuto e il film di Marco Tullio Giordana testimonia proprio questo: i veleni del Novecento durano ancora. Le ideologie sono spente ma il pragmatismo che le ha sostituite non ha attenuato il disagio e lo sconquasso morale.

 ***
Spetterà ai recensori mettere in luce i pregi e i difetti di quest'opera, la qualità della sceneggiatura, degli attori, della regia, delle riprese e del loro montaggio. Quanto a me, intervengo perché io c'ero. Ho assistito direttamente a gran parte di quei fatti come cittadino, come giornalista e come deputato al Parlamento (lo fui dal 1968 al 1972 nel Partito socialista). Ero a Milano in via Larga in compagnia di Umberto Eco quando fu ucciso il poliziotto Annarumma. La sera di quel giorno ero nell'aula magna dell'Università Statale dove si svolse una gremita e appassionata assemblea del movimento studentesco. Capanna e Cafiero che lo guidavano resero onore al poliziotto caduto e tutti si alzarono in piedi e stettero silenziosi e piangenti per molti minuti. Ed ero con altri deputati di sinistra in piazza Santo Stefano dove si formavano i grandi cortei del movimento, per cercare di evitare gli scontri tra le decine di migliaia di studenti che protestavano contro la repressione e la polizia in tenuta antisommossa guidati dal vicequestore Allegra.

E c'ero anche nel corteo che sfilò da via Larga al Palazzo di Giustizia per la morte di Giangiacomo Feltrinelli. Ero direttore dell'Espresso quando rivelammo il Piano Solo, progettato dal Comando generale dei carabinieri con l'accordo del Presidente della Repubblica Antonio Segni. Ed ero direttore di Repubblica quando Aldo Moro fu rapito e poi ucciso, quando le Br fulminarono a colpi di pistola sulla porta di casa il generale Galvaligi e quando rapirono il giudice D'Urso e tentarono di imporci la pubblicazione di un loro lunghissimo documento minacciando che se i loro ordini non fossero stati eseguiti il prigioniero sarebbe stato ucciso. Rifiutammo e la notte di quel terribile giorno il prigioniero fu liberato da un blitz della polizia.

Insomma ho vissuto da vicino il lungo periodo della strategia della tensione che ha profondamente inquinato la vita pubblica italiana e ne ha rappresentato per molti anni l'aspetto più rilevante e ho partecipato a quel "partito della fermezza" che schierò insieme forze politiche che fino ad allora si erano aspramente contrapposte ma si unirono per fronteggiare il pericolo mortale del terrorismo dello stragismo. Romanzo di una strage ritrae una parte di quel periodo e ne rende artistica testimonianza. La mia è dunque una testimonianza diretta sulla validità della testimonianza filmica. Può avere da questo punto di vista un qualche valore.

 ***

La strategia della tensione è stata purtroppo una presenza dominante nella seconda metà del secolo scorso. La si può descrivere con una figura geometrica, un triangolo retto, due cateti e un'ipotenusa che li unisce. E se vogliamo animare la geometria con la carne e il sangue delle persone, ci furono un'estrema destra e un'estrema sinistra che si contrapponevano usando i mezzi illegali della violenza, delle armi, delle bombe, dei complotti e delle stragi; e c'è un'altra forza che aizza la destra e la sinistra affinché la violenza esploda, organizza misteriosi provocatori, finanzia operazioni clandestine, corrompe e usa le istituzioni dello Stato per alimentare il disordine anziché controllarlo e spegnerlo. In questa arena si è cimentato anche un certo tipo di stampa e soprattutto si cimentano i servizi segreti, le agenzie di "intelligence" di Stati stranieri, le logge segrete para-massoniche e la criminalità organizzata.

L'Italia fu il terreno privilegiato di questa strategia (ma non il solo) dove si confrontarono anche il Kgb sovietico, la Cia americana, il Mossad di Israele e i servizi di sicurezza inglesi e francesi. Gladio fu una delle centrali di pilotaggio della tensione e altrettanto lo fu il servizio di spionaggio del ministero dell'Interno creato da Tambroni e guidato per molti anni dal prefetto Federico D'Amato. La P2 fu un punto di raccordo clandestino ed essenziale di queste varie forze. La mafia e la camorra fornirono, quando fu richiesto, la loro manovalanza contrattando benefici e spazio per le loro iniziative delinquenziali.

La destra estrema, la sinistra estrema, lo Stato deviato: questi sono stati i punti essenziali di quel triangolo che ha impestato il Paese per mezzo secolo, impedendo alla democrazia italiana di crescere e di metter salde radici e condannandola a una perenne fragilità. Le forze politiche ed anche la business community sono state il terreno sul quale si è svolta questa partita perversa ed è questa una delle cause che hanno rattrappito sia i partiti sia il capitalismo italiano. Le democrazie si sviluppano in un quadro di legalità, di autorevolezza delle istituzioni, di regole certe e di comportamenti esemplari che la classe dirigente ha il compito di indicare ai cittadini come punti di riferimento. Tutti i paesi hanno difetti e debolezze ma hanno anche sistemi immunitari che producono anticorpi con l'incarico di neutralizzare i virus che attaccano quotidianamente gli organismi.

Da noi il sistema immunitario è stato il vero obiettivo della strategia della tensione e di chi ne ha alimentato e rafforzato l'esistenza. Questa è stata l'endemica malattia che ha afflitto l'Italia e che ancora non è stata guarita. Romanzo di una strage ne è la drammatica rappresentazione.

(22 marzo 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/03/22/news/scalfari_piazza_fontana-31993082/index.html?ref=HREC1-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #354 inserito:: Aprile 08, 2012, 05:23:30 pm »

IL COMMENTO

Il ritratto di un paese tra Padania e Wall Street

di EUGENIO SCALFARI
 

DI UMBERTO BOSSI parlerò poco, dopo quanto abbiamo saputo di lui e della Lega. Le testimonianze che coinvolgono non soltanto i suoi familiari e la Rosy Mauro (che è addirittura vicepresidente del Senato) sono certamente testimonianze di parte, di chi ce l'ha con lui perché non ha difeso l'indifendibile Belsito, ma sono tuttavia confermate, quelle testimonianze, da documenti inoppugnabili, intercettazioni chiarissime, lettere, ricevute, assegni e bonifici bancari con intestazioni che parlano da sole.

Aspettiamo i seguiti dell'istruttoria e l'eventuale rinvio a giudizio, ma il giudizio politico va dato subito e l'ha già scritto venerdì scorso Ezio Mauro 1. La linea del nostro giornale è chiarissima: Bossi è stato al centro del malaffare che ha inquinato la famiglia e gran parte del gruppo dirigente leghista, specie quello di provenienza lombarda.

