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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318292 volte)
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« Risposta #285 inserito:: Maggio 29, 2011, 05:46:08 pm »

L'EDITORIALE

E se domani l'Italia fosse stanca di te...

di EUGENIO SCALFARI

PER LA seconda volta in quindici giorni queste mie riflessioni sulla situazione politica arrivano ai lettori ad urne aperte per le elezioni amministrative nelle Province e nei Comuni in ballottaggio.
Si vota oggi e si voterà ancora domani, lunedì. Avremo i risultati domani pomeriggio.

Molti osservatori hanno definito assai negativamente la campagna elettorale.
Hanno usato aggettivi di sconsolato pessimismo: drammatica, aggressiva, confusa, disperante, calcando la mano sul crescente distacco tra la gente e la politica, sull'indifferenza dei giovani, sulle astensioni che aumentano. La sentenza definitiva è stata quella di mettere sullo stesso piano la destra e la sinistra; eguali i difetti, eguale l'impotenza, eguali le responsabilità.

Questo quadro a me sembra completamente sbagliato, costruito su una narrazione di comodo. Gli aggettivi pessimistici si attagliano bene alla coalizione guidata da Berlusconi e da Bossi, ma non ai candidati che la fronteggiano e alle forze politiche che li sostengono. Qui non c'è indifferenza ma passione, non ci sono astensioni di massa ma partecipazione, non vi sono lotte intestine ma compattezza e obiettivi condivisi, non c'è confusione ma lucida diagnosi dei vuoti da colmare e dei vizi da estirpare.
Questo modo di descrivere la situazione non deriva da opinioni soggettive ma poggia su dati di fatto e sarà probabilmente confermato dai risultati dei ballottaggi.

Di Silvio Berlusconi, protagonista per sua scelta della campagna elettorale, si può
dire solo questo: nell'ultimo mese ha cercato, ma invano, di identificarsi con il Caimano; negli ultimi giorni ha dato di sé un'immagine patetica: ministeri da spostare a Milano, taglio di tasse, sanatorie di abusivismi edilizi, messa in atto immediata d'un colossale programma di infrastrutture, miracolosi interventi sui "rifiuti" napoletani. Promesse lanciate al vento elettorale già nel 1994, rinnovate nel 2001, ancora nel 2005 e 2006, mai realizzate e neppure avviate.
È regolarmente avvenuto l'esatto contrario: la pressione fiscale è bloccata da dieci anni al 43 per cento e tende ad aumentare, il debito pubblico cresce, le infrastrutture continuano ad essere una presenza fantasmatica, la Confindustria ha certificato nell'assemblea di giovedì scorso che gli investimenti in opere pubbliche sono scesi dai 38 miliardi del 2009 ai 32 del 2010 e ai 27 del 2011; il rapporto investimenti-Pil era del 2,5 per cento tre anni fa ed è oggi dell'1,6 malgrado che nel frattempo anche il Pil si trovi in pessime condizioni.
La riforma fiscale si farà nel 2014 e nessuno sa ancora se alleggerirà tasse e contributi o ne aggraverà il peso. Di certo c'è soltanto che nel frattempo sarà necessaria una manovra che il Tesoro stima di 40 miliardi, la Corte dei Conti 46, l'opposizione 60. I contribuenti sono avvertiti.
Quanto al Sud dire che la finanza dei Comuni e delle Regioni si trovi in pessime acque è una forma morbida per descrivere la realtà. L'evasione merita un discorso a parte: ogni anno gli sforzi meritori della Guardia di Finanza scoprono una ventina di miliardi ma contemporaneamente lo stock complessivo dei tributi e dei contributi evasi non solo non diminuisce ma aumenta: si chiude un buco e se ne apre immediatamente uno nuovo ancora più grande.

Promesse patetiche dunque, alle quali gli elettori non credono più anche perché alle cifre fornite dall'Istat, dalle agenzie di rating, dalla Banca d'Italia e dallo stesso Tesoro, si affiancano le esperienze personali degli italiani; la crisi morde sempre di più, i giovani disoccupati e inoccupati sono ormai una marea, i consumi scendono, gli investimenti sono vicini allo zero, la nostra competitività è agli ultimi posti della graduatoria internazionale.
Il tocco finale l'abbiamo visto nel G8 di venerdì, quando il nostro Caimano azzoppato ha pietito l'attenzione di Obama e la sua solidarietà personale per il fatto d'esser vittima dei giudici di sinistra. Il tutto pochi minuti dopo il discorso del presidente americano che aveva inneggiato ai valori dell'Occidente e alla democrazia fondata sulla divisione dei poteri e l'indipendenza della magistratura.
Obama ha finto di non aver udito, la Merkel e Sarkozy si sono guardati stupefatti e ironici verso una pulcinellata di proporzioni mai viste prima sulla bocca di un capo di governo con il cerone e il parrucchino.
Ezio Mauro ha scritto venerdì che l'ex Caimano deve solo scomparire. Il voto di oggi e di domani può dare un contributo decisivo a questa che ormai non è più soltanto una priorità ma una necessità di decenza nazionale.

* * *

Il Pdl sta attraversando una fase di implosione sempre più evidente e avanzata, ma la Lega non è da meno. Anche lì i colonnelli disputano tra loro sempre più scopertamente; quanto a Bossi, sembra anche lui alquanto confuso. Sul trasferimento dei ministeri da Roma a Milano si è impuntato e non si capisce perché, quale vantaggio rappresenti per la capitale lombarda ospitare due centri del governo nazionale la cui produttività dislocata lontano dalla struttura governativa sarebbe molto più bassa e enormemente più costosa.
L'alternativa indicata dai leghisti è lo sciopero fiscale padano: o arrivano i ministeri o non pagheremo le tasse. Non si tratta d'un cittadino qualunque a dire enormità di questo genere ma del ministro della Repubblica Calderoli. Dovrebbe dimettersi un minuto dopo aver pronunciato quelle parole, e infatti è questo che chiede l'opposizione; ma dovrebbe essere il capo del governo a imporlo. Il quale però dice a sua volta tali altre enormità da aver perso titolo a pretendere alcunché di sensato.
Lo spettacolo è miserevole ed è tipico della fine d'un regno, ma può durare a lungo e sarebbe - questa sì - una tragedia per il Paese. Qualcuno pensa che una crisi di governo indebolirebbe la tenuta dell'economia? E pensa che il protrarsi di questo impudico galleggiamento senza più timoniere né timone sia meglio? Che sia meglio galleggiare sulla "nave dei folli" o sulla "zattera di Medusa" mentre le acque sono sempre più torbide e agitate?
Quali che siano i risultati dei ballottaggi a Milano, a Napoli e in tanti altri centri importanti, una cosa però a me sembra certa: Berlusconi non se ne andrà. Se si dimette sa bene di aver chiuso con la politica e con il potere, perciò resterà tra Chigi e Grazioli aggrappato a quelle poltrone e a quei tendaggi come le dive del cinema muto a Sunset Boulevard.
La maggioranza di Scilipoti lo tiene in vita sotto ricatto. La Lega potrebbe staccargli la spina, ma Bossi non se la sente. Dovrebbe navigare in mare aperto e non ne ha nessuna voglia. È invecchiato anche lui, preferisce restare in darsena. A meno che il popolo leghista non mandi segnali forti e anche dentro la Lega si manifesti un'implosione della quale si avvertono già alcuni segnali. Il voto di Milano ci aiuterà a capire anche questo.
E l'opposizione? Che cosa farà l'opposizione in caso di vittoria dei candidati da lei appoggiati?

* * *

Non credo che l'opposizione reclamerà le dimissioni del governo. Sarebbe comunque una richiesta respinta dai passeggeri della zattera galleggiante.
L'opposizione immagino che chiederà al governo di governare. Non a parole ma con fatti, disegni di legge, proposte concrete sui grandi temi del Paese, economici ma non soltanto.
Questa richiesta tuttavia resterebbe anch'essa generica se l'opposizione non prendesse l'iniziativa d'esser lei a formulare leggi e concrete proposte su quei temi. Possibilmente pochi, ma decisivi: il fisco, i giovani, l'energia, le infrastrutture, l'immigrazione, la legge elettorale. Scopra le sue carte il Partito democratico, verifichi se su questi temi c'è accordo con le altre formazioni riformiste (Vendola, Di Pietro, ecologisti, socialisti, radicali) e con il Terzo Polo. E sfidi la maggioranza.
Probabilmente su questo terreno e su questa sfida la maggioranza si sfalderà. Penso a persone come Pisanu che sono da tempo sulla soglia dell'addio al Pdl; ma anche a molti giovani parlamentari di quel partito per i quali cresce il disagio e la voglia di imboccare un processo politico diverso e più consono alla serietà dei tempi che stiamo vivendo.
Se la maggioranza imploderà, se ne potrà formare un'altra che su quei temi impegni gli ultimi due anni di legislatura, oppure - se questa fosse la scelta delle Camere e del Capo dello Stato - si arriverà alle elezioni anticipate dalle quali la nuova maggioranza può emergere confortata dal voto.
Il referendum del 12 e 13 giugno, specie se la Cassazione manterrà i quesiti riguardanti l'energia nucleare, potrebbe essere un altro segnale che confermi la svolta dei ballottaggi amministrativi.
L'attualità ci propone anche un altro tema di grande rilievo: la crisi dei debiti sovrani, l'euro, la successione a Draghi nella Banca d'Italia. Ne parleremo subito dopo la relazione che il governatore leggerà all'assemblea dell'Istituto la mattina del prossimo 31 maggio.

