LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318269 volte)
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« Risposta #300 inserito:: Luglio 29, 2011, 06:03:28 pm »

Nella testa di Bossi

di Eugenio Scalfari

Ho provato a identificarmi con il capo della Lega. Per capire che cosa pensa davvero e dove vuole arrivare. È stata dura ma ci sono riuscito. Ecco il suo impietoso giudizio su Maroni e Calderoli. Mentre su Berlusconi...

(29 luglio 2011)

Umberto Bossi Umberto BossiChe cosa vuole esattamente la Lega? Che cosa pensa esattamente Umberto Bossi? Questo problema da tempo assilla gli analisti politici. Ma per capir bene un soggetto bisogna identificarsi con lui, uscire dalle proprie scarpe ed entrare nelle sue. Perciò ho tentato di mettere i miei piedi nelle scarpe del Senatur.

Debbo dire che per uno come me quest'operazione è piuttosto difficile. Il mio modo di pensare, la mia concezione del bene pubblico è completamente opposta alla sua. Ho seguito le tecniche raccomandate da Agostino in una pagina memorabile delle sue "Confessioni". Per identificarsi con il diverso bisogna anzitutto vuotarsi la mente sgombrandola dai pensieri e dalle costruzioni mentali che la abitano. Fissare un qualsiasi punto dello spazio che vi circonda, un oggetto, magari un chiodo piantato nel muro, un vaso, il dorso d'un libro, una natura morta, un numero. Fissare gli occhi sull'oggetto prescelto e non abbandonarlo per tutto il tempo necessario a scacciare ogni altro pensiero. Vuotare la mente. Anche i fachiri fanno così e così faceva Agostino per tentare di vedere la luce del Signore e godere della sua beatitudine.

Io ho fatto questo per capire che cosa passa nella mente di Bossi. Obiettivo assai più modesto di quello di Agostino ma, vi assicuro, altrettanto difficile anzi più difficile del suo. Ascendere alla beatitudine si accompagna infatti a un empito mistico; identificarsi con la testa di Bossi non può contare sulla mistica, è un penoso esercizio. Eppure credo d'esserci riuscito. Ci ho messo molte ore. Ho fissato senza mai distrarmi un'oliva che avevo poggiato sulla lastra di marmo della mia cucina. Come un Morandi con le sue bottiglie o un Cézanne con le sue mele. Tutto il resto dei miei pensieri è volato via. La mia mente si è svuotata salvo quell'oliva sul marmo.

A quel punto l'identificazione è avvenuta, io sono stato Bossi. Di Maroni non mi fido. Faceva il tastierista in un'orchestra jazz e di tanto in tanto lo fa ancora. Roba de matt. Si presenta a Pontida con uno striscione dei suoi aiutanti lungo 50 metri che lo propone come presidente del Consiglio. Maroni? Vota e fa votare i nostri parlamentari per l'arresto di Papa e sa che io non sono d'accordo. A Calderoli non voglio nemmeno pensare: è vanitoso, pensa in grande. Un leghista pensa in grande? La forza nostra è di pensare in piccolo e chi non l'ha capito è un imbecille: l'osteria, l'orto, l'officina, la scuola, l'ospedale, il Comune. Ma lui pensa in grande: la legge elettorale, la riforma della Costituzione. Ma ci pensi? Calderoli fa la riforma della Costituzione della Repubblica Italiana. Un leghista? E a me tocca poi sostenere queste cazzate per non fargli fare cattiva figura. Presenta la legge popolare per avere tre ministeri a Monza e poi finiscono con tre camere e cinque impiegati. Bersani dice che è stata una pagliacciata. Ha ragione. Il mio ritratto alle pareti insieme a Napolitano. A me ha fatto piacere ma la gente ci ride su e questo non mi piace affatto. Mi guardano male se vado in giro appoggiandomi al braccio di mio figlio. E a chi mi dovrei appoggiare? E' mio figlio e sa che cosa mi piace e che cosa no. Maroni non fuma il sigaro. Io non mi fido di chi non fuma il sigaro.

Neppure Berlusconi fuma il sigaro, di lui però mi fido: lui sa che non voglio prendergli il posto e io so che non verrà mai al posto mio. I miei mi preparano trappole, lui no. E i suoi ne preparano a lui, io no. E non è lui che non sa fare il suo mestiere ma i suoi consiglieri che lo fanno sbagliare così come i miei con me. Ma se lui continua a sopportarli e a sbagliare allora dovremo fare a meno di lui. Però quando questo avverrà i miei faranno a meno di me. Qualcuno ci ricorda che dovremmo pensare all'Italia. Per me l'Italia finisce a Bologna. E ci penso molto. Queste cose io le so, perciò non stacco nessuna spina.

A questo punto il mio telefono ha squillato e qualcuno ha risposto. L'identificazione è finita, ma io ho capito che avevo capito.

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« Risposta #301 inserito:: Luglio 31, 2011, 10:51:29 pm »

EDITORIALE

La bandiera nera di un governo in agonia

di EUGENIO SCALFARI


BISOGNA evitare che le banche italiane, solide e liquide, siano considerate una propaggine del nostro debito pubblico. Bisogna evitare che il nostro Paese conquisti sui mercati agli occhi degli investitori e delle forti mani della speculazione la palma della fragilità a causa di un quadro politico logorato dal suo maxi-debito pubblico e da una malattia ormai strutturale qual è quella della debole crescita.
 Queste parole i nostri lettori le conoscono ormai a memoria per averle lette infinite volte su queste pagine, ma quella qui sopra riportata è una citazione: le ha scritte ieri il direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, nell'articolo di fondo del suo giornale. È il giornale della Confindustria e Napoletano non è certo un giornalista di sinistra e tuttavia sono nette e impietose e altrettanto impietoso è il seguito dell'articolo. A nostro avviso sono l'esatta rappresentazione dello stato d'animo dei cosiddetti ceti moderati che ormai non esprimono più soltanto disagio ma una vera e propria disperazione.

Un'altra prova di quella disperazione ce la fornisce Sergio Romano in un articolo sul Corriere della Sera con il quale risponde alla lettera che Giulio Tremonti gli aveva indirizzato per giustificarsi sulla questione dell'appartamento a lui affittato dal suo amico e collaboratore Marco Milanese. Romano non è certo un bolscevico, ma l'asprezza del tono e il merito dei suoi giudizi nei confronti del ministro dell'Economia sono tali che Berlusconi l'avrebbe sicuramente ascritto alla genia del Comintern
se non fosse che il Cavaliere è animato da un vero e proprio odio verso il suo ministro che vorrebbe veder morto ma del quale non può disfarsi senza mettere a repentaglio il suo governo sempre più traballante.

Questo complicatissimo rapporto, politico e psicologico, tra il presidente del Consiglio e il suo superministro dell'Economia è un altro dei tanti nodi che costringono il nostro Paese ad una assoluta immobilità salvo i pochi provvedimenti che servono a mettere al riparo Berlusconi dalle sentenze della magistratura. Se cade Berlusconi cadrebbe anche Tremonti che dopo lo scandalo Milanese (che tende ad allargarsi giorno dopo giorno) non ha più alcuna "chance" di potergli succedere a Palazzo Chigi. Ma se cade Tremonti comincerebbe a sussultare l'intero edificio governativo. Perciò "simul stabunt, simul cadent" con gli effetti che questa convivenza forzosa proietta sul governo: un gruppo di naufraghi su una zattera senza timone né timoniere.

Il Paese deve affrontare un mare sempre più tempestoso in queste condizioni, dove ad una situazione economica obiettivamente difficilissima si affianca una crisi di credibilità che coinvolge con la stessa intensità il "premier" e il superministro, avvinghiati l'uno all'altro dall'odio e dall'istinto di sopravvivenza.

* * *

Ma perché le banche italiane, solide e solvibili come abbiamo più volte scritto, sono ritenute "propaggini del debito pubblico" e ne sopportano ogni giorno le conseguenze sui mercati finanziari? Al punto di registrare una capitalizzazione di Borsa che in situazioni normali stimolerebbe numerosi tentativi di Opa nei loro confronti?
Secondo stime ufficiali la percentuale dei titoli di Stato nel loro portafoglio e in quello di privati cittadini e imprese italiane affidabili raggiunge il 56 per cento mentre la percentuale dei titoli del nostro debito in mani straniere non supera il 44, un rapporto che dovrebbe evitare la qualifica di "propaggini".

Purtroppo però le cose non stanno propriamente così. Da un rapporto analitico della Morgan Stanley i titoli italiani in mano a istituzioni, banche e investitori stranieri ammontano a 790 miliardi contro 787 in mano a banche, imprese e investitori italiani. Il rapporto sarebbe dunque del 50 per cento. Ma, osserva la Morgan Stanley, se si aggiungono ai detentori stranieri anche i titoli intestati a italiani ma gestiti dall'estero, la quota "straniera" sale al 56 per cento del totale. Questa proporzione è del tutto anomala ed accresce il rischio che i fondi monetari e le banche d'affari internazionali vendano titoli italiani per alleggerire i portafogli e sostituirli con "asset" più affidabili. Sorge la domanda del perché l'affidabilità dei titoli italiani sia diminuita. Molto dipende dal nostro "spread" con il Bund tedesco che viaggia ormai dai primi di luglio intorno ai 300 punti-base e nelle ultime settimane si colloca al di sopra dei 330.

In più la situazione politica italiana è giudicata universalmente volatile, la credibilità del governo è minima, il tasso di interesse delle nostre emissioni è salito al 6 per cento e tale sarà in autunno quando il Tesoro dovrà emettere una massa notevole di titoli. In queste condizioni l'onere del debito pubblico a carico del Tesoro si è già mangiato un terzo della manovra appena votata dal Parlamento. La crescita è zero. Le previsioni della Confindustria parlano addirittura di un Pil negativo nel 2012.
Speriamo forse che i mercati dormano sonni tranquilli fino alla fine dell'anno?

* * *

È evidente che queste analisi tecniche e politiche che servono a spiegare le reazioni negativi dei mercati finanziari si intrecciano con la questione morale. Il declino della moralità pubblica è ormai un dato oggettivo, testimoniato dalle iniziative della magistratura inquirente e da quella giudicante. Coinvolgono il presidente del Consiglio, il ministro Romano, il deputato Papa, il deputato Milanese, il giudice Capaldo, l'ex capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza, Adinolfi. Lambiscono Giulio Tremonti. Investono anche l'ex capo della segreteria di Bersani, Filippo Penati. Le reazioni di Bersani e del Pd sono state molto ferme. Manca la sospensione di Penati dal partito. Abbiamo già scritto che a noi sembra necessaria e urgente. Ma sull'altro lato dello schieramento i comportamenti sono ben diversi e le iniziative legislative sono vergognose, tanto più perché rappresentano il solo soprassalto di vitalità di un governo morente. Processo lungo e prescrizione breve: questi sono gli scatti del governo. Sembrano gli ultimi segnali, più automatici che vitali, d'un corpo che si disfà. Il Presidente Napolitano è ben consapevole di quanto sta accadendo. Ha incontrato tutte le parti sociali firmatarie del documento che invoca "discontinuità". Ha incontrato i partiti di maggioranza e quelli di opposizione. Aspetta che anche Bossi si metta a rapporto. Ma il clima è estremamente pesante.

Enrico Berlinguer, nel luglio del 1981, descrisse la questione morale che stava erodendo lo Stato. Abbiamo rievocato giovedì scorso la sua intervista a "Repubblica" e il significato che ebbe allora la sua denuncia. Oggi tuttavia la condizione della moralità pubblica è molto più grave. Il malaffare di allora serviva a pilotare consensi ai partiti; quello di oggi serve invece a procurare benefici personali a chi inalbera la bandiera del Re. Ricordiamo ancora le parole della Minetti quando aspettava una candidatura al Parlamento che fu poi trasformata nella sua partecipazione al consiglio della Regione lombarda: "Potrei rendere gli stessi servizi a Lui e pagherebbe lo Stato".
Hanno privatizzato i benefici pubblicizzando la corruzione: questi sono i frutti avvelenati del berlusconismo. Nel contratto con gli italiani stipulato a "Porta a Porta" nel 2001 non erano previsti ma aveva già avvelenato le radici del partito azienda dalle quali è nata la Seconda Repubblica.

L'intreccio è dunque perverso: questione morale, questione politica, errori e manchevolezze d'una manovra finanziaria che ha il solo effetto di comprimere il potere d'acquisto del ceto medio-basso, penalizzando consumi e investimenti. In realtà l'anomala accoppiata Berlusconi-Tremonti dovrebbe andarsene a casa lasciando al Capo dello Stato il peso delle necessarie decisioni. Ogni indugio aumenta il costo che peserà sulle spalle degli italiani.
 

(31 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #302 inserito:: Agosto 04, 2011, 10:04:31 am »

L'ANALISI

Il cavaliere e i mercati tra Scilla e Cariddi

di EUGENIO SCALFARI



IL TOPOLINO partorito dalla montagna è estremamente gracile: sette miliardi e mezzo fuoriusciti dal Fas, il salvadanaio che avrebbe dovuto sostenere le Regioni meridionali e che è stato più volte manomesso e ridotto al lumicino dal ministro dell'Economia.

Con sette miliardi e mezzo non si va lontano, tanto più che ci vorranno parecchi mesi per aprire i cantieri e assumere la manodopera necessaria. Ma ciò che rende grottesca questa trovata, la sola che ha dato un minimo di concretezza a quel discorso, è l'elenco delle opere e la loro tempistica.

Nell'elenco appare niente meno che il completamento dell'autostrada e della ferrovia nel tratto Napoli-Salerno-Reggio. Sono trent'anni che se ne parla e ogni volta i governi l'hanno dato per fatto ma è ancora lì.

Un Parlamento serio avrebbe dovuto seppellire con un'omerica risata quest'opera pubblica ballerina. E un'altra nello stesso elenco, da Bari a Napoli. Il presidente del Consiglio, presentando il topino, ha ricordato che quelle opere erano già state proposte dal governo alla Fiera di Bari dell'anno scorso. Fino a ieri erano finite non si sa in quale cassetto di Palazzo Chigi.

