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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318244 volte)
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« Risposta #315 inserito:: Ottobre 16, 2011, 11:16:17 am »

LE IDEE

Ma il governo è morto tre giorni fa

di EUGENIO SCALFARI

Ma il governo è morto tre giorni fa Berlusconi dopo il voto negativo sul rendiconto (ansa)
FACEVA certamente effetto vedere l'aula di Montecitorio per metà deserta: segnalava con la forza d'una immagine la spaccatura del Paese in due, che dura ormai con alterne vicende dal 1994 avendo raggiunto poi il suo culmine negli anni successivi al 2001. Sono dunque ben tre legislature durante le quali la maggioranza ha imposto la sua dittatura, le regole sono state aggirate o travolte, la questione morale è di nuovo tornata di drammatica attualità.

Ma di nuovo c'è una questione che in precedenza non c'era: negli ultimi tre anni l'intero pianeta e in particolare le nazioni opulente dell'Occidente sono stati devastati dalla più grave crisi economica degli ultimi cent'anni, più grave ancora di quella del '29, mettendo in causa non solo i mercati ma il capitalismo nella sua natura democratica.

In queste condizioni l'intrinseca fragilità della democrazia italiana è purtroppo sbalzata in prima fila, tutte le nostre debolezze si sono accentuate, le nostre scarse virtù civiche hanno ceduto di fronte all'invasione del populismo, della demagogia, dell'indifferenza, dell'incompetenza, della corruzione.

Non è bastato neppure il "vincolo esterno" impostoci a un certo punto dall'Europa attraverso la sua Banca centrale. Un vincolo umiliante ma indispensabile e virtuoso di fronte alla pochezza politica del governo che tuttavia ha funzionato soltanto a metà a causa delle divisioni interne alla maggioranza e allo stesso governo e soprattutto del dominio che il lobbismo corporativo
esercita sul gruppo dirigente del Pdl e sugli interessi che rappresenta, dei quali il "premier" è la più vistosa espressione.

Sì, faceva effetto quell'aula parlamentare disertata dalla metà dei suoi componenti, ma non poteva risolvere il problema che si è aperto mercoledì scorso con il voto di bocciatura dell'articolo 1 del disegno di legge sul Rendiconto generale dello Stato. Né lo potrà risolvere il voto di fiducia che oggi il governo chiederà al Senato e che certamente otterrà. Il problema resterà aperto, anzi si aggraverà ed ecco perché.

* * *

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella sua impeccabile vigilanza sul funzionamento degli organi costituzionali (così l'ha definito una volta tanto Berlusconi nel suo discorso di ieri e così lo definiamo anche noi fin da quando fu eletto al Quirinale cinque anni fa) ha fatto sentire per due volte la sua voce subito dopo "l'incidente" che ha bocciato il Rendiconto generale dello Stato.

In un primo comunicato ha chiesto al presidente del Consiglio di verificare in Parlamento se la maggioranza fosse ancora compatta e decisa a rinnovargli la fiducia e spiegasse in che modo intendeva rimediare alla bocciatura del Rendiconto generale; ma in un secondo "lancio" diffuso a distanza di poche ore ha ultimato al governo di lavorare con coerenza e rapidità alle misure di risanamento e di crescita senza le quali il Paese rischia di affondare nella tempesta della crisi.

Impeccabile certamente, non poteva dir meglio e tuttavia neppure in questo modo si risolve il problema. La fiducia oggi Berlusconi l'avrà, ma la navigazione successiva del governo nelle agitatissime acque della crisi non sarà diversa da quella che abbiamo visto dai primi d'agosto in poi: una prima manovra raffazzonata, una seconda dettata dalla Bce ma non adeguata per quanto riguarda la parte fondamentale destinata alla crescita; poi una terza perché non erano stati specificati alcuni punti essenziali relativi all'obiettivo di realizzare il pareggio di bilancio entro il 2013. Ora si attende la quarta manovra interamente destinata allo sviluppo. Mario Draghi l'altro ieri è stato impietoso in proposito, lamentando le gravi inadempienze del governo su questa materia. Tra quindici giorni se ne andrà a Francoforte e ancora non è stato nominato il suo successore anche se se ne parla da giugno.

Tutto dunque lascia prevedere che il governo e la sua maggioranza, balcanizzati in cricche e caciccati, non sapranno ottemperare alle richieste di Napolitano. Che cosa farà a quel punto il Presidente, di fronte ad un governo sempre meno credibile ma sempre sostenuto dalla fiducia del Parlamento?

La domanda è questa è non è di poco conto. Per misurare l'esistenza della fiducia parlamentare il Quirinale, come tutti noi, ha un termometro: i voti riscossi dal governo. Ma per misurarne la credibilità, l'operosità, l'efficienza, non esiste un termometro; esistono soltanto valutazioni e risultati. Le valutazioni sono soggettive e quindi differiscono tra loro, i risultati sono invece oggettivi anche se richiedono un tempo tecnico per esser raggiunti. Quelli che abbiamo per ora su questo governo equivalgono allo zero assoluto altrimenti non ci troveremmo in questo stato e peggio di tutti.

Anche la storia della nostra ricchezza privata che sarebbe secondo Berlusconi e Tremonti di gran lunga maggiore di quella della Francia e della Spagna e, sia pur di poco, perfino di quella della Germania, è una storia priva di qualunque significato come ha dimostrato cifre alla mano Romano Prodi in un articolo pubblicato domenica scorsa sul Messaggero. La nostra ricchezza privata mobilitabile ai fini dello sviluppo è di gran lunga inferiore a quella di tutte le altre nazioni europee.

Comunque fino a quando il governo avrà la fiducia del Parlamento il Quirinale non ha mezzi per rimuoverlo anche se credibilità, efficienza e capacità di dominare la crisi per la parte che ci riguarda sono ridotte allo zero.
Purtroppo dunque su questo tema i poteri del Quirinale non ci possono aiutare sicché è inutile farsi illusioni in proposito. So bene che alcuni tra più autorevoli costituzionalisti attribuiscono al Capo dello Stato il potere di sciogliere le Camere se ne constata la sostanziale paralisi.

So molto bene che il decreto di scioglimento deve essere sempre controfirmato dal presidente del Consiglio e so altrettanto bene che, in caso di denegata controfirma, il problema passerebbe nelle mani della Corte costituzionale affinché decida sul conflitto di attribuzione. Ma sono anche certissimo che Napolitano non ricorrerà mai ad iniziative così azzardate. Credo che faccia bene a non farlo. Con una conseguenza però: se il Paese continua così andrà a fondo e tutti gli attori della partita ne saranno responsabili salvo le opposizioni, i media tanto vilipesi perché cercano la verità e il potere terzo della magistratura.

* * *

Ma veniamo, per concludere, all'ormai famoso "incidente" sul Rendiconto generale e diciamo subito che non è affatto un incidente ma un fatto della massima importanza politica e costituzionale. Averne delegato la soluzione al governo e al Parlamento è corretto, ma altrettanto doverosamente corretto sarà di vigilare sulla sua soluzione la quale, nei termini in cui è stata prospettata dal "premier" è del tutto insostenibile e inaccettabile.

Il Rendiconto generale sull'amministrazione dello Stato è previsto nel primo comma dell'articolo 81 della Costituzione che fu scritto direttamente da Luigi Einaudi, allora membro autorevolissimo dell'Assemblea Costituente. Stabilisce che ogni anno il governo deve sottoporre all'approvazione delle Camere il Rendiconto generale, così come deve presentare ogni anno la legge di bilancio. Il Rendiconto altro non è che il consuntivo delle entrate e delle spese, la legge di bilancio (o finanziaria come un tempo si diceva) è il preventivo.

La legge n. 196 del 2009 parla anch'essa del Rendiconto (sebbene Berlusconi nel suo discorso di mercoledì l'abbia escluso) stabilendo che quel documento, proposto dal Tesoro e redatto dalla Ragioneria generale, sia trasmesso alla Corte dei Conti per la "parificazione", un'indagine ulteriore sulla correttezza costituzionale delle "coperture" e poi, così vidimato dalla Corte, inviato al Parlamento il cui voto è un voto politico. Il Parlamento cioè è chiamato a dare un suo giudizio sul consuntivo della finanza pubblica. Il voto negativo significa che il Parlamento dà un giudizio negativo su come il governo ha gestito la finanza pubblica nel precedente esercizio.

Poiché il Parlamento rappresenta il popolo sovrano, quel giudizio negativo è espresso dai delegati del popolo sovrano. E non sarà certo l'attuale governo e il suo "premier" a dissentire su questo punto, visto che il loro potere attuale è continuamente riportato al popolo sovrano e ai suoi delegati.

Dunque: il popolo sovrano attraverso il voto dei suoi rappresentanti ha bocciato l'articolo 1 del Rendiconto generale. Che cosa dice quell'articolo? Eccolo: "Il Rendiconto generale dell'Amministrazione dello Stato e i rendiconti delle Amministrazioni e delle Aziende autonome per l'esercizio 2010 sono approvati nelle risultanze di cui ai seguenti articoli" seguono varie pagine di tabelle, redatte dalla Ragioneria, firmate dal ministro del Tesoro e parificate dalla Corte dei Conti.

Si ricava da tutto ciò senza ombra di dubbio che il voto della Camera è un voto politico che sfiducia il consuntivo del 2010. E poiché la legge finanziaria del 2010 fu redatta dallo stesso ministro e dallo stesso governo di oggi, sono essi ad essere stati sfiduciati. E poiché infine uno dei principi della democrazia parlamentare consiste nel fatto che i ministri e i governi sono giudicati dal consuntivo delle loro azioni, questa è la sfiducia legittimamente votata dalla Camera dei deputati.

Berlusconi vorrebbe ripresentare il Rendiconto cambiandone l'articolo 1. E come può cambiarlo? L'ho citato nella sua letteralità: bocciare quell'articolo ha significato la bocciatura dell'intero provvedimento il quale, come dicono i regolamenti parlamentari, non può essere ripresentato se non dopo sei mesi, cosa che certamente non sfuggirà all'impeccabile vigilanza del Capo dello Stato.

Allora non c'è soluzione? Dobbiamo restare senza il consuntivo fino al prossimo aprile? E come si potrà costruire il preventivo senza avere certezze e approvazione del consuntivo? Una soluzione c'è: le dimissioni del governo. La fiducia di oggi è un sotterfugio perché la fiducia il governo l'ha già perduta l'altro ieri ed oggi si vota la fiducia ad un governo che l'ha già persa e potrebbe ritrovarla soltanto dopo aver rimesso le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato.

Questa è la procedura costituzionale e non mi pare che possa essere ignorata.

Post scriptum. Forse Emanuele Macaluso, che spesso mi dedica la sua acida attenzione sul Riformista opinerà diversamente da me. Ma con tutto il rispetto che gli è dovuto, la sua opinione è, come tutte le opinioni, puramente soggettiva.
 

(14 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #316 inserito:: Ottobre 17, 2011, 09:27:07 am »


L'EDITORIALE

Stato sconfitto da un pugno di teppisti

di EUGENIO SCALFARI

La notizia principale di oggi è la mobilitazione degli "indignati" in tutte le piazze dell'Occidente, da Manhattan a Londra a Bruxelles, a Berlino, a Parigi, a Madrid. Ma a noi preoccupa soprattutto ciò che è avvenuto a Roma. Mentre centinaia di migliaia di giovani tentavano di sfilare pacificamente nelle via della capitale poche centinaia di "black bloc" in tenuta da guerriglia hanno compiuto violenze e provocato la polizia tentando di forzarne i cordoni. Gli scontri hanno coinvolto la massa dei pacifici dimostranti, come è avvenuto in molte altre occasioni. Mentre scriviamo gli incidenti  sono ancora in corso, molti manifestanti hanno tentato di isolare i facinorosi che hanno reagito picchiandoli a colpi di spranghe. È deplorevole che ancora una volta la polizia e i servizi di sicurezza non siano stati in grado di neutralizzare preventivamente i teppisti e i provocatori che dovrebbero esser noti e rintracciabili. Speriamo che le violenze non continuino in serata. Le nostre cronache ne daranno ampia informazione.

Quali che ne siano gli esiti il fatto certo è comunque l'esistenza ormai evidente di un movimento internazionale. La sua antivigilia è stata la "primavera araba" come furono definiti i moti di piazza qualche mese fa al Cairo e poi a Tunisi e a Bengasi, senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle "banlieue" parigine.

La vigilia è avvenuta alcuni mesi fa a Madrid, poi la fiaccola è sbarcata a New York al grido di "Occupy Wall
Street". Adesso le dimensioni del movimento sono globali. D'altronde, è contro i danni provocati dalla globalizzazione che il movimento è nato, si è diffuso e si rafforza col passare del tempo.

Effimero? Non credo. Esprime la rabbia d'una generazione senza futuro e senza più fiducia nelle istituzioni tradizionali, quelle politiche ma soprattutto quelle finanziarie, ritenute responsabili della crisi e anche profittatrici dei danni arrecati al bene comune.

Gli "indignati" non sono né di sinistra né di destra, almeno nel significato tradizionale di queste parole. Ma certo non sono conservatori. Hanno obiettivi concreti anche se talmente generali da diventare generici: vogliono che i beni comuni siano di tutti; non dei privati, ma neppure dello Stato o di altre pubbliche autorità poiché non hanno alcuna fiducia nella proprietà privata e neppure in quella pubblica amministrata da caste politiche e burocratiche.
I beni pubblici debbono esser messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono e abitano in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d'uso nelle "agorà", nelle piazze di quel luogo. L'acqua è un bene d'uso comune, l'aria, le foreste, le reti di comunicazione, le case, le fabbriche, i trasporti, gli ospedali. Le banche? Non servono le banche, tutt'al più servono a render facili i pagamenti che avvengono sulla base del valore d'uso e non del valore di scambio.

C'è una dose massiccia di utopia in questo modo di pensare; c'è un'evidente reminiscenza di comunismo utopico; c'è anche una tonalità "francescana". E c'è - l'ho già scritto domenica scorsa e qui lo ripeto - un rischio estremamente grave: un contagio di populismo.

Esiste storicamente il populismo dei demagoghi, costruito per accalappiare i gonzi, e il populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole. Ma non esistono Città del Sole, almeno in questa terra. Chi crede che ce ne sia una ultraterrena fa bene a vagheggiarla ma qui, tra questi solchi, neppure il Redentore la portò perché - fu lui il primo a dirlo - il suo regno non era di questo mondo.

Certo le foreste non vanno abbattute. Certo l'aria non va inquinata. Certo le banche non debbono truffare i clienti e ingrassare sulla truffa. Certo i cittadini debbono partecipare alla gestione della cosa pubblica e non limitarsi a votare con pessime leggi elettorali una volta ogni cinque anni. E così via. Bisogna dunque fare buone leggi e farle amministrare da buona e brava gente e bisogna infine che vi siano efficaci e imparziali controlli su quelle gestioni.
Gli "indignati" sono indignati perché tutto ciò manca e il futuro gli è stato rubato. Sono d'accordo con loro anche perché a me e a quelli della mia generazione è stato rubato il presente e la memoria del passato e vi assicuro che non si tratta d'un furto da poco. Ma so che non è con l'utopia che si risolve il problema.
L'utopia è una fuga in avanti alla quale subentra ben presto l'indifferenza.

Il vostro entusiasmo è sacrosanto come la vostra pacifica ribellione, ma dovete utilizzarlo per la progettazione concreta del futuro, altrimenti da indignati finirete in rottamatori e quando tutto sarà stato rottamato - il malfatto insieme al benfatto - sarete diventati "vecchi e tardi" come i compagni di Ulisse quando varcarono le Colonne d'Ercole e subito dopo naufragarono.
* * *
Domani comincia a Todi un incontro promosso da una serie numerosa di associazioni, comunità, sindacati, di ispirazione cattolica sulla scia dell'allocuzione pronunciata un paio di settimane fa dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. L'allocuzione era quella che propugnava un rilancio dell'etica pubblica capace di rinnovare "l'aria putrida" che aveva devastato le istituzioni e esortava i cattolici all'impegno civile e politico.
A Todi, secondo gli intendimenti dei promotori, dovrebbe prender vita un "soggetto pre-politico" che interloquisca con la politica, sia punto di riferimento dei cattolici impegnati ed anche centro di preparazione civile e sociale di una nuova classe dirigente d'ispirazione cristiana.

"Non è un partito" hanno ripetuto all'unisono i promotori dell'iniziativa "perché non è compito della Chiesa fondare e dirigere partiti".

I laici non cattolici (tra i quali mi ascrivo) prendono nota con interesse di questa iniziativa anche se alcune domande sorgono spontanee.

Prima domanda: la Chiesa non ha mai fondato un partito. Il partito è, per definizione, una parte e non un tutto, mentre la Chiesa cattolica è ecumenica per definizione. Quindi l'affermazione che non fonderà nessun partito è talmente ovvia da apparire alquanto sospetta. Del resto, un sacerdote con tanto di veste talare un partito lo fondò. Era il 1919, il partito si chiamò "Popolare", in Italia ha cessato di esistere una decina d'anni fa, nel Parlamento europeo esiste ancora, il fondatore si chiamava don Luigi Sturzo.