Quel gruppo dirigente è interamente presente nel triumvirato che reggerà la Lega fino al Congresso. L'immagine che hanno del vecchio capo e fondatore è quella d'un uomo assolutamente integro e raggirato eventualmente dai familiari. Quanto a lui, il "Senatur" si dice convinto d'esser vittima d'un complotto. I militanti leghisti dal canto loro si identificano con il vecchio capo carismatico, qualunque verità emerga dal processo.

Infine gli elettori, che sono molto più numerosi dei militanti, con un rapporto che sta tra i cinque e i dieci elettori per ogni militante a seconda delle province e dei comuni esaminati. Ebbene gli elettori sono in fuga.

Il grosso si asterrà, una piccola parte si orienterà verso il Pd o formazioni di accesa protesta sociale. Quanto all'"appeal" di Casini, tra gli ex elettori leghisti è bassissimo.

Se queste previsioni si verificheranno i partiti maggiori ne trarranno comunque beneficio a causa di un'astensione leghista massiccia. Solo a Verona dove Tosi ha un consenso che le attuali traversie leghiste non scalfirà se non marginalmente, riuscirà forse a mantenere le sue posizioni.

Bossi, dopo l'ictus che lo colpì otto anni fa, è stato un personaggio drammatico e al tempo stesso grottesco. Che un partito ed un elettorato lo abbia considerato, nelle condizioni in cui era ridotto, un punto di riferimento per ciò che diceva e per come lo diceva, è un segnale disperante del livello culturale d'una parte rilevante della società civile. Sul medesimo livello purtroppo si collocano anche tutte le clientele che sorreggono personaggi e situazioni di potere inquinate dalla demagogia e dalla corruzione, a Palermo come a Milano, a Bari, a Napoli, a Roma, a Imperia, a Genova, a Parma, in Calabria, a Cagliari.

La lebbra del clientelismo e l'analfabetismo leghista collocano la società civile del nostro Paese ad un livello ancora più basso del già bassissimo livello della classe politica. E l'antipolitica ne è il segnale.

Esiste una parte del Paese che, disgustata da quanto ha visto e vede attorno a sé, è da tempo mobilitata per un rinnovamento profondo, per riforme strutturali e per un mutamento radicale di abitudini e di modi di pensare. L'emergenza della crisi economica si è sovrapposta a questa situazione, ma in un certo senso ha risvegliato le persone perbene che sono ancora numerose in tutti i ceti e su tutto il territorio. Questo risveglio le preserva dal rifugiarsi nell'indifferenza. Il destino della nazione è affidato a loro, alle loro capacità di curare un Paese gravemente ammalato, invecchiato, inutilmente ribellista, anarcoide e corrotto.

* * *

Il governo Monti è stato un buon segnale di questa capacità terapeutica che va oltre l'emergenza economica, ma soffre anch'esso di alcune contraddizioni interne e di un quadro europeo a dir poco sconfortante dal quale la sua azione riformatrice è strettamente condizionata.

La composizione del governo è stata improvvisata in poche ore. Mediamente le scelte sono state di buon livello, ma alcune presenze non si sono dimostrate all'altezza delle responsabilità che incombevano. Non si tratta per fortuna di falle devastanti, ma di scarsa capacità di lettura politica, specialmente a livello dei sottosegretari. Le condizioni di emergenza e la brevità del tempo a disposizione rendono tuttavia impossibile rafforzare il Ministero che ha un tempo d'azione estremamente breve: dalla fine dell'anno avrà inizio la campagna elettorale e l'azione innovativa del governo sarà interrotta. Governerà per amministrare le novità già avviate.

Il tempo utile si restringe dunque a sette-otto mesi, con dentro le elezioni amministrative del prossimo 6 maggio il cui esito potrebbe anche modificare le prospettive attuali. La tenuta del Pdl è una di quelle, la crisi della Lega un'altra.

Chi pensa che il governo Monti sia al riparo dagli effetti delle amministrative di maggio è in errore. Il governo dipende dal Parlamento e dunque dai partiti che vi sono rappresentati. Dipende perfino dal voto degli Scilipoti. Lo so che non piace a nessuno ricordare questa situazione e scrivo quel nome solo per render ben chiaro che il Parlamento e le forze politiche che vi sono rappresentate sono quelle che sono, nel bene e nel male, nella loro presenza o nella loro irrilevanza nel Paese, ma i loro comportamenti parlamentari saranno condizionati dalle prospettive elettorali.

Del resto lo si vede già in questi giorni: è bastato un articolo del Wall Street Journal e un giudizio avventato della Marcegaglia a mettere in allarme il Pdl rispetto alla modifica dell'articolo 18 introdotta da Monti subito dopo il suo rientro dalla Cina; una modifica  -  va detto  -  che tiene conto d'una logica costituzionale sottovalutata nel progetto originario e niente affatto sconvolgente dell'impianto complessivo della riforma del lavoro. Se quella modifica non fosse stata introdotta avremmo avuto uno sconvolgimento della pace sociale con effetti devastanti sui mercati e per il governo.

Mi stupisce molto il giudizio di Andrea Ichino che sul Corriere della Sera ha definito pessima quella modifica dell'articolo 18 perché, impedendo alle imprese di licenziare, le scoraggia anche ad assumere, e si sono anche messi in due a firmare questa sentenza.

Ragionamenti di questo genere hanno una validità risibile perché non possono essere in alcun modo dimostrati. Autorizzano anzi il ragionamento opposto: la modifica in questione impedisce i licenziamenti in una fase recessiva in cui il mercato del lavoro tende a far diminuire la forza lavoro impiegata e quindi la modifica ha il buon effetto di impedire questo assottigliamento evitando conseguenze ulteriormente recessive.
I due punti di vista simmetricamente opposti sono entrambi chiacchiere, che dimenticano tra l'altro che la riforma Fornero estende l'articolo 18 nella sua nuova formulazione a tutte le imprese mentre attualmente quelle con meno di 15 dipendenti ne erano escluse.

La verità è che la riforma attuale è positiva, combatte il precariato, estende il numero delle tutele dai 4 ai12 milioni di lavoratori, accresce la buona flessibilità e, per quanto riguarda l'articolo 18, si limita (ma era fondamentale farlo) ad assicurare l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la libertà del giudice di emettere la sentenza sulla base del suo libero convincimento.

Questi sono diritti non negoziabili da una Marcegaglia in libera uscita. Quanto all'opinione dei giornali che riflettono anche nella testata quella dei banchieri d'affari di Wall Street, essi partono dall'idea che Monti fosse un clone della Thatcher e poiché si accorgono ora che non lo è, scoprono d'improvviso che Monti è un comunista.
Che valore possono avere opinioni di questa natura? Zero, anche se dimostrano che i banchieri d'affari americani alimentano la speculazione contro l'euro. Questo sì, è un pericolo che bisogna conoscere per poterlo evitare.