(29 maggio 2011) © Riproduzione riservata

da - repubblica.it/politica/2011/05/29/news/scalfari
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« Risposta #286 inserito:: Maggio 29, 2011, 05:49:47 pm »

L'INCONTRO

Scalfari si racconta, tra filosofia e rimpianto per gli amici scomparsi

Il fondatore di Repubblica  a Siena ospite della Festa del documentario con Zingaretti e Asor Rosa.
Il ricordo di Calvino che proprio nella città toscana morì e le domande sulla vita che hanno acceso la passione del suo percorso intellettuale

dal nostro inviato SILVIA FUMAROLA


SIENA - Il rimpianto per gli amici che non ci sono più, le riflessioni sulla mancanza di un lessico per scrivere di filosofia, la curiosità intellettuale che guida un percorso di vita, lungo e ricco di incontri. Eugenio Scalfari si racconta alla Festa del documentario di Siena, ospite di Luca Zingaretti che l'ha invitato per parlare del suo ultimo libro "Scuote l'anima mia Eros" insieme ad Alberto Asor Rosa. La sala del Complesso di Santa Maria della Scala è stracolma, l'applauso che l'accoglie degno di una rockstar. "Ho saputo solo stamattina racconta il fondatore di Repubblica - che saremmo venuti qui, in questo luogo che una volta era l'ospedale della città e dove sono entrato - per la prima e ultima volta - quando Italo Calvino stava agonizzando. Ricordo che insieme a Bernardo Valli ci fermammo nella sala d'attesa, non ci fecero entrare, Italo morì due o tre giorni dopo. Non nascondo che questa cosa mi tocca da vicino".

Scalfari, che ha dedicato il saggio all'amico degli anni dell'adolescenza, per parlare delle differenze caratteriali  -  "lui era un saturnino che sognava di essere mercuriale, io un mercuriale che sognava di essere un saturnino" - riparte dai ricordi del liceo Cassini di Sanremo, che frequentava insieme al futuro scrittore. "Italo era molto introverso, però quando si trovava a suo agio aveva una vena d'ironia, uno spirito allegro. Ci facemmo una foto insieme ad altri amici su una panchina del lungomare di Sanremo: eravamo in sette.
Cinque sono morti, ho telefonato all'amico che è rimasto di quel gruppo, Gianni Pigati, e le nostre mogli ci hanno fatto una foto ricordo su quella stessa panchina". Scalfari ricostruisce le vite parallele: dopo il liceo Calvino all'università a  Torino, lui a Roma,  ancora insieme per le vacanze. "Poi il sodalizio s'interrompe, ma aveva avviato una crescita: il desiderio di capire chi eravamo, dove andavamo e da dove venivamo. Attorno a questa domanda è nata la filosofia del pianeta". Quando fonda "Repubblica" Calvino scrive sul "Corriere della sera". "Non me la sono sentita di chiamarlo, il giornale appena nato vendeva un quinto. Quando le vendite salirono andai a Parigi a incontrarlo: il tuo vero pubblico sono i lettori di "Repubblica", gli spiegai. Mi disse che si stava trasferendo a Roma, e arrivò da noi".  Nel libro, che, come osserva Asor Rosa, è "la terza tappa di un viaggio", Scalfari parla anche dell'istinto di sopravvivenza. "Coincide con la vita. Come si manifesta alla nostra mente? Con l'amore per sé e per gli altri, un po' di egoismo è sano, ma troppo amore per sé... diventa egolatria, che caratterizza certi personaggi. E noi speriamo che lunedì...", dice riferendosi ai ballottaggi. Non fa in tempo a finire la frase che la platea applaude a lungo, entusiasta, un applauso che sembra non finire più, mentre lui sorride ironico: "Ecco qua, finisce sempre così".

Ma lo Scalfari politico, in questo incontro, lascia spazio all'intellettuale che s'interroga sulla ricerca di uno stile, sul modo di scrivere di filosofia "perché molti critici dicono che faccio bricolage tra autobiografia e considerazioni filosofiche. Dopo Nietzsche nessuno ha più potuto scrivere decentemente di filosofia, non a caso per poter esprimere la sua concezioni di filosofia, è costretto a inventare un personaggio, Zarathustra. Quando parla Cacciari è un uomo di passione e di pensiero, ma quando scrive, scrive in cinese per me che non capisco il cinese". Luca Zingaretti gli chiede quanto l'eros, la passione, abbia influito nella sua vita. "Questo libro è anche un'autobiografia sentimentale" risponde Scalfari: "Pochi giorni fa sono stato invitato alla Società psicanalitica italiana per parlare di Freud. Ho spiegato che non ho mai fatto analisi, ma autoanalisi.  Conosco le riserve che hanno gli analisti:  nell'autoanalisi la mente è predisposta a perdonare. Poi ho spiegato che Eros lo sento con una tonalità paternale. Ho avuto tanti tipi di amore: per le donne, per un progetto. Il lavoro è stato un amore: ho scritto che ci si sente soli nel potere ma a me è sempre piaciuto esercitare il potere in compagnia. Al giornale non mi sono mai sentito solo: c'erano i redattori, gli impiegati, i tipografi. Uscivo la notte e stavo bene, non sentivo la stanchezza. Ero felice".

(28 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/05/28/news/
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« Risposta #287 inserito:: Giugno 02, 2011, 04:56:18 pm »

IL COMMENTO

Bankitalia alla guerra d'indipendenza

di EUGENIO SCALFARI


C'È STATO un momento particolarmente significativo dell'Assemblea annuale della Banca d'Italia dell'altro ieri: l'ingresso di Carlo Azeglio Ciampi accompagnato da Mario Draghi al posto che gli era stato assegnato al centro della prima fila, proprio di fronte al leggìo dal quale il governatore ha poi letto le sue considerazioni sull'andamento dell'economia e della finanza nel mondo e nel nostro Paese. Draghi ha ricordato con giusta enfasi il ruolo di Ciampi nel risanamento dell'economia italiana quando guidò per 13 anni la Banca centrale e poi da presidente del Consiglio, da ministro del Tesoro con Prodi e ancora da Presidente della Repubblica. L'Assemblea ha accolto quella rievocazione con commossa partecipazione concludendola con un applauso diventato un'ovazione.

Ricordo quest'episodio perché non si è trattato d'un fatto di cronaca marginale ma d'un aspetto significativo che ha dato il tono all'intera mattinata: un uomo che ha servito il Paese in ruoli sempre più prestigiosi tornava a casa per salutare il suo successore nel momento in cui Draghi dava il suo addio alla Banca per andare alla guida della Bce a Francoforte.

Dai tempi di Menichella ad oggi ne ho viste molte di quelle assemblee ma questa è la stata più intensa, emotivamente e politicamente, e tutti i partecipanti, dai membri del Consiglio generale dell'Istituto al folto gruppo d'imprenditori, alle alte cariche del Parlamento e della politica, ai giornalisti, ne sono stati pienamente consapevoli.

Tanti eventi aleggiavano su quel salone gremito: antiche memorie, antichi volti, fatti recenti, fatti avvenuti appena poche ore prima, una svolta politica in atto dopo i ballottaggi del 30 maggio. Aleggiava anche il tema della successione a Draghi in un momento delicatissimo dell'economia e della politica italiana. Draghi leggeva le sue considerazioni doppiamente finali; la platea seguiva sul testo che era stato distribuito e alla fine d'ogni pagina lo sfoglio simultaneo segnava il ritmo di quella lettura, ma il pensiero poneva a tutti la stessa domanda: Einaudi, Menichella, Carli, Baffi, Ciampi, Fazio, Draghi. Chi verrà dopo? Sarà professionalmente all'altezza? Preserverà l'indipendenza che costituisce il requisito fondamentale dell'Istituto? Sarà, come sempre è stata, la suprema tribuna dove parla l'Interesse Generale contrapposto a quelle che Guido Carli chiamò le Arciconfraternite del potere, le lobbies, le corporazioni, gli appetiti dei forti, le scorrerie delle clientele che spesso manomettono le casse dello Stato?