Ho dedicato l'inizio di questo commento al discorso di Berlusconi agli investimenti che dovrebbero rilanciare la crescita perché si tratta della sola proposta che abbia un minimo di concretezza. Mentre i mercati giocano ogni giorno con i debiti sovrani europei e in particolare con quello italiano, il nostro governo offre questa soluzione.
Grottesca, ridicola. Ricordo che Paolo Sylos Labini, quando già si parlava della Napoli-Salerno-Reggio, trent'anni fa disse: "Se sento ancora parlare di quell'autostrada metto mano alla pistola". Aveva perfettamente ragione.


I veri temi sui quali aspettavamo Berlusconi erano tre: il debito, la crescita e la fiducia dei mercati. Il presidente del Consiglio li ha elusi tutti.

La prima metà del discorso aveva l'andamento d'una relazione della Banca d'Italia: il problema del "default" americano scongiurato "in limine", il pericolo d'una nuova recessione che parta dagli Usa e si propaghi, l'intervento dell'Europa sul debito greco e sull'intera scacchiera dell'Eurozona. Grande "aplomb", una rapida ma informata sintesi della situazione dell'economia reale nell'Occidente opulento ma bloccato da un calo generale e drammatico della domanda.Non so chi gliel'ha scritto, ma sembrava d'ascoltare uno di quei dotti sermoni che vanno in scena in via Nazionale ogni 31 di maggio.

Quelle relazioni però, dopo la rassegna dei fatti, affrontano quello che è avvenuto in casa nostra, le cose ben fatte e quelle sbagliate, le omissioni, i ritardi, le confraternite del potere chiamate per nome e cognome.
Insomma un'altissima lezione di politica economica e di etica pubblica, un freno agli appetiti e una frustata alla pigrizia.

Nulla di simile nei trenta minuti dell'orazione berlusconiana. Abbiamo sentito ripetere per l'ennesima volta che tutto va bene, che i "fondamentali" sono solidissimi, che il risparmio delle famiglie è una risorsa che nessuno degli altri paesi possiede quanto noi, che le imprese girano a pieno ritmo e che i mercati, chissà perché, non vedono tutte queste meraviglie.

"I mercati" ha detto il premier "sono nervosi, vorrebbero tutto subito. Bisogna convincerli che c'è bisogno di tempo". Faceva uno strano effetto ascoltare quelle parole. Suggerivano l'idea che nei prossimi giorni Berlusconi faccia un giro delle Borse europee e dei "bureau" delle maggiori banche d'affari per convincere gli operatori a investire nei buoni del Tesoro e le imprese a sbarcare in Italia, auspica il nuovo Statuto dei lavori che il ministro Sacconi sta preparando per mettere definitivamente la mordacchia ai lavoratori italiani.

Ma nella terza parte del suo discorso il premier ha dato il meglio di sé. Ha ricordato, tra gli applausi della maggioranza, che lui è proprietario di tre aziende quotate in Borsa e dunque se ne intende. Ha fatto propri gli appelli di Napolitano alla coesione sociale e politica. Infine ha aperto all'opposizione affinché confronti i suoi programmi con quelli del governo. "Se quelle loro proposte saranno orientate verso il bene dell'Italia noi le accoglieremo".

Da quando è al potere non è mai accaduto per una assai semplice ragione: il bene dell'Italia sta tutto nei programmi del governo; se l'opposizione vorrà aggiungere i suoi voti, lui ne sarà molto contento.

La risposta di Bersani a nome dell'opposizione è stata centrata sul debito, sulla produttività, sulla crescita; cioè su quello che mancava totalmente nella relazione del premier. Con l'offerta pubblica di una maggioranza di tutte le forze parlamentari per fronteggiare l'emergenza della crisi e con un nuovo capo del governo designato dal presidente della Repubblica.

La proposta è sensata ma l'interlocutore non lo è. Gli si chiede un passo indietro che non farà mai perché degli interessi del paese se ne infischia e pensa unicamente ai suoi come l'esperienza pluridecennale ci insegna.

Mi auguro con tutto il cuore che i mercati di oggi e dei prossimi giorni siano sedotti dalla comunicativa berlusconiana e si mettano ventre a terra a comprare titoli di Stato e azioni delle nostre banche. Ma se non dovesse accadere che cosa si fa? Si va avanti con l'autostrada Napoli-Salerno-Reggio? Attenzione, perché alla fine di quell'autostrada ci sono Scilla e Cariddi che ingoiano l'acqua del mare e tutte le barche che navigano nei pressi delle loro fauci. Solo Odisseo scampò, ma era protetto da Atena, la dea dell'Intelligenza, con la quale non mi sembra che il nostro premier abbia rapporti cordiali.

(04 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #303 inserito:: Agosto 07, 2011, 12:22:38 pm »

L'EDITORIALE

La polmonite americana e gli zombie italiani

di EUGENIO SCALFARI

LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un'altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l'agenzia di rating Standard & Poor's ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.

Non si era mai visto prima d'ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C'è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell'ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull'Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l'America ha il raffreddore  -  si diceva un tempo  -  in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l'ha l'America, che cosa può accadere qui?

                                                                       * * *

In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l'uno all'altro dietro quel tavolo, con l'aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.

Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l'Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell'attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall'altra dell'Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d'un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. "Tremonti vi spiegherà i dettagli" così aveva concluso dopo dieci minuti.

Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l'ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell'improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.

Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: "Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto".

Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.

                                                                    * * *

La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo "spread" a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall'Europa d'intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.

Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall'altra. Soprattutto quest'ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l'Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.

Del resto è ormai ufficiale che l'atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell'economia reale.

Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d'un centimetro dal rovinoso immobilismo d'una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell'Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il "boss"; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.

Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. "È passato un mese e il mondo è completamente cambiato" ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n'erano ancora accorti. Meno male che - non potendo dimissionarli - li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.

                                                                * * *

Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell'articolo 41 e quella dell'articolo 81.

Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d'un potente incoraggiamento all'illegalità è dir poco.

Quanto all'articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile "salvo specifiche condizioni di emergenza" (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c'è un'altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.

Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.
Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell'opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l'iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l'effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?

                                                           * * *

Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l'obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l'orologio).

La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d'un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest'esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.

La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un'unica visione. L'esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l'immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.

Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?

In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall'equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell'assistenza, l'equità scompare. Dunque colpire solo l'assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all'abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.

Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda "tranche" della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?

Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.

                                                                 * * *

Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?

Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.

Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.

Infatti i nostri "lord protettori" hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d'acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l'Irpef dei redditi medio-bassi e l'Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l'evasione, generalizzando lo scarico dell'Iva in tutti i passaggi. L'articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.

Si cresce tassando il patrimonio non con un "una tantum" ma con un sistema fiscale adeguato.
Non illudetevi che sia sufficiente l'intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.

La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l'altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all'incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l'Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d'Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?

Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.

(07 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #304 inserito:: Agosto 14, 2011, 11:04:33 am »

L'EDITORALE

Pagano sempre i soliti noti

di EUGENIO SCALFARI


Sintesi della manovra per Berlusconi: "Il mio cuore gronda sangue, ma ho dovuto farlo per il bene del Paese".

Sintesi della manovra per Tremonti: "La mia coscienza è tranquilla perché ho operato per il bene del Paese".

Sintesi della manovra per noi commentatori cattivi secondo il ministro Sacconi: "È una tardiva e inutile schifezza".

Queste sono le sintesi, ma ora andiamo alle analisi. Questo decreto-manovra che modifica dopo appena due settimane il decreto approvato in tre giorni dal Parlamento, rappresenta il combinato disposto d'un asprissimo conflitto tra Berlusconi e Tremonti nel corso del quale l'uno e l'altro si sono paralizzati a vicenda. Il primo aveva come sponda e come scusante Mario Draghi e la Bce, il secondo combatteva da solo e con un braccio legato da una catastrofe incombente da lui non prevista.

Berlusconi avrebbe voluto aumentare l'Iva di uno o due punti, Tremonti gliel'ha impedito dimostrandogli che il gettito sarebbe stato insufficiente e il rischio di inflazione elevato.

Tremonti voleva un'imposta di scopo sulla ricchezza, analoga a quella che fu varata da Prodi per l'entrata nell'euro. Berlusconi gliel'ha impedito. Berlusconi voleva sbloccare 15 miliardi che i concessionari di beni pubblici erano in grado di mobilitare subito per investimenti in infrastrutture a cominciare dalle autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Tremonti gliel'ha impedito.
 
Tremonti voleva tassare la prima casa. Berlusconi gliel'ha impedito. Bossi, terzo incomodo, non voleva che fossero manomesse le pensioni d'anzianità. In parte c'è riuscito ed ora ne mena vanto.

Il decreto esce oggi in "Gazzetta Ufficiale" ed è il risultato di questa singolarissima collaborazione tra il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia. Una collaborazione perversa che non è mai avvenuta in nessun Paese del mondo dove, quando si manifestano dissidi e versioni così contrapposte uno dei due contendenti (di solito il ministro) rassegna le dimissioni. Da noi no, dimettersi non si usa, c'è sempre uno Scilipoti a tenerli a galla.

Domani in tutto il mondo riaprono i mercati perché il ferragosto è una vacanza solo italiana. Noi commentatori cattivi speriamo di tutto cuore che questo aborto di manovra sia preso sul serio a Francoforte, a Parigi, a Londra, a Wall Street. Ma se così non sarà, saranno guai terribilmente seri.

                                                            * * *

C'è stato un preludio alla manovra-schifezza. Il ministro dell'Economia era profondamente offeso da come i giornali della famiglia regnante (ma non solo loro) l'avevano trattato. E ancor più offeso dal fatto che il presidente del Consiglio aveva pubblicamente assunto come sua guida il governatore Draghi che lui vive come un trave in un occhio. Chiese perciò, a tutela della sua reputazione, l'immediata nomina di Vittorio Grilli, attuale direttore generale del Tesoro e suo fidato seguace, a governatore della Banca d'Italia. Berlusconi chiamò Letta e l'incaricò di darsi da fare: voleva evitare che Tremonti si dimettesse in uno dei suoi sempre più frequenti attacchi di rabbia.

Letta non trovò di meglio che chiedere l'aiuto di Bersani, ma aveva scelto molto male l'eventuale aiutante o forse l'aveva scelto benissimo. Bersani fece quello che onestamente riteneva giusto: informò Napolitano di quanto gli veniva chiesto. La nomina del governatore è un atto complesso e il presidente della Repubblica ne è uno degli attori principali. Perciò dal Quirinale avvertirono Letta che una richiesta del genere in un momento così agitato sarebbe stata respinta. Come preludio alla manovra non c'è male.

Ma ci fu anche un altro preludio, passato quasi sotto silenzio benché gravido di presagi: la Banca d'Italia diramò venerdì la notizia che il nostro debito sovrano aveva toccato la sua punta massima, pari a 1.900 miliardi, un rapporto del 120 per cento rispetto al Pil valutato per quest'anno all'1,1. Se il Pil dovesse ulteriormente scendere come probabilmente avverrà, quel rapporto sarà ancor più elevato.

                                                                * * *

Di buono nel decreto-schifezza c'è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l'abolizione d'una trentina di Provincie e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui "indotti". E l'accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi.

Era un progetto da tempo allo studio, dall'epoca del governo Prodi del '96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell'emergenza. Si tratta d'una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli. A sentirlo ieri nella conferenza stampa con Tremonti e Sacconi, sembrava uno statista al punto da farci dimenticare il ministro che disse d'aver abolito 476mila leggi semplificando lo Stato. Di quella semplificazione nessuno si è accorto, nessun cittadino, nessun contribuente, nessun utente e nessuna istituzione. Il ministro che ieri parlava da statista ha avuto la dabbenaggine di ricordarcelo. Dia retta: non ne parli mai più, consideriamolo un videogame e cerchiamo di scordarci tutti di quella pagliacciata.

Una parola viene qui acconcia a proposito del ministro Sacconi il quale durante la conferenza stampa di ieri ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché postergarla l'età dei pensionati. Mancava però il contesto in cui quell'attacco andava collocato. Prodi si era trovato di fronte allo "scalone" di Maroni e l'aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.

Egregio ministro, lei appartiene ad un governo di cui c'è solo da vergognarsi. Ma noi, commentatori cattivi, cerchiamo di collocare nel contesto perfino lei. Pensi dove arriva la nostra pietà cristiana e cerchi  -  se può  -  di fare altrettanto.

                                                                 * * *

La manovra-schifezza per anticipare il pareggio del bilancio ha bisogno di almeno 20 miliardi subito e li ha trovati in questo modo: 8 miliardi e mezzo di tagli ai ministeri nel biennio 2011-12; 10 miliardi e mezzo di tagli a enti locali e Regioni; 1 miliardo dalle rendite tassate al 20 per cento, un altro miliardo dal contributo dei redditi oltre i 90mila e i 150mila euro. Il totale fa 21 miliardi, dei quali 19 da ministeri ed enti locali. Questi ultimi significano semplicemente altre tasse locali e/o azzeramento dei servizi.

Non parliamo della macelleria sociale, per altro notevole; parliamo del fatto che, dopo questi 21 miliardi ne restano ancora da reperire 27 per arrivare al totale dell'operazione. Dove andarli a cercare? La risposta c'è: nella delega assistenziale, nello sfoltimento delle detrazioni, nelle pensioni di invalidità, di reversibilità, nei costi della Sanità.

Tutto spremuto e ridotto all'osso si arriva sì e no a 7-8 miliardi. Ne restano altri 20, sui quali c'è il buio assoluto.
Schifezza perché pagano solo i meno abbienti e i soliti noti. Insufficienza perché questa schifezza non basta. E infine non c'è assolutamente niente che finanzi provvedimenti di crescita. Il Tremonti della conferenza stampa rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto: "Io sto alle previsioni dell'Istat: il Pil crescerà quest'anno dell'1,1 per cento. Le liberalizzazioni che faremo potranno aumentare questa cifra dello 0,1 nel breve periodo. E poi la crescita non dipende da noi ma dall'America e dall'Europa".

Questa è l'analisi della manovra.

                                                                  * * *

La sorpresa di ieri è il contropiano di Bersani. Fatti salvi i suoi giudizi politici su un governo irresponsabile, sugli errori macroscopici di previsione, sul mancato ascolto di quanto da molti mesi propongono le opposizioni e le parti sociali, giudizi sui quali coincidono quelli dei cattivi commentatori, il contropiano si articola così:

1) prelievo "una tantum" sui capitali illecitamente esportati e poi rientrati in Italia con uno scudo fiscale ottenuto pagando soltanto il 5 per cento dell'ammontare. Negli altri paesi europei che fecero analoghe operazioni il prelievo fu mediamente del 30 per cento. Il Pd propone ora una tassa del 20 per cento che frutterebbe all'erario 15 miliardi.