* * *

Non credo affatto che Monti voglia continuare a governare dopo le elezioni del 2013, ma non credo neppure che il suo lavoro contro l'emergenza a quella data sarà compiuto. E mi stupisco anche che ci siano persone che non si rendono conto della fine di un'epoca che stiamo vivendo.

La globalizzazione non è un incidente di percorso. I suoi aspetti negativi (e ce ne sono) possono essere evitati o almeno contenuti solo avendone capito bene la natura. La sua intima essenza è quella dei vasi comunicanti. Questa legge fisica ed anche economica operava anche all'epoca del "gold standard" ma con modalità e tecnologie completamente diversi.

Adesso è una realtà e significa: libertà di movimento di merci, capitali, persone e tendenza a pareggiare i dislivelli. Sicché i redditi dei Paesi di antica opulenza dovranno cedere una parte del loro benessere ai paesi di antica povertà. Con tutte le implicazioni sociali (e fiscali) che ciò comporta poiché il sistema dei vasi comunicanti vale  -  deve valere  -  anche all'interno dei Paesi di antica opulenza dove il principio delle pari opportunità per i ricchi e per i poveri deve essere realizzato con la massima energia e tempestività.

Ci vorranno due o tre generazioni per risolvere questi problemi, ma i primi passi debbono essere compiuti da subito e debbono coinvolgere tutte le parti sociali. Lo sappia il ministro Fornero ma lo sappia anche Susanna Camusso; Bersani lo sa e Casini pure, ma lo sappia anche Alfano e i suoi amici non tanto amici.

Bossi queste cose non le ha mai sapute, anzi ha fatto di tutto per impedirle e in parte c'è anche riuscito preparando all'Italia un destino di provincia. Ora sappiamo che preparava anche un destino di bordello, così il verso dantesco risulterà completo. Berlusconi, ovviamente, solidarizza con lui, ma forse per limitare le perdite proprie.
 

(08 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/08/news/paese_padania_wall_street-32953398/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #355 inserito:: Aprile 13, 2012, 11:45:58 am »



di Eugenio Scalfari

L'etichetta che la destra populista ci affibbia come un insulto, per noi è diventata un motivo d'onore. Perché si riferisce a una cultura laica, eterodossa e ironica. Che guarda a Voltaire, Keynes, Einstein e Roosevelt

(11 aprile 2012)

Fino a qualche tempo fa per definire un tipo bizzarro e "con la puzza sotto il naso" rispetto alle mode e ai comportamenti altrui si usava la parola snob. Non c'era altro modo e altro termine. Sebbene l'origine di quella parole fosse "sine nobilitate" il significato semantico era cambiato, anzi si era capovolto. Lo snob una sua nobiltà l'aveva: disprezzava l'uomo medio, la cultura tradizionale, i luoghi comuni, l'oleografia del passato. Disprezzava anche i buoni sentimenti o comunque li metteva in gioco.

Spesso gli artisti erano definiti snob quando rompevano le regole del consueto. Quello che fu marcato con questo termine con maggiore insistenza degli altri fu Oscar Wilde, un po' per il suo modo di pensare e di scrivere e molto per la sua dichiarata e ostentata omosessualità che gli costò la prigione e l'esilio. Ma anche Dalí, anche Ravel, i surrealisti e molte "avanguardie" furono giudicati esempi di snobismo e perfino Proust, "lo sciocchino del Ritz". Durante il fascismo e la sua cultura muscolare i giornali satirici descrivevano lo snob come un gentleman passatista con le ghette sulle scarpe e il monocolo all'occhio.

Adesso però quella definizione è stata sostituita da un'altra: non si dice più snob ma invece radical-chic. Non è un sinonimo, c'è qualche cosa in più ed è una dimensione politica: il radical-chic è di sinistra. Di una certa sinistra. Per guadagnarsi quella definizione deve stupire e spiazzare anzitutto la vera sinistra che, per antica definizione, si identifica con l'ideologia marxista. Togliatti - tanto per dire - non è mai stato neppure lontanamente considerato un radical-chic né Berlinguer, né Amendola o Ingrao. Bertinotti? Lui sì, gli piacciono i salotti, gli piacciono i pullover di cashmere e va spesso in giro con Mario D'Urso che è uno "chic" riconosciuto.

Ma i veri radical-chic sono gli amici e i consimili di Camilla Cederna. Dunque stiamo parlando di noi, che fondammo questo giornale 57 anni fa e ne facemmo quello che è ancora oggi, un giornale di ricerca costante della verità, di denuncia delle brutture e delle malformazioni del malgoverno, di difesa dell'etica pubblica e di impegno civile. Accoppiando però, nel linguaggio, nella grafica, nella scelta delle fotografie, una vena di ironia e di autoironia, una leggerezza di stile che nulla doveva avere del sermone da sacrestia. Vedi caso: il partito radicale nacque nelle stanze del "Mondo" e de "l'Espresso" nel 1956, visse sei anni e si sfasciò nel '62. Marco Pannella e i suoi amici, che ne facevano parte, decisero di continuare con lo stesso "logo" del cappello frigio, dandogli però un contenuto più libertario che liberale.

I radical-chic sono una definizione coniata dalla destra populista e qualunquista che però ha trovato qualche corrispondenza anche nel marxismo ufficiale. Quando il gruppo de "Il Manifesto" fu espulso dal Pci, c'era contro di loro una vaga ma percepibile aura di puritanesimo luterano contro un'eterodossia che irrideva gli schemi ideologici e amava Lichtenstein, la musica di Schönberg e perfino - perfino - i salotti. Non erano affatto radical-chic quelli del "Manifesto" ma tali li considerò la segreteria del Pci che li buttò fuori.

Quanto a cultura i radical-chic sono illuministi e voltairiani, tra i loro personaggi di culto campeggiano Einstein, Keynes e Roosevelt. La definizione di radical-chic all'inizio gli sembrò insultante ma adesso se ne sentono onorati vista la sponda da dove proviene.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ebbene-si-siamo-radical-chic/2178199/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #356 inserito:: Aprile 15, 2012, 10:48:50 pm »

L'EDITORIALE

Il dare e l'avere di Mario Monti

di EUGENIO SCALFARI


Mario Monti è scoraggiato. Lo capisco. Il compito di mettere al sicuro i conti pubblici per evitare che l'Italia facesse la fine della Grecia l'ha portato a termine egregiamente, ma subito dopo un secondo compito gli incombeva: quello di avviare la crescita della domanda e degli investimenti, ma questa seconda fase, senza la quale anche il "salva Italia" rischia di diventare periclitante, è molto più difficile, stenta a mettersi in moto. La ragione di questo surplace è evidente: la lotta contro la recessione - perché di questo si tratta - non si può fare se non è l'intera Europa ad intraprenderla e questo non è avvenuto.