Seconda domanda: la Chiesa dispone dello spazio pubblico come ogni altra associazione, religiosa o no, sulla base della nostra Costituzione. Nessuno si è mai opposto all'uso di quello spazio del quale infatti la Chiesa, il Vaticano, le comunità cattoliche, i sacerdoti d'ogni genere e grado, si sono largamente serviti. Se il "soggetto" immaginato a Todi nascesse per usare lo spazio pubblico, sarà un'ennesima voce cattolica a farsi sentire e ben venga. Il rischio semmai è che sia un doppione della Cei. Niente di male, ma inutile. Oppure non sarà un doppione? Dirà cose diverse dalla Cei, dal Vaticano, dalla Gerarchia? Sarebbe molto interessante, potrebbe essere una forza di rinnovamento. In senso modernista oppure un richiamo all'ordine e alla tradizione? Comunque, in ciascuna di queste ipotesi, sarebbe rivolta alla comunità dei fedeli e non certo ai laici.

Terza domanda: se vuole essere invece un centro di preparazione della nuova classe dirigente cattolica, questa sì sarebbe un'ottima cosa. I cattolici impegnati in politica finora, salvo rare e importanti eccezioni, hanno avuto Cristo sulle labbra e Mammona nel cuore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se è questo l'obiettivo di Todi, sarà benvenuto.

Quarta ed ultima domanda: oppure il nuovo soggetto sarà il Quartier generale di tutte le forze cattoliche variamente impegnate nei partiti, in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, nelle istituzioni? Questo sarebbe alquanto preoccupante. In realtà questo Quartier generale c'è già ed è la Segreteria di Stato vaticana. Questo sarebbe un Quartier generale in sembianze laiche. Non mi sembra una grande idea e non credo che i veri cattolici socialmente impegnati la gradiranno. Per quanto so, la regola è questa: la Chiesa diffonde la sua etica, le sue richieste, i suoi valori; i cattolici politicamente impegnati cercano di sostenere quella dottrina tenendo tuttavia presente che le leggi riguardano tutti, cattolici e non cattolici, e che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge in uno Stato laico e non teocratico.
Non c'è bisogno di molti Quartier generali dunque, uno basta e avanza.
* * *
Concludo queste mie note con quanto è accaduto durante e dopo le votazioni di venerdì scorso alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo. Le cronache ne hanno parlato diffusamente sicché mi soffermerò soltanto su alcune questioni non risolte.

1. Dopo la bocciatura di martedì scorso del Rendiconto generale dello Stato, tre questioni dovevano aver soluzione. Una era quella di risolvere quel problema estremamente complesso. Un'altra era verificare che il governo godesse ancora della fiducia del Parlamento. Un'altra ancora di constatare se la maggioranza avesse la credibilità e la compattezza necessaria ad affrontare i prossimi difficili appuntamenti politici ed economici. Tutti e tre questi obiettivi furono esplicitamente indicati dal capo dello Stato con pubbliche e chiarissime esternazioni.

2. La fiducia alla Camera è stata ottenuta e questa questione è quindi risolta.

3. La credibilità e la compattezza della maggioranza restano aperte e se ne avranno prove nei prossimi giorni e settimane soprattutto (ma non soltanto) su questioni economiche. Se i risultati richiesti dal Quirinale ci saranno il governo potrà andare avanti fino alla scadenza naturale della legislatura. Se non ci saranno il governo resterà egualmente in carica perché il Quirinale non ha gli strumenti necessari per farlo sloggiare senza un esplicito voto di sfiducia che finora non c'è stato anche a causa della compravendita di deputati e senatori che è avvenuta ed avviene sotto gli occhi schifati di tutto il Paese.

4. L'incidente (che non è affatto un incidente ma una questione di prima grandezza) del voto contrario dato dalla Camera sul Rendiconto generale non è stato ancora risolto. Il presidente della Repubblica, rispondendo l'altro ieri ad una lettera dei capigruppo di maggioranza, ha suggerito di ripresentare il Rendiconto al Senato dopo un ulteriore controllo della corte dei Conti. Così probabilmente avverrà sebbene esista una prassi secondo la quale quando una legge viene bocciata da una delle Assemblee, non viene ripresentata all'altra. Ma la prassi - quando è necessario - si può superare se non è esplicitamente vietata e questa non lo è.

5. Il Senato approverà certamente il Rendiconto e poi lo trasmetterà alla Camera affinché faccia altrettanto ma qui sorgerà un problema. Il regolamento della Camera prevede che una legge bocciata non possa essere ripresentata se non dopo sei mesi. Quindi, a rigor di logica, la Camera non dovrebbe mettere all'ordine del giorno il Rendiconto se non nel prossimo aprile con la conseguenza che il ministro del Tesoro sarebbe fino ad aprile sfiduciato su come ha gestito la pubblica finanza nell'esercizio 2010 e con lui l'intero governo di cui fa parte.

Debbo immaginare che gli uffici competenti del Quirinale conoscano questo problema e penso quindi di essere io in errore. Me lo auguro e mi farebbe piacere saperlo. Secondo me il solo modo per risolvere il problema erano le dimissioni del governo come insegnano i precedenti, anche perché la bocciatura del Rendiconto, cioè del consuntivo nell'esercizio 2010, è un voto estremamente politico. Significa che la Camera disapprova il modo con cui è stata amministrata l'economia in quell'esercizio. Più politico di così non ce n'è un altro.

Si obietterà che si tratta di questione procedurale. Obietto a mia volta che la procedura non è una formalità ma è la sostanza della politica, contiene le regole alle quali la politica deve conformarsi e affida alle autorità "terze" il compito di rispettarle e farle rispettare.

Vedremo come tutto questo finirà. Intanto abbiamo due viceministri e un sottosegretario in più ma non ho sentito che, a parte l'opposizione, questo vergognoso mercato sia stato censurato come si sarebbe meritato.

(16 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/16/news/stato_sconfitto_da_un_pugno_di_teppisti_di_eugenio_scalfari-23306498/
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« Risposta #317 inserito:: Ottobre 20, 2011, 09:33:03 am »

IL COMMENTO

Strappo istituzionale

di EUGENIO SCALFARI

STA per accadere un fatto di estrema gravità, riguarda la nomina del nuovo governatore della Banca d'Italia, successore di Mario Draghi che tra nove giorni sarà insediato alla guida della Banca centrale europea "nonostante sia italiano", come dissero informalmente la Merkel e Sarkozy quando nel giugno scorso quella scelta fu approvata all'unanimità dal Consiglio dei capi di governo dell'Unione europea.

È appunto dal giugno scorso che se ne parla. Si tratta infatti di un atto complesso con tre attori: il presidente della Repubblica che firma il decreto presidenziale di nomina, il presidente del Consiglio cui spetta il diritto di proporre il nome del candidato e il Consiglio superiore della Banca d'Italia che è chiamato ad emettere il suo parere, obbligatorio ma non vincolante.

Finora il governatore è sempre stato scelto all'interno della Banca d'Italia salvo per l'appunto la nomina di Draghi che avvenne perché l'allora governatore Antonio Fazio era stato rinviato a giudizio sulla questione della scalata della Banca Antonveneta da parte dei "furbetti" e "furboni" del quartierino, come allora furono chiamati.

Ma nonostante i mesi trascorsi e le ripetute sollecitazioni del Quirinale, il tempo passava invano e la proposta di Berlusconi non arrivava. La causa è nota: il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, aveva un suo candidato nella persona di Vittorio Grilli, già ragioniere dello Stato e attualmente direttore generale del Tesoro, cioè principale collaboratore di Tremonti, Marco Milanese a parte. Si contrapponevano dunque l'attuale direttore generale della Banca d'Italia, Fabrizio Saccomanni, che rappresenta la continuità dell'Istituto e gode della fiducia di Draghi, a Vittorio Grilli che anche lui ha buoni titoli nella sua biografia personale.

Con un handicap tuttavia non da poco: Tremonti ha più volte e pubblicamente motivato la sua propensione a favore di Grilli perché ritiene che la Banca debba essere una propaggine del ministero del Tesoro soprattutto nel campo della politica bancaria, in quella importantissima della Vigilanza e infine nelle valutazioni della politica economica del governo che il governatore formula almeno due volte l'anno, il 31 maggio nel corso dell'assemblea generale dell'Istituto e a ottobre nella Giornata del Risparmio. Insomma, un capovolgimento totale dello spirito della tradizione e del ruolo assegnato alla Banca d'Italia fin dall'epoca in cui fu fondata, Ventennio fascista a parte.
Va ricordato che del ministro del Tesoro la legge che disciplina la nomina del governatore non fa affatto menzione. Si tratta dunque in questo caso d'una vera e propria interferenza che il presidente del Consiglio ha subìto e subisce per la strutturale debolezza in cui è finito il governo-fantasma che si ostina a presiedere.

Per questa ragione il tempo ha continuato a passare fino a quando il calendario non ha fatto arrivare la data limite, ma a questo punto è emersa un'altra complicazione. Con l'uscita di Jean-Claude Trichet dalla presidenza della Bce la Francia resta senza alcun rappresentante nel direttorio di quella fondamentale istituzione europea, mentre l'Italia ne ha addirittura due: Draghi e Bini Smaghi.

Il problema era già stato esaminato a giugno. Bini Smaghi aveva dato pubblica assicurazione a Sarkozy che si sarebbe dimesso dalla Bce il giorno stesso dell'insediamento di Draghi. Contemporaneamente aveva informato Berlusconi del suo interesse al governatorato della Banca d'Italia ricevendone, a quanto si sa, una risposta interlocutoria.

Arrivata ormai la scadenza Bini Smaghi avrebbe fatto sapere che se la sua richiesta non verrà accettata intende rimanere alla Bce fino a quando il suo mandato non sarà scaduto, cioè per più d'un anno ancora. Sarkozy a questo punto intende sollevare il caso alla prossima riunione del Consiglio dei ministri europeo e minaccia ritorsioni contro il governo italiano.

Oggi Berlusconi farà la proposta al Consiglio superiore della Banca d'Italia e, a quanto si è saputo ieri, dovrebbe proporre proprio Bini Smaghi  -  anche se mentre scriviamo circolano voci su un suo possibile ripensamento  - , invocando la forza maggiore di evitare un conflitto con la Francia ma soprattutto sottraendosi alla scelta imposta da Tremonti.

La soluzione Bini Smaghi è pessima soprattutto perché frutto d'un ricatto vero e proprio: resta a Francoforte se non gli si dà via Nazionale. Mettere alla guida della Banca d'Italia un personaggio che rischia di suscitare una guerra diplomatica tra l'Italia e la Francia definisce compiutamente la figura morale e politica d'una simile candidatura. Non a caso ieri Bersani e Casini hanno diffuso un comunicato in cui auspicano una scelta del governo che rispetti l'autonomia e le competenze interne dell'istituto. Una decisione che non tenga conto di ciò avrebbe tra l'altro come immediata e probabilissima conseguenza la dimissione di gran parte del direttorio della stessa Banca d'Italia in un momento di estrema delicatezza della situazione economica e finanziaria del Paese.

Non sappiamo ovviamente quale sarà il parere del Consiglio superiore dell'Istituto e ancor meno sappiamo quale sarà l'atteggiamento del presidente della Repubblica. Ricordiamo a questo punto che il parere del Consiglio superiore, pur non essendo vincolante, è tuttavia di grande rilievo istituzionale. Per quanto riguarda il Capo dello Stato, la sua non è una controfirma "dovuta" su un atto del governo ma una firma apposta ad un decreto di sua diretta emanazione. Il diritto di proposta spetta a Berlusconi, ma Napolitano ha pieno diritto di rifiutarlo se lo ritiene inopportuno e chiedere una proposta alternativa.

Questo è l'ennesimo nodo che arriva al pettine a causa del governo che ci sgoverna ed è l'ennesima causa di degradazione dinanzi al concerto delle Nazioni europee che ci ignorano e ci sbeffeggiano. Il tutto in una fase in cui l'appoggio della Bce al nostro debito argina a fatica la pressione dei mercati sui nostri titoli di Stato e sulle nostre banche.

(20 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/20/news/strappo_istituzionale-23526958/?ref=HREA-1
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« Risposta #318 inserito:: Ottobre 23, 2011, 11:19:58 am »

 
L'EDITORIALE

La lezione attuale di Moro e Berlinguer

di EUGENIO SCALFARI


L'uccisione di Gheddafi, la fine della guerra in Libia e il difficile assetto di quel paese hanno dominato le pagine dei giornali e gli schermi delle televisioni. Non ho esperienza di quei problemi e quindi non me ne occuperò, ma voglio dire che cosa penso della feroce esecuzione del dittatore libico mentre fuggiva da Sirte sulla strada che conduce a Misurata. Concordo con tutti quelli che hanno riprovato la ferocia; bisognava consegnarlo alla Corte di giustizia internazionale per un regolare processo sebbene la stessa Corte, la Nato e i comandi militari del governo provvisorio dei ribelli ne avessero chiesto la cattura "vivo o morto".

Quando cade un tiranno che ha terrorizzato e insanguinato un Paese per anni ed anni, la tentazione del linciaggio è incontenibile e talvolta colpisce perfino degli innocenti supposti colpevoli. Figurarsi quando la colpevolezza è palese e si è macchiata di delitti orribili. Se poi l'autorità legale è debole - come ancora lo è nella Libia di oggi - manca ogni possibilità d'impedire il giudizio sommario. La storia è purtroppo piena di queste esplosioni di rabbia incontenibile e incontenuta, sicché dolersene è doveroso ma stupirsene no.

Ciò premesso, i temi odierni sono soprattutto due: il movimento dei cattolici messo in moto dal cardinale Angelo Bagnasco e dal convegno delle associazioni e comunità da lui promosso a Todi e il movimento degli "indignati" con le violenze degli "incappucciati" che gli hanno rubato la scena a piazza San Giovanni.

Gli "incappucciati" sono un problema di ordine pubblico come gli "ultras" degli stadi e come quelli vanno trattati. Gli "indignati" sono invece un problema sociale che si identifica con la mancanza di lavoro e con l'emarginazione. La situazione che fa da sfondo a questi avvenimenti è la vera e propria paralisi del governo, il disfacimento dei due partiti di maggioranza e l'alternativa ancora indistinta dalla quale le opposizioni non riescono ancora ad uscire.

Partirò da lontano per meglio affrontare e tentar di chiarire questo viluppo di problemi: da due colloqui che ebbi con Aldo Moro il 18 febbraio del 1978 e con Enrico Berlinguer il 28 luglio del 1981. Quei due eccezionali personaggi sono morti da tempo, ma i loro pensieri e le loro previsioni sono attualissimi, sembrano datati oggi, perciò è da quelle parole di allora che partirà il mio ragionamento.

* * *

Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, ha scritto ieri su queste nostre pagine un commento di grande interesse sul nascente movimento dei cattolici. Bianchi è anche lui un cattolico, ma di una caratura molto particolare. Ricorda per certi aspetti Pietro Scoppola che fu uno dei fondatori del partito democratico; infatti anche Bianchi come Scoppola non sono molto nelle grazie della Gerarchia, come del resto non lo è il cardinal Martini e neppure l'arcivescovo Tettamanzi che ha da poco lasciato la guida della diocesi milanese.

Quest'ala della cattolicità pone il problema del rapporto tra il laicato cattolico e la Gerarchia sottolineando la notevole sproporzione da sempre esistita tra questi due aspetti della religione, a tutto vantaggio dell'istituzione e a danno del popolo di Dio. Che l'istituzione guidata dalla Gerarchia sia indispensabile è un dato di fatto, ma che il popolo dei credenti sia stato ridotto al pio gregge nelle mani del pastore rappresenta una palese deformazione della predicazione evangelica. Antepone la liturgia alla pastoralità e quindi il dogma e la politica all'afflato della fede.

Questa, con rare eccezioni, è stata la storia della Chiesa, soprattutto a partire dalla guerra delle investiture e dalla vendita delle indulgenze, almeno fino al Concilio del Vaticano II. Di lì, cioè dal pontificato di papa Giovanni, ebbe inizio un tentativo di modernizzare la Chiesa, ponendola come un seme destinato a confrontarsi con il pensiero illuminista sul piano culturale e con il laicato cattolico su una più intensa concezione della fede e dei comportamenti etici da essa ispirati.

Non sembrino peregrine queste considerazioni; esse costituiscono la base necessaria per chiarire la natura di quel movimento di rilancio cattolico promosso dal cardinal Bagnasco, che si propone di affrontare un altro ed essenziale tema che la modernità pone alla Chiesa e cioè il confronto tra la Chiesa-istituzione e la democrazia dello Stato laico.