2) Una lotta all'evasione seguendo lo schema che fruttò, quando Visco era ministro delle Finanze, 30 miliardi in un anno, basati sulla tracciabilità dei pagamenti e sull'elenco dei fornitori.

3) Una descrizione del patrimonio da effettuare ogni anno come allegato alla dichiarazione dei redditi.

4) Un'imposta ordinaria sui cespiti immobiliari ai valori di mercato, con ampie esenzioni sociali e inglobando le imposte comunali relative agli immobili.

5) Dimezzamento dei parlamentari dalla prossima legislatura.

Questi sono solo alcuni dei punti ai quali si affiancano liberalizzazioni negli ordini professionali, della Rc auto, dei mutui e dei conti correnti bancari, dei servizi pubblici locali (acqua esclusa) nonché la separazione della Rete gas dalla Snam.

Il pacchetto poggia interamente sul presupposto che debbano esser messi a contributo i ricchi e gli evasori e non le famiglie, i lavoratori e le imprese che sono già oberati oltre misura.

                                                                 * * *

Sarà interessante assistere al confronto tra queste due filosofie. Berlusconi ha fatto molte aperture all'opposizione. È la prima volta. Se accettasse di ritassare i "patrimoni-scudati" sarebbe una vera bomba.

L'accetterebbe anche Tremonti? E come l'accoglierebbero i mercati?

Maledetti benedetti mercati. Avete svegliato i dormenti, ridato l'udito ai sordi e la vista ai ciechi. Ma purtroppo non possedete la magia di evitare la recessione ed è questa la vera minaccia che grava su tutto l'Occidente e non solo.

Sta calando la domanda globale e il rigore che i mercati pretendono aggraverà quel calo. Della crescita questo governo se ne infischia. A noi sanguina il cuore. A Sacconi no, lui sogna di poter mandare la Camusso in galera e solo allora si addormenterebbe in pace nella convinzione d'aver operato per il bene del paese. 

(14 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #305 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:08:46 pm »

I veri nemici del Cav.

di Eugenio Scalfari

A lui della Merkel, di Sarkozy e di Trichet non può importare di meno.
Anzi, è ben contento che siano loro a prendersi la responsabilità della stangata.
Quelli che davvero lo fanno soffrire, quest'estate, sono l'ex moglie Veronica e l'odiato Carlo De Benedetti.
Più i soliti tribunali, naturalmente...

(16 agosto 2011)

A villa Certosa si gode una splendida vista, il mare trascolora dal verde-acqua all'azzurro-cielo, sulla sinistra il promontorio di Romazzino e i golfi di Porto Cervo, sulla destra le ville di Porto Rotondo. Il giardino E' magnifico, piante rare, aiole fiorite e aiole selvagge, fontane, padiglioni, orti ornamentali. sulla sfondo le colline rocciose di San Pantaleo e le sabbie di San Teodoro.

Lui però guarda poco il paesaggio, se potesse cambiare aria comprerebbe una villetta sulle colline di Saint Tropez. Ma in questi giorni il suo problema è un altro: l'hanno commissariato. Ma chi? Chi ha avuto tanta forza e tanto coraggio da metterlo al guinzaglio? La risposta sembrerebbe nei fatti, nelle agenzie di stampa e negli articoli dei giornali: i commissari sarebbero stati la cancelliera Angela Merkel, il presidente Nicolas Sarkozy e il supergovernatore della Banca centrale europa, Jean-Claude Trichet. Lui che poteva fare? I mercati di tutto il mondo erano in tempesta e quello italiano in particolare. Quei tre gli hanno garantito il salvataggio purché lui smettesse di crear guai e si ritirasse in buon ordine e lui ha accettato per forza maggiore. E così che sono andate le cose?

No, non è affatto così. Le cose sono andate diversamente. Vista la tempesta sui mercati, alimentata contro di lui da Bersani, Di Pietro e Rutelli sostenuti da Comunione e liberazione di Formigoni, lui ha chiamato in teleconferenza la sera di giovedì 5 agosto i tre di Berlino, Parigi e Francoforte e senza tanti convenevoli gli ha imposto la sua volontà: "Dovete intervenire subito altrimenti andremo tutti a fondo e i comunisti si impossesseranno di palazzo Letta. Per loro sarà una passeggiata. Ma se voi vi muovete questa scelleratezza non riuscirà. Voglio che Trichet stampi 400 miliardi, hai capito bene? 400 miliardi e li scaraventi sul mercato italiano. Della Spagna me ne frego, fate un po' voi. Quanto a me, mi ritirerò per qualche giorno a Villa Certosa e per non darvi nessuna preoccupazione andrò qualche giorno più tardi al San Raffaele perché mi sono sbucciato il calcagno destro scendendo le scale e mi debbono fare un piccolo intervento plastico che impone assoluta immobilità. Vi raccomando il rigore. E niente mani nelle tasche degli italiani, a cominciare da quelle di Verdini. La macelleria sociale no, non la voglio, perciò niente prelievi sulle rendite. Se dovete proprio tagliare fatelo sulle pensioni, sugli invalidi, sugli statali e sui precari. Brunetta resterà a Roma per darvi i necessari consigli. Buon lavoro".

Ma "perché queste cose non le fai tu?", ha obiettato la Merkel: "Angela, sei matta? Sono provvedimenti impopolari, ma per voi che siete stranieri sono a costo zero. E poi i 400 miliardi è Trichet che li deve stampare, sta lì per questo e per questo lo paghiamo". Le cose dunque sono andate così. Altro che commissariato, è lui che ha commissariato quei tre. E tuttavia lui è triste, è solo ed è stato veramente commissariato. Ma da chi?
Nessuno se ne è accorto, nessuno ci ha pensato salvo sua figlia Marina, l'unica che gli vuole veramente bene. L'ha commissariato Carlo De Benedetti in combutta con Murdoch che si vuole rifare in Italia delle sberle che ha preso in Inghilterra e con l'appoggio del Tribunale Civile e della Corte d'Appello di Milano.
L'hanno spogliato, non ha più un soldo in cassa, ora gli vogliono strappare anche la Mondadori e l'Einaudi e lanceranno un'Opa su Mediaset. Si sono impadroniti di Mediobanca e gli hanno tagliato i rifornimenti. A lui hanno imposto il pagamento immediato di 560 milioni in contanti. "Se non paghi ti mandiamo in galera", gli hanno mandato a dire da un messaggero. Chi era il messaggero non ci si crederebbe: la sua ex moglie Veronica. E' lei che l'ha avvisato. Per il suo bene, ha detto. Ma intanto lo ha anche informato che vuole metà del patrimonio, metà. Il Tribunale naturalmente è con lei.
De Benedetti, Murdoch, Veronica, i magistrati; Dell'Utri non gli parla da sei mesi. Questa è la situazione. I mercati? Ma chi se ne frega dei mercati.

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« Risposta #306 inserito:: Agosto 28, 2011, 10:19:04 am »

L'EDITORIALE

La missione impossibile di costruire l'Europa

di EUGENIO SCALFARI


Potrà salvarsi l'Europa? Potrà trovare una sua vocazione, una sua missione da compiere e avere la forza per realizzarla? Molte voci si sono cimentate nei giorni scorsi con questo problema che è capitale per tanti aspetti politici, economici e soprattutto esistenziali. Alcune di quelle voci credono che questa "mission impossible" sia possibile, altre temono di no, temono d'una partita persa in partenza e che l'Europa sia ormai un corpo inerte, ripiegato sui suoi egoismi, sulle sue piccole patrie che la condannano all'irrilevanza.

Viene in mente quello che fu il destino delle città greche ai tempi di Alessandro il Grande. Atene, Sparta, Tebe, Corinto erano state grandi, avevano costellato di colonie le coste del Mediterraneo, avevano sconfitto i persiani di Ciro e di Serse ma poi si erano dilaniate in feroci guerre tra loro. Quando Alessandro concepì il suo sogno d'un impero che arrivasse fino al Caspio e all'Indo, cercò di riportare la Grecia all'antico splendore guidandola e associandola alla sua visione, ma non riuscì, le città greche rifiutarono la sua proposta e non riuscirono a scuotersi dalla loro irrilevanza politica. Alessandro partì senza di loro alla conquista delle "terre di mezzo".

Dalla sua impresa nacque l'ellenismo che fu il tramite prezioso tra la cultura greca e quella romana. L'ellenismo contribuì fortemente alla nascita della civiltà europea, ma la Grecia non è più uscita dalla sua irrilevanza. Sarà questo il destino dell'Europa di oggi?

Il nostro continente è ancora molto ricco e popolato, possiede una cultura affinata durante i secoli, ha elaborato valori di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e non ha smarrito il gusto dell'innovazione. Sembra però avere smarrito il desiderio e senza il desiderio le missioni impossibili restano tali.

* * *

Tra le voci autorevoli che si sono poste in questi giorni il tema dell'Europa, ce ne sono state due di particolare rilievo: quella di Giorgio Napolitano nel suo recente discorso al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione e quella di Romano Prodi in alcuni articoli e proposte sull'assetto delle istituzioni dell'Unione.

Napolitano ha battuto molto sul tasto del desiderio. Ne cito qui il passaggio più rilevante: "È certamente vero che nel determinare il benessere delle persone gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme ad essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana. È a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni potranno, in Italia e in Europa, progredire rispetto alla generazione dei padri. La risposta è che esse debbono progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il "motore del desiderio"".

Nella sua conclusione Napolitano ha esortato i giovani ai quali si rivolgeva: "Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni: chiusure, arroccamenti, faziosità, obiettivi di potere, personalismi dilaganti. Apritevi all'incontro con interlocutori rappresentativi di altre e diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell'incertezza, il vostro anelito di certezza".

La platea lo ha lungamente applaudito, ma mi domando se quei giovani avessero ben compreso il senso delle sue parole. La loro certezza è il dato che più caratterizza Comunione e Liberazione ma è uno stato d'animo identitario, deriva dallo "stare insieme". Stare insieme in una comunità che non sembra disposta ad aprirsi all'incontro con "portatori di altre e diverse radici culturali" né ad opporsi a "chiusure, obiettivi di potere, personalismi dilaganti".

Sarebbe importante che le esortazioni di Napolitano fossero realmente condivise e il "motore del desiderio" si riaccendesse, in Italia e in Europa. Ma che cos'è esattamente il "motore del desiderio"? Ecco un punto che merita attenzione e approfondimento.

* * *

La nostra - scrisse Hegel nella sua "Fenomenologia dello spirito" - è una specie desiderante. Desidera di desiderare cioè desidera di trascendersi, di superarsi. Non di superare gli altri, ma di superare se stessi. Questo è il lascito che ci ha consegnato la modernità: superare noi stessi, non aggrapparsi alla sicurezza identitaria.
Purtroppo in Italia e in Europa lo spirito oggi prevalente è invece quello di aggrapparsi alle proprie identità. La Germania ne è l'espressione più evidente ma non la sola. Le istituzioni europee non riescono a compiere quel superamento di se stesse indispensabile per la nascita d'una grande potenza che sia in grado di coniugare un vero governo dell'Unione con un Parlamento democratico eletto direttamente dai popoli europei.

Romano Prodi ha proposto una soluzione apparentemente tecnica, ma piena di contenuti politici: l'emissione di eurobond garantiti dalle riserve auree degli Stati membri e dalle loro partecipazioni azionarie, per raccogliere fino a 3.000 milioni di euro sui mercati internazionali assorbendo una parte dei debiti sovrani e finanziando investimenti di dimensioni europee. Al di là delle tecniche finanziarie l'obiettivo è dare consistenza economica ai poteri del Parlamento e di un governo democratico dell'Unione.

Ricordate come nacque la "governance" degli Stati Uniti? All'inizio era una confederazione di Stati sovrani, con poteri federali molto ristretti. Ma quello fu un seme che fruttificò. Era nato da una guerra di indipendenza. Poi fu necessaria una guerra di secessione. E poi ebbe inizio una lunga lotta per l'affermazione dei diritti eguali per tutti. Così, passo dopo passo, il governo federale acquistò poteri sempre più estesi e rese possibile l'assorbimento dell'immigrazione. La prima potenza democratica del mondo è nata infatti dal "melting" d'una quantità di minoranze anglosassoni, irlandesi, italiane, africane, messicane, portoricane, ebree, russe, cinesi.
Così è nata la nazione americana e questa è l'America, vitale perché sempre in cerca d'una nuova frontiera, d'un sogno da realizzare, d'una missione da adempiere.

L'Europa ha svolto ben prima dell'America analoghe missioni, ma non come potenza continentale. Furono le singole nazioni a creare i loro imperi, ma in perenne guerra tra loro: Spagna, Francia, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Austria, Germania. Imperi, guerre, interessi e anche valori.

Tornano in mente ancora una volta le città greche, il loro grande destino e poi la loro finale irrilevanza. Avevano almeno una lingua comune. Noi non abbiamo neppure quella e non è certo una piccola differenza.

E tuttavia il salto in avanti è possibile. Paradossalmente la crisi economica attuale può esserne l'occasione. La guerra e la pace in Libia può esserne l'occasione. Le rivoluzioni giovanili nella fascia mediterranea possono esserne l'occasione.

Dobbiamo abbattere il muro che ancora esiste tra il Nord e il Sud del continente dopo il crollo di quello tra l'Est e l'Ovest. Dobbiamo fare dell'euro una grande moneta mondiale, sorretta da interessi ma anche dai valori di libertà, eguaglianza, democrazia. Dobbiamo insomma riaccendere il "motore del desiderio".

Post scriptum. Nel Partito democratico alcuni dirigenti (ma non il segretario Bersani) vedono con sfavore lo sciopero generale proclamato dalla Cgil contro il decreto-manovra in discussione in Parlamento. Non è il momento, dicono, esortando la Cgil a ripensarci. È incomprensibile la ragione di tali critiche. La Cgil è un sindacato. Come tale non gli spetta, né ha l'intenzione, di proporre una contro-manovra. Nel decreto sono tuttavia presenti alcuni articoli, proposti dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che mettono in discussione diritti dei lavoratori considerati irrinunciabili dalla Cgil. Lo sciopero è il solo strumento del quale un sindacato dispone e legittimamente ha deciso di usarlo. Proporre una contro-manovra è compito dei partiti d'opposizione, scioperare in difesa di diritti lesi è compito del sindacato e delle sue autonome deliberazioni. E questo è tutto.
 