L'Europa continua ad essere latitante. La Francia è concentrata nelle elezioni presidenziali e per ora non pensa ad altro. La Germania non condivide le politiche di rilancio della domanda che per essere efficaci comporterebbero che fosse proprio Berlino ad assumersene la guida.
La Gran Bretagna è isolata e comunque impotente. La Spagna non ha ancora messo al sicuro i suoi conti ed è sotto attacco della speculazione, appesantita per di più da un incredibile 23 per cento di disoccupazione. Perfino la Bce, la sola istituzione veramente europea che è stata finora all'altezza dei compiti che le sono affidati, deve ora difendere la propria autonomia, messa in questione dai falchi della Bundesbank.

Questo è il quadro e le sue tinte sono fosche. Monti è scoraggiato ed ha ragione di esserlo. Ma c'è un'altra ragione che motiva il suo scoraggiamento ed è lo sfarinamento della maggioranza politica che lo ha fin qui sostenuto.

Finora i tre partiti hanno rispettato la tregua che avevano stipulato tra loro e che aveva reso possibile la "strana maggioranza" di sostegno al governo dei tecnici; ma è bastato l'approssimarsi delle elezioni amministrative del 6 maggio prossimo per mandarla in pezzi. Sono emerse con irruenza le differenze di programma e di elettorato di riferimento tra Pdl e Pd, con una differenza aggiuntiva: il gruppo dirigente del Partito democratico è abbastanza compatto, quello del Pdl è frantumato e Alfano ne sta perdendo il controllo. L'implosione del berlusconismo era attesa ma rinviata all'esito delle elezioni politiche future; invece sta avvenendo adesso: pullulano in quasi tutti i Comuni capoluoghi le liste civiche che hanno preso il posto di quelle del Pdl; la crisi della Lega coincide con la crisi evidente della Regione Lombardia; avanzano gli anarcoidi di Beppe Grillo; l'Udc è filo - montiana ma lo scandalo della Margherita si ripercuote sia pure alla lontana anche su Casini.

Infine la crisi dei partiti ha raggiunto il culmine, Tangentopoli è tornata con prepotenza d'attualità, Penati, Lusi, Belsito, il Consiglio regionale lombardo, il Comune di Palermo e la Regione Sicilia, Emiliano, Vendola, Tedesco, Rosi Mauro, Calderoli: uno sconquasso di queste proporzioni non s'era mai visto dal 1992 con la differenza che allora la crisi economica che si affiancò a quella politica era soltanto italiana, mentre adesso coinvolge l'economia mondiale e dura ormai da cinque anni.
Monti è scoraggiato, ma chi al suo posto non lo sarebbe?

* * *
È scoraggiato ma non ci sono alternative al suo governo, come Giorgio Napolitano ha più volte ricordato in questi giorni. Non ci sono alternative e lui lo sa, perciò il coraggio deve averlo e lo avrà anche perché gli elementi di forza non mancano. Cerchiamo ora di formulare una sorta di bilancio politico ed economico dove metteremo al passivo i punti di debolezza e all'attivo le risorse che possono essere mobilitate e vedremo qual è il risultato. Cominciamo dagli aspetti negativi della situazione.

 -  Bisogna incentivare gli investimenti delle imprese.
 -  Bisogna incentivare i consumi delle famiglie.
 -  Bisogna evitare l'aumento di due punti dell'Iva previsto per settembre per blindare il pareggio del bilancio nel 2013.
 -  Bisogna pagare i debiti che lo Stato ha nei confronti dei suoi fornitori.
 -  Bisogna finanziare la costruzione di infrastrutture e una politica attiva di lavori pubblici.
 -  Bisogna approvare la riforma del lavoro nel testo presentato al Parlamento.
 -  Bisogna alleggerire il debito sovrano.
 -  Bisogna chiarire il problema degli "esodati" che sta mettendo in discussione la pace sociale.
 -  Bisogna che i partiti approvino una nuova legge elettorale.
 -  Bisogna risolvere la "governance" della Rai il cui Consiglio d'amministrazione è scaduto da tre settimane.
 -  Bisogna che i partiti decidano la riforma del loro finanziamento che sta vertiginosamente accrescendo il discredito da cui sono circondati.
 -  Bisogna che il governo presenti al più presto la legge anti-corruzione e la riforma della giustizia.
Fin qui l'elenco dei "buchi" da colmare e dei problemi ancora aperti da risolvere. E vediamo ora gli aspetti positivi e le risorse mobilitabili.
 -  La lotta all'evasione ha già recuperato 13 miliardi di nuove entrate; è quindi probabile che nell'intero esercizio 2012 si arrivi a 20 miliardi e forse più, una parte dei quali può rimpiazzare l'aumento dell'Iva. Il resto potrebbe servire ad accrescere i crediti d'imposta alle imprese che effettueranno nuovi investimenti o a rinforzare le tutele previste per i disoccupati o altre finalità scelte dal governo (abolizione dell'Irap?).
 -  La Cassa depositi e prestiti detiene  -  al di là delle riserve a garanzia del risparmio postale  -  un fondo di liquidità disponibile per finanziare investimenti in opere pubbliche o in impieghi di pubblica utilità. Queste risorse potrebbero essere utilizzate per consentire al Tesoro di sbloccare subito i 30 miliardi di debiti che ha nei confronti dei suoi fornitori. Sarebbe una boccata d'ossigeno per tutto il sistema, senza pesare sul debito sovrano e sui parametri del patto di Maastricht.
 -  La "spending review" è ancora allo studio ma le sue conclusioni dovrebbero esser pronte tra poche settimane. Il ministro Giarda è scettico sulla sua applicabilità a causa delle prevedibili resistenze che saranno opposte dalle categorie interessate. Queste resistenze sarebbero probabilmente superate se le risorse venissero utilizzate per una diminuzione delle imposte sul lavoro e del cuneo fiscale tra salari lordi e salari netti. Le minori spese sono stimate come minimo a 20 - 25 miliardi.
 -  Il patrimonio dello Stato ammonta a centinaia di miliardi ma se ne potrebbero facilmente cartolarizzare cento e portarli a riduzione del debito sovrano. Quantitativamente è poca cosa ma avrebbe un effetto politico non trascurabile.
 -  Una riforma senza spese ma suscettibile di notevoli economie sarebbe quella di concentrare il numero degli aeroporti tagliandone parecchi del tutto inutili. Sullo stesso piano sarebbe estremamente opportuna una concentrazione dei Tribunali e delle Università. I risparmi e la maggiore efficienza sarebbero notevolissimi.
 -  Il recente viaggio di Monti in Asia e le accoglienze che gli sono state riservate sono altrettanti e ben meritati contributi al suo prestigio internazionale. Questo lo mette in grado di riprendere il "manifesto dei Dodici" per una politica di crescita e di più intensa concorrenza intra - europea che fu promosso da lui stesso e dal premier inglese Cameron, ma di cui non si è più parlato nelle sedi europee.
Come si vede i punti di forza sia economici sia politici sono in grado di bilanciare e forse di lasciare un saldo positivo rispetto ai punti di debolezza. La variante dipende dalla volontà politica che a sua volta proviene dal governo e dai partiti che lo appoggiano, soprattutto dal Pd e dal Terzo polo. Del Pdl abbiamo già detto: nelle mani di Alfano può mantenere la tregua in favore del governo, se sfugge al controllo del segretario comincerà l'esodo in larga misura diretto verso il Polo di centro. La "strana maggioranza" dovrebbe in tal caso reggersi su due gambe anziché su tre, ma non sarebbe più "strana" ma politica a tutti gli effetti, con i vantaggi che ne derivano.