Un'ultima osservazione su questa questione preliminare. Era sembrato, all'esordio del pontificato di papa Ratzinger che egli parteggiasse piuttosto dalla parte di chi voleva frenare l'ispirazione conciliare del Vaticano II. Si sta invece verificando che non è questo, o non è più questo, il pensiero del Papa. Ne ha fatto fede il discorso da lui tenuto nelle scorse settimane al Bundestag di Berlino e in particolare nel discorso, durante quel suo viaggio in Germania, sul cristianesimo protestante.

Ratzinger è un agostiniano e questa sua formazione la dice già molto lunga sulla natura della sua fede, agganciata al pensiero di chi fece della "grazia" il pilastro della salvezza. Ma la frase più significativa Benedetto XVI l'ha riservata al promotore della "riforma": "Lutero - ha detto - ha creduto in Dio più di noi". Forse voleva dire che Lutero propugnò il rapporto diretto tra il credente e il suo Creatore, senza la necessaria intermediazione della Gerarchia, del dogma, della pratica liturgica.

La frase comunque è stata quella che di per sé evoca una vera e propria rivoluzione come l'altra: "Meglio un non credente di retto sentire che un ateo devoto".

* * *

Veniamo all'incontro con Aldo Moro. Si svolse nel suo studio in via Savoia alla presenza di Corrado Guerzoni, suo stretto collaboratore. Il tema era l'ingresso del Pci nella maggioranza del governo che si insediò, presieduto da Andreotti, pochi giorni dopo il nostro incontro e poche ore dopo il rapimento di Moro in via Fani e la strage della sua scorta.

Alla mia domanda Moro rispose così: "Molti si chiedono nel mio partito e fuori di esso se sia necessario un accordo con i comunisti. Quando si esaminano i comportamenti altrui bisogna domandarsi anzitutto quale è l'interesse che li motiva. Se l'interesse egoistico c'è, quella è la garanzia migliore di sincerità. E qual è l'interesse egoistico della Dc a non essere più il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana? Io lo vedo con chiarezza: se continua così, questa società si sfascerà, le tensioni sociali non risolte politicamente prendono la strada della rivolta anarchica e della disgregazione. Se questo avviene noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del Paese e affonderemo con esso. Noi non siamo in grado di "tenere" da soli un Paese in queste condizioni. Occorre una grande solidarietà nazionale. So che Berlinguer pensa e dice che in questa fase della vita italiana è impossibile che una delle maggiori forze politiche stia all'opposizione. Su questo punto il mio e il suo pensiero sono assolutamente identici. Dopo la fase dell'emergenza si aprirà quella dell'alternanza e la Dc sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi".

Questo disegno moroteo fu attuato e consentì di battere il terrorismo. Lui ci rimise la vita ma il frutto d'una democrazia finalmente compiuta si realizzò.

Quel disegno era valido allora (e proprio per questa ragione gli interessi interni e internazionali che non volevano una trasformazione riformista del Pci organizzarono l'agguato di via Fani) ma è ancora più valido oggi perché il partito comunista non c'è più e la sinistra - tutta la sinistra - è interamente democratica.

I cattolici che militano nel Pdl (ma quelli veri sono assai pochi) dovrebbero riflettere sulle parole di Moro, ma ancor più dovrebbe riflettere Casini che ancora recalcitra di fronte all'ipotesi dell'alleanza che il Pd gli offre. Casini vuole essere l'ago della bilancia, accetta l'alleanza col Pd solo se sarà dimezzato, solo se Vendola andrà per conto proprio portandosi appresso metà del partito democratico.

Ma valgono anche per Vendola e per Di Pietro le parole che Moro allora indirizzava all'intero Pci. Chi pensa alla propria bottega vede l'albero ma non la foresta, antepone i propri interessi e le proprie ambizioni alla salvezza del Paese. E chi, nel partito democratico, si divide tra l'alleanza con Casini e quella con la sinistra radicale, fa lo stesso errore. Ci vuole - e tutti dovrebbero volerla - la grande alleanza del centro e della sinistra riformista. Con un programma comune, limitato ai pochissimi punti necessari a superare l'emergenza. Poi verrà il tempo dell'alternanza tra i moderati e i riformisti, entrambi ligi all'etica costituzionale e repubblicana.

***

Il colloquio con Berlinguer avvenne tre anni dopo quello con Moro. Il Pci aveva sperimentato l'alleanza con la Dc, il terrorismo era stato battuto lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Ma i nodi del Paese non erano stati risolti, la questione morale si era diffusa con tutte le sue brutture, la Dc aveva registrato una regressione con l'alleanza Craxi-Andreotti-Forlani, mafia e corporazioni dominavano, il debito pubblico aveva superato la soglia della tollerabilità.

Berlinguer illustrò a lungo la questione morale individuandone la causa nell'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti (anche del suo in alcune diffuse situazioni locali). Poi parlò della "diversità" comunista. Ne enumerò tre, ma le prime due avevano piuttosto l'aria di voler lanciare una sollecitazione contro il pericolo che anche il Pci diventasse "casta" anziché rappresentanza popolare quale fino ad allora era stato.

La terza "diversità" ha invece un tratto sorprendente di attualità: "Noi abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici, ma anche quelle degli strati emarginati della società a cominciare dalle donne, dai giovani e dagli anziani. Il principale malanno delle società industriali è la disoccupazione. L'inflazione è l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro tutte e due, ma guai se per domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e di un'altrettanta massiccia disoccupazione. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili. Noi abbiamo sostenuto l'austerità contro il consumismo. Abbiamo detto anche che i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di risanamento, ma che l'insieme dei sacrifici doveva esser fatto applicando un principio di rigorosa equità. Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e contenuto operando soprattutto sul fronte della produttività. Voglio dirlo però con tutta franchezza: quando si chiedono sacrifici al Paese si comincia sempre con il chiederli ai lavoratori; quando poi si abbia alle spalle una questione come la P2 è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili". Su queste parole debbono meditare tutti, al centro e a sinistra. Della destra non parlo nemmeno perché la destra non c'è.

C'è un'accozzaglia di clientele tenute insieme dall'interesse e da residui di un ex comunicatore che ha scelto come amici intimi Scilipoti, Lavitola e Verdini. "Unicuique suum" direbbe la liturgia. Quanto alla fede, chi ce l'ha avrebbe dovuto sapere da gran tempo che nei luoghi del morente Pdl la fede non è mai stata di casa. Quel partito e il suo premier possono aver concesso qualche favore ai "valori non negoziabili". Al quale proposito -da un non credente interessato alla questione - concludo con due osservazioni: 1) anche i laici hanno valori non negoziabili; chi vuole affermare i propri deve concedere la reciprocità. 2) I valori non negoziabili non sono separabili l'uno dall'altro, costituiscono nel loro complesso una coscienza etica e dunque è su quella che ci si confronta.

Ora aspettiamo di vedere se le intimazioni alla manovra di crescita che l'Europa e la Bce ci hanno rivolto saranno accolte dal governo. Altrimenti su questo cadrà.
 

(23 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #319 inserito:: Ottobre 30, 2011, 05:40:06 pm »

L'EDITORIALE

L'Europa ci protegge ma diffida di lui

di EUGENIO SCALFARI


L'ORMAI famosa lettera di intenti firmata da Berlusconi e approvata dai 17 Paesi dell'Eurozona e soprattutto dalla Germania, dalla Francia e dalla Commissione di Bruxelles, fu riscritta e corretta in una lunga telefonata con Gianni Letta, avvenuta la mattina e consegnata a Bruxelles nel pomeriggio da Berlusconi. Questa cronaca è ormai ufficiale. Di fatto la lettera fu scritta dai destinatari e poi riconsegnata con la loro approvazione al mittente. In più ci fu la decisione europea di affidare al presidente del Consiglio europeo e al capo della Commissione un monitoraggio costante sull'adempimento degli "intenti" indicati in quella lettera con tanto di cifre e calendario. Ieri, tra l'altro, è arrivata la proposta dell'Fmi, e accettata dalle autorità europee, di creare una rete di sicurezza aggiuntiva per Italia e Spagna, il che conferma che le misure finora prese non sono sufficienti perché affidate a un governo di dubbia credibilità. Il commissariamento dell'Europa nei confronti dell'Italia è dunque fuori discussione ed equivale a quello già in atto nei confronti della Grecia, dell'Irlanda e del Portogallo. Questa conclusione che emerge dai fatti significa che quando discutiamo della lettera di Berlusconi non stiamo esaminando la sua politica economica che non esiste, ma quella delle autorità europee. Stiamo cioè esaminando il contenuto del cosiddetto "vincolo esterno" che l'Europa ha costruito per istigare i Paesi recalcitranti ad accettare la disciplina imposta dai "Protettori" se accettano d'esser protetti per non far saltare in aria Eurolandia.

Questa è la realtà, dalla quale emerge la prima domanda: è necessario per l'Italia avere un vincolo esterno? La nostra risposta è sì, è necessario. L'hanno ricordato sia Ciampi sia Prodi, in aperta polemica con Berlusconi che aveva appena dichiarato quanto l'euro sia dannoso alla vita dell'Europa.

È opportuno tuttavia ricordare che i governi di Prodi e di Ciampi che portarono l'Italia nell'euro non erano commissariati dall'Europa. Avevano accettato le regole europee per rendere possibile la moneta unica, dopo averle a lungo discusse con gli altri Paesi membri dell'Eurozona: le regole di stabilità, la supervisione della Commissione sul loro rispetto e sull'indice che ne era il misuratore, cioè il rapporto tra Pil e deficit di bilancio con le sanzioni comminate a chi sforava quei limiti.

L'attacco ai debiti sovrani e a quello italiano, che non può e non deve diventare insolvibile perché provocherebbe in quel caso il disfacimento dell'intero sistema economico occidentale, ha segnato la data di inizio dello speciale vincolo esterno a noi riservato, l'inizio del "Protettorato" o commissariamento che dir si voglia. La data di inizio si colloca alla fine di luglio di quest'anno, il primo documento dei "Lord protettori" è la lettera firmata da Trichet e Draghi e diretta al nostro governo (un documento analogo viene spedito anche al governo spagnolo); l'effetto consiste nella seconda manovra dello scorso agosto varata da Tremonti, poi corretta e rinforzata poche settimane dopo da un'altra manovra e infine da ulteriori correzioni, sicché il nostro Parlamento stava appena approvando la prima mentre già aveva in lettura la seconda e la terza.
Adesso c'è stata la lettera d'intenti scritta dai destinatari e accettata dal mittente, cui si affianca il monitoraggio dei "Lord protettori" e dei loro delegati.
Se tutto questo è chiaro, procediamo.

* * *
La lettera di intenti contiene varie promesse e impegni, alcuni dei quali del tutto ornamentali rispetto ai veri intenti dei "Protettori". Esaminiamo dunque qual è l'essenza del documento che disegna una complessa politica economica: l'eliminazione del deficit entro il 2013, il pareggio del bilancio entro lo stesso anno, la diminuzione del debito sovrano che dovrebbe scendere al 90 per cento del Pil entro il 2014 (adesso siamo al 120 con tendenza ad aumentare), la crescita del Pil che è sostanzialmente ferma da dieci anni, la diminuzione della disoccupazione e in particolare di quella dei giovani, l'adeguamento della pensione alle mutate aspettative di vita e infine la massima equità sociale come indispensabile lubrificante per una politica che impone scelte severe senza dover mettere a rischio la coesione sociale.

Con un governo come il nostro è evidente che un progetto di tali dimensioni sarebbe stato impossibile da mettere in moto senza quel vincolo esterno di cui si è detto e senza il diretto intervento dei "Lord protettori". Perciò, per quanto ci riguarda, fin qui piena lode al vincolo, piena lode al programma, ai tempi di realizzazione e piena lode al monitoraggio.
Avanziamo l'ipotesi (ma di pura ipotesi si tratta) che i "Protettori" avrebbero preferito un governo più credibile di quello in carica, ma questo è fuori dalle loro competenze. Da questo punto di vista Scilipoti ha maggior potere di Barroso, di Sarkozy e perfino di Angela Merkel e la vince anche  -  Scilipoti  -  su Lavitola e perfino su Putin. Almeno nel breve periodo. Solo Bossi è più forte di lui e infatti lo dice tutti i giorni. Salvo incidenti di percorso.
* * *
Per realizzare quegli obiettivi i "Protettori" hanno messo in pista alcuni strumenti. Una parte di essi rimonta alla manovra di agosto e sono il taglio (lineare) di risorse ai Ministeri, agli enti locali, alle protezioni sociali, per accelerare di un anno il pareggio del bilancio. Fu prevista anche una riforma del mercato del lavoro che spostasse la contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale. La ciliegina sulla torta doveva infine essere un "contributo di solidarietà", in pratica una maggiorazione di imposta che gravava in modo diverso a partire dai redditi di 90 mila euro annui, aumentando dai 110 mila in su.

Il totale delle risorse in tal modo ottenute avrebbe dovuto essere di 40-50 miliardi nel biennio 2012-13, più altri diecimila da incassare fin dall'esercizio corrente con accise ed altre furberie dell'Agenzia delle entrate. Tremonti gioì di questo vincolo esterno, ancorché la sua manovra precedente di pochi giorni la lettera di Trichet avesse diluito quelle cifre spostandone il grosso al 2014. Berlusconi non gioì invece affatto, lui non ama l'austerità e l'ha scritto l'altro ieri al Foglio. Lui ama improvvisare e la gabbia predisposta dai "Protettori" gli andava stretta.

Adesso le cose sono cambiate: la gabbia dei "Protettori" a lui va bene perché può prolungare la vita del governo; invece non va per niente bene a Tremonti che infatti la lettera di intese non l'ha neppure firmata. A chi gli chiedeva se il programma dei "Protettori" gli andava bene, ha risposto: "Mi va bene, ma il diavolo sta nei dettagli". È vero, il diavolo sta appunto nei dettagli. Perciò diamo anche noi un'occhiata a quei dettagli, ma prima diamo un'occhiata alle più recenti reazioni dei mercati che non sono affatto un elemento marginale dell'intera vicenda. Anzi.

* * *
Mercoledì scorso i mercati hanno galleggiato con un po' di fatica, specie per quanto riguardava il famoso "spread" tra i titoli italiani e quelli tedeschi. Giovedì sono volati al rialzo in preda ad una comprensibile euforia dovuta non tanto al caso Italia ma ai provvedimenti annunciati dall'assemblea plenaria dei 27 Paesi dell'Unione sul debito greco, sulla ricapitalizzazione delle banche e sul Fondo "salva Stati". Venerdì Piazza degli Affari è ripiombata nel buio profondo.

Che cosa era accaduto venerdì? Era accaduto che all'asta dei Btp il rendimento aveva superato il 6 per cento toccando il massimo storico dal 1997. Ricordiamo che il "default" del debito greco  -  che è infinitamente più piccolo di quello italiano  -  cominciò quando il rendimento dei titoli greci raggiunse il 7 per cento. Siamo cioè a una spanna da quella porta d'inferno.

Si potrebbe pensare che si tratti di un incidente di percorso. Speriamolo, ma teniamo presente un altro dato di fatto: nel corso del 2012 andranno in scadenza 290 miliardi di titoli italiani, una parte cospicua dei quali con scadenze pluriennali. Nello stesso anno scadranno titoli di altri Paesi dell'Unione europea per un totale (Italia esclusa) di 500 miliardi. Ci saranno insomma l'anno prossimo 800 miliardi di titoli europei da rinnovare e sarebbe arduo pensare che i nostri saranno preferiti agli altri. Sicché quel 6 per cento di venerdì potrebbe essere largamente superato, specie in presenza d'un governo che fa ridere i suoi "Protettori". La lettera di intenti non fa parola di questi dati di fatto sebbene essi siano di pubblico dominio.

Il solo rimedio per affrontare il 2012 che sarà da questo punto di vista l'anno terribile è quello di puntare sulla crescita rapida del Pil, ma qui casca l'asino. Qual è il provvedimento che potrebbe far crescere il nostro Pil, appiattito da dieci anni sullo zero? Ce ne sono tre: accrescere il potere d'acquisto dei ceti medio-bassi e in particolare dei giovani per stimolare i consumi e di conseguenza gli investimenti; diminuire imposte e contributi che gravano soprattutto sulle imprese, cioè il famoso cuneo fiscale; lanciare un programma di lavori pubblici cantierabili entro i prossimi tre mesi, non può che trattarsi di opere pubbliche locali delle quali del resto c'è gran bisogno anzi necessità. Basterebbe provvedere  -  come è sempre stato promesso e mai fatto  -  alle difese degli argini di fiumi e torrenti (Cinque Terre insegni) alla messa in sicurezza delle scuole, ai porti, alle strade, alle ferrovie.

Mi rivolgo qui a Mario Draghi verso il quale ho profonda stima e amicizia: sono questi i provvedimenti necessari alla crescita da te molto voluta? Nella lettera di intenti ne ho letti altri che se riusciranno a implementare la concorrenza daranno qualche effetto a due o tre o quattro anni da oggi. Ho letto anche che si vuole accrescere la mobilità del lavoro aumentando la facilità di ingresso e al tempo stesso la facilità di uscita. Ingresso per i lavoratori precari e uscita dal lavoro a posto fisso. E tu, caro Mario, pensi veramente che in questo modo aumenteranno complessivamente i posti di lavoro e il monte salari e verrà varato quel patto generazionale tra padri e figli? Licenziate i padri (che stanno mantenendo i figli) e sperate che al loro posto i figli possono sostituirli?