(28 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #307 inserito:: Settembre 02, 2011, 06:07:24 pm »

Oggi l'Europa si avvicina rapidamente verso l'irrilevanza.

Come accadde alla Grecia, divisa in tante città-Stato, dopo i successi del condottiero macedone che creò un impero senza confini

(25 agosto 2011)

L'Europa si avvia rapidamente verso l'irrilevanza. Lo pensano in molti, domenica scorsa l'ha scritto Romano Prodi sul "Messaggero": il direttorio franco-tedesco ha perso da tempo il contatto con la realtà ed esercita una leadership nel vuoto, gli altri paesi vanno ognuno per proprio conto assediati dai loro popoli sovrani e dai loro debiti altrettanto sovrani.

Un illustre storico di cui sono amico, parlando di questa situazione ha rievocato un precedente molto significativo: quello delle città greche ai tempi di Alessandro. Abbiamo parlato a lungo di quel tema ed è stata una serata molto interessante.
Alessandro, a differenza di suo padre Filippo, aveva grande rispetto e quasi una venerazione per le città che avevano fatto la storia della Grecia, Atene, Tebe, Sparta, Corinto. La lingua, la filosofia, la tragedia, i santuari degli dèi, i miti. E le guerre. Quelle nazionali contro il nemico persiano e quelle tra di loro per la conquista dell'egemonia.
Rispetto e venerazione per quel passato glorioso aveva Alessandro e una speciale devozione verso la figura di Achille, l'eroe per definizione, morto a Troia combattendo la mitica guerra dalla quale ebbe inizio la potenza degli Achei.

Tutto questo era finito nell'irrilevanza, ma Alessandro non disperava di guidare una sorta di rinascimento di quella cultura e di quella potenza ed imporlo al resto del mondo fino al Caspio e all'Indo. Propose alle città greche di confederarsi, di mobilitare un esercito che insieme a quello macedone desse inizio alla più memorabile delle imprese.
La risposta fu negativa. Una sorta di patto consultivo tra le città esisteva ma era puramente formale. Ciascuna continuava ad avere una propria storia, un proprio governo, i propri riti e la propria autonomia. La lingua era la medesima, le Olimpiadi erano comuni e comuni i grandi santuari. Ma la politica era scomparsa perché le città erano diventate irrilevanti e quindi la Grecia nel suo complesso scivolava verso un rapido declino.
Fornirono ad Alessandro un piccolo contingente di guerrieri che però tornò indietro dopo le prime difficoltà militari. Alessandro iniziò da solo la sua marcia, distrusse l'impero dei Medi, conquistò le terre di mezzo e poi l'Egitto e la Libia. Morì giovanissimo ma da quella favolosa cavalcata nacque l'ellenismo, tramite prezioso che tramandò la cultura greca dalla quale è nato l'Occidente. La Grecia è rimasta da allora e per sempre irrilevante, ma la sua lingua fu quella dei romani colti e le sue accademie gli incunaboli culturali dell'impero dei Cesari.
"Secondo te", chiesi al mio amico, "l'Europa attuale si trova nelle stesse condizioni delle città greche dei tempi di Alessandro?". "Molto peggio", mi ha risposto. "Come irrilevanza rispetto al mondo che la circonda l'Europa si trova allo stesso livello delle città greche, ma le lingue dei paesi europei sono profondamente diverse una dall'altra e così pure le radici culturali e persino quelle religiose".

Era difficile dargli torto. Dobbiamo continuare a sperare che questo vuoto europeo possa essere recuperato in un arco ragionevole di anni oppure esser consapevoli che il ruolo dell'Europa come l'abbiamo conosciuta si avvia ormai alla fine del suo cammino?
Mio padre, quando si prospettavano inevitabili declini, commentava a titolo consolatorio: "E' caduto l'Impero romano...". Appunto. Forse è arrivato il momento di sperare nei barbari, come ci ha invitato a fare Alessandro Baricco.

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« Risposta #308 inserito:: Settembre 04, 2011, 05:15:22 pm »

L'EDITORIALE

La tela di Penelope d'un governo squalificato

di EUGENIO SCALFARI

I MERCATI non gradiscono. Nella seconda metà d'agosto, con gran parte degli operatori in vacanza, hanno accennato una ripresina. Adesso siamo di nuovo in piena turbolenza. Si muovono tutti insieme, da Tokyo e Seul alle piazze europee e a Wall Street. Ballano i titoli azionari e in particolare quelli bancari, ballano in Europa gli "spread" tra i debiti sovrani non affidabili e il "Bund" tedesco, ballano i tassi d'interesse e le quotazioni delle materie prime e dei beni-rifugio. La fiducia dei consumatori e dei risparmiatori nei confronti dei rispettivi governi è in caduta libera. I governi dal canto loro ce la mettono tutta per farsi sfiduciare e il nostro in questa poco commendevole gara è di gran lunga in testa. Forse conviene cominciare proprio da questo punto, cioè dal cortile di casa nostra che si è da tempo trasformato in una discarica d'immondizia i cui rifiuti si accumulano senza la minima prospettiva che possano sparire.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, parlando ieri mattina in videoconferenza al "meeting Ambrosetti" di Cernobbio e rispondendo ad alcune osservazioni critiche del presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, ha chiarito senza peli sulla lingua la natura degli errori compiuti dai governi italiani negli ultimi dieci anni; per l'esattezza dal 2001 ad oggi, cioè otto anni di governi Berlusconi con la parentesi di due anni del debolissimo governo Prodi sorretto da due soli voti di maggioranza.

Gli errori sono stati quelli di aver sottovalutato il peso del debito pubblico e di non aver fatto nulla per farlo diminuire; di essersi accorti solo due settimane fa che quel debito era diventato l'obiettivo principale dell'assalto dei mercati; infine d'aver dovuto predisporre sotto la pressione dell'emergenza una seconda manovra che sembrava più attenta alle ripercussioni elettorali che alla gravità della situazione europea e italiana.
Dopo questa diagnosi - del resto largamente condivisa in Italia e in Europa - la terapia suggerita dal presidente della Repubblica è quella di anticipare il pareggio del bilancio dal 2014 al 2013, con misure chiare ed efficaci senza preoccuparsi della loro maggiore o minore popolarità avviando contemporaneamente misure mirate alla crescita dell'economia reale.

Alla domanda sulla tenuta del governo Napolitano ha risposto che il governo c'è e ci sarà fintanto che disporrà della maggioranza in Parlamento e che pertanto ogni ipotesi d'un governo diverso o d'uno scioglimento anticipato delle Camere è fuori dal quadro d'una democrazia parlamentare come la nostra. Infine ha assicurato che il Parlamento approverà la manovra entro i tempi stabiliti e cioè entro la metà di settembre e forse prima e che a questo risultato daranno il loro contributo anche le opposizioni che, quale che sia il loro voto, non ricorreranno a manovre ostruzionistiche. "L'Italia farà il suo dovere per l'Europa e per se stessa, di questo siamo certi": così ha concluso il capo dello Stato.

Parole chiare e ferme anche se la frase finale è più un auspicio che una certezza. Noi, tanto per dire, non siamo affatto certi che il governo farà il suo dovere. Finora non l'ha fatto, come lo stesso Napolitano ha rilevato nel suo intervento e non c'è purtroppo alcuna ragione al mondo per pensare che cambierà nei prossimi giorni.

* * *

Questi decreti (siamo al terzo negli ultimi due mesi) hanno una caratteristica comune: sono come la tela di Penelope, filata di giorno e disfatta la notte. L'ammontare oscilla tra i 48 e i 45 miliardi ma tutto il resto cambia in continuazione. Chiedo scusa, c'è un'altra caratteristica comune ai tre decreti: nessuno di essi prevede misure capaci di rilanciare la crescita. Sembra che la crescita sia fuori dalla strategia di questo governo.
Il rigore colpisce gli statali, i lavoratori dipendenti con redditi fino a 50.000 euro lordi, i pensionati. Colpisce gli enti locali e le cooperative. Colpisce e colpirà il "welfare".

Dunque un rigore socialmente partigiano in un'economia a crescita zero. La novità è arrivata con la stesura del terzo decreto sotto la forma del maxi-emendamento presentato tre giorni fa da Tremonti: al posto del contributo Irpef per i redditi superiori a 90.000 euro che avrebbe dato un gettito complessivo di 3,8 miliardi, abolito da un colpo di mano Sacconi-Calderoli caldeggiato da Berlusconi, il ministro dell'Economia ha tirato fuori dal cilindro la lotta contro l'evasione dalla quale si aspetta nei prossimi tre anni un gettito di 3,8 miliardi di euro. Non un soldo di più né uno di meno, quanto basta a lasciare i saldi invariati con grande giubilo generale.

In realtà il giubilo non è molto generale nella maggioranza e neppure in Confindustria, se ne duole perfino il cuore del premier che ha ripreso a sanguinare. Il popolo degli evasori infatti fa parte integrante della clientela berlusconiana. È stato vezzeggiato in tutti i modi negli otto anni del governo Berlusconi-Tremonti; il governo dei condoni, l'ultimo dei quali "scudato" con il 5 per cento di tassa, una trattenuta ridicola, un regalo in piena regola a chi aveva portato all'estero i suoi capitali. Se quei capitali fossero stati colpiti con un'aliquota del 30 per cento com'è avvenuto da parte dei paesi europei che hanno effettuato analoghi condoni, il gettito per l'erario sarebbe stato di oltre 40 miliardi. Tremonti ne prenderà 3,8 e per ottenerli minaccia sfracelli che culmineranno con la pubblicazione dei nomi degli evasori e con il carcere dai tre ai cinque anni per chi evade più di tre milioni.
In un paese dove il grosso dei lavoratori autonomi dichiara un reddito annuo di 15.000 euro le patrie galere sarebbero costrette ad aprire i portoni a qualche centinaio di migliaia di persone con buona pace di Marco Pannella e dei suoi digiuni. Ma non avverrà niente di tutto ciò. Tremonti si contenta d'un gettito su misura. Gli basta rimpiazzare il gettito della super-Irpef e se il cuore di Silvio sanguina per così poco, a lui non gliene importa niente, anzi ci gode.

Ma li otterrà quei 3,8 miliardi di spicciolame? A Bruxelles non ne sono affatto sicuri e alla Bce neppure. Come mai? L'evasione in Italia supera i 130 miliardi. La cifra attesa dall'Economia rappresenta dunque il 3,2 per cento della stima totale. Vincenzo Visco, quand'era ministro delle Finanze, recuperò in un esercizio 30 miliardi dall'evasione. Eppure nessuno finì in galera. Perché dunque sia Bruxelles sia Francoforte sono così preoccupati?

* * *

La vera preoccupazione delle Autorità europee riguarda la credibilità del governo e la sfiducia dei mercati nel debito sovrano italiano. Quella sfiducia è alimentata da vari elementi. Il primo proviene dalla contrazione economica americana e dall'evidente declino politico del presidente Obama. Il secondo dalla contrazione economica europea e dall'inesistenza d'un vero governo dell'Unione. Questi due elementi si riflettono sull'Italia che, di suo, ci aggiunge la non credibilità del governo, del premier, del suo ministro dell'Economia e del loro maggior alleato nella persona di Umberto Bossi. La contrazione economica sarà inevitabilmente accentuata dal rigore. In Italia il rigore è tanto più sgangherato quanto più è affidato a incrementi di tasse regressive che colpiranno principalmente le fasce basse del reddito. La pressione fiscale (lo dice la Banca d'Italia) nel biennio 2012-13 arriverà alla cifra record del 44,5 per cento del Pil e forse anche di più se il Pil non crescerà dell'1,2 come prevede ancora il governo, ma soltanto dello 0,7 come sostiene il Fondo monetario internazionale.

Un governo che gioca con la tela di Penelope cambiando la sera quello che aveva deciso la mattina; un governo dove Berlusconi, Tremonti e Bossi si fanno i dispetti un giorno sì e l'altro pure, sapendo però che debbono restare aggrappati l'uno all'altro per non cadere tutti insieme; un governo in cui sia Berlusconi sia Tremonti sono ricattabili e ricattati; infine un governo il cui Capo sta per ore al telefono con malfattori e procacciatori di prostitute, confidando ad essi i suoi affanni e rifornendoli di denaro contante; ebbene, un governo di tal fatta è il problema. Napolitano ha ragione quando ci ricorda che fino a quando il governo disporrà d'una maggioranza parlamentare lui non può né vuole pensare a licenziarlo. Ma che cosa accadrà se nei prossimi giorni il fandango dei mercati tornerà ad infuriare?

L'otto settembre (pessima data nella nostra memoria) si riunirà a Francoforte il consiglio direttivo della Bce. Uno dei temi - ma direi il tema - all'ordine del giorno sarà l'aiuto dato alla Spagna e soprattutto all'Italia con l'acquisto dei loro titoli di Stato sul mercato secondario. A metà agosto quell'aiuto fu complessivamente di 22 miliardi, nella settimana successiva di 12, nella terza di 4. Non sappiamo domani, ma sappiamo che il consiglio dell'otto settembre non sarà affatto tranquillo.

Mi domando: se la tempesta infuriasse non come Irene ma come Katrina, che cosa accadrà? Se il governo non è credibile né per i mercati né per l'Europa, noi che cosa facciamo? Mi permetto, con devoto rispetto e profonda amicizia e stima, di sottoporre questa domanda al capo dello Stato. E a chi altro se non a lui?
 

(04 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #309 inserito:: Settembre 11, 2011, 10:00:48 am »

IL COMMENTO

L'ultimo rintocco del governo fantasma

di EUGENIO SCALFARI


LA CRISI economica attuale è più grave di quella che colpì l'America e l'Europa nel 1929 con le sue ricadute nel '31 e nel '37. Allora infatti il sistema monetario mondiale basato sull'oro restò in piedi, sia pure con alcune provvisorie correzioni. Oggi non è così. La globalizzazione, la libertà di movimento dei capitali, i portafogli delle banche gonfie di titoli d'incerta solvibilità, la contrazione dell'economia reale che rischia di trasformarsi in una recessione vera e propria, coinvolgono l'intera struttura monetaria, bancaria e produttiva dell'Occidente ma anche dei cosiddetti Paesi emergenti. Non esistono più compartimenti-stagno.