Draghi ha concluso amaramente definendo le pagine appena lette come "prediche inutili" prendendo a spunto il titolo che il suo lontano predecessore Luigi Einaudi aveva dato ad una raccolta di suggerimenti indirizzati ai governanti del Paese. Ed ha ricordato: "Nel mio primo intervento da governatore, nel marzo del 2006, notavo come l'economia italiana apparisse insabbiata, ma che i suoi ritardi strutturali non andavano intesi come segni d'un destino inevitabile; potevano essere affrontati dandone conto con chiarezza alla collettività, anche quando le soluzioni fossero avverse agli interessi immediati di segmenti della società. E mi rivolsi a voi con le parole "Tornare alla crescita". Con le stesse parole chiudo queste considerazioni finali".
Prima aveva indicato concretamente i modi per tornare alla crescita e le nostre pagine di ieri ne hanno dato ampio resoconto. Chi le abbia lette vi avrà trovato un vero e proprio programma di governo. Purtroppo (e per fortuna) il suo autore andrà ad occupare una carica assai prestigiosa. Ma il suo programma di governo non sarà certo quello dei nostri attuali governanti. Forse sarà fatto proprio dal suo successore se verrà scelto con il criterio di proseguire le prediche, forse inutili ma sempre più necessarie per uscire dalla palude economica e morale nella quale è affondato l'Interesse Generale.

* * *

La nomina del governatore della Banca d'Italia è un atto complesso. Così diceva Carli. Ai suoi tempi il Consiglio generale dell'Istituto proponeva un candidato al presidente del Consiglio dei ministri che - se d'accordo - lo proponeva al Presidente della Repubblica. Quest'ultimo, se d'accordo, emanava il decreto di nomina controfirmato dal presidente del Consiglio.
Nel 2005 questa legge è stata sostituita da un'altra nella quale il presidente del Consiglio - sentito il Consiglio generale dell'Istituto - propone il nome prescelto al Capo dello Stato che emana, se d'accordo, il decreto che avrà doppia firma.

Nella sostanza il Consiglio dell'Istituto ha perso il potere di proposta. Gli interlocutori con pari poteri restano dunque il Capo dello Stato e il capo del governo. Tra i due deve esserci necessariamente una fase di concertazione informale dopo la quale ha inizio l'iter formale della nomina.

Con questa nuova procedura fu scelto Draghi nel 2006. Era scoppiato da poco lo scandalo dell'Antonveneta e Fazio era sotto processo e aveva dato le dimissioni. Tra Ciampi e Berlusconi ebbe inizio la fase della concertazione informale. Il presidente del Consiglio, accompagnato da Gianni Letta, si recò al Quirinale e propose a Ciampi di nominare l'intero direttorio della Banca oltre al governatore. Ciampi respinse la proposta e a sua volta propose tre nomi: Padoa-Schioppa, Grilli, Draghi. Berlusconi scartò subito Padoa-Schioppa e chiese un giorno di riflessione per scegliere tra gli altri due. La scelta cadde su Draghi ed ebbe inizio la parte finale della procedura che si concluse con la nomina.

Ho ricordato questi fatti dove la procedura - informale e formale - è sostanza. Da questo racconto emerge infatti che i due interlocutori principali hanno i medesimi poteri d'iniziativa. Il Quirinale non ha soltanto potere di veto ma anche di iniziativa; egualmente l'inquilino di Palazzo Chigi. Finché i due non sono d'accordo la nomina non avviene.

Dal 1946 in poi il criterio pressoché ininterrotto della scelta è stato quello della successione dall'interno della Banca. Einaudi fu il fondatore della Banca risorta dopo la sconfitta della guerra. Portò con sé Menichella come direttore generale. Di lì comincia una continuità senza eccezioni. Carli infatti, prima d'esser nominato direttore generale e poi governatore, era stato presidente dell'Ufficio italiano dei cambi, costola della Banca d'Italia. La sola eccezione dall'esterno fu proprio quella di Draghi ma in un certo senso fu anch'essa una rifondazione, avvenuta in occasione dello scandalo dell'Antonveneta. La ragione della scelta dall'interno si è quindi consolidata per preservare scrupolosamente l'indipendenza dell'Istituto e ancor oggi essa appare (l'abbiamo già ricordato) come un requisito essenziale. Draghi ha molto insistito sul valore sostanziale di quel criterio. Il direttore generale della Banca e il suo vice hanno personalità che garantiscono indipendenza e professionalità di prim'ordine, tali da soddisfare i requisiti richiesti. Non sembrerebbe dunque che ci siano problemi. Invece ci sono.

* * *

Il primo riguarda Bini Smaghi, attualmente membro del direttorio della Banca centrale europea. Con l'arrivo di Draghi al vertice di quell'Istituto gli italiani nel direttorio sarebbero due. Nello statuto della Bce non c'è alcuna norma che vieti questa duplice presenza ma Sarkozy, nel dare il suo appoggio alla candidatura di Draghi, chiese ed ottenne da Berlusconi che Bini Smaghi uscisse dalla Bce. L'interessato è disposto a dimettersi ma, a quanto si sa, chiede in contropartita la carica di governatore a via Nazionale.

La richiesta appare eccessiva anche perché provocherebbe con tutta probabilità una serie di dimissioni a catena all'interno del direttorio di via Nazionale. Il caso dunque esiste. Se non sarà risolto in qualche modo, Bini Smaghi potrà restare in Bce e Sarkozy non sarà contento. Pazienza.
Un'altra ipotesi di candidatura è sostenuta da Tremonti in favore dell'attuale direttore generale del Tesoro, Grilli. Il quale ha sicuramente i titoli per accedere a quell'incarico, tranne uno: è il candidato di Tremonti, di cui è fedelissimo collaboratore. Se fosse lui il prescelto, il ministro dell'Economia avrebbe riempito la scacchiera del potere economico di pezzi da lui gestiti e che a loro volta guidano istituzioni di grande importanza: Cassa depositi e prestiti, Banca del Sud, Fondo speciale per operazioni di finanziamento a banche e imprese di importanza strategica, Consob. Con Grilli a via Nazionale, Tremonti avrebbe in mano l'intera scacchiera del potere economico. Non va affatto bene.

Altri nomi che, pur non essendo interni alla Banca, abbiano tuttavia tale biografia e tale prestigio da soddisfare i due requisiti della professionalità e dell'indipendenza? Ce n'è uno indiscusso ed è quello di Mario Monti. Lui ha pubblicamente dichiarato d'esser fuori da questa partita ma non ha avuto finora nessuna chiamata. Forse se la chiamata ci fosse e facesse valere l'interesse generale e nazionale, Monti si sentirebbe costretto ad accettare.

C'è un altro nome apprezzabilissimo che è uscito per sua personale decisione qualche anno fa dalla carica di vicedirettore generale della Banca d'Italia. Si chiama Pierluigi Ciocca. Ho chiesto a Ciampi un suo giudizio su quel nome. Mi ha risposto: "Sarebbe il candidato ideale, ma Berlusconi dirà di no". Il catalogo è questo. Chi deve provvedere, provveda.

(02 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/06/02/news/commento_scalfari-17098696/?ref=HREC1-1
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« Risposta #288 inserito:: Giugno 05, 2011, 04:43:49 pm »

EDITORIALE

Soffia il vento del popolo sovrano

di EUGENIO SCALFARI

Venticinquemila persone hanno formato una lunghissima fila a Milano per poter stringere la mano al neo sindaco Giuliano Pisapia nel giorno del suo insediamento a Palazzo Marino. Un fatto simile non era mai accaduto né a Milano né altrove anche perché una fila lunga chilometri non somiglia ad una piazza affollata e urlante di passione e di insiemità. La fila invece è silenziosa e ciascuno sta con se stesso e con i propri pensieri tra i quali domina la decisione di testimoniare che un cambiamento è avvenuto e che il testimone l'ha vissuto con civica partecipazione.

Segnalo questo episodio per rispondere a coloro che subito dopo i ballottaggi del 30 maggio si sono posti la domanda su chi abbia perduto e su chi abbia vinto le elezioni amministrative. La loro sentenza ha avvistato come perdente Silvio Berlusconi e la coalizione da lui guidata, ma non ha trovato alcun vincitore. O meglio, un vincitore secondo loro c'è stato ed è il popolo delle astensioni, schifato dalla politica e dalla casta che accomuna in un unico disprezzo la destra, il centro e la sinistra. Il vincitore sarebbe stato insomma Beppe Grillo e chi la pensa come lui.

Coloro che hanno emesso questo responso non si sono forse accorti che il suddetto comico, subito dopo avere appreso i risultati elettorali, è esploso in una rabbiosa invettiva contro i vincitori manifestando la sua delusione. Dunque il vincitore non era lui.