Nel frattempo avete dimostrato soddisfazione per la riforma delle pensioni che però non avete affatto ottenuto. La vera riforma sarebbe stata di passare tutti i pensionati al regime di contributo ma Bossi ha messo il veto. I 67 anni di età pensionabile erano previsti da un pezzo ma i modesti benefici che ne verranno all'Inps e quindi allo Stato negli anni a venire, come saranno impiegati? Nella vostra lettera di intenti non c'è scritto nulla in proposito. Non dovrebbero compensare i figli costruendo un nuovo welfare che copra la flessibilità del lavoro? Non dovrebbe questo nuovo tipo di protezione essere approvato prima o almeno contemporaneamente alla licenziabilità facile e all'allungamento dell'età pensionabile? Se volete mantenere la coesione sociale, la carota va data insieme al bastone e soprattutto va contrattata con le parti interessate. Tutte le parti interessate e non una soltanto.

Concludo: bene il vincolo esterno, evviva i "Protettori" quando decidono bene, ma quando decidono male oppure omettono di decidere su questioni di fondo, allora va malissimo. A me personalmente gli "omissis" non sono mai piaciuti. Cercate di rimediare se potete.

Post scriptum. Il Rendiconto generale dello Stato, bocciato dalla Camera circa un mese fa, è ritornato alla Camera ed è stato calendarizzato per l'8 novembre prossimo. La calendarizzazione è stata approvata all'unanimità da tutti i gruppi parlamentari che in tal modo hanno sospeso l'articolo 72 del loro regolamento dove c'è il divieto a presentare la stessa legge bocciata prima che siano trascorsi sei mesi.

Posso ben capire che i gruppi d'opposizione abbiano deciso, insieme alla maggioranza, di rimuovere l'ostacolo formale e si accingano perciò ad approvare all'unanimità il Rendiconto. Se l'ostacolo regolamentare non fosse stato rimosso non sarebbe possibile approvare né la legge di bilancio né quella di stabilità finanziaria e si andrebbe all'esercizio provvisorio con tutte le conseguenze del caso.

Mai come in questo caso dunque i gruppi d'opposizione hanno fornito una prova del loro senso di responsabilità. Questo avviene mentre il presidente del Consiglio continua a trattarli in tutte le sedi come comunisti, settari, faziosi, inconcludenti e quindi indegni di proporsi come alternativa.

Mi sarei aspettato che quest'atto di apprezzabilissima responsabilità fosse pubblicizzato. Mi sarei aspettato che i gruppi di opposizione ne spiegassero le ragioni e ne rivendicassero il merito. Invece c'è stato un silenzio tombale, quasi che si vergognassero d'averlo fatto. Lui continuerà ad insultarli come prima e peggio di prima e la gente crederà alle fanfaluche rottamatrici di Renzi e di Beppe Grillo.

No, così non va bene. Non si acconsente tacendo ma motivando, specie quando non c'è da vergognarsene ma da rivendicare il proprio senso dello Stato che in tutti gli altri è spaventosamente assente.

(30 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #320 inserito:: Novembre 06, 2011, 11:04:54 pm »

Forse stavolta l'Italia s'è desta

di EUGENIO SCALFARI


CHE IL tempo di Berlusconi fosse scaduto era chiaro a tutti da un pezzo, ma la cosa singolare è che ormai è finalmente diventato chiaro anche allo stato maggiore del suo partito e, a quanto sembra, anche a lui.

Altrettanto chiaro è che la via delle elezioni anticipate non è praticabile; la sconfitta del Pdl e della Lega sembra inevitabile e catastrofica. Ma c'è anche un'altra e più stringente ragione: l'Italia non si può permettere due mesi di campagna elettorale con i mercati che porterebbero lo "spread" a 600 punti base e il rendimento dei titoli pluriennali all'8 per cento.

Non resta che un governo del Presidente guidato da una personalità al di fuori dei partiti, che abbia grande autorevolezza internazionale e l'appoggio di tutte le forze responsabili rappresentate in Parlamento. Tra queste ci deve essere anche il Pdl affinché la fiducia parlamentare sia solida e non esposta a trabocchetti che avrebbero un effetto devastante sulla crisi economica.

Questi sono i dati ormai certi della situazione. Incerte sono ancora - ma non lo saranno per molto poiché il tempo stringe - le modalità del "passo indietro" berlusconiano: farsi battere in Parlamento o dare le dimissioni prima che la sconfitta sia certificata da un voto?

Gianni Letta, che insieme ad Alfano e a Verdini ha informato il presidente del Consiglio che la sua maggioranza numerica non c'è più, propende per le dimissioni prima d'un voto di sfiducia. L'occasione potrebbe esser
quella dell'8 novembre, giorno in cui si voterà alla Camera il Rendiconto economico dello Stato.

Questo documento è essenziale perché, in mancanza della sua approvazione, non è possibile approvare la legge di Bilancio e quella di stabilizzazione economica.
Le opposizioni potrebbero astenersi e l'ex maggioranza approvare il Rendiconto, in tal modo apparirebbe chiaro che la maggioranza ha appunto cessato di esistere perché è scesa al di sotto dei numeri che la rendono tale.
A quel punto il presidente del Consiglio si presenterebbe dimissionario al Quirinale e la partita passerebbe nelle mani di Napolitano. Il resto riguarda il capo dello Stato verso il quale si concentra da tempo la fiducia del Paese e di tutti i governi dell'Europa e dell'Occidente.
Questo è uno dei possibili passaggi, ma altri ce ne sono che conducono allo stesso risultato: un nuovo governo presieduto da un "Papa straniero" con l'appoggio di tutti e in particolare dell'Europa, della Bce e del Fondo monetario internazionale. Con quale programma?
* * *
Alcuni dicono che il programma è quello contenuto nella lettera d'intenti che Berlusconi presentò pochi giorni fa alle Autorità europee e che queste avevano corretto e integrato prima ancora di riceverla. Ma quel documento era comunque assai vago e non conteneva alcuni elementi fondamentali.
Altri dicono che il programma sia quello contenuto nella lettera della Bce firmata da Trichet e da Draghi inviata al nostro governo lo scorso agosto e parzialmente recepita nelle successive e raffazzonate manovre berlusconiane (con Tremonti alla finestra).
Conclusione: il futuro governo dovrebbe assumersi un durissimo compito di macelleria sociale che aumenterebbe la disistima della pubblica opinione verso la "casta", cioè verso tutti i partiti aumentando pericolosamente il solco tra il Paese reale e le istituzioni.
Ebbene, a mio avviso questa diagnosi è completamente sbagliata.

* * *
Il nuovo governo dovrà fare una scelta di fondo prima ancora di metter mano ai concreti provvedimenti che la realizzino e dovrà farla in pochissimi giorni.
Ma io credo che questa scelta sia già stata fatta e coincida con quanto sostengono da tempo sia Draghi (ormai insediato alla guida della Bce) sia il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: crescita e rigore, ma probabilmente prima crescita e poi rigore.

Francamente non so quanto questa scelta coincida con le ondivaghe indicazioni delle Autorità europee e soprattutto della Germania. Finora l'Europa e la Germania in particolare hanno privilegiato il rigore, ma gli effetti sono stati assai poco soddisfacenti.

Il rigore è certamente necessario per arrestare, anzi per far diminuire il peso dei debiti sovrani e il rischio d'un blocco del sistema bancario internazionale. I governi interessati - in particolare quello italiano - hanno cercato di eludere quella precettistica senza tuttavia imboccare la strada della crescita. Le conseguenze - già in parte verificatesi e ancor più incombenti - aggravano il rischio di una deflazione e insieme di un'emergente inflazione per mancata offerta di beni e servizi, cioè l'anticamera d'una devastante recessione.

La lettera della Bce dello scorso agosto e le numerose esternazioni successive di Mario Draghi segnalavano la necessità di abbinare rigore e crescita, ma per il primo indicavano anche misure e tempi, per la seconda formulavano solo esortazioni. Successivamente, il 2 novembre, Draghi ormai nel pieno delle sue nuove funzioni, ha deciso con l'appoggio unanime del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, la diminuzione significativa del tasso di sconto dell'euro.

La sua prima mossa da Francoforte ha dunque indicato la via della crescita.
Obama dal canto suo è stato ancora più netto: ha esortato l'Europa a puntare sullo sviluppo produttivo, sulla creazione di nuovi posti di lavoro e su una rete di protezione dei disoccupati e dei lavoratori precari prima ancora di passare a nuove strette rigoriste.

Queste diagnosi e le conseguenti terapie dovrebbero - dovranno - costituire la base d'azione del futuro governo del Presidente. Lo definiamo così perché il nostro Presidente è il solo depositario della fiducia interna e internazionale ed è dunque il solo garante effettivo dell'azione di governo.

Uscito di scena Berlusconi non avremo più bisogno d'esser commissariati dalla Commissione di Bruxelles e dall'Fmi se non per il rispetto delle regole che abbiamo a suo tempo approvate con tutti i Paesi membri dell'Unione. Il controllo sulla situazione italiana sarà il Quirinale ad effettuarlo per quanto riguarda l'aderenza della sua politica alle scelte di fondo per uscire dal drammatico stallo in cui ci troviamo.

L'obiettivo è dunque chiarissimo: bisogna che il prodotto interno lordo cresca a ritmi più adeguati perché solo la sua crescita contribuisce a far diminuire il deficit e a far aumentare il saldo delle partite correnti.
Per ottenere questo risultato è necessario un aumento della domanda per consumi e investimenti e quindi uno sgravio fiscale consistente sul lavoro e sulle imprese. E poiché queste agevolazioni non possono esser fatte accrescendo il fabbisogno e quindi il debito, occorre spostare l'onere tributario dalle spalle dei più deboli a quelle dei più abbienti e degli evasori, dalle aziende alle persone, dai redditi ai patrimoni. Un'altra terapia riguarda i redditi dei disoccupati e dei precari affinché essi possano contribuire all'aumento della domanda. E qui si apre anche il capitolo delle pensioni.

Il nuovo governo dovrebbe impegnarsi alla costruzione di un patto generazionale tra padri e figli, facendo passare tutti gli attuali pensionati - con l'esclusione dei lavori usuranti - al sistema contributivo e ad un prolungamento dell'età pensionabile, a condizione che i risparmi derivanti da quest'operazione siano interamente destinati ad una nuova rete di "welfare" che preveda salari minimi di disoccupazione e copertura previdenziale sul lavoro precario discontinuo.
Infine, per quanto riguarda la riforma del lavoro, occorre adottare le proposte di Ichino e di Boeri che consentono maggior libertà di entrata e di uscita dal posto di lavoro, impedendo licenziamenti discriminatori e incentivando l'assunzione di giovani. Va da sé che l'evasione fiscale e il taglio delle spese superflue debbono essere tenacemente perseguiti. Per evitare che il miglioramento strutturale si accompagni ad ulteriori aumenti di spesa e di evasione come purtroppo finora è avvenuto.

Un governo di questa natura non ha certo davanti a sé una strada fiorita di rose, ma neppure di macelleria sociale. È un programma di ricostruzione economica che manca da dieci anni, culminati nel disastro in cui ora ci troviamo.

* * *
Ma un governo di ricostruzione non si può limitare al capitolo, pur di estrema importanza, dell'economia e della finanza. Deve - dovrà - ricostruire l'etica pubblica devastata dal ventennio berlusconiano. Deve - dovrà - riformare la legge elettorale restituendo agli elettori la possibilità di scegliere i loro rappresentanti attraverso le preferenze o, meglio ancora, i collegi uninominali almeno per una parte notevole dei seggi in palio. E dovrà dimezzare il numero dei parlamentari, abolire i vitalizi degli ex membri del Parlamento, tagliare le spese politiche al centro e negli enti territoriali.

Ma deve soprattutto unire le forze della sinistra e quelle del centro nell'opera ricostruttiva che ha giganteschi appuntamenti: i giovani, le donne, i vecchi, il Sud, l'immigrazione, la lotta alla violenza e al crimine organizzato. Un anno non basta a realizzare questi obiettivi. Ci vorrà una legislatura costituente nel senso sostanziale del termine, come auspicò Aldo Moro quando promosse l'apertura al Pci di Berlinguer pochi giorni prima del suo rapimento.

Le sue parole - che ho ricordato su queste pagine due settimane fa - ancora risuonano per la loro attualità e sono oggi tanto più facili da tradurre in concrete decisioni in quanto non si tratta di un accordo tra forze antagoniste ma tra forze che torneranno ad essere alternative non appena la ricostruzione sarà stata avviata verso il suo compimento e nuove regole saranno entrate nella politica e soprattutto nel costume.

Mentre scrivo queste mie riflessioni una folla di aderenti e sostenitori del Pd si è riunita in piazza San Giovanni per dar forza al nuovo corso e arriva la notizia che sono più di venti i deputati che hanno abbandonato il Pdl. È un numero sufficiente per costituire subito un gruppo autonomo, ma è sensazione generale che lo smottamento continuerà in Parlamento e ancora di più tra i cittadini elettori. La svolta che questo giornale invoca da anni è dunque ormai un fatto compiuto.

Concludo con le parole del nostro Inno nazionale: Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta.

(06 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/06/news/forse_stavolta_l_italia_s_desta-24518539/?ref=HREA-1
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« Risposta #321 inserito:: Novembre 10, 2011, 11:39:22 pm »

Un kingmaker per Bettino Renzi

di Eugenio Scalfari

Il sindaco di Firenze ricorda molto Craxi. Che cacciò i dinosauri del Psi. Per conquistare l'elettorato rampante della Milano da bere.

E, guarda caso, c'è Ferrara tra i suoi sostenitori

(08 novembre 2011)

Matteo Renzi.
Se ne fa un gran parlare in questi giorni, nei "media", nel partito democratico e negli altri partiti. Perciò ne parlo anch'io, così porto anch'io il mio mattoncino alla costruzione d'un personaggio, che è poi quello che lui più desidera. Per dirla tutta, la mia "faziosa" intenzione sarebbe piuttosto quella di de-costruire quel personaggio che considero irrilevante se non addirittura dannoso per un necessario riassetto della politica italiana, già molto disastrata da vent'anni di berlusconismo; ma l'eterogenesi dei fini può perfino far sì che quanto sto per scrivere si volga in suo favore. Correrò questo rischio.

La prendo da lontano. La prendo dalla riunione del comitato centrale socialista all'Hotel Midas. Correva l'anno 1976. Il Psi partecipava già da 13 anni ai governi con la Dc. Ne era presidente Pietro Nenni, già malandato dagli anni, e segretario Francesco De Martino. Ma era un centrosinistra ormai svaporato, sfibrato, senza più una seria capacità riformista. In una prima fase quella capacità c'era stata soprattutto per opera di Riccardo Lombardi e di Antonio Giolitti. La segreteria di Giacomo Mancini l'aveva alquanto attutita. De Martino aveva cercato di ritrovarla, ma non c'era riuscito. Il Psi era diventato un partito di dinosauri - come oggi Renzi definisce il Pd - ma volti nuovi non se ne vedevano. La stessa sinistra di Lombardi era di fatto sfuggita di mano al suo vecchio leader finendo nella mani di Gianni De Michelis e di Claudio Signorile che pensavano più ai denari e ai piaceri del potere che alla politica del bene comune.

Sembrava venuto il tempo dei giovani, del salto generazionale, del nuovo. Nella stessa corrente di maggioranza il nuovo premeva e l'attenzione era piuttosto su Enrico Manca che su De Martino. Ma non era un nuovo che potesse scompaginare i dinosauri. Per realizzare quest'obiettivo ci voleva una carta fuori dal mazzo. Ci voleva un jolly del tutto imprevedibile. Lo trovò Mancini, che ormai non poteva certo ritornare in prima fila ma aspirava al ruolo di "kingmaker".

Il jolly di Mancini si chiamò Bettino Craxi e fu quella la carta calata sul tavolo del partito. Il programma di Bettino era chiaro: sotterrare i dinosauri, prendere le distanze dal partito comunista ancor più di quanto non era già avvenuto, aprire il Psi a un nuovo ceto medio-alto che la Dc non riusciva a intercettare, affermare la supremazia della politica sui boiardi della razza padrona. Insomma inventarsi un'Italia "da bere", un'Italia di emergenti, di giovani, di felicità, di aggressività, di poteri forti anch'essi rinnovati.

Ma ci voleva qualcuno che avviasse il lavoro sporco, e cioè Manca. Solo Manca poteva compiere il patricidio disarcionando De Martino e così avvenne. Il patricidio fu compiuto. Manca votò per Craxi che fu eletto segretario. Il resto è noto. Craxi inglobò ben presto De Michelis e poi Signorile; alla fine inglobò lo stesso Manca e prese le distanze da Mancini.