Qualche settimana fa usammo l'immagine delle "matrioske", una dentro l'altra raccolte in un unico contenitore. E anche l'immagine dei vasi comunicanti soggetti in ogni loro livello alla stessa pressione atmosferica. Queste due immagini configurano l'intreccio esistente nell'economia mondiale e spiegano perché la crisi attuale non è come quella del '29 ma molto peggiore.

Gli Stati Uniti cercano d'uscire dal pantano adottando una politica espansiva. La risposta europea è stata finora l'opposto di quella di Obama: rigore per ridurre i deficit di bilancio e il peso dei debiti sovrani. Questa disparità tra le due maggiori economie occidentali non facilita l'uscita dal pantano della stagnazione, tanto più che l'espansionismo di Obama è frenato dal Congresso e dall'imminenza delle elezioni presidenziali. Insomma,
questa volta le nazioni dell'Occidente si salveranno insieme o insieme andranno a fondo.

Sulla manovra italiana - cinque manovre spalmate una sull'altra con un dilettantismo che non ha precedenti, fino all'ultima scritta sotto la congiunta pressione del Quirinale e della Bce  -  si sono fatte analisi d'ogni genere per metterne in luce gli innumerevoli difetti e infine i pregi dell'ultima redazione "etero-diretta".

Non staremo dunque a ripeterci se non per constatare che essa non è autosufficiente. La protezione monetaria della Bce resta infatti un elemento fondamentale della sua tenuta, come si è visto con estrema chiarezza nel venerdì nero dell'altro ieri. E' bastato che il rappresentante tedesco Juergen Stark si dimettesse dalla Banca centrale europea per dissensi sulle operazioni d'intervento a sostegno dei titoli italiani, a provocare l'ennesimo crollo a piazza degli Affari e l'ennesima impennata dello "spread" rispetto ai "Bund" tedeschi.

La manovra voluta dalla stessa Bce e dalle autorità europee dunque non basta. Perché?
Lo dicono  -  tardivamente  -  gli stessi veri autori tra i quali non si annovera certo il governo per la semplice ragione che il governo non c'è più: la manovra non è credibile perché mancano totalmente provvedimenti destinati a far crescere l'economia reale.

La Bce aveva raccomandato rigore e crescita, è vero. Ma le misure destinate al rigore le aveva dettagliate e sono state infatti inserite nel decreto, mentre quelle destinate a rilanciare la crescita le aveva soltanto auspicate e genericamente indicate: riforme strutturali di liberalizzazione.

Nessuna di quelle riforme è stata presentata se non si vuole prender sul serio come terapia la riscrittura dell'articolo 41 della Costituzione che comunque diventerà legge non prima di un anno e le cui capacità terapeutiche sono una grottesca patacca.
Solo ieri, dopo le dimissioni di Stark e il crollo dei mercati europei e americani, i veri autori della manovra si sono resi conto che il rigore senza crescita non solo non basta ma è addirittura controproducente: avrà effetti ulteriormente depressivi sul ciclo congiunturale.

In medicina si chiama pancreatite una malattia molto spesso mortale: il pancreas secerne acidi che rendono possibile la digestione del cibo; ma se la ghiandola si ammala quegli acidi invece di favorire la digestione del cibo da parte dello stomaco divorano la ghiandola che li ha prodotti. Così accade per il rigore senza la crescita: il rigore divora l'organismo economico invece di rafforzarlo e l'organismo muore per debilitazione.

Il "gabinetto di guerra" che etero-dirige un governo e un Parlamento inesistenti premerà nelle prossime ore affinché la manovra, con una sua sesta versione, contenga anche elementi di rilancio. Ma quali elementi?

* * *
Abbiamo già accennato alle riforme rivolte ad accrescere la concorrenza. Sicuramente sono utili se configurassero una società veramente liberale, con più mercato, disciplinato da regole e controlli che impediscano lo scivolamento verso oligopoli e rendite di posizione. Si tratta però d'una struttura del tutto ignota alla storia economica del nostro Paese, che richiede una visione coerente e una volontà politica talmente forte da poter smantellare corporazioni, clientele, mafie, delle quali la gigantesca evasione fiscale di cui soffriamo non è che l'inevitabile prodotto.

Una riforma del genere richiede tempi lunghi e soprattutto non può essere etero-diretta perché implica coraggio politico, responsabilità verso il Paese, lucidità tecnica, incisività, sfida all'impopolarità. Pensare che sia questa la riforma capace di rovesciare il "trend" depressivo che ci minaccia significa pensare di giocar con le stelle mentre qui ed ora dobbiamo usare la leva del fisco, la sola che possa produrre risultati rapidi e concreti.

La leva del fisco, se si vogliono realizzare risultati tangibili sull'evoluzione del Pil e quindi rilancio sia dei consumi sia degli investimenti, deve puntare su un alleggerimento delle imposte sui redditi medi fino ad un livello di 50-60mila euro annui lordi e un contemporaneo analogo sgravio delle imposte che, insieme ai contributi previdenziali, determinano il cuneo fiscale che grava sulle imprese e sulle retribuzioni.

Ci vuole inoltre un intervento che acceleri il pareggio del deficit e il saldo attivo delle partite correnti.
Si può fare un'operazione del genere a carico del debito pubblico? Evidentemente no, i saldi del rigore vanno tutelati. Allora come, se non ricorrendo ad una qualche forma d'imposta sul patrimonio? Meglio se ordinaria e non "una tantum"?

*  *  *
Una parola sulle dimissioni di Juergen Stark dalla Bce. Non si tratta di un atto conforme alla politica del governo tedesco, ma dell'impennata dei "falchi" della Bundesbank che giocano d'anticipo contro eventuali svolte della Merkel in vista d'una nuova "grossa coalizione" con i verdi e con la socialdemocrazia. I "falchi" della Bundesbank sono da sempre contrari ad un'evoluzione dell'Europa verso un vero governo federale e verso un bilancio europeo che si faccia carico della politica fiscale comune.

Le dimissioni di Stark fanno parte di questo scontro all'interno della politica tedesca, tantoché la persona già designata a sostituirlo ha caratteristiche decisamente opposte a quelle del dimissionario.

Se quelle dimissioni hanno provocato una tempesta sui mercati che aveva come oggetto principale la nostra manovra economica, quell'effetto è la prova provata di quanto abbiamo fin qui scritto sulla drammatica incompletezza della nostra politica economica dal lato della crescita. Questo spiega anche le parole durissime della Marcegaglia che per la prima volta ha reclamato non soltanto una manovra definitivamente efficace, ma le dimissioni dell'attuale governo. Non l'aveva mai fatta una simile richiesta; l'ha fatta venerdì scorso ed è stato come il rintocco d'una campana a morte.

Una politica che dia immediatamente rilancio ai consumi e agli investimenti e trovi le risorse necessarie per finanziare questa operazione non può essere etero-diretta né può essere affidata ad un governo fantasma.

Occorre perciò che questo governo scompaia definitivamente e che dia luogo ad una coalizione di tutte le forze responsabili guidata da una personalità democratica che goda della fiducia dell'Europa. Se non ci sarà al più presto questa soluzione, avremo il marasma e lo sfascio. Tenere ancora in piedi un morto che cammina è la cosa peggiore che ci possa accadere.
 

(11 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #310 inserito:: Settembre 18, 2011, 04:25:02 pm »

IL COMMENTO

Un premier allo sbando connivente e ricattato

È scandaloso che mentre il Paese attraversa la sua più grave crisi economica il premier confidi alle ragazze che gli si concedono di fare il capo del governo "a tempo perso". E che passi il suo tempo di lavoro con i suoi avvocati per evitare i processi e soffocare le intercettazioni invece di studiarsi i dossier del debito, della disoccupazione, d'una economia che è ormai l'ultimo vagone del traballante treno europeo

di EUGENIO SCALFARI


CE LA faremo da soli? Molti ci sperano, magari per scaramanzia. Oppure per quel "dover essere" che implica un richiamo alla coscienza morale, ma è chiaro e l'abbiamo scritto più volte che da questa crisi si può uscire tutti insieme o tutti insieme affonderemo perché l'economia internazionale è a tal punto intrecciata da costruire un unico sistema di forze e di debolezze.

Lo si è visto venerdì scorso, quando cinque Banche centrali - la Fed americana, la Bce europea, la Banca d'Inghilterra, la Banca giapponese e quella svizzera - hanno inondato di liquidità il sistema bancario europeo con prestiti in dollari a tre mesi per cifre illimitate. I mercati hanno respirato, le Borse sono ritornate in positivo, gli "spread" sono diminuiti. La via di salvezza è questa? Stampare moneta per tirare i Paesi fuori dalla recessione che li minaccia, magari a prezzo di scatenare l'inflazione?

No, non è questa la via e le Banche centrali lo sanno bene. L'inflazione a due cifre  -  che avrebbe il pregio di svalutare i debiti sovrani riducendoli a carta straccia  -  è l'imposta più odiosa perché è la più regressiva che possa immaginarsi, colpisce tutti i redditi fissi, stipendi, salari, pensioni, arricchisce i già ricchi e impoverisce i ceti medi. Spezzerebbe definitivamente una coesione sociale già indebolita da crepe profonde.

Le Banche centrali possono intervenire per fornire all'ammalato una boccata d'ossigeno
in attesa che la terapia contro la malattia faccia il suo effetto. Purché la terapia sia appropriata e somministrata con tempismo nella giusta misura.

Questo discorso riguarda tutti i Paesi convinti dalla crisi, ma da noi, in Italia, esiste ed opera con sempre maggiore intensità un altro elemento aggravante. Noi da tempo non siamo più governati. Da tempo il nostro Paese è scivolato agli ultimi gradini della credibilità internazionale. Il "premier" che guida il governo è diventato una barzelletta, le cancellerie evitano di incontrarlo, le autorità europee alle quali chiede l'elemosina di un incontro rifiutano di comparire insieme a lui nelle conferenze stampa.

Ci vorranno anni e anni prima di poter recuperare la perduta dignità, ci vorrà un tenace lavoro di restauro delle istituzioni, occupate o insidiate da una vera e propria banda della quale il "premier" fa parte o dalla quale è sistematicamente ricattato.

In questi giorni la curiosità dell'opinione pubblica è concentrata soprattutto sulla sfilata di prostitute o di "ragazze di vita" fornite da procacciatori su richiesta del presidente del Consiglio e avviate verso le sue residenze private e semi-pubbliche. Ma l'attenzione principale dovrebbe invece essere rivolta ai contatti sistematici del premier con alcuni lestofanti di professione, a cominciare da quel Lavitola che al tempo stesso lo serve e lo ricatta.

È certamente scandaloso che mentre il Paese attraversa la sua più grave crisi economica il premier confidi alle ragazze che gli si concedono di fare il capo del governo "a tempo perso"; è altrettanto scandaloso che passi il suo tempo di lavoro con i suoi avvocati per evitare i processi e soffocare le intercettazioni invece di studiarsi i dossier del debito, della disoccupazione, d'una economia che è ormai l'ultimo vagone del traballante treno europeo. Ma lo scandalo che non ha precedenti nella storia d'Italia è la connivenza del capo dell'esecutivo con una banda che esplicitamente mette le mani nella casse dello Stato, deturpa e stravolge le istituzioni, i pubblici appalti, le pubbliche imprese.

Connivente e al tempo stesso ricattato. Lavitola concerta con lui le promozioni nel comando della Guardia di finanza. Tarantini ottiene di essere presentato e raccomandato a Bertolaso per essere inserito tra gli interlocutori della Protezione civile. Le "ragazze di vita" vengono compensate con posti alla Rai o nei consigli regionali o addirittura in Parlamento. Imprese pubbliche come la Finmeccanica sono contaminate dalla corruzione che arriva fino ai vertici dell'azienda e ne influenza le scelte.

Tutto ciò avviene non solo sotto gli occhi con l'attiva complicità della più alta autorità di governo. Ma non soltanto, perché alcuni ministri non possono non sapere. Non può non sapere il ministro dell'Economia da cui la Guardia di finanza dipende e da cui dipendono le imprese pubbliche possedute dal Tesoro. Vero è che anche quel ministro non sta messo affatto bene; indipendentemente dall'esito della votazione che si svolgerà tra pochi giorni alla Camera sulla richiesta d'arresto del deputato Marco Mario Milanese, il processo che lo vede coinvolto riguarda appunto il suo ruolo di controllore delle imprese pubbliche delegatogli in esclusiva dal ministro con tutto ciò che ne consegue, ivi compresi i suoi maneggi con i vertici della Guardia di finanza.

Esistevano due "lobbies" (così disse il ministro al nostro giornale poche settimane fa) in quel corpo così importante per la lotta contro l'evasione fiscale e contro la corruzione: una lobby faceva capo ad un gruppo di alti ufficiali con rapporti diretti con palazzo Chigi, l'altra con altri ufficiali con rapporti col ministro. Lo scandalo non consiste nell'esistenza di tali rapporti, che sono dovuti; consiste nel fatto che fossero contrapposti, come erano e sono contrapposti tra loro il "premier" e il ministro dell'Economia, contrapposizione non secondaria nella pessima gestione della crisi che ha richiesto cinque manovre finanziarie in due mesi, le ultime delle quali avvenute (per fortuna) su ordine della Bce come contropartita ai suoi interventi sul mercato dei titoli di Stato.

Questa è dunque la situazione in cui si trova il nostro Paese: il presidente del Consiglio collude con lestofanti che mirano ad ingrassare i loro portafogli con pubbliche risorse; con essi si dà del tu, con essi scambia baci e abbracci, con essi programma appuntamenti e favori, li introduce nella pubblica amministrazione, interviene a proteggerli quando si sentono minacciati, li finanzia con denari contanti che non lasciano tracce, parla attraverso telefoni forniti di schede al riparo (così sperano) di intercettazione.

Ma quando la connivenza non basta, lui, il premier, viene messo "con le spalle al muro" col ricatto.
Un capo di governo ricattabile è un pericolo gravissimo, non sostenibile in nessun Paese del mondo. I magistrati di Bari sono stati finora prudenti: alcune intercettazioni assai sconvenienti verso capi di governo stranieri (Merkel, Sarkozy) non sono state allegate all'ordinanza comunicata alle parti, per evitare una vera e propria crisi diplomaticamente squalificante. Non toglie che quelle frasi sono state dette da un premier evidentemente fuori controllo.
Un personaggio in queste condizioni continuerà a governare, con la maggioranza di Scilipoti fino al 2013?