* * *
Ci restano ancora due temi da affrontare. Il primo riguarda la coesione sociale e in particolare il tema degli "esodati", il secondo riguarda la questione settentrionale in presenza della crisi della Lega. Si dice che Monti abbia messo la parola fine alla concertazione e al supposto diritto di veto che le parti sociali e i sindacati in particolare avrebbero avuto all'epoca di Ciampi. Su questo argomento ho avuto nei giorni scorsi uno scambio di idee (e di notizie) proprio con Ciampi, fonte autentica per eccellenza su un'architettura politico - sociale da lui costruita.

La concertazione ciampiana aveva come tema le politiche degli investimenti e delle risorse necessarie il che vuol dire l'intera politica economica del Paese, quindi non si trattava di temi sindacali in senso stretto e non esistevano diritti di veto e tanto meno votazioni su quegli argomenti. Le parole che Ciampi più volte pronunciò in pubblico su queste questioni mettevano bene in luce che la concertazione avveniva nel rigoroso rispetto delle competenze istituzionali e cioè del governo e del Parlamento nella loro assoluta autonomia. "Non si è mai votato in quelle riunioni e nessuno ha mai posto un veto su alcunché, e non si è mai discusso di problemi specificamente sindacali. I sindacati confederali in quella sede discutevano temi di pubblico interesse con il governo ed erano portatori essi stessi della loro visione dell'interesse generale" il sindacato cioè si spogliava della sua veste di rappresentante delle categorie e si faceva interprete dell'interesse generale. Credo che Guglielmo Epifani, che partecipò in tutti quegli anni a quelle riunioni, potrà confermare quanto Ciampi ha detto.

E che cos'altro hanno fatto Monti ed Elsa Fornero se non una concertazione consultiva con le forze sociali per quanto riguarda la riforma del lavoro? Non è anche quella una questione di interesse generale? Nulla dunque cambierà se le forze sociali andranno a quegli appuntamenti come portatori anch'essi dell'interesse generale ma tutto cambierebbe se vi andassero come portatori degli interessi delle categorie che ad esse fanno riferimento. In quel caso la sede non sarebbe più Palazzo Chigi.
Quanto al problema degli esodi, si fa molta confusione su di esso. Il ministro Fornero ha dato la cifra di 65 mila con riferimento ai lavoratori che risolsero il loro contratto di lavoro prima della riforma delle pensioni. Pensavano di andare in pensione subito e ci andranno invece nel 2019, cioè tra sette anni. Fornero ha provveduto a coprire quest'intervallo insopportabilmente lungo.

L'anno prossimo ci sarà un'altra quota di lavoratori con contratti in scadenza e pensione a sei anni di distanza. Il ministro ha preso impegno di coprire il nuovo esodo e così via, anno dopo anno, con esodi che vedranno ridursi il numero di anni intercorrenti dall'uscita dal lavoro all'accesso alla pensione.
Questo è il meccanismo. La somma degli esodati, secondo i sindacati, ammonterebbe a 330 mila. Può darsi, bisognerebbe conoscere le fonti di questo calcolo, ma sta di fatto che ogni anno vede diminuire l'arco di tempo da coprire e quindi sommarli insieme non ha alcun significato. Dispiace che su un tema di facile comprensione si sia impostato addirittura uno sciopero generale. Per rivendicare che cosa, visto che l'impegno alla tutela man mano che ne matureranno le condizioni è già stato preso?
 
* * *
La crisi della Lega ripropone in pieno la questione settentrionale. La Lega ha avuto il merito di portarla, quando nacque, all'attenzione dell'opinione pubblica ma il demerito di non individuare gli strumenti per risolverla. Questo stesso errore era stato compiuto a suo tempo dai "meridionalisti" i quali (salvo poche eccezioni come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti) ne avevano segnalato l'esistenza ma scelsero cattivi strumenti per risolverla.

La questione settentrionale non consiste nell'esodo di capitali dal Nord al Sud che la Lega ha denunciato e per impedire il quale ha proposto il suo federalismo o addirittura la scissione. Quell'esodo non c'è mai stato, c'è stato semmai il suo contrario perché le banche si sono concentrate al Nord, il grosso degli investimenti pubblici e dei prestiti bancari è avvenuto al Nord e le imprese che hanno investito al Sud sono state tutte e sempre provenienti dal Nord e al Nord sono affluiti i loro profitti e la distribuzione dei loro dividendi. Il vero problema del Nord è il capitalismo dei "padroncini", delle imprese con meno di 20 addetti che costituiscono a dir poco il 95 per cento dell'intera struttura imprenditoriale italiana, disseminata da Varese e da Novara fino a Trieste, Treviso, Padova, Ferrara, Rimini, Ancona, Pesaro, Pescara, Foggia, Bari. Bisognava che i "padroncini" del Nord - Nordest - Est - Sudest diventassero imprese vere, con almeno 50 dipendenti, consorzi, distretti industriali, capacità di ricerca e d'innovazione. Così non è stato. Il tentativo dei distretti è il più delle volte fallito o restato sulla carta, i punti d'eccellenza ci sono stati e ci sono ma il grosso di quest'immensa fascia di capannoni che ha costellato tutte le pianure del Nord e dell'Est ha funzionato fino a quando il cavallo dei consumatori e degli utenti ha bevuto. Con la crisi iniziata nel 2008 il cavallo beve ormai pochissimo e i "padroncini" stanno di male in peggio.