Aveva una grande volontà di potenza, Bettino Craxi. Voleva trasformare il partito socialista in una macchina da guerra che dissanguasse il Pci, governasse in un condominio paritario con la Dc dorotea e trasformasse la democrazia parlamentare in una democrazia presidenziale. Per condurre a termine questa operazione aveva bisogno di denaro. Denaro per conquistare il potere e potere per procurarsi denaro. Una trasformazione antropologica del socialismo: questo era al tempo stesso lo strumento e l'obiettivo.

Matteo Renzi. E' un moderato-radicale. Se gli domandi un programma economico non ha risposte salvo farti intendere che la Cgil di Susanna Camusso non è nelle sue corde. Si rivolge ai poteri forti, a quel tipo di ceto medio che non ha mai votato a sinistra ma capisce che la stella di Berlusconi volge al termine e cerca alternative per avere ancora un'"Italia da bere".

E' cattolico praticante e come tale potrebbe intercettare l'appoggio dei cattolici di Comunione e liberazione e di Raffaele Bonanni. Insomma dei moderati. Un berlusconismo purificato e una trasformazione antropologica dei democratici. Naturalmente senza Nichi Vendola. Vendola si faccia il suo partito a sinistra del Pd. Renzi sostituirà i democratici che se ne vanno con altrettanti che arriveranno. In nome del nuovo. Per fare che cosa? Per fare il nuovo. Certo ci vorrebbe un "kingmaker" di prestigio. Per ora ce n'è uno. Si chiama Giuliano Ferrara. No lo sapevate? Leggete "Il Foglio" del 31 ottobre e lo scoprirete. Non è alquanto inquietante?

 
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« Risposta #322 inserito:: Novembre 13, 2011, 10:49:21 am »

IL COMMENTO

Un cittadino al servizio del Paese

di EUGENIO SCALFARI

MENTRE scrivo queste mie riflessioni domenicali Giorgio Napolitano ha ricevuto la lettera di dimissioni del presidente del Consiglio, salito al Colle tra la folla che gli urla "buffone" e canta l'Inno di Mameli. E mentre oggi il nostro giornale è nelle edicole le consultazioni al Quirinale sono già cominciate e dureranno per l'intera giornata.

Non sarà una giornata facile quella del Capo dello Stato. Le forze dell'opposizione  -  tutte senza alcuna eccezione  -  indicheranno Mario Monti e un esecutivo di soli tecnici per portare l'economia italiana fuori dal disastro che ne sta devastando la stabilità dei cosiddetti "fondamentali": al tempo stesso la competitività e la coesione sociale.

Ma l'ex maggioranza aggiunge a questo quadro già di per sé assai fosco un ulteriore tasso di drammaticità che la dice lunga sulla natura dei due partiti che la compongono, il Pdl e la Lega. La dice lunga sul prevalere dei loro gruppi dirigenti, degli interessi individuali, settoriali e clientelari su quelli generali della Nazione e quindi sulla loro irresponsabilità di fronte alla crisi che sta imperversando su tutto l'Occidente.

Il gruppo dirigente del Pdl è spaccato in due tra chi si oppone alla candidatura di Monti e chi l'accetta come l'unica via d'uscita possibile. Quanto alla Lega il suo vero obiettivo sono le elezioni immediate e la separazione dal Pdl per non subirne il contagio d'una inevitabile sconfitta elettorale.

Berlusconi galleggia nel mare tempestoso che lo circonda ma, dalle sue recenti sortite, dai suoi cambiamenti di rotta improvvisi, dalle proposte assurde e dagli anatemi ripetitivi, dà l'impressione d'essere in uno stato di stordimento e di incoerenza totale, come un pacco sballottato nella stiva d'una nave che imbarca acqua dalle falle del suo sconnesso fasciame.

È evidente che la disgregazione del Pdl complica ulteriormente il quadro; è anche evidente che il Capo di quel partito non è più in grado di comandare ma è altrettanto evidente che non c'è nessuno in grado di sostituirlo. E tuttavia i voti in Parlamento dei deputati e dei senatori berlusconiani sono un ingrediente significativo per la sussistenza d'un governo di emergenza.

Per risolvere questo problema Napolitano ha dodici ore di tempo. Conoscendone le capacità politiche, la lucidità delle intuizioni e la dedizione al bene comune, confidiamo nella sua riuscita. In mezzo a tanti guai, errori e manchevolezze che hanno agitato la storia del nostro Paese negli ultimi vent'anni, abbiamo però avuto la fortuna di tre presidenti della Repubblica, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, che hanno costituito l'antemurale difensivo della Repubblica contro le ondate del populismo, della demagogia e dell'avventura.

* * *

Prima di fare il punto aggiornato sulla situazione della finanza e dell'economia italiana di fronte ai mercati che lunedì daranno il loro giudizio sulle decisione politiche che nel frattempo saranno state prese, va chiarita una questione importante che finora ha diviso la pubblica opinione: l'eventuale nascita d'un governo Monti rappresenta la sconfitta della politica e la vittoria della tecnocrazia? Un governo di tecnici che confisca i diritti del popolo sovrano?

Napolitano, più volte interrogato in varie occasioni pubbliche su questo argomento, ha dato una risposta definitiva: "Non esistono governi tecnici poiché un governo, comunque composto, ha bisogno per esistere d'ottenere la fiducia del Parlamento, cioè dei rappresentanti del popolo depositari pro tempore della sovranità popolare". Del resto la nomina di Mario Monti a senatore a vita e in quanto tale membro del Senato a tutti gli effetti è stato un elemento in più, mirato a rafforzare la politicità dell'eventuale candidato.

Ma aggiungo un'ulteriore considerazione: le dimissioni di Berlusconi non sono un evento caduto dal cielo; sono avvenute a causa d'una sconfitta parlamentare in occasione del voto sul Rendiconto generale dello Stato, avvenuto la scorsa settimana. Quel Rendiconto è un atto fondamentale nella vita dello Stato perché senza la sua approvazione non si può approvare né la legge di Bilancio né la legge Finanziaria.
In quell'occasione le opposizioni, rafforzate da un gruppo di dissidenti usciti dalle file del Pdl, decisero di astenersi e in questo modo di contarsi e di contare i voti della maggioranza. Il risultato fu duplice: da un lato il Rendiconto fu approvato come era assai opportuno per non bloccare la macchina dello Stato; dall'altro il risultato della conta fu di 308 voti della maggioranza e di 321 voti dell'opposizione. Poiché la maggioranza, per esser tale, deve avere almeno 316 voti, da quel giorno ha cessato di esistere tant'è che Berlusconi, responsabilmente, andò al Quirinale e presentò le proprie dimissioni "a scadenza". La scadenza è arrivata oggi ed oggi infatti quelle dimissioni sono diventate esecutive.

Conclusione: la caduta di questo governo è avvenuta in Parlamento ed è stata un evento politico a determinarla, con buona pace di chi continua a parlare d'una politica asservita al dominio dei tecnocrati.

* * *

Per completare quanto scritto fin qui voglio ora trascrivere l'inizio del discorso che Carlo Azeglio Ciampi pronunciò davanti alle Camere il 6 maggio del 1993, dopo essere stato nominato presidente del Consiglio da Scalfaro. Sono parole di estrema attualità, forse non diverse da quelle che dirà Monti in analoga eventuale circostanza.

"È per la prima volta nell'applicazione della Costituzione repubblicana che un semplice cittadino, senza mandato elettorale, parla davanti a voi nelle funzioni di presidente del Consiglio ed io sento innanzitutto di dover testimoniare in quest'Aula il rispetto profondo, l'amore civico mai venuto meno, l'orgoglio degli italiani per le istituzioni rappresentative. La storia della democrazia italiana, della progressiva attuazione dei suoi valori, dello stesso avanzamento civile del nostro Paese, coincide con la storia del Parlamento.
Con grande emozione sono qui per ottenere la vostra fiducia non soltanto ai sensi dell'articolo 94 della Costituzione, ma in un senso molto più largo. Intendo una fiducia che prescinda dalla contabilità dei voti dati o dei voti negati. Mi riferisco ad una fiducia morale del Parlamento anche da parte da chi riterrà di dare voto negativo riconoscendo però l'utilità e forse la necessità e l'onestà dello sforzo che questo governo si propone di compiere.

Come la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, guardo con speranza al moto di profondo rinnovamento che attraversa il Paese".
Quel governo durò un anno ponendo le basi della ripresa economica e morale. Votò anche la riforma della legge elettorale e poi si dimise avendo assolto al compito che gli era stato affidato. Purtroppo dopo di lui arrivò Berlusconi e sappiamo che cosa è avvenuto e quale sia stata la devastazione delle istituzioni che ne è seguita.

Ora siamo ad una svolta e mi è sembrato che rileggere le parole di Ciampi sia di buon auspicio per il futuro.

* * *

Ed ora facciamo il punto dell'economia, lo stiamo facendo ogni settimana perché ogni giorno i mercati operano sotto stelle diverse e spesso addirittura sotto cieli coperti di nebbia e di nuvole.
Quella alle nostre spalle è stata una settimana di tregenda, conclusa da due giorni di pausa e di respiro in attesa del meglio. Per i mercati il meglio è Monti il peggio è l'incertezza e l'indecisione.

Nei giorni di tempesta lo "spread" è arrivato a 600 punti dal "Bund" tedesco e il rendimento dei nostri titoli pluriennali ha raggiunto il 7,10 per cento, un livello che provocherebbe l'avvitamento del sistema se non fosse un picco ma diventasse uno standard. Il professor Penati ha spiegato su queste colonne che un rendimento del 7 per cento provocherebbe illiquidità nelle banche e poi insolvibilità. Penati teme che questi fenomeni siano già in atto. Forse è troppo pessimista ma ci va vicino. Personalmente penso che una terapia sia ancora possibile purché applicata con urgenza. Credo sia questo il programma di Monti: efficacia e urgenza, crescita e rigore. Ho scritto altre volte, parafrasando Draghi, Roubini e Stiglitz, che a questo a punto i provvedimenti di crescita sono più urgenti del rigore perché consentono un rigore "sano". Senza crescita il rigore diventa una tremenda malattia che si chiama deflazione e recessione.

Concludo sul tema di eventuali elezioni anticipate. Ci sono ragioni che le sconsigliano ed altre che le motivano tirando in ballo il popolo sovrano. Ma ce n'è una che è decisiva e definitiva: le elezioni significano a dir poco due mesi di campagna elettorale, due mesi dominati dall'incertezza del risultato. Una festa per i ribassisti che avrebbero una prateria a disposizione in una fase di scadenze massicce dei nostri titoli pubblici. Per di più con un'ipotesi di maggioranze diverse tra Camera e Senato e quindi con un'incertezza protratta ancora oltre i risultati.

Pare che i sostenitori di elezioni immediate siano sordi da quest'orecchio. Portano l'esempio di Spagna e Grecia ma si tratta d'un esempio profondamente sbagliato: la Spagna non ha i titoli in scadenza come noi e la Grecia ha già un debito sovrano svalutato del 50 per cento. Il nostro debito è il terzo del mondo e se salta, salta l'euro. Il punto è questo. Perciò noi facciamo il tifo per Monti.

(13 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #323 inserito:: Novembre 20, 2011, 05:14:10 pm »

L'EDITORIALE

Il governo tecnico e la destra storica

di EUGENIO SCALFARI


LA DOMANDA ancora in parte inevasa riguarda Mario Monti: chi è veramente? Qual è la sua formazione culturale e la sua concezione politica? E che cosa rappresenta il suo governo di tecnici nella storia italiana?

Le risposte finora fornite da chi lo conosce e da chi ne ha seguito il percorso di studioso, di rettore della Bocconi, di commissario alla Commissione dell'Unione europea e infine di neo-premier, lo definiscono un liberale cattolico; forse - azzardano alcuni - un liberale radical-moderato, dove la parola radicale sta a significare che la sua moderazione non inclina tanto al compromesso ma piuttosto all'intransigenza. Un moderato intransigente, coi tempi che corrono, rappresenta una felice anomalia quanto mai necessaria per raddrizzare l'Italia del post-berlusconismo.

Raddrizzare mi sembra un termine più adatto di ricucire perché non c'è molto da ricucire, non ci sono due lembi di stoffa da mettere insieme: ne verrebbe fuori un mantello da Arlecchino. Da raddrizzare invece c'è un Paese intero, da rimettere in piedi, da ricollocare nel rango che gli spetta, da ridargli fiducia nelle istituzioni ripulendole dalle brutture che ne hanno deformato il funzionamento.
Queste risposte sono appropriate al personaggio, ma non ci dicono ancora come si collochino, lui e il suo governo, nella storia d'Italia, chi siano i punti di riferimento e i personaggi che possono esser considerati i predecessori ed è su questo aspetto che desidero ora soffermarmi.

Credo che il primo riferimento risalga a quella
che fu chiamata la Destra storica, che guidò la costruzione dello Stato unitario dopo Cavour governandolo dal 1861 al 1876 e avendo come primi obiettivi il sistema fiscale, il pareggio del bilancio e l'unità monetaria di cinque diversi Stati.

I personaggi che illustrarono quei primi quindici anni della nostra storia nazionale furono Marco Minghetti, Quintino Sella, Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis.

Alcuni di loro erano cattolici, altri no, ma tutti erano laici perché costruivano uno Stato laico, orgogliosi difensori della sua autonomia di fronte ad una Chiesa che ne contestava la legalità e durò per mezzo secolo in quell'atteggiamento.

Quest'aspetto sembra ormai superato e noi ci auguriamo che lo sia, ma è anche vero che la Chiesa è tuttora tentata da un temporalismo non più territoriale ma politico, non meno pericoloso del precedente.
Su questa questione dovremo tornare. Per ora limitiamoci a constatare che i temi della costruzione fiscale, del pareggio del bilancio e della moneta sono attuali oggi quanto allora e sono in parte nazionali, in parte europei.
Monti lo sa perfettamente e, proprio per questo, ha rivendicato che il direttorio franco-tedesco sull'Europa abbia come terzo partecipante anche l'Italia con l'obiettivo d'un governo federale europeo, una Banca centrale a pieno titolo, un fisco comune e un debito sovrano europeo.

Da questo punto di vista - a distanza di 150 anni - la Destra di Minghetti, Sella e Spaventa rappresenta un perfetto riferimento all'opera che si propongono Mario Monti e il suo governo. De Sanctis no: fu di fatto l'artefice della cultura italiana ed ho qualche dubbio che gli ottimi professori Ornaghi e Profumo possono fare altrettanto. Anche se è vero che De Sanctis fu per breve tempo ministro dell'Istruzione, la cultura italiana la formò scrivendone la Storia della letteratura, i Saggi critici e le monografie su Manzoni, Leopardi, Mazzini, Machiavelli. Erano altri tempi. Allora non c'erano i giornali a grande tiratura, la radio, la televisione e Internet; l'80 per cento della popolazione era analfabeta e il popolo sovrano, selezionato per grado di istruzione, si limitava agli uomini e rappresentava il 2 per cento della popolazione.


                                                                 * * *


Un altro precedente storico, assai più recente e di minore rilievo ma anch'esso molto appropriato alla situazione politica attuale, è quello del terzo governo Fanfani che si formò nel 1960 sulle ceneri del governo Tambroni, sconfitto dalla piazza dopo la repressione sanguinosa dei moti di Genova e di Reggio Emilia. La Dc, di cui Tambroni era uno degli esponenti di origine gronchiana, dopo la sua virata repressiva ne chiese le dimissioni. Il segretario della Dc era allora Aldo Moro, che promosse un governo monocolore democristiano, con dentro i maggiori esponenti del partito: Andreotti, Taviani, Scelba, Colombo, Piccioni, Segni, Sullo. E negoziò con i socialisti e con i cosiddetti partiti minori (socialdemocratici, repubblicani, liberali) l'appoggio parlamentare al monocolore dc.

Era la prima volta, dopo la rottura degasperiana con la sinistra nel 1947, che i socialisti entravano a far parte della maggioranza. Avevano rotto il patto d'unità d'azione con il Pci ma i legami d'amicizia politica erano ancora in piedi. "Non ci saranno nemici a sinistra" aveva detto Nenni, ma la novità del suo ingresso aprendo la strada al centrosinistra e a riforme organiche che gran parte della Dc e dei partitini non volevano affatto, avevano aperto un acceso dibattito. Moro si era speso come non mai per tranquillizzare il suo partito ed aprire ai socialisti, ma anche Nenni aveva molto faticato per tenere insieme i suoi.

Il risultato fu il governo delle "convergenze parallele", come Moro stesso lo definì con una felice innovazione lessicale oltreché geometrica. Un governo di tregua e di decantazione, cui seguì dopo due anni un governo da lui stesso presieduto che inaugurò con la nazionalizzazione dell'industria elettrica la lunga (e non sempre proficua) stagione del centrosinistra.