La verità è che ha vinto lo spirito civico contro chi finora aveva manipolato le istituzioni e le coscienze. Ha vinto a Milano, a Torino, a Napoli, a Bologna, a Cagliari, a Trieste, a Vicenza, a Novara, a Mantova, a Crotone, a Macerata e in tanti altri luoghi e con esso hanno vinto le forze politiche che si sono identificate con quel risveglio delle coscienze e del civismo, hanno lavorato per farlo emergere, si sono offerti come sostegni, strutture organizzative, punti di riferimento politici.

Non è l'antipolitica grillina ad aver vinto ma la Politica una volta tanto con la P maiuscola. Capisco che a molti Soloni da strapazzo questa lettura oggettiva dei fatti non piaccia; capisco che il rabbioso sfogo di Grillo li imbarazzi e ancor più il fatto della presenza di molti grillini che hanno inneggiato a Pisapia in piazza del Duomo, a Fassino in piazza San Carlo e a de Magistris in piazza Plebiscito; ma così sono andate le cose e a questa vittoria della politica dovete rassegnarvi.

* * *

Il primo riscontro di quella vittoria c'è stato appena due giorni dopo nei giardini del Quirinale, all'assemblea della Banca d'Italia, durante la sfilata del 2 giugno ai Fori e poi nella cena di Giorgio Napolitano con i capi di Stato venuti da tutto il mondo per celebrare a Roma i 150 anni dalla nascita dello Stato unitario italiano.

Napolitano non gradisce che lo si descriva come il contraltare politico di Berlusconi e sottolinea la diversa natura della presidenza della Repubblica rispetto alla presidenza del Consiglio. Sono due istituzioni che si muovono su piani diversi, l'inquilino di Palazzo Chigi è uno dei giocatori nel campo della politica mentre l'inquilino del Quirinale ha il compito di far rispettare le regole della partita che si svolge sotto la sua sorveglianza arbitrale.

Accade tuttavia che i due piani confliggano con frequenza crescente per la semplice ragione che Berlusconi ha una concezione autoritaria della democrazia profondamente diversa da quella configurata nella nostra Costituzione. Ma sarebbe tuttavia sbagliato trasformare il Quirinale in un soggetto politico deformandone con ciò la natura e il ruolo.

Resta il fatto che quel ruolo è cresciuto d'importanza e riscuote consenso e fiducia sempre maggiori in proporzione inversa a quanto sta accadendo per il governo e per chi lo guida. Questa non è un'opinione ma una notizia e con le notizie è inutile polemizzare.

* * *

La sconfitta del centrodestra alle elezioni amministrative ha fatto emergere la crisi che da tempo covava all'interno del Pdl ed ha seriamente indebolito il rapporto di alleanza con la Lega.

I referendum del 12 e 13 giugno possono infliggere - a distanza di due settimane - un secondo colpo ancor più micidiale al centrodestra provocandone la definitiva implosione. Siamo ora in attesa della decisione che la Corte costituzionale prenderà martedì prossimo sul quesito che riguarda il referendum sull'energia nucleare dopo la pronuncia della Cassazione che ha giudicato tuttora in piedi la richiesta referendaria confermando la consultazione del 12 giugno prossimo.

Se la pronuncia della Consulta sarà conforme a quella della Cassazione, se i referendum raggiungeranno il quorum "del 50 per cento più uno" e se i "sì" avranno la meglio sui "no" verrebbero cancellati tre aspetti fondamentali della politica di centrodestra attinenti all'energia, all'ecologia e alla giustizia.

Il governo aveva tentato nei giorni scorsi di de-politicizzare l'appuntamento referendario, ma venerdì ha deciso di cambiare rotta opponendosi con un ricorso alla Corte costituzionale alla consultazione referendaria. Ha in tal modo imboccato la stessa strada e ripetuto lo stesso errore che aveva compiuto nelle elezioni amministrative politicizzando al massimo anche quella referendaria.

Esiste tuttavia una profonda differenza tra quei due appuntamenti. In quello amministrativo sono andati alle urne circa 7 milioni di elettori su 13 milioni di aventi diritto. Se i referendum del 12 giugno raggiungeranno il "quorum" saranno nell'ipotesi minima 25 milioni e mezzo di elettori a deporre la loro scheda nelle urne. Si esprimerà cioè il popolo sovrano direttamente, senza dover passare per il filtro dei partiti e delle liste. Il popolo sovrano e il cittadino diretto portatore della sovranità diffusa esprimeranno la loro volontà anzitutto con la partecipazione e poi nel merito con un "sì" o con un "no".

Se questo avverrà, sarà molto difficile per il Pdl continuare ad appellarsi all'autorità che gli deriva da un popolo che gli ha dato torto per la seconda volta nell'arco di un mese. Vorrà dire che il vento è veramente cambiato e che la sola strada da percorrere sarebbe quella d'un governo nuovo di zecca che gestisca gli ultimi due anni di questa legislatura oppure - se quell'ipotesi non si verificasse - lo scioglimento anticipato delle Camere e nuove elezioni.

* * *

Si pone a questo punto la domanda: che cosa accadrebbe se Berlusconi e il suo governo rifiutassero di passare la mano e continuassero pervicacemente a restare appoggiati alle poltrone? Possono farlo?

Teoricamente sì, possono farlo: un governo, a norma della Costituzione, deve dimettersi quando il Parlamento gli vota la sfiducia. Senza questo passaggio rimane in carica. Per fare che cosa? Per governare.

È quello che gli si chiede invano da tre anni. Finora l'ha chiesto l'opposizione ed una parte consistente dell'opinione pubblica, ma ora glielo chiedono anche gli italiani che fin qui l'hanno sostenuto con un consenso che sta smottando ogni giorno di più. Lo chiedono addirittura i suoi più fedeli sostenitori che si sono auto-battezzati "servi liberi e forti". Una definizione singolare e non facile da interpretare, forgiata dal Foglio che fa della libera servitù una sorta di nuova divisa fondata sul paradosso.

Che cosa vogliono questi "pasionari" che hanno liberamente accettato di servire il Cavaliere? Lo scrive per tutti loro Giuliano Ferrara: vogliono che Berlusconi torni ad essere quello che fu nel '94, rinverdisca la sua grinta e il programma di allora, si ripresenti in questa nuova foggia e si riprenda il suo popolo che gli è sfuggito di mano.

Sembra una richiesta difficile quella di rimettere le lancette del tempo indietro di 17 anni per poter riprendere lena e saltare in avanti. Perciò siamo andati a rivisitare con la memoria e la documentazione come era 17 anni fa l'uomo Berlusconi e il suo programma.

Ebbene, i "servi liberi e forti" non chiedono assolutamente niente: il Cavaliere era allora quello che è oggi (a parte la pancia che allora non aveva e i capelli che invece gli ornavano il cranio). Lui era sbruffone, bugiardo e megalomane tal quale è tuttora. Il programma era meno tasse, meno Stato, crescita economica, maggiore reddito, più lavoro, più sicurezza. Ed è ancora quello per la semplice ragione che quel programma non è mai stato attuato.

Cari servi liberi, la vostra richiesta è la più eloquente testimonianza che 17 anni sono stati dissipati. La vostra libera servitù ha soltanto contribuito a creare una palude piena di miasmi nella quale avete impantanato un Paese che ora finalmente ha deciso di alzarsi e camminare senza di voi.

(05 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #289 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:47:39 pm »



di Eugenio Scalfari

Di giorno fa il ministro dell'Economia, ma di notte studia le mosse che lo rendano «indispensabile» per Palazzo Chigi. Che, secondo i suoi piani, deve cadergli in mano come una pera matura, visto che B. è agli sgoccioli

(03 giugno 2011)

Tempi duri per tutti. Sobrietà? Macché: implosione. Nessuno ha capito che cosa vuole esattamente dire e proprio per questo fa paura. è una parolona che può riservare sorprese tremende ma anche qualche imprevisto beneficio. Perciò bisogna camminare col passo silenzioso e gli occhi che vedono anche al buio come i gatti quando sentono al tempo stesso la minaccia di un pericolo e l'odore del cibo.

Tempi duri per i Responsabili. Se si sciolgono le Camere per loro è finita, neanche un posto in lista perché voti non ne portano e c'è ben altro cui pensare. Perciò più che mai legati a puntellare la maggioranza che si sfalda. Ma puntellarla a gratis non conviene. Perciò pochi, maledetti e subito. Per averli, quei pochi, bisogna tenere viva la forza del ricatto, minacciare l'astensione, adombrare la possibilità di un abbandono e magari cambiare gruppo parlamentare. Dai Responsabili al Misto. Puntellare ma con parsimonia. "Adelante, Pedro, con juicio". Un ossimoro da niente!