* * *

Di tanto è crollata la credibilità di Berlusconi (tutti i sondaggi la stimano ormai al 22 per cento contro il "no" del 78) e di altrettanto è cresciuta quella del presidente della Repubblica. Il quale, costretto e indotto dall'emergenza delle circostanze, ha interpretato con il consueto rigore e scrupolo ma anche con accresciuta fermezza i poteri che la Costituzione gli conferisce. L'abbiamo visto nella gestione della manovra finanziaria, l'abbiamo visto anche quando, appena qualche giorno fa, ha rifiutato di firmare il decreto che il premier reclamava per bloccare la pubblicazione delle intercettazioni effettuate dalla Procura di Bari.

Il Presidente conosce e ha sempre rispettato i limiti che la Costituzione pone all'esercizio delle sue prerogative. In occasione della sua partecipazione in videoconferenza al meeting dello studio Ambrosetti di alcuni giorni fa, Napolitano ha ricordato che in una democrazia parlamentare l'esistenza del governo non può esser messa in discussione fino a quando esista una maggioranza che lo sostiene. Soltanto quando quella maggioranza venisse meno il Capo dello Stato diventa il "dominus" della partita, per insediare un nuovo governo che possa ottenere la fiducia del Parlamento ovvero per sciogliere anticipatamente le Camere.

Questo pensa il Capo dello Stato ed è certamente nel giusto, anche se alcuni costituzionalisti sostengono che i suoi poteri sono ancora più ampi per quanto riguarda lo scioglimento anticipato della legislatura, forse dimenticando che il decreto di scioglimento richiede anche la firma del presidente del Consiglio.

Tutto ciò detto, il Capo dello Stato ha, per Costituzione, il potere di inviare messaggi al Parlamento su qualunque tema e in qualunque circostanza. Può anche esternare il suo pensiero in altri modi, comunicati, lettere, interviste; ma il modo solenne è quando rivolge il suo messaggio al Parlamento, cioè ai delegati del popolo sovrano.

Noi pensiamo che quel momento sia arrivato. Pensiamo che spetti al Presidente investire il Parlamento del problema della credibilità del governo. Nel Parlamento ci sono le opposizioni ma c'è soprattutto la maggioranza ed è alla maggioranza parlamentare che un messaggio presidenziale sulla credibilità del governo dovrebbe essere indirizzato.
So bene che il Presidente detesta essere "tirato per la giacca". Noi non vogliamo affatto commettere quella scorrettezza. Ci limitiamo a segnalare che un passo del genere rientra perfettamente nelle sue prerogative. Ovviamente spetta a lui soltanto di decidere se utilizzare il suo diritto di messaggio su un tema così delicato, ma così capitale per le sorti stesse della democrazia.

Nella sua dichiarazione di voto sulla manovra, in nome del gruppo parlamentare del Pd, Walter Veltroni ha denunciato il pericolo dei giovani che nella piazza di Montecitorio gridavano "chiudete il Parlamento". Tra i tanti rischi che corre la democrazia c'è anche questo: la spinta crescente contro le istituzioni democratiche.

Non saranno i mercati a farlo ma la persistenza dell'attuale governo a potenziare l'attacco ai titoli e alle Borse. Non sarà la magistratura a stabilire le sorti del premier, ma la sua connivenza e ricattabilità con chi soddisfa i piaceri che placano la sua malattia psichica. Perciò occorre che il Parlamento esca dall'apatia e dall'afasia. Il Capo dello Stato può stimolarlo a compiere i suoi doveri.

(18 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #311 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:27:19 am »


L'EDITORIALE

L'Italia precipita senza paracadute

di EUGENIO SCALFARI

Le Borse ondeggiano su un Ottovolante dove le risalite sono lente e le discese mozzano il fiato; lo "spread" con l'aiuto della Bce si mantiene sulla "borderline" a cavallo dei 400 punti-base; l'euro perde colpi rispetto al dollaro; le economie di tutto l'Occidente ristagnano senza speranze e intanto si parla sempre di più di un "default" della Grecia pilotato dall'Europa. Il tema della crescita diventa sempre più cruciale ma sempre più disatteso. I governi nazionali non hanno né la forza né la fantasia per varare interventi di rilancio che rimettano in moto il sistema mentre si profila una crisi bancaria internazionale connessa appunto con il "default" greco e con l'attacco al debito italiano.

I portafogli delle banche di tutto l'Occidente sono imbottiti di titoli italiani. Non sono titoli insolvibili ed ogni paragone con la Grecia è infondato. Ma i tassi d'interesse pagati dal Tesoro alle aste che si susseguono con scadenze ravvicinate sono diventati proibitivi. Siamo ormai in prossimità del 6 per cento. Se si andasse avanti così ancora per qualche mese la finanza pubblica si avviterebbe su se stessa ed allora anche il problema della solvibilità si porrebbe in modo allarmante.

Il nostro governo è in grado di fronteggiare una situazione da brivido come questa? Finora sono stati adottati soltanto provvedimenti di rigorismo finanziario, indispensabili ma depressivi sull'economia reale. E ancora non bastano.
Quanto potremo andare avanti così?

La sfiducia verso il governo è ai massimi e si estende a tutta la classe politica. L'antipolitica non è una risorsa ma un cappio al collo e chi la incoraggia non fa che allevare un mostro e peggiorerà ancora di più una situazione già fuori controllo.

* * *
Venerdì al Quirinale, parlando agli studenti che iniziano sotto pessimi auspici il nuovo anno scolastico, Napolitano è intervenuto ancora una volta sul tema dell'economia. Ha suggerito e in qualche modo imposto al governo tre nuove priorità: abbattere in modo consistente lo stock del debito pubblico, introdurre stimoli fiscali per accrescere il potere d'acquisto dei redditi medio-bassi e la propensione delle imprese a investire, diminuire le diseguaglianze sociali e geografiche che dividono il paese e ne rendono difficile la coesione. Questi provvedimenti, secondo Napolitano, dovrebbero essere adottati entro l'attuale sessione di bilancio, cioè subito.

Gli interventi del Capo dello Stato sulle questioni economiche sono ormai quasi giornalieri, in rapporto diretto con il ruolo di supplenza che il Quirinale è costretto ad esercitare dall'afasia del governo; afasia tanto più perniciosa poiché si accompagna ad uno scontro ormai palese e non ricomponibile tra il "premier" e il ministro dell'Economia. Con quest'ultimo non siamo mai stati teneri ma in quest'occasione riteniamo che il linciaggio cui è stato sottoposto in occasione del voto sull'arresto di Marco Milanese sia inaccettabile. Stava per cominciare a Washington un incontro internazionale presso il Fondo monetario per discutere questioni della massima urgenza ed emergenza. Sarebbe stato a dir poco grottesco se Tremonti fosse arrivato con grave ritardo o affatto per votare alla Camera l'arresto di Milanese. Ciò detto, continuiamo a pensare che sia stato un pessimo ministro dell'Economia alle prese con un pessimo presidente del Consiglio.

Resta da vedere che cosa farà il Capo dello Stato se le sue indicazioni resteranno lettera morta. Nel recente passato furono rispettate sia dal governo sia dall'opposizione salvo quelle riguardanti la crescita, sulla quale in verità la Bce e il Quirinale si limitarono a generiche raccomandazioni. Ora finalmente la crescita è stata posta al primo posto insieme al taglio del debito.

Ma c'è il problema della credibilità del governo e di chi lo guida. Su di esso Napolitano non può fare nulla formalmente. Potrebbe fare molto sostanzialmente ma, almeno per ora, se ne astiene, sicché il tappo che ostruisce il sistema resta ancora conficcato a Palazzo Chigi con gravissimo danno per il paese e per l'Europa.

* * *
Diminuire il debito. Non lo dice soltanto Napolitano ma anche Draghi, anche l'Europa, anche l'America. Ma come? E quanto?

La soglia di sicurezza - secondo il parere di alcuni suggeritori - sarebbe "quota novanta": 90 per cento rispetto al Pil di fronte all'attuale 120, il che significa in cifre assolute non meno di 400 miliardi. Ma come? Vendendo beni mobili e immobili dello Stato? Sarebbe una pessima pezza. La parte maggiore è composta da immobili di difficile "appeal" nell'attuale carenza di domanda. Si potrebbe cartolarizzarli e poi collocare quei titoli nelle mani delle banche. Ma chi accarezzasse quest'idea avrebbe smarrito la ragione: il nostro sistema bancario ha il portafoglio gonfio di Buoni del Tesoro a lungo termine ed è questa la sua attuale debolezza. Vogliamo rifilargli anche una massa di immobili cartolarizzati?

L'altra soluzione intravista sarebbe un forte prelievo "una tantum" sul patrimonio dei contribuenti. Attenzione: provocherebbe una fuga massiccia di capitali e lo "spread" potrebbe toccare livelli molto elevati. Quindi non è questa la strada giusta. Del resto non fu questa l'operazione messa in atto da Ciampi ai tempi del suo governo nel 1993 in una situazione economica anche allora molto pesante. L'obiettivo di Ciampi fu quello di far emergere un consistente attivo delle partite correnti al netto degli oneri pagati sul debito. Quest'attivo superò il 5 per cento.

Quando obiettivi del genere sono raggiunti il debito pubblico comincia a diminuire e continua in quel ciclo virtuoso suscitando effetti di auto-alimentazione perché la diminuzione graduale del debito ne fa diminuire gli oneri e di conseguenza fa accrescere il saldo attivo delle partite correnti.

Queste operazioni possono essere utilmente rafforzate con un prelievo patrimoniale non straordinario ma ordinario e di modesta entità, scaglionato tra 0,5 e 1,50 per cento. Consultare in proposito Mario Draghi sarebbe utilissimo, ma ancor più utile sarebbe consultare Carlo Azeglio Ciampi.

* * *
Un'osservazione per quanto riguarda l'obbligo del pareggio di bilancio da inserire nel nostro ordinamento con legge costituzionale. Il plauso a questa novità sembra generale anche se ci vorrà almeno un anno prima che la legge entri in vigore. A me non sembra affatto una panacea.

Intanto occorrerà precisare se quella norma si applicherà al bilancio preventivo o al consuntivo, alla cassa o alla competenza, ai saldi o ai flussi. Poi occorrerà stabilire a chi spetti accertare se la norma è stata rispettata. Non potrà certo essere il ministro dell'Economia che è parte in causa come ogni altro membro del governo. Si dovrebbe affidarne il compito ad una apposita sezione della Corte dei Conti che dovrebbe poter ispezionare l'andamento delle partite correnti nel momento stesso in cui le decisioni vengono prese. Di fatto si dovrebbe equiparare la Corte dei Conti al funzionamento della Ragioneria generale dello Stato con in più l'indipendenza della quale la Corte gode.

Invece di imbarcarsi in una procedura così complessa che di fatto equivale al commissariamento della politica economica nelle mani d'un Ragioniere "sui generis", sarebbe molto meglio rafforzare l'articolo 81 della Costituzione rendendo obbligatoria la copertura d'ogni spesa soltanto con aumento di entrate o taglio di spese senza ricorso al credito e senza alcuna deroga. Un rafforzamento del genere dell'articolo 81 non ha bisogno d'una legge costituzionale, può essere ottenuto con legge ordinaria che rappresenti l'interpretazione autentica dei principi e delle norme già contenute in quell'articolo.

* * *
Non pensiamo che si possa andare avanti fino al 2013 e neppure fino alla primavera del 2012 con un governo fatiscente e ritenuto addirittura non frequentabile dalle cancellerie internazionali.

Se la Grecia andrà in "default pilotato" ci sarà un concordato fallimentare il cui livello più probabile sarà tra il 50 e il 60 per cento del suo debito sovrano. Molte grandi banche francesi, tedesche, inglesi, americane, si troveranno in gravi difficoltà. Quanto alle nostre banche non risulta che detengano forti quantitativi di titoli greci ma in compenso hanno in portafoglio molti titoli delle banche francesi tedesche e americane coinvolte.

In queste condizioni ci vuole a Roma un governo capace di governare e di essere un interlocutore autorevole per l'Europa e per gli Usa. La supplenza del Quirinale, preziosa fino a quando Palazzo Chigi è di fatto disabitato, non potrebbe tuttavia guidare direttamente la barca in acque ancor più tempestose.

Ci vuole dunque un governo del Presidente sostenuto in Parlamento da tutti i senatori e i deputati che hanno a cuore l'interesse generale dello Stato.

Tra quanti sperano in un nuovo assetto della politica ci sono tuttavia alcuni che vagheggiano governi di centro-destra presieduti da Alfano o da Gianni Letta. Sembra che Casini vedrebbe di buon occhio soluzioni del genere. Soluzioni insensate: sostituire Berlusconi con Letta significa soltanto insediare a Palazzo Chigi un delegato; insediarvi Alfano per pilotare la barca nel mare in tempesta è addirittura un'ipotesi offensiva per il buon senso e per il senso comune.

Ma c'è anche chi preferirebbe le elezioni anticipate. Che Berlusconi sia uno di questi è comprensibile. Meno comprensibile è che ci siano nel novero anche economisti, banchieri e imprenditori. Elezioni anticipate significano Parlamento chiuso per almeno 60 giorni e il Paese guidato da un governo non solo fatiscente ma per di più in carica soltanto per l'ordinaria amministrazione. Un pascolo per i mercati.

Sergio Romano sul Corriere della Sera di mercoledì scorso auspicava che Berlusconi annunciasse che non si ripresenterà più alle elezioni e rinuncerà a far politica, fissando la data elettorale al prossimo mese di marzo. Insomma qualcosa di simile a quanto ha fatto con successo Zapatero. Ma si tratta, gentile ambasciatore Romano, di un'ipotesi inesistente. Berlusconi (che non somiglia in nulla a Zapatero) non farà mai un annuncio del genere che comunque lo manterrebbe a Palazzo Chigi ancora sei mesi d'inferno. E quand'anche si convincesse, nessuno può garantire che un mentitore come lui manterrebbe la parola data.