Mario Monti ha definito il suo come il governo dell'impegno nazionale. Ben detto per indicare la natura dell'esecutivo, ma per descrivere l'attuale situazione parlamentare mi sembra che il modo più appropriato sia quello che usò Moro per il monocolore fanfaniano: convergenze parallele. Le parallele non si incontrano per definizione, ma possono otticamente convergere e questo è quanto per ora, con buona pace di Bossi, Scilipoti, Santanché e Alessandra Mussolini.

                                                                     * * *

Ma esiste un terzo precedente, ancor più recente (1980) e ancora più appropriato rispetto al governo attuale. Porta il nome di Bruno Visentini e merita un'attenta analisi.

Penso sia inutile illustrare qui la figura culturale e politica di Visentini. Ricordo soltanto che militò nel Partito d'Azione e poi nel Partito repubblicano del quale fu uno dei principali esponenti accanto a Ugo La Malfa.
Allievo di Ezio Vanoni, fu per due volte al ministero delle Finanze rinnovandone la struttura amministrativa e riformando profondamente il sistema fiscale.

Contemporaneamente si batteva per la riforma delle società per azioni e per una legge antitrust che allora in Italia non esisteva.

Nel 1980 - e questo è il punto - sollevò il problema del governo istituzionale, non già come un'ipotesi da attuare in tempi di emergenza, ma come la soluzione permanente in linea con la Costituzione. Un governo nominato dal presidente della Repubblica e non negoziato con le segreterie dei partiti, come la cosiddetta Costituzione materiale della Prima Repubblica praticava, ma nominato dal capo dello Stato e ovviamente fiduciato dal Parlamento.

I partiti, nell'idea di Visentini, dovevano essere lo strumento di raccolta del consenso popolare sulla base delle loro rispettive concezioni del bene comune. Il governo istituzionale doveva trasformare la concezione del bene comune della maggioranza parlamentare in provvedimenti legislativi e amministrativi sotto il controllo del Parlamento. Questa fu la proposta di Visentini, che sosteneva anche lo Stato di diritto come la premessa necessaria della democrazia parlamentare.

Il nostro giornale appoggiò pienamente la proposta di Visentini e aprì un ampio dibattito che naturalmente vide quasi tutti i partiti - compreso quello repubblicano - contrari a quel ritorno alla Costituzione auspicato da Visentini. Il solo "sì" - con alcuni "ma" - venne dal Partito comunista allora guidato da Longo e da Berlinguer.
Quello che desidero segnalare è che il governo Monti, voluto e seguito passo passo da Giorgio Napolitano, realizza a distanza di trent'anni l'idea-guida di Bruno Visentini che - lo ripeto - lo vedeva non come una situazione emergenziale ma come l'organizzazione ottimale dello Stato di diritto e della democrazia parlamentare.

Dedico queste riflessioni a quanti continuano a piangere sulla sospensione anzi sulla confisca della democrazia effettuata dal governo dei tecnici.

                                                                   * * *

Riprendo la questione dei cattolici impegnati, che fu già ampiamente discussa dopo il convegno di Todi promosso dal cardinal Bagnasco, presidente dei Vescovi italiani. Ricordo in proposito che almeno tre degli attuali ministri (Passera, Ornaghi e Riccardi) furono relatori di quel convegno.
Noi laici vediamo con molto favore l'impegno civile e politico dei cattolici, così come siamo favorevoli - proprio perché laici - allo spazio pubblico a disposizione della Chiesa come di qualsiasi altra associazione o individuo per diffondere le proprie idee.

La Chiesa predichi la sua fede. Offra la sua visione etica, censuri quanti a suo giudizio si rendano colpevoli di riprovevoli comportamenti. I cattolici impegnati tengano conto degli indirizzi dottrinali e dei valori predicati dalla Chiesa e cerchino di trasfonderli in politica nella misura giudicata opportuna ma senza mai dimenticare che le leggi hanno valore erga omnes e non possono dunque obbligare i non cattolici di obbedire a norme che riposano su dogmi non vincolanti per chi non li condivide.

Tutto questo è chiaro e accettato sia dalla Chiesa, sia dai cattolici "adulti", sia dai laici non credenti o di altre religioni. Esiste però un punto di scontro e lo pone la Chiesa quando parla di valori non negoziabili.
Anche i laici hanno valori non negoziabili e sono per l'appunto quelli che ho qui indicato come la concezione della laicità dello Stato. Spetta dunque alla Chiesa spiegare che cosa intenda quando parla di valori non negoziabili.

I suoi valori sono noti e nessuno di noi li discute. Il punto da chiarire dunque non è quello ma è la loro negoziabilità.

Personalmente penso che la discussione non possa vertere sui singoli valori ma sul loro complesso, cioè sull'esistenza d'una coscienza nazionale.

Esiste la coscienza individuale e anche quella collettiva, un valore egemone che rispetta tutti gli altri purché si esprimano senza mettere a rischio la laicità dello Stato e quindi senza imporre a nessuno valori agganciati al dogma, monopolio interpretativo della gerarchia cattolica.

La gerarchia è un potere esterno rispetto allo Stato laico e democratico.

Non può dettare norme erga omnes. Ma in realtà non può dettare norme neppure nei confronti dei credenti.
Ho sottolineato, commentando alcuni discorsi del Papa nel suo recente viaggio in Germania, una sua affermazione che mi è apparsa rivoluzionaria, quando ha detto che "Lutero aveva più fede in Dio di quanta ne abbiamo noi".

Affermazione che richiama quella fatta più volte dal cardinale Carlo Maria Martini: "Lutero è stato il più grande riformatore della Chiesa cristiana".

Vedo qui un'apertura verso il contatto diretto tra il credente e la divinità trascendente, senza l'intermediazione della Chiesa che la gerarchia ritiene invece indispensabile. Vedo il riconoscimento implicito del relativismo sulle pretese di assolutezza della gerarchia.

Da questo punto di vista il cattolico adulto è una figura della modernità che recupera il ruolo fondante del laicato cattolico e il ruolo importante ma sussidiario dell'ordine sacerdotale.

Mi direte che tutto questo ha poco da vedere con il governo di Monti ed è vero. Ma ha da vedere con i ministri cattolici presenti in quel governo in posizioni di grande responsabilità. Mi piacerebbe sapere da loro se sono cattolici adulti, come si definì Romano Prodi, che non accettano deleghe da parte della gerarchia. Anche questo è un conflitto di interessi, ideali e per questo ancor più importanti. Quanto ai conflitti materiali, che pure ci sono, il Parlamento e la pubblica opinione vigileranno affinché siano risolti al più presto, cosa della quale non vogliamo dubitare.

(20 novembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #324 inserito:: Novembre 25, 2011, 10:49:43 pm »

Opinione

Finalmente il risveglio dall'accidia

di Eugenio Scalfari

Come disse il cardinal Martini 12 anni fa "il livello di allarme si raggiunge quando lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso".

Ce n'è voluto di tempo...

(17 novembre 2011)

Per sfuggire da un'attualità che mi obbligherebbe a parlare ancora una volta di Berlusconi, di Mario Monti e delle risse interne di questo o quel partito, dedico questa pagina al cardinale Carlo Maria Martini.

Potrà sembrare una stranezza o se volete una fuga dalla realtà, ma non lo è. Martini è un prete, un gesuita, è stato per molti anni prefetto della Congregazione della Fede, poi rettore dell'Università Gregoriana, poi arcivescovo di Milano. Insomma ha percorso tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica, ma non è certo questo che lo raccomanda alla nostra attenzione e in particolare alla mia. E' stato ed è un uomo di grandissimo coraggio intellettuale e spirituale. Ha cercato la verità senza mai esorcizzare il dubbio e gli è accaduto talvolta che il dubbio facesse parte della sua ricerca di verità.

Adesso è molto ammalato di Parkinson, la malattia gli ha leso le corde vocali allo stesso modo che accadde a Wojtyla: un tormento in più per chi ha fatto della parola lo strumento per conoscere gli altri e se stesso. Ma non si rassegna, continua a esprimersi come può, scrivendo e affidando al soffio di voce che gli è rimasto i suoi pensieri e anche le emozioni dell'anima sua.

Nelle scorse settimane è uscito un "Meridiano" di 2 mila pagine che raccoglie i suoi scritti, i suoi libri, le sue allocuzioni, i suoi dialoghi. Ed è uscito anche un altro libro (l'autore è Aldo Maria Valli) che racconta i tratti salienti della sua vita e del suo pensiero.

Io l'ho incontrato più volte nel corso degli anni e spero di rivederlo nel prossimo dicembre. Ne ho scritto su "Repubblica" e in alcuni dei miei libri. Oggi voglio ricordarlo per meglio scolpirne il carattere e l'esempio attraverso qualche citazione dei suoi pensieri.

La prima citazione la ricavo da un nostro incontro dell'anno scorso. Gli avevo chiesto quali fossero secondo lui i peccati più gravi per un cristiano e per la chiesa. Rispose: "I peccati gravi non sono molti, anzi c'è un solo peccato dal quale tutti gli altri derivano ed è l'ingiustizia. L'ingiustizia è il peccato del mondo ed è contro di essa che bisogna combattere educando gli animi e trasformando i cuori".
Gli chiesi che cosa fosse per lui l'ingiustizia, se fosse un sinonimo della disuguaglianza sociale. No, non era quella l'ingiustizia di cui parlava Martini o almeno non quella soltanto. Mi disse che era la mancanza di amore, di "caritas" nel senso cristiano di quella parola. L'amore verso Dio si trasforma, per un vero cristiano, in amore verso gli altri. "Dio - mi disse - non si può amare che amando gli altri e anche per amare se stesso il solo modo è di rapportarsi agli altri e amarli".

Io non sono credente e non ho alcuna tentazione di diventarlo, ma quelle sue parole mi colpirono molto perché coincidevano, sia pur in modo diverso, con quello che anch'io penso: un amore circolare che va dal "sé" all'altro e torna indietro come dono. Del resto la predicazione evangelica è chiarissima su questo punto: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Sei dunque tu la misura dell'amore che hai per gli altri e per te.

Ecco un altro passo molto significativo tratto da un suo discorso: "Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è il padre di tutte le genti, perciò è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo". Il cardinale ha una visione ecumenica e non identitaria del Dio trascendente. Questo è secondo lui il principale messaggio del Concilio Vaticano II.
Ma non si sottrae alla politica. Non se n'è mai sottratto. Non la politica politichese, ma quella alta che impegna lo spirito e l'etica pubblica. Lo disse con parole chiarissime nel discorso per la ricorrenza di Sant'Ambrogio nel 1999, che intitolò "Coraggio, non abbiate paura". Trascrivo le sue parole: "L'accidia politica porta a una neutralità appiattita senza più alcun criterio etico di riferimento. Il livello di allarme lo si raggiunge quando lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso. Non dovremmo più aspettare decadenze dolorose per aprire gli occhi".

Queste parole furono dette dalla cattedra di Sant'Ambrogio dodici anni fa. Ce n'è voluto di tempo perché i nostri concittadini si svegliassero dall'accidia e con loro si svegliasse anche il Vaticano. Martini era già molto più avanti anche su questa delicatissima questione.

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« Risposta #325 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:13:49 pm »

IL COMMENTO

Due Mario italiani per salvare l'euro

di EUGENIO SCALFARI


La crisi dei debiti sovrani dell'Europa - di tutta l'Europa, Germania compresa - ha provocato una reazione in Inghilterra e in Usa: le banche di quei due Paesi hanno dichiarato che si stanno preparando alla scomparsa dell'euro dal sistema monetario mondiale. Non è certo un aiuto a resistere, quella dichiarazione, e non è comunque un utile campanello d'allarme, ma piuttosto una campana a martello, di quelle che si suonavano un tempo quando un intero paese andava a fuoco e la popolazione accorreva con le pompe e i secchi d'acqua per spegnere l'incendio.

Ma qui ed oggi non c'è una popolazione da chiamare a raccolta, né bastano i pompieri nazionali a sostenere la moneta europea anche se il loro contributo è necessario. Qui ed oggi c'è un solo soggetto che può impedire una frana generale ed è la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Mario Monti è il pompiere nazionale ed il suo contributo è necessario ma insufficiente. Salvare l'Europa spetta a Draghi; che la Germania sia d'accordo oppure no, nessuno può impedirglielo perché la Bce è indipendente dai governi purché resti nei limiti previsti dal suo statuto il quale gli pone il divieto di finanziare i governi ma non di finanziare il sistema bancario europeo a rischio di insolvibilità.

Draghi conosce perfettamente questo suo diritto-dovere d'intervenire per evitare il cosiddetto "credit-crunch", cioè il passaggio dall'illiquidità all'insolvibilità. Probabilmente avrà bisogno d'un paio di settimane per mettere a punto un intervento di così ampie dimensioni; dovrà contattare le principali banche di credito commerciale dei 17 Paesi dell'eurozona e anche quelle inglesi e americane perché ormai tra le grandi banche e i grandi fondi d'investimento del risparmio esiste un intreccio intricatissimo di flussi e di reciproci impieghi. Due settimane, ancorché sotto l'infuriare della tempesta sui mercati, sono sopportabili; andare oltre diventerebbe una scommessa andata male, non una battaglia ma una guerra perduta.

Le dimensioni di un salvataggio del genere ammontano almeno a 1.000 miliardi di euro e forse anche di più, ma sbagliano quanti pensano che basti l'annuncio e la garanzia da parte della Bce per ottenere il risultato senza bisogno di scomodare la cassa. Non è così. Il sistema bancario europeo è già in condizioni di scarsa liquidità e un semplice annuncio non basterebbe. La cassa è indispensabile, la Bce dovrà stampare moneta e iniettarla nel sistema bancario perché è questa la preziosa acqua necessaria per estinguere l'incendio. Non la darà ai governi ma alle banche e non già per una settimana ma per due o tre anni, con un duplice obiettivo: assicurarne la solvibilità e rendere possibile il finanziamento delle imprese affinché contrastino la recessione incombente. E qui entrano in scena i pompieri nazionali, cioè i governi, ciascuno responsabile del proprio debito sovrano e della crescita del proprio prodotto interno.

* * *

Il governo italiano è in primissima linea perché, come hanno detto la Merkel e Sarkozy dopo l'incontro di Strasburgo con Mario Monti, gli interventi che il nostro neo-premier ha in programma sembrano a loro perfettamente in linea con le necessità e perché - come hanno aggiunto - se dovesse diventare insolvibile il debito italiano salterebbe l'euro e con esso l'intera costruzione europea.

Monti deve realizzare due obiettivi: il rigore e la crescita e semmai ci fosse da stabilire un prima e un dopo, la crescita verrebbe prima e non dopo. C'è un terzo obiettivo che Monti si propone ed è l'equità che in realtà rappresenta il giusto equilibrio tra crescita e rigore. L'equità si realizza infatti attraverso l'equilibrio tra quei due termini, attraverso la coesione sociale e attraverso lo sforzo di evitare la recessione e la deflazione. Questi sono i compiti di Monti e del suo governo. Il loro fucile ha due soli colpi in canna: crescita e rigore. La prima si ottiene sostenendo il potere d'acquisto delle fasce sociali medio-basse e diminuendo il carico fiscale delle imprese. Il secondo tagliando la spesa improduttiva, i privilegi e le disuguaglianze. In concreto: riformando le pensioni, equiparando le condizioni di lavoro tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, destinando i risparmi così realizzati alla fondazione del nuovo "welfare" destinato a tutelare i giovani e a instaurare un patto generazionale a loro favore.

Il governo ha ormai in avanzata preparazione la riforma pensionistica e quella del lavoro, attingerà risorse immediate dall'Iva e dall'Ici (che è di per sé un'imposta patrimoniale) nonché dalla vendita dei beni pubblici. Rilancerà i lavori pubblici con un pacchetto che vede insieme il ministero di Passera e quello di Barca (Infrastrutture e Coesione territoriale). Due colpi in canna. Ha preso tempo fino al 5 dicembre, una dilazione che coincide con quella di cui ha bisogno Draghi. Neanche a Monti bastano gli annunci, anche lui deve muovere la cassa e non può sbagliare. Dieci giorni sono sopportabili, il di più sarebbe del Maligno e quindi va escluso.
Intanto siano nominati domani i vice-ministri e i sottosegretari affinché il Parlamento possa lavorare. Qui la dilazione non è permessa.
* * *

I debiti sovrani hanno un calendario di aste da tempo stabilito. Quello italiano prevede nel 2012 emissione di titoli in gran parte pluriennali per 270 miliardi. Quello degli altri Stati dell'eurozona ne prevede altri 800, metà dei quali emessi dalla Germania. Nel complesso sarà un anno terribile che si inaugura con un'asta italiana di 40 miliardi nella prima decade di febbraio. Draghi, quand'era ancora in via Nazionale, aveva consigliato Tremonti nel 2010 di anticipare le aste ma il consiglio non fu seguito, erano ancora i tempi nei quali il governo di allora negava la crisi o sosteneva che comunque ne saremmo usciti prima e meglio degli altri. Adesso Cicchitto e La Russa si sbracciano a dimostrare che il loro governo non ha nulla a che fare con quella che Giuliano Ferrara chiama Lady Spread. Ma Lady Spread è stata svegliata proprio da quel governo e dalla sua micidiale immobilità. Tre anni d'immobilità, di cui paghiamo adesso il durissimo scotto.