Tempi duri anche per i deputati e senatori dell'opposizione. Se Bersani farà quello che ha preannunciato, presentando i progetti, i disegni di legge, prendendo l'iniziativa delle riforme urgenti, assentarsi, presentare libri, chiedere permessi di viaggio o semplicemente distrarsi non sarà più possibile. Franceschini e la Finocchiaro dovranno placcare continuamente deputati e senatori, emanare circolari e lettere a pioggia, stare attaccati ai telefonini, e lo stesso dovranno fare Bocchino e Cesa e Di Pietro e i Verdi e i Socialisti. Tutti in aula e nelle commissioni, legati ai banchi come Vittorio Alfieri. Qui si fa (si rifà) l'Italia o si diventa macchiette.

Tempi duri per Calderoli. Aveva acquisito un certo credito negoziando i decreti federalisti con flessibile abilità, ma dopo le più recenti sortite (i ministeri a Milano o non paghiamo le tasse, il capo dello Stato resti pure a Roma tanto non conta una mazza) il suo credito è svanito. E poi l'abbigliamento! Quei pantaloni verde bandiera su camicia verde pisello con giacca verde marcio e cravatta verde shocking, sono inaccettabili anche dai leghisti. Zaia è disgustato, Cota distoglie lo sguardo, Maroni se la ride.

Tremonti. Per lui non saranno tempi duri ma molto molto difficili. Ci vorrà un lavoro fino, un'opera di gioielleria e d'intarsio, roba che neanche Bulgari. Finora ha giocato sul riserbo e sulle assenze significative, ha promesso progetti di riforme magnificenti allontanandone sempre più la data di realizzazione, ha immaginato riforme a costo zero. Soprattutto ha manifestato disinteresse a salire di ruolo. Nessuna aspirazione a Palazzo Chigi. Lui sta bene dove sta. Legge Aristotele e Agostino. Adesso pare si sia immerso in Tacito e Svetonio perché quando i tempi si fanno duri bisogna prepararsi ai colpi maestri.

Andrà a Chigi se sarà chiamato da tutti. Vuole il plebiscito. Di giorno lavora dietro la scrivania di Quintino Sella, di notte "alla fioca lucerna" studia le mosse che lo rendano indispensabile. Danaro da spendere non c'è e le tasche degli italiani non debbono essere manomesse, ma la benzina e le sigarette, condite con un po' di inflazione è roba accettabile. E poi ci sono le banche. E' il loro momento. Se faranno sistema con il Tesoro, il Tesoro farà sistema con loro.

E' un Paese bancocentrico il nostro, lo è sempre stato e sempre lo sarà e adesso che Draghi finalmente ha tolto il disturbo anche la Banca d'Italia dovrà prendere il suo posto a tavola. Non dovrà avere l'ossessione della vigilanza e non dovrà rompere sempre gli zebedei. E a Francoforte bisognerà far capire a Draghi che non si monti troppo la testa perché i governatori che siedono nel Consiglio della Bce non sono pupetti ma semmai pupari con i quali bisogna fare i conti.

Palazzo Chigi? Deve cadergli in mano come una pera matura. La Lega lo appoggerà, Napolitano non avrà scelta, la sinistra manderà giù il rospo pur di eliminare il Cavaliere. E poi lui, Giulio, proporrà più Stato che mercato. Stato leggero ma presente, presentissimo: Cassa depositi e prestiti, Banca del Sud, banche popolari al seguito. Consob. E Banca d'Italia sottobraccio al Tesoro. Così matura la pera.

La Lega sarà la pietra su cui costruire il nuovo edificio, ma non si facciano illusioni a Pontida: dovranno tirare il carro senza avere in mano le briglie. Nel Paese delle banche il governo è dei banchieri, non di Calderoli e nemmeno di Bossi. Il federalismo lo pagheranno i Comuni. Credevano forse che sarebbe stata una festa? Le riforme costano ma produrranno ricchezza. Fra trent'anni o al massimo quaranta. Vedere per credere. Del resto il sole è stato sempre quello dell'avvenire.


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« Risposta #290 inserito:: Giugno 12, 2011, 05:32:47 pm »

L COMMENTO

Quattro motivi (più uno) per votare

di EUGENIO SCALFARI

L'anteprima (rispetto al voto referendario di oggi e di domani) si è svolta ad "Annozero" di giovedì scorso. È stata l'ultima apparizione di questo "talk show" televisivo dove, per l'occasione, Michele Santoro aveva convocato i ministri Brunetta e Castelli da un lato e Bersani e Di Pietro dall'altro. Sullo schermo apparivano poi i cancellieri del Tribunale di Milano e i figli dei magistrati uccisi dalle Brigate rosse trent'anni fa, i cui ritratti campeggiano sulla facciata del palazzo di giustizia milanese. C'era anche il figlio dell'avvocato Ambrosoli, ucciso dalla mafia su commissione di Michele Sindona. Travaglio aveva letto il suo intervento sul legittimo impedimento con il racconto di quanto avviene nelle democrazie "serie" nei rapporti tra magistratura e politica e quanto avviene in Italia. Il confronto è devastante. C'era stata anche l'apparizione di Beppe Grillo che - dopo il suo consueto attacco contro la casta politica - incitava i suoi grillini a partecipare al voto referendario.
Dopo l'esordio di Santoro sui suoi rapporti con la Rai, lo spettacolo - perché di grande spettacolo si è trattato - è cominciato con le riprese sulla riunione dei "Servi liberi" promossa da Giuliano Ferrara martedì scorso al cinema Capranica di Roma. Comparivano i volti e si ascoltavano le frasi dei direttori dei giornali berlusconiani e soprattutto di Ferrara, della Santanché e di Alessandra Mussolini.

Non è stato un rilancio ma un funerale del berlusconismo la riunione del Capranica officiata dai suoi più ferventi seguaci. Basta averli ascoltati per arrivare a questa conclusione. Ma alla stessa conclusione si è arrivati seguendo ad "Annozero" il dibattito tra i due ministri e i due oppositori. Brunetta e Castelli sembravano due maschere buffe del teatro napoletano trasportate al Nord. Bersani e Di Pietro hanno avuto facile gioco. Chi avesse avuto dubbi su come è stata ridotta la democrazia italiana dopo 17 anni di berlusconismo non può averne più: quel dibattito è un documento e dopo averlo ascoltato riesce inconcepibile concepire che quei due personaggi siano due ministri della Repubblica.

Fine dell'anteprima. Chi non l'ha vista se ne procuri la registrazione, ne vale la pena.

* * *

Oggi e domani si vota sui quattro quesiti referendari. Si vota "sì" oppure "no" oppure non si vota affatto con l'intenzione di far fallire i referendum.

Bisognerà a tempo debito riformare la legislazione referendaria introducendo il referendum propositivo accanto a quello abrogativo e togliendo il "quorum". Se una legge vigente non piace o se un gruppo consistente di cittadini vuole proporre una legge, il "quorum" non ha senso come non avrebbe senso per le elezioni politiche e amministrative dove infatti non è previsto.

Ma questo riguarda il futuro. Al momento il "quorum" è previsto e chi vuole che vinca il "sì" deve come prima condizione fare quanto può perché sia raggiunto. Chi punta sull'astensione sa che si gioverà dell'astensionismo fisiologico che oscilla da sempre tra il 15 e il 20 per cento. Basterà dunque che l'astensione attiva sia del 35 per cento per vanificare la massa dei "sì". Così avvenne anche per la procreazione assistita.

I "sì" e i "no" che vanno a votare giocano dunque con un braccio legato rischiando di perdere con un 50 contro un 35. Sarà questo il risultato? Noi crediamo e speriamo di no perché crediamo che i quattro quesiti meritino il "sì". Ed anche per gli effetti politici che una vittoria referendaria potrà provocare.

Dopo la sconfitta al primo turno delle amministrative e quella ancor più cocente nei ballottaggi, l'ottenimento del quorum e la vittoria dei sì completerebbe la serie con effetti imprevedibili. Escludo le dimissioni di Berlusconi, ma non escludo l'implosione sia del Pdl sia della Lega. Implosione già in corso in entrambi quei partiti, resa ancor più acuta dalla situazione economica, dalla precarietà dei mercati finanziari, e dalle richieste dell'Europa ai paesi con bassa crescita ed elevato debito pubblico.

* * *

In entrambi questi due dati di fatto - bassa crescita ed elevato debito pubblico - l'Italia è in testa rispetto a tutti gli altri paesi dell'Unione europea, preceduta soltanto dalla Grecia, dal Portogallo e dall'Irlanda. E qui, sulla politica economica e fiscale, campeggia la personalità di Giulio Tremonti. Anzi il problema Tremonti, perché negli ultimi mesi e in particolare dopo la batosta delle amministrative, il ministro dell'Economia è diventato un problema sia per Berlusconi sia per Bossi. Un problema pressoché irrisolvibile.