Questa è la questione settentrionale, alla quale la Lega non ha dato alcuno sbocco politico, anzi l'ha impantanata nell'alleanza populista con Berlusconi che non solo non ha visto la crisi ma l'ha negata fino a quando la crisi l'ha travolto.
La Lega ha dato molti buoni amministratori comunali, questo sì, ma al di sopra di quel livello localistico è stata un esperimento disastroso per il Nord e per l'intero  Paese. In più anche un luogo di malaffare. Prima scomparirà, meglio sarà. Ma resterà in piedi la questione settentrionale, così come resta in piedi quella meridionale. E resteranno in piedi fino a quando non sarà risolta la questione nazionale.
Il governo Monti ha mosso i primi passi su questa strada ma ci vorrà almeno una generazione per condurla a termine. Dove sia questa generazione io non lo vedo, ma forse dipende dai troppi anni che ho sulle spalle. Mi auguro che sia così e che la generazione cui quel compito è affidato ci sia, sia pronta e si faccia vedere.

 

(15 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/15/news/scalfari_domenica_15_aprile-33330777/?ref=HRER1-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #357 inserito:: Aprile 28, 2012, 05:14:39 pm »

Che nostalgia di Beppe Grillo

di Eugenio Scalfari

Una volta faceva ridere a crepapelle, con le sue battute fulminanti sui potenti di turno. Ora si è trasformato in un rauco urlatore che vuole distruggere anche la Costituzione, per mettere al suo posto non si sa bene cosa

(23 aprile 2012)

Noi che scriviamo sui giornali e quelli di noi che raccontano in televisione la realtà che ci circonda, descriviamo una società preoccupata, violenta, impoverita, piena di paura e di odio. E un potere egoista e corrotto.

Sarebbe dunque - quella che stiamo vivendo - la stagione più adatta alla satira. Infatti lo è stata negli ultimi due anni del berlusconismo. Ma l'arrivo del governo Monti ha cambiato molte cose. La preoccupazione, la paura e l'egoismo sono, se possibile, addirittura aumentati, ma la satira e la comicità sono entrate in crisi; perfino Crozza, uno dei più bravi e dei più seguiti, è diventato fioco, gli altri sono letteralmente scomparsi e se venissero ancora in scena provocherebbero sbadigli e cambiamento di canale.
Di comici ancora in piena attività ne sono rimasti solo due, ma definirli in quel modo è sbagliato: sono diventati personaggi molto diversi da quelli che erano un tempo.

Uno si chiama Beppe Grillo. Faceva ridere a crepapelle con la sua parlata ligure, i suoi occhi sgranati, i suoi capelli arruffati e le sue battute fulminanti che non risparmiavano nessuno, dai potenti di turno all'uomo della strada. Aveva superato il suo conterraneo Gilberto Govi, il siciliano Angelo Musco e perfino il romanaccio e grandissimo attore Aldo Fabrizi.

Ma adesso Beppe Grillo non fa più ridere. Cavalca l'onda dell'antipolitica, lancia i suoi urli rauchi e i suoi insulti contro lo Stato, contro i partiti, contro il Parlamento, contro il Quirinale, ma non soltanto per gli errori che possono aver commesso e i vizi quando ci sono, ma per il fatto stesso di esistere in quanto istituzioni.

Esorta allo sciopero fiscale, si augura il fallimento delle banche e la disintegrazione dell'euro, vuole la galera per chiunque tenti di riformare la democrazia.

La rottamazione che ha reso celebre il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, per Beppe Grillo è un gioco da bambini. Lui predica la necessità di uno "tsunami" che distrugga sotto le sue ondate l'intera struttura costituzionale per mettere al suo posto non si sa chi e non si sa per che cosa. E trova molta gente che gli va appresso come accade per tutti i pifferai che marciano impavidi verso il disastro.

L'altro è Roberto Benigni. Gli ho dedicato già questa pagina qualche settimana fa, ma sento il bisogno di tornare ancora a parlare di lui dopo averlo visto e ascoltato da Fabio Fazio domenica scorsa.
Benigni è stato un grande comico e un grande attore, Federico Fellini lo descrisse anni fa come una figura eccezionale al di là del semplice spettacolo. Ma nel frattempo Benigni è cresciuto ancora. Fa ridere solo a vederlo muoversi, correre, asciugarsi la fronte con una pezzuola bianca, ma tutto questo ormai è solo contorno.

Le lacrime che vengono agli occhi degli spettatori sono lacrime di commozione e non soltanto di ilarità. Benigni è ancora un comico grandissimo e un attore d'eccellenza, ma è un poeta che recita i poeti e soprattutto è l'interprete di tutto quanto c'è ancora di buono, di civile e di profondamente umano in questo paese.

Gli italiani si specchiano in lui, lo applaudono non solo perché li diverte ma perché li istruisce, li fa crescere, cerca di renderli migliori. La retorica lui non sa neppure che cosa sia, la risata la leggerezza e la satira sono i soli strumenti che usa e con i quali diffonde il senso del civismo, fustiga i vizi e rafforza ed evoca le virtù e l'impegno.

Un Pinocchio formidabile è Benigni, che da burattino di legno sta diventando uno dei padri della patria, un fenomeno quale finora non si era mai visto. E scusate se è poco.

 © Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/che-nostalgia-di-beppe-grillo/2179082/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #358 inserito:: Aprile 29, 2012, 11:25:32 am »

La rabbia sociale male del secolo

di EUGENIO SCALFARI

L'ondata dell'antipolitica si sta ingrossando e proviene da destra, da sinistra e anche dal profondo della società, indipendentemente dalle etichette politiche di originaria appartenenza.
L'ondata ricorda lo "tsunami", si verifica a lunghi intervalli, è capace di produrre distruzioni e danni enormi ma con la stessa velocità con cui arriva si placa lasciando tuttavia dietro di sé un cumulo di rovine.
L'onda lunga è invece quella degli oceani, un moto naturale delle acque che alimenta la vita del mondo marino e terrestre e dell'atmosfera che ci circonda e ci sovrasta. Se vogliamo utilizzare questi fenomeni per meglio comprendere quanto sta accadendo da qualche anno nelle economie dell'Occidente, possiamo dire che allo "tsunami" dell'antipolitica fa riscontro l'onda lunga della politica. Ma dobbiamo anche aggiungere che in alcuni paesi l'ondata antipolitica è più frequente che in altri. L'Italia è uno di questi; l'antipolitica da noi è quasi un fatto permanente e minaccioso d'una società che ha conosciuto assai tardivamente lo Stato e lo ha visto sempre come una potenza ostile da combattere e da frodare.