In mancanza di altre soluzioni il Paese affonda nelle risse, nella generale sfiducia e nel totale isolamento internazionale. L'ultima testimonianza è venuta da Washington l'altro giorno, quando Obama, ringraziando i paesi che hanno contribuito a liberare la Libia da Gheddafi, li ha nominati tutti uno per uno, comprese la Norvegia, la Danimarca e la Lega Araba, con in testa ovviamente i francesi e gli inglesi.

Il solo Paese non nominato è stato il nostro che pure ha fornito basi aeree, comandi militari e la Marina. Ma l'Italia è da tempo confinata in un lazzaretto. Di chi sia la colpa lo si sa.

(25 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #312 inserito:: Settembre 30, 2011, 03:43:56 pm »

Perché gli italiani hanno amato B.

di Eugenio Scalfari

Ora che tutto sta finendo, è tempo di iniziare a chiedersi come mai, per quasi vent'anni, così tanti nostri concittadini gli hanno creduto.
Non per parlare ancora di lui, ma per capire meglio qualcosa di noi

(22 settembre 2011)

In un recente dibattito televisivo promosso su la7 da Enrico Mentana mi è accaduto di discutere sulla personalità di Silvio Berlusconi confrontandomi con Paolo Mieli e con Giuliano Ferrara. Lo spunto era stato la proiezione di un film-documentario intitolato "Silvio For Ever". Il dibattito è durato più di un'ora ed è stato ricco di occasioni polemiche e di riflessioni meditate. Almeno, così m'è sembrato.

Alla fine Mentana ci ha rivolto due domande: qual è il maggior merito che Berlusconi lascia all'Italia futura e qual è il suo maggior errore che peserà su di noi e sui nostri figli e nipoti. Non sto a ricordare qui le risposte date da Ferrara e da Mieli, dico le mie. Alla prima domanda ho risposto: non lascia nessun merito o dono che dir si voglia. Alla seconda domanda ho risposto: non ha compiuto alcun errore perché è sempre stato coerente con se stesso, un gravissimo errore l'hanno compiuto gli italiani che ripetutamente hanno votato per lui. Dopo quel dibattito ho ricevuto molte lettere di persone che avevano seguito quella trasmissione, la maggioranza delle quali mi poneva un'altra domanda: perché tanti italiani l'hanno più volte votato e molti, sia pure in numero ormai molto ridotto, credono ancora in lui?

La risposta è assai complessa. Comporta infatti un'attenta ricerca sugli italiani, sui nostri difetti e sulle nostre virtù, sulle differenze tra noi e gli altri popoli europei, sulla nostra storia, la nostra cultura, i libri che hanno contribuito a formare il nostro carattere nazionale, le opere d'arte che hanno creato il nostro gusto, l'economia che ha plasmato la nostra professionalità e la nostra partecipazione alla divisione internazionale del lavoro. Infine il nostro sentimento morale.
Si tratta dunque di una vasta ricerca che potrebbe intitolarsi "L'indole, i vizi e le virtù degli italiani", insomma un programma di lavoro, forse un libro da scrivere se il tempo e la voglia mi assisteranno.
Mentre facevo queste riflessioni mi è capitato di leggere uno smilzo volume di George Steiner intitolato "Nel castello di Barbablù" (Garzanti, pagg. 125, euro 16). Lo cito perché è pertinente alla ricerca sugli italiani che mi propongo di fare.

Steiner infatti nel "Castello di Barbablù" la sua ricerca la fa sugli europei, sulla cultura del nostro continente e sull'orrendo crimine che fu commesso in Europa a metà del Novecento: la distruzione degli ebrei nei campi nazisti e l'altro analogo eccidio dei campi concentrazionari nell'Urss stalinista. Il primo soprattutto, perché le sue radici sono ancor più orrende e convivono con un livello culturale assai più elevato e raffinato.

Come fu possibile una così lacerante contraddizione? Perché le stesse persone che passavano il giorno a gestire la strage, la sera andavano a teatro ad ascoltare le sinfonie di Beethoven e i "Concerti Brandeburghesi" di Bach e avevano letto i libri di Goethe, le liriche di Schiller e la "Ragion pura" di Immanuel Kant?

Il piano di lavoro di Steiner abbraccia un campo infinitamente più vasto di quello che io mi propongo, ma la natura della ricerca è analoga. Si tratta infatti di vedere quando come e perché l'uomo europeo e l'uomo italiano sono al tempo stesso concavi e convessi.

Attenzione: non si tratta di dividere un popolo tra buoni e cattivi, tra alti e bassi, belli e brutti. Ogni persona del popolo esaminato ha dentro di sé tutti quegli elementi che ne costituiscono la natura e il fondamento. A volte prevalgono quelli positivi a volte quelli negativi e ciò avviene in presenza di certe circostanze, di certi incontri, di forze e di debolezze che si confrontano e si combattono. Leggete il libro di Steiner che vi farà riflettere e vi aiuterà a capire meglio il presente che stiamo vivendo.

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« Risposta #313 inserito:: Ottobre 06, 2011, 04:40:38 pm »

IL COMMENTO

Sull'orlo del vulcano

di EUGENIO SCALFARI

MOODY'S, la principale delle tre agenzie internazionali di "rating" ha declassato di tre punti in una sola volta il debito italiano. "Lo sapevamo  -  ha commentato il "premier"  -  non cambia nulla". Il commento è tipicamente suo. Nel corso degli ultimi quattro anni, da quando la crisi internazionale è esplosa, lui ha commentato le fasi principali di quella tempesta in questo modo: 1. "La crisi non c'è, è un'invenzione dei "media" e dei comunisti". 2. "La crisi c'è stata ma l'abbiamo superata". 3 "La crisi è tuttora in corso ma noi ne usciremo meglio degli altri". Dopo questi tre passaggi, che hanno coinciso con il progressivo aggravamento della situazione economica internazionale e italiana, ci siamo trovati nella condizione d'esser posti sotto il "protettorato finanziario" di Draghi e di Trichet, cioè della Banca centrale europea, che ci ha dettato per iscritto le misure da prendere se volevamo essere aiutati dall'intervento della Bce a sostegno del nostro debito sovrano. Vi immaginate se Trichet avesse dettato il da fare alla Merkel o a Sarkozy o a Cameron o perfino al governo norvegese o danese o austriaco? Sarebbe stato cortesemente accompagnato alla porta di quelle rispettive cancellerie. In Italia no. Noi abbiamo bisogno d'un vincolo esterno perché da soli non sappiamo provvedere al nostro bene comune quando la situazione generale peggiora ma anche in condizioni di relativa normalità. Tuttavia non sempre questo
è accaduto. Nel '65 provvedemmo da soli, egualmente nel '74, egualmente (e fu il caso più grave anzi gravissimo) nel '92. Ma allora la squadra politico-economica era folta e ben assortita: c'erano Vanoni, Saraceno, La Malfa, Visentini, Cuccia, Mattioli, Andreatta, Carli, Amato, Ciampi e probabilmente ne dimentico qualcuno.

Erano tutti di massima competenza ma soprattutto avevano una visione lucida del bene comune. Non c'era bisogno d'un vincolo esterno, sapevano nuotare da soli e talvolta furono loro a dare qualche "dritta" ai colleghi europei. I comunisti allora c'erano veramente. Si occupavano - quelli del Pci - di difendere gli interessi dei lavoratori. Nei limiti del possibile ci riuscivano con l'aiuto delle altre componenti della sinistra. Fu la grande stagione del "welfare", dei diritti civili e di quelli sociali. La cultura azionista servì da collante tra la sinistra e il centro e da antemurale laico alla tentazione clericale. Sappiamo degli errori e degli orrori del comunismo internazionale e della vergognosa copertura che il Pci gli fornì, ma per quanto riguarda l'Italia nel periodo di guerra fredda resta quel contributo che bilanciò e rese possibile l'equilibrio delle forze in campo.
Tutto questo sembra preistoria. Oggi siamo il protettorato d'una Banca e camminiamo sull'orlo d'un vulcano ma siamo così ingombranti che un nostro "default" potrebbe essere letale per l'intera economia europea e perfino americana. Forse il perché di questo nostro esser diventati un pericolo mondiale non è ben chiaro. Cercherò di spiegarlo. Del resto basta leggere il breve testo con il quale Moody's ci declassa, per capire.

* * *
Nello stato dei fatti, dice Moody's, il debito sovrano italiano non è insolvibile e probabilmente non lo sarà nemmeno in futuro se misure adeguate saranno adottate con urgenza ed efficacia. Ma i mercati - dice Moody's - non hanno fiducia che ciò accada. Le misure prese, anche per la provvidenziale pressione del presidente della Repubblica, vanno nella giusta direzione ma sono state adottate solo parzialmente anche per quanto riguarda le parti relative al rigore dei conti pubblici. Per quanto invece riguarda la parte che concerne la crescita del Pil mancano ancora totalmente e quelle delle quali si parla non sembrano tali da provocare effetti significativi. Perciò la sfiducia del debito sovrano non diminuisce, le aspettative dei mercati non migliorano. In tali condizioni i portatori di titoli italiani tendono a disfarsene, i rendimenti aumentano, nelle ultime aste hanno sfiorato il 6 per cento pur trattandosi di collocamenti di modesta entità. Nel 2012 scadranno titoli italiani per circa 250 miliardi, una cifra imponente. Chi li sottoscriverà?
Questi dettagli (che non sono affatto dettagli) non sono scritti nel testo di Moody's ma sono ben noti a tutti, al Tesoro, agli operatori e ovviamente alle agenzie di rating. Mi permetto di aggiungere un altro elemento che non è certo da sottovalutare: la dilagante sfiducia connessa al rigore senza crescita determina effetti depressivi sull'economia reale e sui flussi del credito bancario alle imprese. Esercita effetti devastanti sulla coesione sociale. La paralisi governativa aumenta con l'eccezione dei temi che riguardano gli interessi privati del presidente del Consiglio.
Tutto lascia prevedere che la Grecia dovrà chiedere la moratoria per il suo debito. Vuol dire che i creditori di quel debito, cioè le banche, si troveranno in mano poco più che carta straccia e non si tratta di banche di poco conto ma di grandi istituti soprattutto francesi e tedeschi, alcuni dei quali dovranno necessariamente essere salvati con danaro pubblico, cioè nazionalizzati.
Disfarsi adesso di titoli greci è di fatto impossibile. Ma quelle stesse banche e moltissime altre sparse nel mondo ma soprattutto in Italia, possiedono anche forti quote di titoli italiani che si troveranno in prima linea (ci si trovano già) dopo la moratoria del debito greco. I titoli italiani si commerciano ancora agevolmente, perciò le banche e gli altri enti che li possiedono cominciano a disfarsene e i rendimenti ad aumentare. Sul mercato secondario sono già più elevati del pur elevato rendimento delle aste e lo sarebbero ancora di più se la Bce chiudesse il rubinetto dei suoi interventi. Ecco perché Moody's ha declassato il nostro debito. Berlusconi ha detto che "non cambia niente". In un certo senso è vero, siamo nel peggio e nel peggio continueremo.

* * *
Questo di Moody's è il fatto del giorno ed era giusto occuparsene; ma nel frattempo molti altri ne sono accaduti, importanti e significativi, sempre più rapidi e rovinosi a causa del disfacimento dell'apparato di governo. Ne abbiamo già dato notizia nei giorni scorsi ma credo sia utile ricordarne alcuni affinché non se ne stinga la memoria. è tuttora inevasa la pratica che riguarda la nomina del successore di Mario Draghi al vertice della Banca d'Italia. Se ne parla dallo scorso giugno, la scadenza improrogabile arriverà alla fine d'ottobre. La procedura è stabilita dalla legge: il presidente del Consiglio propone un nome al Consiglio superiore della Banca il cui parere è obbligatorio ma non vincolante. Ottenuto quel parere il presidente del Consiglio riunisce il Consiglio dei ministri e propone la ratifica del nome prescelto. Prepara e firma il decreto di nomina e lo sottopone alla firma del Capo dello Stato che lo rende in tal modo esecutivo. Non è esatto dire che il Capo dello Stato lo controfirma, il decreto infatti non è un atto di legge di competenza esclusiva di Palazzo Chigi ma è un decreto del Quirinale, sicché quella del Capo dello Stato non è una controfirma "dovuta" ma una firma che manifesta una volontà autonoma e non obbligata. Questa complessa procedura derivante dall'importanza della carica in questione implica pertanto che il presidente del Consiglio per scegliere il candidato abbia preventivamente contatti informali con il Quirinale.

Tali contatti ci furono già in giugno e in luglio e sembrò che avessero portato a un risultato, sennonché a quel punto si interpose il parere contrario del ministro dell'Economia la cui partecipazione non è prevista nella procedura di nomina e questa è la sola ragione del grande ritardo che tuttora perdura. Per quattro mesi questa pratica è rimasta inevasa con crescente disagio e stupefazione degli operatori, delle autorità europee e della Bce ed ha contribuito non poco a quella sfiducia dei mercati nei nostri confronti che Moody's lamenta nella sua decisione di declassamento del nostro debito sovrano.

* * *
Si è aperto un ampio dibattito politico dopo l'intervento del cardinale Bagnasco sulla necessità di "purificare l'aria" nella vita pubblica italiana, diventata "eticamente mefitica". Il presidente della Conferenza episcopale non ha fatto nomi ma è stato non di meno esplicito poiché ha richiamato al rispetto dell'articolo 54 della nostra Costituzione che impone a tutti coloro che rappresentano istituzioni pubbliche di "onorarle con comportamenti sobri ed eticamente corretti". Chi sia il principale destinatario (non certo il solo) di tale reprimenda dei vescovi è chiarissimo, ma il suddetto Destinatario ed i suoi fedeli collaboratori hanno accettato fervorosamente le parole di Bagnasco con il presupposto che non riguardano loro ma ovviamente i giudici felloni e i comunisti faziosi.

Lo stesso Bagnasco ha anche informato che la Chiesa sta preparando insieme a molte comunità e associazioni cattoliche un soggetto che interloquisca con la politica affinché i cattolici civilmente impegnati abbiano un luogo di incontro e di discussione comune. Non si tratta di un partito - ha precisato il cardinale - perché "la Chiesa non fonda e non dirige partiti", ma d'una sorta di oratorio pre-politico che serva da raccordo al pluralismo politico dei cattolici.