Sia Berlusconi sia Bossi hanno bisogno, per tener compatti i loro seguaci, di alleviare la pressione fiscale che grava sulle fasce medio-basse e sulle imprese medio-piccole. Tremonti si dichiara disposto a questi alleggerimenti ma li colloca nel 2014. Nel frattempo preannuncia l'esatto contrario: dovrà prelevare dai contribuenti 40 miliardi di denaro fresco per portare in pareggio il deficit e il bilancio. Ha deciso di spalmare questo prelievo su quattro esercizi: 3 miliardi quest'anno, 8 nel 2012 e 15 in ciascuno dei due anni successivi.
La crescita? Aspetterà. Gli sgravi? Aspetteranno oppure concederà qualche briciola tra un anno purché avvenga a costo zero.

Il termine costo zero significa dare con una mano e recuperare con l'altra. Dare in basso e recuperare in alto, esattamente il contrario di quanto desidera il Cavaliere. Il quale tuttavia qualche cosa ha ottenuto: potrà proclamare che entro il prossimo luglio il governo (Tremonti consenziente) approverà la legge di delega fiscale per attuare una riforma orientata all'abbassamento delle tasse.

Vero? No, falso. Tremonti ha accettato la delega fiscale che però procederà di pari passo con la manovra di 40 miliardi e degli sgravi a costo zero e Berlusconi e Bossi hanno dovuto fare buon viso a questa condizione. I decreti delegati procederanno dunque a passo di lumaca a cominciare dal 2012 e non produrranno alcun beneficio sui consumi, sui redditi medio-bassi, sulla condizione dei giovani e del Mezzogiorno. Ma neppure nel Nord. Nessun beneficio, anzi nel Nord semmai qualche onere maggiore.

Il solo beneficio per B. e B. sarà di carattere lessicale: potranno dire e proclamare che si approverà immantinente la delega fiscale per abbassare le tasse sperando che il colto popolo e l'inclita guarnigione siano composti da imbecilli. Questa è la loro speranza. Piuttosto esile. Nemmeno i "Servi liberi" ci crederanno. Ormai la gente vuole fatti e poiché i fatti saranno addirittura di segno contrario la gente sarà sempre più arrabbiata.

* * *

Come si risolve  il rebus della crescita senza abbandonare il rigore? Che significa "costo zero" in linguaggio concreto?

Non è un rebus di impossibile soluzione; basterebbe ridurre equamente le diseguaglianze e stipulare un patto sociale e generazionale; tutelare la sicurezza del lavoro flessibile ma non precario; portare la tassazione delle rendite a livello europeo e detassare i redditi medio-bassi e le imprese medio-piccole.

Passare gradualmente dalla tassazione sul reddito personale a quella sulle cose è una buona filosofia fiscale e Tremonti fa bene a indirizzare la sua riforma su questa strada, ma non è aumentando l'Iva che ci si arriva. L'Iva colpisce i consumi e genera inflazione, mentre i consumi dovrebbero essere rilanciati per poter rilanciare anche gli investimenti.

Per tassare le cose invece delle persone bisogna scegliere la via delle imposte reali completandole con una patrimoniale ordinaria a bassa aliquota (per molti anni fu dell'1 per cento quando Luigi Einaudi ne scriveva negli anni Venti dell'altro secolo) allo scopo di mantenere la progressività delle imposte che rischierebbe di perdersi passando dalle persone alle cose.

Su questi pilastri si può costruire il patto sociale e generazionale ed in questo quadro il federalismo acquista un senso nazionale e cementa l'unità del Paese combinando efficienza e solidarietà. La condizione affinché questa rinascita avvenga è che abbia termine al più presto l'ubriacatura populista e sia ripristinata la legalità.
L'appuntamento referendario di oggi e domani costituisce una tappa importante di questo cammino. Questa volta non è mancato l'incitamento della Chiesa a partecipare al voto. Nelle ultime ore quell'incitamento esplicito lanciato dal Papa è stato diffuso dalle parrocchie, dalle Comunità e dai monasteri soprattutto femminili. I giovani dal canto loro hanno usato in massa gli strumenti delle tecnologie. C'è stata una mobilitazione intensa e capillare e questo è di per sé motivo di conforto e di speranza. Se il risultato sarà positivo un grande passo avanti sarà stato compiuto.

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« Risposta #291 inserito:: Giugno 18, 2011, 11:09:57 pm »

La mossa rischiosa di Calderoli

di Eugenio Scalfari

Una legge per spostare a Milano alcuni ministeri.

La proposta della Lega risponde a varie esigenze: soprattutto segnala un malessere diffuso nel partito.

Che però potrebbe spaccarsi sulla prospettiva di rompere con il Pdl

(17 giugno 2011)

I disegni di legge di iniziativa popolare sono di solito proposti da gruppi di persone che desiderano realizzare specifici obiettivi non considerati prioritari dai partiti. Servono come minimo 50 mila firme e il deposito in Cassazione per il controllo della loro autenticità.

Martedì 8 giugno il ministro leghista Calderoli ha deciso di presentare una legge di iniziativa popolare sul trasferimento a Milano di alcuni ministeri. E' previsto che quella proposta costituisca il piatto forte della riunione della Lega a Pontida il prossimo 19 giugno e proprio da quel raduno abbia inizio la raccolta delle firme, prevista rapida e abbondante.

Ma perché un ministro e un partito ampiamente rappresentato in Parlamento ricorrono alla formula alquanto anomala dell'iniziativa popolare? Qual è lo scopo e quali le possibili conseguenze?
Gli obiettivi sono tre. Il primo è quello di chiamare a raccolta il popolo leghista dopo la batosta delle amministrative, dandogli la sensazione di un rilancio e riaccendendo entusiasmi che sembrano essersi alquanto sopiti. Avere due o tre ministeri a Milano non ha alcun significato concreto, anzi sarebbe fonte di inutili sprechi e gravosi disservizi, ma può avere un forte contenuto simbolico o almeno così sperano i capi della Lega. Demagogia? Fiducia nell'infantilismo dei loro seguaci?

Il secondo obiettivo contiene invece una forte carica esplosiva e non è rivolto ai leghisti ma all'esterno. Il bersaglio è Berlusconi e il Pdl. Quando la legge di iniziativa popolare arriverà in Parlamento l'implosione già in atto nel Pdl esploderà. A dir poco metà dei parlamentari di quel partito voteranno contro. Si aprirà in modo esplicito un cuneo tra i due partiti alleati e la crisi diventerà inevitabile. Oppure il Pdl si piegherà e risulterà chiaro che la Lega è il vero motore della maggioranza.
C'è infine un terzo obiettivo che è già stato raggiunto: la pura e semplice notizia dell'iniziativa presa da Calderoli ha già anticipato le fibrillazioni all'interno del Pdl e nello stesso governo. Rappresenta la prova che l'incontro di Arcore del 6 giugno è andato malissimo ed è il segnale che la Lega ha rilanciato la propria autonomia rispetto all'alleato.
Tre obiettivi, il terzo dei quali sta già producendo effetti politici di notevoli dimensioni. La manovra ha tuttavia anche alcune controindicazioni per la Lega perché mette allo scoperto una lacerazione all'interno del gruppo dirigente. Il ministro dell'Interno, Maroni, non è infatti d'accordo con Calderoli. Le tensioni diventeranno acute col passar dei giorni. Neanche Tremonti è d'accordo e le ragioni nel suo caso sono evidenti.

Due o tre ministri dislocati al Nord valgono per la Lega un costo politico così elevato? L'alleanza con Berlusconi è stata fin qui essenziale; il federalismo non avrebbe fatto i passi avanti legislativi e non sarebbe diventato un tema di dibattito nazionale senza quell'alleanza. Una rottura, per di più su un tema chiaramente pretestuoso, accentuerebbe il carattere localistico della Lega e le alienerebbe anche molti consensi nelle Regioni dove il suo insediamento è più forte. Le amministrative hanno già registrato lo smottamento di quel consenso che potrebbe assumere dimensioni impreviste da un'iniziativa così inutilmente avventata.

Ma poiché il gruppo dirigente leghista non è composto da imbecilli, se l'iniziativa di Calderoli è stata condivisa da Bossi e dallo stato maggiore è segno che il malessere interno di quel partito è molto più intenso di quanto finora non sia apparso. Oppure è il segno che i dirigenti leghisti si sono rimbecilliti. Nell'un caso come nell'altro, la situazione è grave ma non è seria. Dimostra che i due partiti di centrodestra camminano a tentoni e non sanno come uscire dal labirinto in cui si sono infilati e in cui, purtroppo, hanno infilato il Paese.