I democratici di buona volontà dovrebbero dunque sforzarsi di rinnovare e rafforzare l'onda lunga della politica, cioè di una consapevole visione del bene comune da opporre allo "tsunami" dell'antipolitica. Accade invece che la politica galleggi su acque stagnanti e paludose, infestate da miasmi e malarie.

I democratici di buona volontà si trovano insomma a dover combattere l'ondata dell'antipolitica e la palude della politica. In Italia la situazione è questa e se guardiamo all'Europa come al progetto di un futuro Stato federale, le cose stanno più o meno allo stesso modo. Anche la politica europea galleggia infatti su acque stagnanti e paludose. Non c'è un'opinione pubblica seriamente europeista, non ci sono interessi forti che spingano verso la federazione e tanto meno valori egemoni che servano da punti di riferimento. Ci sono soltanto minoranze elitarie, non sufficienti a mutare l'acqua stagnante in onda lunga e vitale.

* * *
Ho più volte ricordato in questi mesi che c'è un punto preliminare da cui dobbiamo prender le mosse: l'economia globale ha messo in contatto tra loro le masse di persone che vivono in paesi di antica opulenza e le masse che abitano paesi di antica povertà.

Questi due campi di forze così diversi e finora refrattari tra loro sono entrati in comunicazione ormai permanente e crescente e questa comunicazione ha creato un improvviso squilibrio nell'uno e nell'altro campo. La tendenza ad un nuovo equilibrio crea un trasferimento inevitabile di benessere dai paesi ricchi a quelli poveri o meno ricchi e quel trasferimento è destinato a continuare fino a quando l'equilibrio tra i due campi non sarà stato raggiunto.

Ci sono molti strumenti economici e politici per ridurre i costi sociali di questo percorso che tuttavia resta un dato di fondo al quale è del tutto inutile ribellarsi.

* * *
Ribadita questa premessa, veniamo ai fatti rilevanti di questa fase. L'evento principale è la vittoria del socialista Hollande al primo turno delle presidenziali francesi, la forte probabilità della sua elezione al secondo turno e la contemporanea comparsa del neo-lepenismo di massa (18 per cento dei voti espressi) che potrà notevolmente influire sul formarsi d'una nuova destra populista e anti-europea.
Se Hollande sarà proclamato Presidente della Repubblica domenica prossima, sappiamo già che il suo primo incontro dopo la formazione del governo sarà quello con Angela Merkel con l'obiettivo di costruire su nuove basi il patto di amicizia che lega le due maggiori nazioni europee.

Hollande punta sulla crescita dell'economia europea, ma anche la Merkel punta sulla crescita. Prima lo diceva con voce sommessa, ora lo dice con voce alta e sicura. Con la stessa voce alta e sicura lo dice anche Mario Draghi e anche il nostro Mario Monti, sostenuto in questa sua linea da tutti e tre i partiti che appoggiano il suo governo. E perciò crescita crescita crescita. Ma con quali strumenti per ottenerla? E con quali tempi necessari a vederne gli effetti?

* * *
Gli strumenti proposti da Hollande sono di ottenere l'esenzione delle spese per investimenti dal patto di stabilità fiscale voluto dalla Germania e approvato dalle Autorità europee; ottenere l'emissione di "project bond" per finanziare infrastrutture europee; accrescere le risorse del bilancio europeo amministrato dalla Commissione di Bruxelles e aumentare le risorse della Banca d'investimento (Bei) destinate anch'esse a specifici progetti di infrastrutture inter-frontaliere.

Le richieste francesi sono in larga misura condivise dalle Autorità di Bruxelles. La Germania - e la Bce di Draghi - ne condividono alcune ma escludono i "project bond" e sono molto caute sugli investimenti della Bei. Mario Monti si colloca a metà strada tra le richieste di Hollande e le probabili risposte negative della Merkel ad alcune di esse. In più Monti aggiunge la richiesta dei diciotto paesi dell'Unione di aumentare l'intensità delle liberalizzazioni sul mercato dei servizi in tutta l'area dell'Unione.

Il negoziato - sempre che Hollande vinca il secondo turno delle presidenziali - avverrà tra l'8 maggio e le riunioni dei vertici europei di fine giugno. Un compromesso positivo è molto probabile. Per quanto riguarda l'Italia l'esito del negoziato ha grande importanza ma non esaurisce i nostri problemi politici, economici e sociali. Restano infatti da risolvere le maggiori tutele sociali (esodati), la tenuta dei partiti della "strana maggioranza" e i loro reciproci conflitti; l'esito politico delle amministrative del 6 e 7 maggio; la riforma della legge elettorale; gli strumenti da adottare nella lotta contro la recessione; l'approvazione della riforma del lavoro; la "governance" della Rai. E scusate se è poco.

* * *
Tralascio di approfondire i temi di questo lungo elenco che sono stati già ampiamente esaminati su queste pagine nei giorni scorsi. Ma ce n'è uno che tutti li contiene e può determinarne l'esito; riguarda l'atteggiamento dei partiti che appoggiano l'attuale governo. Essi temono che l'ondata antipolitica, già prossima ad intercettare il 20 per cento dei voti stando ai sondaggi, possa ulteriormente crescere fino a rappresentare un quarto dei voti espressi e a creare anche una diffusa astensione, tale da ridurre fino al 60 per cento il numero degli elettori che andranno alle urne. Il combinato disposto tra astensioni e voti antipolitici produrrebbe un colpo estremamente grave per i partiti "costituzionali" (chiamiamoli impropriamente così) e metterebbe in serio periglio la stessa sopravvivenza della democrazia parlamentare.

La tentazione di anticipare il voto al prossimo ottobre traluce ormai da ripetute sortite e rende più incerta l'azione del governo e l'andamento dei mercati. D'altra parte la preoccupazione dei partiti è comprensibile. L'"impasse" in cui si trovano è di difficilissima soluzione: anticipare il voto rischia di squalificarli ancora di più e getterebbe il paese in una fase d'insicurezza assai grave; aspettare ancora un anno fino alla scadenza naturale della legislatura prolungherebbe però la loro cottura a fuoco lento. Qual è dunque la soluzione del rebus?

Una soltanto: i partiti che chiamiamo costituzionali votino intanto una legge elettorale che abolisca il premio di maggioranza o lo faccia scattare soltanto per chi superi il 40 per cento dei voti, ponga una soglia alta (5 per cento) per entrare in Parlamento, vieti le coalizioni elettorali, abolisca dalla scheda elettorale il nome del leader, prenda a modello la legge elettorale tedesca applicata a collegi di piccole dimensioni come previsto dalla legge spagnola.