Se Draghi e Monti faranno quel che debbono entro la coincidente scadenza, anche l'anno terribile potrà essere padroneggiato. Ma per quanto riguarda l'Italia, noi abbiamo una scadenza tra pochi giorni, modesta per tempi normali ma assai scabrosa per l'oggi: un'asta di 5 miliardi di titoli pluriennali.

Si potrebbe cancellarla e rinviarla perché il Tesoro può farne a meno, ma sarebbe un pessimo segnale per i mercati. Il rimedio, se si vuole, c'è: la Banca d'Italia, imitando la Bundesbank, potrebbe prendere in parcheggio i titoli in scadenza e collocarli gradualmente sul mercato secondario. Le banche, una volta che la Bce avesse varato il suo programma di prestiti, sottoscriverebbero senza problemi quel ricollocamento come dovranno fare per una buon parte delle aste successive. Questo è il solo modo per trasmettere gli effetti della politica monetaria a sostegno dei debiti sovrani, in attesa che i Trattati siano riveduti, il fisco diventi appannaggio dell'Europa e gli Eurobond siano accettati anche dalla Merkel. Allora intoneremo il "Magnificat" e ne saranno contenti anche i cattolici di Todi e del governo dei tecnici.

* * *
 Questa storia del governo dei tecnici continua ad esser vissuta malamente da una parte notevole dell'opinione pubblica, anche da quella vastissima (75 per cento) che appoggia Monti riconoscendo l'esistenza di ragioni di urgenza e di emergenza. Nel mio articolo di domenica scorsa avevo ricordato tre illustri precedenti per collocare l'attuale governo in un contesto storico: i 15 anni di governo della Destra storica (1861-1876), i due anni del governo Fanfani delle "convergenze parallele" (1960-62), la proposta di Bruno Visentini d'un governo istituzionale come soluzione permanente prevista dalla Costituzione (1980).

Dedico la conclusione di quest'articolo al tema sollevato da Visentini, per renderne più chiari i lineamenti e la sua attualità.
1. I governi sono tutti politici se avvengono nel quadro della democrazia parlamentare poiché la loro esistenza e la loro permanenza dipendono dalla fiducia che il Parlamento gli accorda o gli ritira.

2. Il governo istituzionale cui pensava Visentini prevedeva che i partiti non fossero agenzie di collocamento dei loro dirigenti e clienti, ma organi di generale indirizzo politico e di raccolta del consenso popolare sulla base d'una loro visione del bene comune.

3. La legge elettorale doveva (dovrebbe) offrire lo "spazio pubblico elettorale" ai candidati dei partiti o di qualsivoglia associazione o individuo che volesse cimentarsi. Il Parlamento uscito dalle elezioni esprime una sua maggioranza che risponde agli elettori così come ne risponde la minoranza di opposizione.

4. La formazione del governo spetta al presidente della Repubblica il quale, a termini della Costituzione, "nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri". Il governo così nominato deve ottenere entro pochi giorni la fiducia del Parlamento.
Il risultato di questo "combinato disposto" consiste nel fatto che nella formazione del governo il capo dello Stato tiene necessariamente conto della maggioranza parlamentare dalla quale l'esistenza del governo dipende, ma lo nomina senza trattarne la composizione con le segreterie e i gruppi parlamentari dei partiti.

Questo è lo schema del governo istituzionale e costituzionale. Chi non capisce che esso non confisca affatto la democrazia e non umilia affatto il Parlamento, al quale anzi affida piena centralità svincolandolo anche dalla sudditanza ai voleri del "premier" (com'è accaduto nell'appena trascorso decennio berlusconiano) e potenziando il suo diritto-dovere di controllare il governo e la pubblica amministrazione; chi non capisce queste lapalissiane verità è in palese malafede oppure mi permetto di dire che è un perfetto imbecille.

(27 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/27/news/due_mario_italiani_per_salvare_l_euro_di_eugenio_scalfari-25666637/?ref=HRER1-1
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« Risposta #326 inserito:: Dicembre 02, 2011, 06:16:04 pm »

IL COMMENTO

L'ossigeno della Bce

di EUGENIO SCALFARI

NELL'INTERVENTO di ieri, parlando della crisi attuale dinanzi all'Europarlamento, Mario Draghi così ha concluso: "La Bce può fare il prestatore di ultima istanza solo per le banche solventi. È in corso in Europa una stretta del credito che stringe soprattutto le piccole e medie imprese e per questo serve riparare il circuito del credito che ora non circola". Questa è una frase-chiave per capire le prossime mosse della Banca centrale europea. Cerchiamo anzitutto di decifrarne il senso perché il linguaggio del banchiere è alquanto gergale e quindi oscuro per i non iniziati.

La Bce si può muovere solo all'interno dei limiti previsti dal suo statuto. Tra questi limiti c'è il divieto di finanziare direttamente i governi. Gli interventi che fa fin dallo scorso agosto sul mercato secondario acquistando titoli pubblici sono limitati nelle dimensioni e nella durata. Difficilmente servono a mantenere liquido il mercato. In realtà servono a contenere il rendimento dei titoli affinché non superi troppo la soglia del 7 per cento che è già alla lunga insostenibile per l'equilibrio dei conti pubblici. Le banche commerciali  -  dice Draghi  -  stanno praticando una stretta del credito, di conseguenza il circuito è bloccato a detrimento soprattutto delle imprese, cioè dell'economia reale.

E infine conclude: "La Bce può fare il prestatore di ultima istanza per le banche solventi perché questo è previsto dal suo statuto". Domenica scorsa avevo scritto proprio questo: la Bce si accingeva ad aprire linee di credito alle banche europee con prestiti a due-tre anni per un ammontare complessivo di oltre mille miliardi di euro, se necessario anche stampando moneta. Le parole di Draghi confermano che questa è l'operazione che ha in mente. Nel frattempo le sei maggiori Banche centrali dell'Occidente hanno fortemente diminuito il costo degli "swap" in dollari, cioè hanno creato la possibilità per le banche commerciali di approvvigionarsi in dollari illimitatamente con prestiti a tre mesi.

Considerata in sé, quest'operazione è una bombola d'ossigeno al letto d'un ammalato grave, cioè del sistema bancario occidentale e in particolare di quello europeo. Una bombola d'ossigeno, non più di tanto. Potrà attutire la crisi respiratoria ma non modificare le condizioni dell'ammalato che non è ancora in uno stadio terminale ma rischia di precipitarvi. Ci vuole molto di più che diminuire il costo degli "swap" in dollari. Ma in realtà quella bombola d'ossigeno serve a realizzare un altro obiettivo: ridare alle banche commerciali fiducia in se stesse. Attualmente non si fidano l'una dell'altra e dei clienti si fidano meno ancora. La Bce offre crediti con scadenze settimanali, le banche ritirano i fondi con la mano destra e con la sinistra li ridepositano presso la stessa Bce: una partita di giro priva di senso.

La riattivazione degli "swap" in dollari mostra ai mercati che le sei Banche centrali d'Occidente sono compattamente schierate per impedire il fallimento dell'euro. L'obiettivo è appunto di tonificare le aspettative dei banchieri. Adesso Draghi dovrebbe attivare la sua operazione strutturale affinché le banche tornino a prestarsi reciprocamente liquidità e ne dirigano una parte a finanziare le imprese e un'altra parte per acquistare titoli di Stato alle aste, possibilmente con rendimenti più bassi di quelli toccati nelle ultime occasioni.

Questo è quanto ci aspettiamo che avvenga. Draghi e il direttorio della Bce hanno ora una grande responsabilità: non possono e non debbono ulteriormente aspettare, il fattore tempo è ora fondamentale. Monti presenterà i suoi primi decreti di risanamento lunedì prossimo. Entro la stessa data sarebbe molto opportuno che Draghi aprisse il rubinetto per finanziare "le banche solvibili", ma non sufficientemente liquide. Sta a lui renderle adeguatamente liquide e consolidarne la fiducia, con ripercussioni estremamente importanti sulla crescita economica del sistema. Monti stringe, Draghi allarga: questo dovrebbe accadere e si prendano ciascuno - governo italiano e Banca centrale europea - le proprie responsabilità.

(02 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2011/12/02/news/scalfari_bce-25941937/?ref=HRER1-1
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« Risposta #327 inserito:: Dicembre 04, 2011, 11:19:28 am »

L'EDITORIALE



di EUGENIO SCALFARI

Oggi, probabilmente conosceremo i primi provvedimenti del governo per raddrizzare i conti pubblici e compensare i sacrifici che graveranno su tutti i cittadini con interventi destinati alla crescita. Mario Monti non ha usato mezzi termini, i sacrifici li ha annunciati senza ipocrisia né diplomazie, ma anche ha profuso nelle sue dichiarazioni il concetto di equità. Ebbene, c'è un solo modo di intendere la parola equità in una situazione come quella che stiamo vivendo: ingaggiare la lotta contro la recessione.

Se ci sarà recessione non ci sarà equità; se la domanda interna  -  privata e pubblica  -  non sarà adeguatamente incentivata, l'equità diventerà una parola vana, salvo la progressività delle misure rigoristiche; ma quella è un'equità assai impalpabile che scontenterà tutti.

Quindi la crescita: maggior potere d'acquisto ai redditi medio-bassi, sgravi fiscali sugli investimenti, incentivi all'occupazione, incentivi alla costruzione di infrastrutture e ai lavori pubblici e soprattutto interventi che volgano in positivo le aspettative di consumatori, lavoratori, imprenditori, banchieri.

Se non riprenderemo a crescere non ci sarà equità poiché il fardello che grava sulle spalle di chi ha un reddito da 5 mila a 15 mila euro annui e paga un'imposta del 23 per cento e chi sta oltre i 200 mila e paga un'imposta del 43 per cento è comunque incommensurabile.

Chiarito questo punto per quanto riguarda l'equità, resta il problema della natura di questo governo.

Molti lo considerano come una sorta di guardiano commissariale il cui compito è soltanto quello di gestire l'economia e la finanza. Una volta che questo compito sia adempiuto, il commissario dovrà fare le valigie e andarsene con tutti i suoi collaboratori, magari con i ringraziamenti della nazione e dell'Europa. Nel frattempo, e fino a quando sarà in carica, null'altro deve fare. Ma le cose non stanno affatto così.

Questo è un governo a pieno titolo e se è vero che il suo compito principale è quello dell'economia è vero anche che ha un ministro degli Esteri che dovrà gestire i nostri rapporti con il resto del mondo; un ministro dell'Interno che dovrà occuparsi non solo dell'ordine pubblico ma della lotta contro le mafie, e la criminalità; un ministro della Giustizia che avrà il compito di riformare l'ordinamento giudiziario, soprattutto quello della giustizia civile ma non soltanto; un ministro del Tesoro che dovrà occuparsi anche delle molte aziende pubbliche e in particolare di quelle che il Tesoro controlla; un ministro delle Comunicazioni cui incombe il tema dell'urgentissima riforma della Rai; un ministro dell'Istruzione che gestirà le scuole e le Università; un ministro dell'Integrazione e della Cooperazione che dovrà affrontare il gigantesco tema dell'immigrazione; un ministro della Coesione territoriale con il compito di far diminuire le diseguaglianze strutturali tra aree evolute e aree depresse.

Che dovrebbero fare questi ministri fino a quando il governo sarà in carica? Costruire barchette di carta e altri origami in attesa di togliere il disturbo? Organizzare partite a briscola e a rubamazzo? O addirittura chiudere i ministeri e mettere i dipendenti in aspettativa?

Questo, lo ripetiamo, è un governo a pieno titolo, un governo politico, il cui scopo primario non diminuisce e tantomeno cancella il compito di governare il Paese nel modo migliore, con spirito innovativo in tutti i campi, fino a quando avrà la fiducia del Parlamento e fino a quando lo scopo primario non sarà portato a termine. Chi lo concepisce come un commissariato dell'economia e nient'altro che questo, ha la testa nelle nuvole o cerca pretesti per metterlo anzitempo in crisi.
Monti non cada in questa trappola. È giusto che abbia trattenuto nelle sue mani l'"interim" dell'Economia, ma non dimentichi che è soprattutto il "premier" e si comporti come tale in conformità al giuramento da lui fatto e da ciascuno dei suoi ministri nelle mani del Capo dello Stato.

***

Nel lessico politico corrente questo è stato definito il governo del Presidente della Repubblica. Anche noi, anch'io, l'abbiamo chiamato così, ma forse (anzi senza forse) abbiamo commesso un errore. In una democrazia parlamentare non esiste un governo del Presidente perché sia per il suo insediamento sia per la sua permanenza è indispensabile la fiducia del Parlamento. Non esiste un governo tecnico visto che la fiducia parlamentare si fonda su una maggioranza politica la quale si fonda a sua volta su una visione condivisa del bene comune.

I motivi e le forme che hanno condotto alla costituzione del governo Monti hanno le loro radici nella crisi economica in atto, ma questo non ha cancellato la natura della democrazia parlamentare. Ho ricordato nell'articolo di domenica scorsa alcuni precedenti significativi. Ho ricordato il governo Fanfani del 1960 la cui maggioranza fu definita "delle convergenze parallele". Ho ricordato il governo istituzionale concepito da Bruno Visentini come la sola e corretta applicazione della Costituzione, deformata da una "costituzione materiale" in cui la partitocrazia si sovrapponeva alla democrazia parlamentare.

Il governo Monti, motivato dall'emergenza dell'euro, realizza in pieno il ritorno alla Costituzione che configura con chiarezza sia il ruolo dei partiti sia quello del Presidente della Repubblica. Il fatto che la partitocrazia abbia deformato la corretta applicazione costituzionale non significa che quando il governo Monti avrà compiuto la sua opera e realizzato i suoi obiettivi, tutto debba tornare come prima e la partitocrazia di nuovo dominante il campo. Non significa insomma che nel maggio del 2013 si debba inalberare l'insegna dell'heri dicebamus.
La Costituzione è precisa su questi punti. I partiti non debbono essere le agenzie di collocamento delle loro clientele e non debbono occupare le istituzioni, ma comportarsi come organi di indirizzo politico e di raccolta del consenso dei cittadini attorno ad una concezione del bene comune, d'una scala di valori e di legittimi interessi che ogni partito rappresenta.

Le istituzioni dal canto loro sono gli strumenti erga omnes che traducono operativamente l'indirizzo della maggioranza, a patto di preservare la distinzione fondamentale tra lo Stato e il governo. I governi cambiano se cambia il consenso popolare; lo Stato invece permane ed è il contenitore dell'interesse generale.
Su questa distinzione tra Stato e governo si aprì un dibattito storico quando fu formato lo Stato unitario 150 anni fa. Ne discussero in Parlamento, nei loro scritti, nelle leggi costitutive di quello Stato, uomini del valore di Marco Minghetti, Silvio Spaventa, Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis e poi Giustino Fortunato, De Viti De Marco, Benedetto Croce, Luigi Einaudi. Il tema era quello del rapporto tra i partiti e l'Amministrazione e l'altro strettamente connesso della giustizia nell'Amministrazione.

Penso che, per una sorta di eterogenesi dei fini, il governo di Mario Monti nato dall'emergenza sarà il pronubo d'un rapporto nuovo tra i partiti e le istituzioni e che questo debba essere l'essenza della terza Repubblica. Penso e mi auguro che il futuro Parlamento sia espressione vera e non fittizia del popolo sovrano che abbia il diritto di scegliere i propri rappresentanti. Penso e mi auguro che i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui composizione sia decisa dal capo dello Stato come la Costituzione prescrive con estrema chiarezza. Penso e spero che il Parlamento eserciti non solo il potere legislativo ma il controllo sull'attività del governo e cessi di essere il luogo di passiva registrazione dei suoi voleri.

Penso infine che il presidente del Consiglio debba avere maggiori poteri rispetto ai suoi ministri e disporre di corsie privilegiate per i disegni di legge di speciale importanza e urgenza. Anche su questi punti il governo Monti rappresenta un buon esempio che in futuro non dovrà più avere la motivazione dell'emergenza ma semplicemente quella della correttezza costituzionale.

***

Si ricava dalle precedenti riflessioni su quanto è accaduto e sta accadendo che il presidente Giorgio Napolitano non ha compiuto alcuna "forzatura costituzionale", come alcuni suoi critici gli hanno rimproverato in occasione della nascita dell'attuale governo. Napolitano ha valutato la drammaticità della crisi che scuote l'intero Occidente, ha incontrato più volte tutte le forze politiche e le più alte autorità europee e internazionali. Alla fine  -  dopo le volontarie dimissioni del precedente governo  -  ha nominato il nuovo presidente del Consiglio e i ministri da lui proposti.

Il fatto che nessuno di quei ministri provenga dai partiti non è necessariamente il connotato dei governi istituzionali, i quali possono esser composti anche interamente da uomini di partito; ma la scelta non spetta alle segreterie, spetta al capo dello Stato e questa è una distinzione fondamentale che preserva l'essenza del governo-istituzione e toglie ai partiti una tentazione che deformerebbe il loro stesso prezioso ruolo.