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« Risposta #292 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:33:11 am »

IL COMMENTO

Il rebus di Tremonti dopo Pontida

di EUGENIO SCALFARI


Il REBUS Tremonti. Qualcuno pensa che sia decifrabile? E lui, Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, ne possiede la chiave oppure nemmeno lui è in grado di rivelarne la soluzione? Personalmente opto per questa seconda ipotesi; si sono create condizioni tali che neppure il protagonista del rebus riesce a districarsi dalla rete che lui stesso ha contribuito a costruire. A volte capita in natura che il ragno resti intrappolato dalla rete tessuta dalla sua saliva e questo è il caso. Con ciò non voglio affatto dire che Tremonti non abbia le idee chiare su quello che deve fare come ministro dell'Economia, le ha chiarissime; ma non sa quale sarà il suo avvenire di uomo politico, che pure gli sta sommamente a cuore.

Questo è il rebus sul quale si appuntano gli sguardi in questa vigilia di Pontida, dove Tremonti ha il ruolo del convitato di pietra. Che ci sia o non ci sia non ha importanza: il convitato è lui, è con lui che la Lega dovrà fare i conti, Berlusconi dovrà misurarsi, Gianni Letta dovrà incrociare la spada, Bersani dovrà decidere se appoggiarlo o stopparlo e così Casini, così Vendola, Di Pietro, Fini. Gli atteggiamenti di questi interlocutori e le scelte che faranno configurano nel loro insieme la rete di cui Tremonti è il centro. Il rebus è se sarà lui a governarla o se ne sarà governato.

* * *
Intanto i mercati  finanziari sono sempre più agitati, lo "spread" dei Buoni del Tesoro italiani con scadenza decennale
oscillano tra i 180 e i 200 punti rispetto al "Bund" tedesco. Il "default" greco incombe, la Banca centrale europea richiama l'Italia a fissare subito i tempi della manovra da 40 miliardi necessaria per azzerare il deficit e pareggiare il bilancio, mentre l'Italia dei referendari, del precariato, delle famiglie, reclama provvedimenti che rilancino la crescita e una più equanime distribuzione del reddito sociale.

Infine le agenzie internazionali di "rating", con la Moody's in testa, preannunciano un giudizio negativo sul debito sovrano italiano. È la prima volta che accade e le Borse lo stanno già registrando. Lunedì probabilmente la reazione dei mercati sarà anche peggiore.

Questa è dunque la rete in tutte le sue componenti. Dicevamo che essa è stata costruita anche con la saliva del ragno che ne sta al centro ed è esattamente così. Fu infatti Tremonti, ministro del Tesoro nel 2001, a inaugurare la finanza creativa in obbedienza al volere del suo leader che gli aveva imposto di non mettere le mani del fisco nelle tasche degli italiani.

La finanza creativa, fatta di condoni, di "swap", di cartolarizzazioni, fu la trovata tremontiana per obbedire al suo leader e galleggiare sul mare agitato della finanza internazionale. Il risultato fu l'accresciuta propensione dei contribuenti ad evadere, l'azzeramento dell'avanzo delle partite correnti, l'aumento del rapporto tra il Pil e il debito pubblico, l'invarianza della pressione fiscale, l'aumento delle diseguaglianze, l'encefalogramma piatto della crescita reale dell'economia.

Non è propriamente un bel consuntivo quello che il Tremonti del 2001 lasciò ai suoi successori, i quali lo lasciarono al Prodi del 2006, il quale a sua volta con qualche miglioramento lo lasciò al Tremonti del 2008. Nel frattempo il Nostro aveva scritto alcuni libri di notevole interesse tracciando una sorta di filosofia della storia economica non particolarmente nuova ma nuovissima per chi aveva esordito con un programma liberale del "meno Stato, più mercato".

La filosofia del Tremonti 2008 capovolgeva nettamente quel programma, proiettava lo Stato nazionale verso l'auspicata e auspicabile Federazione europea, evocava un'attiva presenza pubblica soprattutto nel mercato del credito, tanto più quando le acque agitate della finanza internazionale divennero tremenda tempesta a causa della bolla immobiliare americana, della crisi dei titoli derivati, del fallimento di alcune tra le più importanti banche d'affari in Usa, in Gran Bretagna, in Germania.

Infine della recessione che si diffuse in tutto il pianeta e dalla quale non siamo ancora completamente usciti. Il nuovo Tremonti rigorista era dunque in linea con le circostanze malgrado che il suo Capo strepitasse sempre di più. Ed ora che cosa farà? In queste condizioni, con questi interlocutori, con questa Europa, con questi mercati?

* * *

Una prima constatazione: Tremonti è solo. Il suo Capo ormai lo detesta anche se non potrà fare a meno di lui. La Lega, della quale sembrava essere il garante, lo ha preso in uggia. Nel Pdl ha tutti contro. Il presidente della Repubblica lo stima ma non è e non vuole essere un soggetto politico. Mario Draghi è sempre stato critico della sua politica; il fatto che abbia lasciato la Banca d'Italia per ascendere alla presidenza della Bce non migliora la condizione del nostro ministro dell'Economia, anzi potrebbe perfino peggiorarla. Dunque Tremonti è solo, salvo l'appoggio della Commissione di Bruxelles e lo spauracchio della speculazione che, paradossalmente, gioca in suo favore perché lo rende indispensabile e inamovibile.

Seconda constatazione: Tremonti vuole passare alla storia della finanza italiana come colui che ha fatto la riforma del fisco, dopo quelle di Quintino Sella, di Giovanni Giolitti, di Alberto De Stefani, di Ezio Vanoni e di Bruno Visentini. Dovrei aggiungere anche i nomi di Vincenzo Visco e Tommaso Padoa-Schioppa, ma potrebbe sembrare provocatorio e quindi me ne astengo.

Il complesso della riforma tremontiana ancora non è noto ma le sue linee maestre sono ormai emerse. Vuole semplificare un'architettura ormai ingestibile lasciando in piedi soltanto cinque grandi imposte: sul reddito personale, sul reddito delle imprese, sull'Iva, sui consumi, sui beni reali mobiliari e immobiliari. Dalle persone alle cose. Dal reddito ai consumi e al patrimonio, sfoltendo e se possibile azzerando la selva dei contributi, degli sgravi, delle deduzioni, degli assegni familiari, dei bonus di vario tipo e specie. Il tutto con gradualità e nel quadro del federalismo.

In teoria una riforma del genere, con diminuzioni di aliquote in alcuni casi e aumento di aliquote in altri, dovrebbe dare un risultato netto di minore evasione, maggior gettito per l'erario, minore pressione fiscale per la platea dei contribuenti. Quest'imponente costruzione dovrebbe esser varata nell'anno prossimo e funzionare a regime entro il 2014. Il calendario sembra alquanto ottimistico. Con i tempi che corrono sarà un miracolo se l'intero edificio - federalismo compreso - sarà pienamente funzionante entro il 2020.

* * *

Di questi traguardi troppo lontani e delle ambizioni di Tremonti di entrar nella storia, a Berlusconi e a Bossi, per dirla crudamente, non gliene frega assolutamente niente. Loro hanno bisogno di soldi, molti maledetti e subito. Invece ne avranno poco e non subito: bene che vada potranno contare su uno spicciolame di dieci miliardi nel 2012 e per di più a costo zero, ribassi di aliquote Irpef e Irap contro aumenti dell'Iva per pari importo, con il rischio che tali aumenti si scarichino sul tasso di inflazione e quindi sul costo della vita. Forse alcuni Comuni che dispongono di importi liquidi non spesi potranno essere autorizzati ad investirli in opere pubbliche di competenza locale: una goccia nel mare e per di più a rilascio non immediato.

Basterà? Lo vedremo oggi sul pratone di Pontida. Le ipotesi sono due: Berlusconi e Bossi faranno finta che basti e troveranno la quadra tra loro per galleggiare. Poi, in contemporanea con la finanziaria per il 2012 che conterrà il primo scaglione della manovra da quaranta miliardi concordata con l'Europa, Berlusconi e Bossi apriranno la crisi e la partita passerà nelle mani del Quirinale.

Oppure: Berlusconi e Bossi cercheranno di imporre a Tremonti il famoso coraggio reclamato da Maroni e Tremonti deciderà di ritirarsi, con grande gioia dei mercati. Questa seconda ipotesi mi sembra altamente improbabile, ma non si può del tutto escludere, come non si può escludere che, prima che tutto precipiti, la Lega punti su una riforma della legge elettorale concordandola con l'opposizione.