Nel frattempo il governo, ricevuta l'assicurazione formale e solenne della sua permanenza in carica fino al termine della legislatura, adotti una serie di provvedimenti capaci di accrescere le tutele sociali estendendone la durata e ampliandone la sfera d'applicazione, tagli le spese improduttive e persegua - come sta già energicamente facendo - il recupero dell'evasione fiscale; cartolarizzi una parte del patrimonio pubblico vendibile e mandi avanti il pagamento del debito pregresso verso le imprese fornitrici.

Con le risorse prodotte con questi interventi, diminuisca le imposte sul lavoro, aumenti i crediti d'imposta per investimenti destinati a innovazioni e ricerca, rilanci l'apertura dei cantieri edilizi e introduca sgravi d'imposta sui redditi medio-bassi del lavoro dipendente.

Le risorse recuperabili dalle fonti sopra indicate possono arrivare sicuramente a 80 miliardi, forse a cento e quindi sono in grado di produrre un allentamento della tensione sociale in attesa che le liberalizzazioni e la riforma pensionistica producano gli attesi effetti sul gettito delle entrate.

Questi interventi-ponte sono oltremodo necessari e urgenti per diminuire o almeno non far aumentare il tasso di rabbia sociale che, se lasciato alla deriva, può creare uno sconvolgimento economico con i relativi effetti sui mercati finanziari.

Chi si preoccupa soltanto dello "spread" e considera la rabbia sociale come un fenomeno marginale e sopportabile, non coglie un aspetto fondamentale del problema. La "polis" deve tenere nello stesso conto le leggi economiche e le dinamiche sociali da esse provocate; non a caso i classici della scienza economica, a cominciare da Adam Smith, insegnavano filosofia morale. Chi si proclama "smithiano" dovrebbe almeno studiare il pensiero e la formazione culturale del suo autore di riferimento prima d'impegnarsi sui precetti del liberismo senza se e senza ma.

Un'ultima osservazione: il presidente Monti punta giustamente sull'aumento della produttività delle imprese e sulla loro competitività. Mi auguro che non cada nell'errore di far coincidere l'aumento della produttività con la diminuzione del costo del lavoro. Quest'ultimo è soltanto uno dei componenti d'una maggiore produttività e neppure il più importante. I più importanti sono l'innovazione dei prodotti e dei processi di produzione e dipendono sia l'uno che l'altro dagli imprenditori e non dai lavoratori. Quanto al costo del lavoro dipendente esso deriva in buona parte dalla differenza tra salario lordo e salario netto. In questo caso la sua diminuzione si verifica con un taglio del cosiddetto cuneo fiscale e cioè con la fiscalizzazione dei contributi. Sono sicuro che il professor Monti queste cose le conosce molto meglio di me e agirà quindi di conseguenza.

(29 aprile 2012) © RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/29/news/la_rabbia_sociale_male_del_secolo-34131671/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #359 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:39:15 pm »

In Francia deve vincere l'Europa

di Eugenio Scalfari

L'affermazione del socialista Hollande o la riconferma di Sarkozy contano meno dei rapporti tra i transalpini e la Germania.

Per questo le due potenze continentali, indipendentemente da chi le guida, dovranno continuare sulla linea del compromesso

(03 maggio 2012)

Ancora non sappiamo se sarà Hollande a vincere le elezioni presidenziali e se alle elezioni legislative di giugno la maggioranza sarà conforme al risultato presidenziale, ma è probabile che sarà questo il risultato finale. Ci sarà stata cioè un'inversione di tendenza in Europa da destra verso sinistra, dal populismo a un riformismo di tonalità socialista.

La novità è tanto più grossa in quanto avverrà in Francia. Non è soltanto uno dei paesi fondatori della Comunità europea e non è soltanto la nazione che da vent'anni rappresenta insieme alla Germania il motore dell'Unione. La Francia è la Francia, è stata per tre secoli la potenza egemone del nostro continente nella politica, nella cultura, nella lingua. E nel costume. Diciamo, nella "civilizzazione" dell'Europa moderna.

Certo, la sua economia non brilla, il suo debito pubblico è notevole, la sua economia zoppica, la sua agricoltura vive con il sostegno che riceve dall'Europa. E tuttavia una rottura sugli obbiettivi e sui destini tra la Francia e la Germania rappresenterebbe oggi un evento funesto per tutti i paesi del nostro continente. E' dunque probabile - e auspicabile - che sia Hollande sia la Merkel sentiranno il peso di questa responsabilità e punteranno verso una dialettica positiva e verso un compromesso probabile anziché verso una vera e propria rottura.

I compromessi tuttavia sono di due tipi: al ribasso e al rialzo. La politica marcia spesso verso quelli al ribasso perché sono i più facili da conseguire. Bisognerebbe invece cercare non il minimo ma il massimo comune denominatore, specie in tempi di crisi globale come quella nella quale l'Europa e l'Occidente si trovano da oltre quattro anni. Per uscire dal generico vediamo dunque dove si collocano il minimo e il massimo dell'auspicabile comune denominatore.

Il minimo sta nell'aumento dei fondi a disposizione della Banca europea per gli investimenti (che è un'istituzione del tutto diversa dalla Bce). Questa è una delle richieste di Hollande che la Merkel è pronta (per quanto se ne sa) a soddisfare.

L'altro compromesso possibile consiste nell'ottenere dalla Cancelliera il suo assenso a riconoscere l'importanza di una politica di crescita europea. Non costa nulla dirlo; Angela Merkel l'ha già proclamato più volte e probabilmente lo ripeterà con enfasi ancora maggiore dopo l'incontro con Hollande. Dopo di che restano le distanze tra due politiche di crescita: quella affidata a riforme "liberiste" (Merkel, Draghi, Monti) e quelle affidate a interventi fiscali e infrastrutturali pubblici (Hollande, la socialdemocrazia tedesca, i ministri Passera e Barca e il Pd in Italia).

C'è un altro tema che divide questi due fronti: i "project bond", cioè l'emissione di titoli europei per finanziare investimenti della Ue.

Il massimo comune denominatore non prevede quest'ultimo punto perché la Germania sarà sicuramente contraria ai "project bond"; ma comprende tutti gli altri, anche quelli delle riforme fiscali che riguardano i singoli paesi e non l'Europa in quanto tale. Sarà probabilmente questo l'obbiettivo di Hollande che non sposta granché la situazione italiana dove Monti è più vicino alla visione liberista che a quella interventista.

La Francia è la Francia, e l'Italia è soltanto l'Italia.


© Riproduzione riservata
da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/in-francia-deve-vincere-leuropa/2180035/18
Registrato
Pagine: 1 ... 22 23 [24] 25 26 ... 47
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!