Tante cose si dovranno ancora fare per dar corpo alla terza Repubblica: una legge elettorale che restituisca ai cittadini la sovranità effettiva che loro compete, la trasformazione del Senato in Camera di rappresentanza delle Regioni, lo sfoltimento del numero dei parlamentari, i consorzi tra piccoli Comuni, lo snellimento degli ospedali e dei tribunali e tante altre cose ancora. La normalità intesa come ordinaria amministrazione è ancora molto lontana. C'è da ricostruire uno Stato, per di più federale, improntato a criteri di efficienza, modernità e solidarietà sociale e territoriale molto più di quanto non lo sia lo Stato centralista. Questo sarà il compito della terza Repubblica che  -  è bene ripeterlo  -  è già cominciata.

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Post scriptum. Il governo Monti ha deciso di presentarsi martedì sera al "talk show" di Bruno Vespa dopo essersi presentato in Parlamento domani pomeriggio e martedì mattina ad una conferenza stampa con i giornalisti italiani e poi con la stampa estera.

C'è un più di troppo, onorevole presidente del Consiglio. Se voleva comunicare con gli italiani doveva scegliere il "caminetto" come hanno sempre fatto i presidenti della Repubblica e i presidenti del Consiglio in occasione di speciali ricorrenze o circostanze. Se voleva essere interrogato dai giornalisti dovevano bastare le conferenze stampa ad essi riservate. Lei ricorderà certamente il Vangelo di Matteo dove è detto che "il di più è del Maligno". Con tutto il rispetto personale per Bruno Vespa, quello è "un di più" che a molti darà grande fastidio.

(04 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2011/12/04/news/la_terza_repubblica_nel_segno_di_napolitano-26053764/?ref=HREA-1
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« Risposta #328 inserito:: Dicembre 11, 2011, 11:26:55 am »

L'EDITORIALE

I due Mario l'Europa l'hanno salvata

di EUGENIO SCALFARI


Due domeniche fa intitolai il mio articolo "Due Mario italiani per salvare l'euro". Ero abbastanza ottimista in quell'articolo e così pure nell'altro della domenica seguente. Oggi lo sono ancora di più perché le previsioni sono diventate fatti e i fatti hanno un diverso peso, producono effetti, modificano aspettative, comportamenti e decisioni. Dopo la firma di Giorgio Napolitano e la presentazione alle Camere del decreto "Salva Italia", dopo la decisione della Bce annunciata giovedì scorso di aprire un credito illimitato al sistema bancario dell'Eurozona e dopo il Consiglio dei capi di governo dei 27 paesi dell'Unione di venerdì, il mio ottimismo si è rafforzato. Lo dichiaro qui perché, oltre ad essere un giornalista, sono anche un risparmiatore, un consumatore, un elettore, sicché il mutamento delle mie aspettative potrebbe anche rappresentare un "test" di analoghi mutamenti sociali. Del resto i mercati di venerdì l'hanno già resi visibili ed è probabile che i mercati di domani emettano un giudizio ancora più esplicito per quanto riguarda lo "spread", l'andamento delle Borse e il rendimento dei debiti sovrani.
Il decreto "Salva Italia" sarà approvato dal Parlamento entro il 18 dicembre; il 20 la Bce erogherà alle banche la prima ondata di liquidità; ai primi di marzo la Commissione di Bruxelles renderà esecutivo l'accordo intergovernativo già siglato a Parigi l'altro ieri dai 26 paesi dell'Unione. Ne è
rimasta fuori l'Inghilterra ma è lei che si marginalizza rispetto all'Europa e non viceversa.
Questi sono i fatti sui quali siamo chiamati a ragionare.

***

Il decreto "Salva Italia" ha già suscitato un'ampia letteratura di commenti e di approfondimenti. I primi sono stati positivi, se non altro perché non c'erano alternative: tutte le forze politiche erano consapevoli che il rigore era necessario; se non l'avesse deciso Monti in autonomia ci sarebbe stato imposto dall'Europa. La differenza tra queste due posizioni è politica: quel decreto ha consentito al governo italiano di riprendere a pieno titolo il suo posto di interlocutore primario nel consesso europeo. Quanto agli approfondimenti, essi hanno messo in luce alcuni errori o manchevolezze del decreto ai quali si spera di porre rimedio nel dibattito parlamentare e nei limiti in cui non si alteri l'architettura del provvedimento e i suoi saldi.A sua volta l'accordo integrativo di Parigi che sancisce l'obbligo dei 26 membri dell'Unione di realizzare il pareggio dei rispettivi bilanci e di conferire all'Unione i propri poteri fiscali, è un percorso decisivo verso una maggiore sovranità europea nel campo economico, che diventerà piena con la revisione dei Trattati: un obiettivo storico ancora incerto ma altamente auspicabile. Nel frattempo la sovranità fiscale rassicura i mercati e rassicura l'America; non a caso il segretario americano al Tesoro ha partecipato informalmente alle varie fasi che hanno preceduto l'accordo e il presidente Obama è più volte intervenuto per affrettarne il buon esito.

Ma il fatto nuovo e decisivo di tutta questa vicenda risiede nell'intervento della Bce di liquidizzare il sistema bancario dell'Eurozona. Quando ne fu data notizia nel primo pomeriggio di giovedì scorso i media quasi non se ne accorsero, salvo il "Wall Street Journal " e il "Financial Times". Non se ne accorsero neppure i media italiani, ad eccezione di Repubblica, che a questo tema dedicò una parte del titolo di apertura di prima pagina. Tutti gli altri si limitarono a segnalare la riduzione del tasso di sconto da parte della Bce. Ma non se ne accorsero neppure i mercati che infatti giovedì pomeriggio erano di nerissimo umore e colpirono duramente i titoli delle banche, i listini delle Borse e fecero schizzare di nuovo verso l'alto i rendimenti dei titoli pubblici.

Il "24 Ore" di venerdì apriva ancora con un editoriale assai scettico verso le "incertezze" e "l'inazione" della Bce, corretto soltanto ieri da un articolo di Carlo Bastasin finalmente improntato a una più attenta analisi dei fatti: "Tutti gli strumenti necessari sono finalmente disponibili: leader nazionali credibili, fondi di salvataggio adeguati e un allentamento quantitativo del credito. La prima reazione era stata di delusione perché il comunicato dei capi dell'Eurozona sembrava ancora elusivo sulle situazioni immediate. Ma un secondo sguardo fa leggere il comunicato diversamente".

Meno male che il secondo sguardo c'è stato. Dico meno male perché l'informazione è essenziale per l'andamento dei mercati e i comportamenti dei risparmiatori e degli operatori. Quello che con qualche timidezza viene chiamato l'"allentamento del credito" è in realtà il pezzo forte della manovra a livello europeo, sia per quanto riguarda il "credit-crunch", sia per la crescita, sia per il rendimento dei titoli di Stato. La vera risposta europea si chiama dunque Mario Draghi così come la risposta italiana si chiama Mario Monti. Non ci voleva un occhio di lince per capirlo.

***

Ma vediamola più da vicino la manovra della Bce.
La prima mossa è la diminuzione all'un per cento del tasso di sconto, decisa  -  a quanto ha detto lo stesso Draghi  -  dopo una vivace discussione e non all'unanimità dal Consiglio direttivo della Banca. La radicata ossessione anti-inflazionistica della Bundesbank deve avere avuto il suo peso ma, probabilmente proprio per non dare troppo spazio ai suoi incomodi falchi, la Merkel quel giorno stesso disse che il suo governo non sarebbe mai intervenuto né avrebbe commentato le decisioni della Bce che "nei limiti del proprio statuto è indipendente e può decidere come meglio crede nell'interesse dell'Unione europea".

Il nocciolo della manovra tuttavia non è nel ribasso dello 0,25 per cento del tasso, bensì nell'apertura di un gigantesco sportello: prestiti illimitati per la durata di 36 mesi a tutte le banche dell'Eurozona al tasso fisso dell'un per cento. Il collaterale di garanzia è costituito da titoli di Stato dell'Eurozona, ma non soltanto: per quanto riguarda le banche territoriali di piccole dimensioni, che servono imprese medio piccole e che di solito non hanno titoli pubblici in portafoglio, la Bce accetterà come collaterali di garanzia i mutui e i debiti della clientela certificati dalla banca creditrice. Si tratta di una novità di grande importanza perché incentiva l'accesso al credito delle imprese medio piccole che  -  specialmente in Italia  -  costituiscono il nerbo dell'imprenditoria nazionale.

Quell'allentamento quantitativo del credito ha almeno quattro obiettivi: sblocca la circolazione del credito interbancario e favorisce con ciò la diminuzione dei tassi a breve e brevissima scadenza; consente alle banche di riprendere in grande stile l'erogazione dei prestiti alla clientela lucrando una forte differenza tra il costo dello sconto all'un per cento e il tasso di interesse parametrato sullo "spread". Attualmente questo tasso oscilla intorno al 6 per cento; quando i mercati saranno più tranquilli scenderà al 5 e sperabilmente al 4 e forse al 3, ma anche in quel caso ci sarà sempre un discreto margine di profitto, oggi altissimo.

Il terzo obiettivo della Bce, che per le banche è più opportuno chiamare occasione, concerne la partecipazione alle aste dei titoli pubblici. In questi ultimi mesi le banche erano molto restie ad accrescere il loro portafoglio-titoli, già ampiamente imbottito; le banche estere e i fondi di investimento erano anzi prevenuti negativamente verso i titoli italiani e spagnoli e se ne disfacevano nella misura del possibile. L'operazione-Draghi mira a invertire questo "trend", inversione tanto più necessaria in vista delle massicce emissioni italiane ed europee che avranno luogo nel 2012 e  -  per quanto riguarda l'Italia  -  soprattutto nel primo trimestre e nell'autunno dell'anno che sta per arrivare. Quando si dice che l'aumento di liquidità bancaria tende a trasferirsi anche alle emissioni dei debiti sovrani, si descrive appunto uno degli effetti dell'allentamento del credito.

Infine: una maggiore attività d'intermediazione delle banche significa anche un aumento delle prospettive di profitto e quindi migliori aspettative di dividendi per gli azionisti. Per restare al caso italiano che più ci interessa, il nostro sistema bancario  -  secondo le direttive dell'Eba  -  dovrebbe ricapitalizzarsi per complessivi 15 miliardi. L'Abi (Associazione banche italiane) ha già definito erronee e illegali le raccomandazioni dell'Eba (che è il suo omologo a livello europeo). In ogni caso una maggiore redditività del sistema può sdrammatizzare questa disputa e comunque facilitare il rifinanziamento dei capitali bancari. Resta il problema dei debiti sovrani che l'Europa richiama all'osservanza del livello massimo del 60 per cento rispetto al Pil e qui si apre il tema della crescita economica.

Dal governo Monti ci aspettiamo ora che  -  dopo il bollino del rigore che ha recuperato la nostra credibilità nelle sedi internazionali  -  si passi con la massima rapidità ai provvedimenti di stimolo della domanda nei settori del consumo, delle infrastrutture, del cuneo fiscale tra salario lordo e busta paga netta. Questo è l'appuntamento decisivo. Finora Monti ci ha lasciato a bocca asciutta. Ne abbiamo capito il perché, ma non può che consentire una dilazione di due o tre settimane. Passate le feste (che non saranno troppe festose) non ci sarà spazio per ulteriori ritardi. Stavolta tocca a Passera e a Barca. Speriamo non ci deludano.


Post scriptum. A Passera incombe anche il compito di nominare un commissario alla Rai dove la situazione è ormai insostenibile e di indire un'asta vera sulle frequenze. Comprendiamo che l'argomento è politicamente indigesto, ma lo è comunque, che l'asta vera si faccia o che si accetti quella truccata. "Le tue parole siano Sì o No". Passera è cattolico e tragga le sue conclusioni.

(11 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #329 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:21:07 am »

Opinione

La grande forza del dubbio

di Eugenio Scalfari

L'obiettivo di Ravasi è sempre il dialogo attraverso il quale si convince l'interlocutore o se ne è convinti, senza pregiudizi.

Un percorso che mette in discussione l'assolutezza della verità

(01 dicembre 2011)

Due settimane fa dedicai questa pagina al pensiero del cardinale Carlo Maria Martini, un religioso molto moderno le cui riflessioni sulla vita e sulla fede sono così profonde da intrigare anche un laico non credente. Feci anche un cenno alle recenti esternazioni del Papa che dimostravano un mutamento inatteso e per certi aspetti rivoluzionario rispetto alle tendenze del più alto Magistero della Chiesa.
Sulla stessa linea si è posto il cardinale Bagnasco nella sua prolusione al Convegno delle associazioni cattoliche a Todi e un laico come Riccardi, fondatore della comunità di Sant'Egidio, ora ministro nel governo Monti.

Mi sembra utile proseguire questa rivisitazione del pensiero cattolico più aggiornato segnalando gli scritti di monsignor Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura della Santa Sede, nominato cardinale nell'ultimo concistoro. Ravasi pubblica tutti i giorni un suo corsivo nella prima pagina dell'"Avvenire", il quotidiano della Conferenza episcopale italiana ed è una lettura estremamente istruttiva.

Il corsivo si apre sempre con una citazione di poche righe, cui segue il commento ravasiano. A volte il testo della citazione è tratto dalla Sacra Scrittura o dal libro di un Santo della Chiesa, ma più spesso l'autore citato è uno scrittore non religioso che coglie un aspetto della vita e lo illumina con la sua artistica fantasia. Su quella citazione Ravasi si sofferma, approfondisce il tema, contraddice l'autore citato o più spesso consente con lui.

I lettori si chiederanno forse perché mai io mi interessi a queste manifestazioni che con qualche azzardo si potrebbero definire eterodosse. La ragione è proprio questa: mi sembra che si stia configurando una vera e propria svolta nel pensiero cattolico e la novità consiste nel fatto che questa volta non proviene soltanto dal basso, dal clero delle parrocchie, degli oratori o da qualche Ordine religioso, ma dal livello più alto della gerarchia. Non è un tema che interessa tutti i laici, non credenti o credenti di altre religioni?
L'8 novembre scorso monsignor Ravasi pubblicò il suo corsivo col titolo "Dare ombra alle parole". La citazione era tratta da un libro di Paul Celan, un poeta ebreo nato in Romania e morto suicida gettandosi nella Senna a Parigi nel 1970 dopo una tragica vita durante la quale era stato anche testimone dello sterminio della sua famiglia in un lager nazista.

La citazione è la seguente: "Parla anche tu / parla per ultimo / di' la tua sentenza. / Parla, ma non dividere il sì dal no. / Alla tua sentenza dà anche il senso. / Dalle ombra / dalle ombra sufficiente, / dagliene tanta".
Nel suo commento Ravasi ricorda, non a caso, quanto scrive l'evangelista Matteo (5,37): "Sia il vostro parlare: Sì, sì. No, no. Il di più viene dal Maligno". Ma Celan - prosegue Ravasi - "vuole colpire chi pronuncia sentenze definitive quasi fosse l'unico interprete autorizzato della verità, senza mai lasciarsi frenare da un'esitazione, asseverando senza l'ombra del dubbio". E continua "E' proprio l'esatto contrario della chiacchiera che non ammette spazi e interstizi, oppure dell'urlato che impedisce il dialogo".

Mi sono soffermato su quest'intervento di Ravasi perché mi sembra sia molto esplicativo, ma altri ne potrei citare dello stesso autore. Così un suo recente intervento sul "Corriere della Sera" che concerne il libro sapienziale dell'"Ecclesiaste", così anche una sua intervista con la "Stampa" sull'ingiusta sofferenza dei bimbi innocenti colpiti da devastanti malattie. E' il tema del "male ingiusto" che fu al centro d'uno dei pamphlet più significativi di Voltaire dopo il terremoto che distrusse Lisbona.
L'obiettivo di Ravasi è sempre il dialogo attraverso il quale si convince l'interlocutore o se ne è convinti, senza pregiudizi.

Ravasi si rende conto certamente di aprire in questo modo un percorso alquanto rischioso per un cattolico tradizionalista; un percorso che mette in discussione nientemeno che l'assolutezza della verità e può condurre al relativismo, alla verità relativa che nasce nella coscienza autonoma di ogni individuo e che, anche per un credente, conduce verso un rapporto diretto con Dio scavalcando l'intermediazione della gerarchia sacerdotale.
Del resto, non è stato Benedetto XVI a dichiarare nel suo recente viaggio in Germania che "Lutero crede in Dio più di noi"? Sant'Agostino contro San Tommaso, si potrebbe argomentare. E bisognerebbe diffondersi a lungo sulle differenze di pensiero e di fede tra quei due pilastri del pensiero cattolico. Che Ratzinger sia un agostiniano è noto. Lo era anche Pascal. La Chiesa del Ventunesimo secolo si sta dunque affacciando veramente su quella modernità che finora il Magistero aveva compattamente esorcizzato?

 
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