Alcuni ben noti "atei devoti" hanno polemicamente osservato che i laicisti (neologismo improprio che significa laici non credenti) avrebbero dovuto protestare contro Bagnasco poiché il cardinale avrebbe interferito ben due volte nella sfera di competenza dello Stato. Per loro è un bene ma i laicisti avrebbero dovuto fare fuoco e fiamme. Ma perché? L'articolo 54 fa parte della Costituzione ed è quindi patrimonio di tutti gli italiani. Noi l'abbiamo ricordato assai prima del cardinale e siamo lieti che l'abbia fatto anche lui. Il principale Destinatario se ne infischia, per conseguenza questo è l'ennesimo caso in cui viola la Costituzione sulla quale ha giurato. Quanto al progetto di creare un punto di raccordo tra la pluralità delle associazioni e comunità cattoliche, non è cosa che riguardi i laici non credenti; rientra nello spazio pubblico che la Costituzione garantisce a tutti in ragione di quella libertà religiosa che ai laici sta particolarmente a cuore. Infine: si è acceso un vivace dibattito all'interno del centrosinistra e in particolare del Pd tra chi ritiene che nel breve termine l'obiettivo primario per il bene del Paese sia la caduta del governo e la sua sostituzione con un governo di responsabilità nazionale, da un lato, e dall'altro chi vede come obiettivo primario la caduta del governo e le elezioni immediate. Il presupposto è comune, le tesi derivate hanno segno diverso.

La mia personale opinione è che le elezioni immediate, in questa situazione economica e con questa legge elettorale, sarebbero una pessima soluzione. Un governo di responsabilità nazionale affidato ad una personalità di massima autorevolezza sarebbe invece una garanzia per decantare la situazione, uscire dai "protettorati" e mostrare che siamo capaci di nuotare senza salvagente riconquistando fiducia in noi stessi e ispirandola agli altri.

(06 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #314 inserito:: Ottobre 10, 2011, 03:54:10 pm »

IL COMMENTO

La rabbia dei giovani la miseria del Sud

di EUGENIO SCALFARI

TRA LE numerose e importanti esternazioni che il presidente Napolitano ha indirizzato nel suo viaggio in Piemonte e in Val d'Aosta ai cittadini che sono accorsi in gran numero a salutarlo ce n'è una che mi ha particolarmente colpito: "Non si debbono dividere gli italiani in buoni e cattivi".

Secondo me non era un incitamento retorico alla coesione nazionale, che sta giustamente a cuore a chi rappresenta l'unità del Paese, ma conteneva un concetto assai più profondo.

Bontà e cattiveria, egoismo e altruismo, interessi particolari e solidarietà sociale non descrivono una società antropologicamente spaccata in due. Sono piuttosto due vocazioni naturali, due istinti che albergano in ciascuno di noi. In ogni individuo e in tutti i luoghi della Terra quei due sentimenti sono presenti e la storia delle persone, delle comunità, delle nazioni altro non è che il confronto dialettico tra quelle due forze che si contrastano.

Talvolta prevale l'una, altre volte l'altra senza tuttavia che la forza soccombente sia eliminata. Se questo avvenisse l'antropologia della specie risulterebbe radicalmente trasformata: l'umanità della nostra natura diventerebbe in un caso una natura bestiale, nell'altro una natura angelica. L'uomo non è né una bestia selvaggia né un'essenza angelicata.
Queste riflessioni sulla natura della nostra specie non hanno soltanto un valore antropologico, contengono anche un insegnamento politico e una speranza per quanti confidano e lottano per
un mondo migliore.

Le divisioni restano, il confronto tra le due vocazioni continua, come continua la contrapposizione tra i diversi modi di concepire il bene comune, ma il valore politico di quell'esortazione è di non disperare del futuro e di non abbandonarsi all'indifferenza e all'apatia.

Credo che questo volesse trasmetterci Giorgio Napolitano e so che questo è stato anche il significato dell'incontro che si è svolto ieri a Milano per iniziativa dell'associazione "Libertà&Giustizia". È risultato chiarissimo dalle parole rivolte a molte migliaia di cittadini da Giuliano Pisapia, Roberto Saviano e Gustavo Zagrebelsky: "Non chiediamo niente per noi, ma chiediamo molto per tutti".

Il vento nuovo che spira con sempre maggior lena in tutto il Paese muove in questa direzione, non spinge verso una o l'altra delle parti politiche in accesa competizione tra loro, ma spinge verso il futuro, verso una nuova modernità che congiunge insieme sobrietà, efficienza, sviluppo, solidarietà. Il logo dei promotori li rappresenta con due valori che dal Settecento ad oggi sono stati il punto di riferimento di quanti hanno combattuto per la democrazia: Libertà e Giustizia. Rendiamo onore a quanti, in anni torpidi e tristi, hanno resistito alimentando la speranza anche quando sembrava ridotta alla luce incerta d'una lucciola nelle tenebre. Ora sta tornando a rifulgere in mezzo alle procelle della crisi che continua a infuriare.

* * *

L'epicentro della crisi è il pericolo incombente della recessione. Nel mondo e in Italia. Gli economisti registrano la recessione analizzando l'andamento della domanda; la domanda crolla a causa della caduta dei redditi; i redditi e quindi il potere d'acquisto diminuiscono per mancanza di lavoro il quale a sua volta cede per la scarsità di domanda. Così il cane si morde la coda, l'effetto diventa a sua volta causa, l'economia reale si avvita e il circolo perverso della stagnazione e poi della recessione si autoalimenta.

Per interromperlo deve entrare in gioco un elemento nuovo, capace di bloccare il ciclo perverso e di cambiare il "trend" e le aspettative dei mercati. Bisogna dunque chiedersi quale sia l'elemento nuovo capace di capovolgere le aspettative. Su questa ricerca si sta discutendo da anni e la discussione negli ultimi mesi è diventata sempre più convulsa. Ora siamo alla stretta finale e, come sempre avviene nei gran finali, il problema è ridiventato politico.
Tutti gli attori che partecipano a questa immane partita mondiale hanno assunto rilievo politico: sono politici per definizione i governi, ma anche le Banche centrali hanno assunto quel ruolo; fa politica il governatore della Federal Reserve americano non meno di Obama; fanno politica Trichet e il suo imminente successore Mario Draghi; fanno politica gli imprenditori e le loro organizzazioni; fanno politica i sindacati; fanno politica i "media"; fa politica la gente che va in piazza. e Fa politica - eccome se la fa - chi propugna l'antipolitica.

La politicizzazione della crisi economica è un fatto naturale: si sta infatti discutendo e decidendo di quale sarà il nostro futuro prossimo che porrà le basi per quello dei figli e dei nipoti. E non si può deciderlo che con la partecipazione responsabile della coscienza collettiva. Oppure con il dominio del dispotismo. Una terza alternativa in questi casi non esiste. Ecco perché l'antipolitica non è una risorsa ma un pericolo.

L'antipolitica può essere generata dalla mediocrità della politica presente, ma deve poi approdare ad una concezione positiva del bene comune altrimenti si incanaglisce nel rifiuto di tutto, esprime l'impulso anarcoide latente in ogni società democraticamente immatura. Il terrorismo degli anni Settanta nacque dall'antipolitica del "vogliamo tutto e lo vogliamo subito" e colpì a morte gli esponenti migliori della democrazia riformatrice, giudici, avvocati, giornalisti, politici, operai, servitori dello Stato.

Ma, senza arrivare a queste forme perverse e fanatizzate, guardate al "Tea Party" americano: non è un movimento di destra repubblicana ma una fanatizzata antipolitica che ha puntato perfino sul "default" dello Stato federale ed ora esalta l'isolazionismo e il razzismo "yankee".

L'antipolitica è anche l'inevitabile sbocco della disperazione che finisce però, altrettanto inevitabilmente, nell'indifferenza, nella difesa del proprio "particulare" e nella delega in bianco al dispotismo.

L'antipolitica fu l'incubatrice del fascismo. Ed è la natura profonda del "Forza Gnocca" berlusconiano che non è una battuta ma un appello ai peggiori istinti che, appunto, albergano in ciascuno di noi.

* * *

Per scongiurare questi incombenti pericoli bisogna dunque curare la disperazione.

Ce ne sono tante e di varia specie nell'Italia di oggi, ma due sono quelle che fanno massa critica: il futuro dei giovani, la miseria del Mezzogiorno. Ne hanno parlato in questi giorni con accenti preoccupati ed anche accorati Napolitano e Draghi. Ne ha parlato la Chiesa con i suoi maggiori esponenti, dal Papa al cardinal Bagnasco, al nuovo arcivescovo di Milano Angelo Scola. Ne parlano le opposizioni, dal Pd a Vendola, da Casini alla Camusso. Fa senso constatare che quelle due emergenze - Mezzogiorno e giovani - non siano state neppure nominate e prese in seria considerazione nelle quattro o cinque manovre economiche uscite dalle raffazzonate improvvisazioni del governo e della sua maggioranza.

Eppure quelle due disperazioni potrebbero essere due occasioni storiche per lo sviluppo dell'economia italiana, gli elementi di rilancio per farci uscire dallo stagno e impedire che si trasformi in recessione.

La sfiducia dei mercati verso i debiti sovrani è stata per ora attenuata da una saggia decisione della Bce, sorretta (finalmente) dal consenso indispensabile della Germania: garantisce alle banche europee un accesso illimitato al finanziamento della Banca centrale, con tassi favorevoli e la durata d'un anno.

La minaccia sulle banche è stata il punto sensibile della speculazione; la Bce ha spezzato la punta di quella lancia ed ha tranquillizzato i mercati. Ma questa strategia finanziaria cura i sintomi, è una sorta di cortisone, non rimuove le cause.
Le cause si rimuovono investendo sulla domanda di lavoro, cioè sugli investimenti, sugli sgravi fiscali che rilanciano i consumi, sulla rete d'un "welfare" moderno che copra i precari e i disoccupati.

Una riforma delle pensioni che porti subito tutte le pensioni d'anzianità al sistema contributivo è auspicabile anche dalla sinistra responsabile e dai sindacati, ma ad una condizione: non serva a fare cassa bensì ad essere investita nel "welfare" a favore d'un patto generazionale tra padri e figli.

Questo è vero riformismo. Le aziende debbono riguadagnare competitività e produttività, ma lo Stato e la collettività debbono darsi carico di quanti subiscono i contraccolpi della globalizzazione e della concorrenza che essa ha scatenato su tutti i mercati.

Discorsi analoghi valgono per il Sud. La depressione economica di quelle regioni è lo scarto che non solo consente ma impone il rilancio degli investimenti. Le risorse ci sono: lotta all'evasione come la fece Vincenzo Visco e prelievo patrimoniale ordinario con basse aliquote e vasta platea.

* * *

Poche parole sull'interessante ricordo che Napolitano ha fatto qualche giorno fa di Giuseppe Pella, iniziando da Biella il suo viaggio piemontese.

Pella è nato e sepolto a Biella. Fu ministro delle Finanze quando Luigi Einaudi era ministro del Bilancio; poi fu nominato presidente del Consiglio a Ferragosto del 1953 e durò in carica cinque mesi. Dopodiché di Pella non si parlò più.
È giusto che, visitando varie città storiche del Piemonte, il Presidente rievochi la memoria dei loro più illustri cittadini. Biella è stata storicamente importante perché lì nacque, ad opera di un paio di geniali imprenditori, l'industria tessile dell'Italia moderna, ma a Biella è anche nato Quintino Sella che fu uno dei maggiori protagonisti della politica finanziaria durante il quasi ventennale periodo di governo della Destra storica, dal 1861 al '76.

Napolitano ha scelto di ricordare Pella dedicando agli imprenditori tessili e a Quintino Sella (più che mai attuale nelle vicende di questi mesi) brevi parole di circostanza. Perché questa scelta?

Ieri, parlando a Dogliani e ricordando Luigi Einaudi che lì nacque, il Presidente ha negato che vi fosse alcuna sua intenzione politica nel suo ricordo di Pella. È opportuno che l'abbia detto, ma il fatto obiettivo rimane.

Nell'estate del 1953 ci furono elezioni politiche molto agitate; la Dc e i partiti laici suoi alleati avevano varato una nuova legge elettorale che consentiva l'apparentamento di liste varie e un premio di maggioranza alla coalizione vincente. Doveva raggiungere la soglia del 50 più 1 dei voti e avrebbe ricevuto un premio per governare con piena tranquillità. L'opposizione la chiamò "legge truffa", certamente esagerando. Ci furono proteste violentissime, nacque una lista guidata da Calamandrei, un'altra di liberali intransigenti guidata da Corbino. La conclusione fu la sconfitta della Dc e dei suoi alleati che non raggiunsero la soglia prevista.

De Gasperi decise di ritirarsi dalla politica. Nella Dc stava emergendo Fanfani ma incontrava molte resistenze; la crisi si presentava insomma assai accidentata.

Vigeva fin da allora la prassi delle consultazioni del Capo dello Stato con tutti i gruppi parlamentari; poi un incarico esplorativo, poi l'incarico formale, poi consultazioni dell'incaricato con i partiti di governo e le correnti per l'assegnazione dei ministeri. Infine la presentazione del nuovo governo al Parlamento. Così andarono le cose durante i quarant'anni della Prima Repubblica. Ma la lettera della Costituzione è molto più breve, dice soltanto: "Il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio e - su sua proposta - i ministri".

Einaudi, nonostante la prassi, fece esattamente così. Sentì i presidenti delle Camere, poi andò nella villa di Caprarola e convocò Pella informandolo che aveva già scritto e firmato il decreto che lo nominava presidente del Consiglio. Voleva un governo di "decantazione" che preparasse una nuova legge elettorale.

Questo è tutto. Dal che risulta che la lettera della Costituzione consente al Capo dello Stato di saltare ogni prassi restando saldamente nei limiti che la Costituzione prevede. Napolitano esclude che la sua "citazione" contenga una qualunque intenzione. Ho già detto che ha fatto bene ad escluderla ma resta che il precedente einaudiano conferma, ove mai ce ne fosse bisogno, la correttezza procedurale di attenersi interamente e soltanto al dettato letterale della Costituzione. In questo caso ci ha rimesso Quintino Sella, ma noi siamo contenti che, al bisogno, quel comportamento rientri nel novero d'una correttissima procedura e delle prerogative che la Costituzione assicura al Presidente della Repubblica.

(08 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

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