Quest'ultima dal canto suo dovrà tirar fuori i progetti concreti che da tempo sono pronti e gettarli nello scontro parlamentare martellando e stimolando l'avversario. Non è ancora arrivato il tempo di mattare il toro. Bisognerà sfinirlo con agguerrite pattuglie di "picadores" e di "banderilleros". Durerà pochi mesi se non saranno commessi errori.
 

(19 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #293 inserito:: Giugno 26, 2011, 10:08:15 am »


IL COMMENTO

Una zattera in tempesta senza timoniere

di EUGENIO SCALFARI

I  RIFIUTI di Napoli. La manovra fiscale da quarantacinque miliardi. La speculazione contro le banche e contro il debito sovrano. La P4 di Bisignani.

Sono queste le questioni attorno alle quali si stanno riposizionando le figure del teatro politico con una differenza rispetto al passato: non sono più le ideologie a guidare i loro movimenti, ma problemi estremamente concreti e un nuovo vento che ha trasformato i modi di sentire degli italiani.

L'ipnosi in cui da alcuni anni erano caduti è terminata, si sono risvegliati dall'indifferenza e non danno più retta alle promesse: vogliono i fatti e li vogliono subito.

Questo positivo risveglio non è tuttavia privo di rischi e pericoli. La soluzione di problemi complessi e antichi non si improvvisa, l'epoca dei miracoli è finita, non esistono bacchette magiche. I risvegliati debbono partecipare con tenace intelligenza alla costruzione della nuova società; è giusto che chiedano fatti e non parole, ma i fatti non cadono dal cielo, sono le tappe d'un percorso e d'un impegno.

I risvegliati debbono contribuire alla costruzione di quel percorso e garantire il loro impegno, altrimenti il vento nuovo si affievolirà, tornerà la bonaccia e l'indifferenza, l'attesa di improbabili miracoli e d'una nuova figura carismatica che si proponga come l'ennesimo uomo della provvidenza.

Non esistono uomini della provvidenza se non nella fantasia di sudditi che si rifiutano di diventare cittadini.

Le esperienze antiche e recenti
dovrebbero averci insegnato che il popolo sovrano esiste soltanto se la sovranità viene esercitata ogni giorno, da tutti e da ciascuno, operando al meglio nel proprio privato e partecipando alla costruzione del bene pubblico. Se il vento nuovo servirà ad infonderci questi sentimenti e questi comportamenti, il risultato ci sarà.

***

Berlusconi è sempre più cupo e si rende conto sempre meno di quanto sta accadendo nel Paese e intorno a lui. Bossi versa in analoghe condizioni. Sono i due capi della maggioranza parlamentare ma hanno perduto lucidità e credibilità, avvinti da un comune destino. "Simul stabunt simul cadent".

Maroni lo dice ormai apertamente. Lo dicono Casini e Fini. Lo dice Bersani e perfino Bisignani lo dice con i suoi mille interlocutori.

Tra le cause dell'umor nero del Cavaliere quella più dolorosa per lui è stata la scoperta dei veri sentimenti che i suoi più fedeli sostenitori nutrono nei suoi confronti. Le conversazioni di Bisignani con ministri e ministre, dirigenti di partito, giornalisti a stipendio, manager di enti pubblici, sono state altrettante coltellate per lui che aveva lanciato il partito dell'amore.

In realtà non l'ha mai amato nessuno; le profferte di fedeltà intrise di amorosi sensi erano una mascheratura per ottenere benefici, carriere, ricchezza, potere. La sua cupezza proviene soprattutto dall'aver scoperto questa realtà. Pensava di rappresentare un Paese, un'ampia cerchia di fedeli, un gruppo di innamorati. Si ritrova solo, intrappolato, irriso. E quindi disperato. Ma ancora indispensabile per la cricca.

La cricca si è divisa in gruppi e gruppetti. Se lui facesse adesso il passo indietro la guerra civile si scatenerebbe
all'interno del berlusconismo.

Perciò se lo tengono stretto in attesa di nuovi equilibri. Ma quali? Si tratta in realtà di una zattera sconquassata, senza più timoniere né timone, a bordo della quale c'è il governo d'un Paese che è ancora uno dei dieci più importanti paesi del mondo.

Questa è la nostra sciagura, dalla quale prima usciremo meglio sarà per tutti.

***
Il tema dei rifiuti di Napoli ha soverchiato tutti gli altri negli ultimi tre giorni sebbene sia un fatto locale, limitato ad una città e ad una provincia.

Per consentire il trasferimento provvisorio dell'immondizia napoletana in attesa che entrino in funzione gli altri necessari meccanismi previsti dal sindaco de Magistris, è necessario un decreto del governo che superi i contrasti locali e imponga alle Regioni una solidarietà nazionale che altrimenti non si manifesta. Ma la Lega si è messa di traverso, non vuole il decreto e non lo voterà in Consiglio dei ministri né in Parlamento. Calderoli ha parlato a nome di tutto il partito e ha messo nero su bianco il no leghista.

Nel frattempo il Presidente Napolitano ha fatto urgente appello a tutte le parti in causa e in particolare al governo affinché scongiuri attraverso apposita decretazione d'urgenza una calamità sanitaria che avrebbe conseguenze incalcolabili. Ma la Lega non ha cambiato atteggiamento e questa è la ragione che ha fatto balzare i rifiuti napoletani a problema numero uno. Poiché Pontida ha registrato una generale insoddisfazione del movimento leghista e poiché quel partito è dilaniato da una guerra intestina che si svolge ormai alla luce del sole, l'unico modo per superare la difficoltà è quello di alzare al massimo i toni dello scontro. Sembra che Berlusconi risponderà a muso duro ai "niet" di Calderoli anche se il decreto sui rifiuti si limiterà allo stretto necessario.

Restano tre giorni di tempo per vedere se ancora una volta la Lega, dopo aver abbaiato, tornerà a cuccia oppure voterà effettivamente contro il governo di cui fa parte.

Ma nel frattempo incalza l'altro tema fondamentale, quello della manovra fiscale che sta massimamente a cuore della Lega e non soltanto di essa. Sta a cuore ai lavoratori e alle loro organizzazioni sindacali, alla Confindustria e alle imprese, alle famiglie, al lavoro in tutte le sue forme. Sta a cuore alle agenzie di rating, ai mercati, alle banche, all'Europa. E sta a cuore - ovviamente - a Giulio Tremonti che su quel tema e su quella politica gioca la sua credibilità e la sua carriera.

***

La Lega vuole ottenere un allentamento del rigore fiscale che premi soprattutto le aziende della Lombardia e del Nordest, i lavoratori autonomi, le infrastrutture padane e le finanze dei Comuni virtuosi. Ma anche l'opposizione vorrebbe provvedimenti che favoriscano la crescita, fermo restando il rigore e i vincoli di stabilità. Il punto di riferimento di questa politica è il discorso che Mario Draghi pronunciò il 31 maggio scorso nel salone della Banca d'Italia: liberalizzazioni, tagli della spesa mirati e selettivi, doppio pedale di rigore e di rifinanziamento della crescita.
Le differenze tra le richieste della Lega e le proposte dell'opposizione sono quelle che passano tra politica nazionale e interessi localistici.

L'opposizione vorrebbe iniziare un percorso che parta da una diversa distribuzione sociale del carico tributario. La Lega privilegia invece una diversa distribuzione geografica. Tra queste due concezioni la differenza è molto elevata tanto più che l'opposizione accetta il paletto tremontiano delle riforme a costo zero mentre per la Lega (ed anche per Berlusconi) il costo zero è un intralcio e nient'altro.

Tremonti sembra più vicino alle tesi dell'opposizione che a quelle leghiste anche se tenda a collocare la crescita e le relative riforme che la rendano possibile in una prospettiva di tre-quattro anni. Rifugge da interventi immediati che scontentino alcune fasce sociali a beneficio di altre; è scettico su una ripresa dei consumi e non vuole dissipare risorse per obiettivi illusori.

Se vogliamo trarre una prima conclusione da questa analisi diciamo che Berlusconi, Bossi, Tremonti sono tutti e tre in una condizione di estrema solitudine politica, con una differenza: i primi due possono esser rimossi dai loro attuali incarichi senza conseguenze catastrofiche, il terzo è per ora inamovibile a meno di non far ricorso a nomi che diano all'Europa e ai mercati garanzie di tenuta e credibilità. Viene in mente Mario Monti. Purtroppo altri non se ne vedono.

***

Che cosa rappresenta il caso Bisignani, esploso proprio mentre è in atto un positivo risveglio della coscienza nazionale? Il caso Bisignani è l'epilogo d'un regno, d'un costume, d'una devianza strutturale purtroppo non nuova per la società italiana.

Qualcuno ne trae argomento per suggerire la legalizzazione delle "lobbies", ma non si tratto di questo. Il sistema Bisignani non è una "lobby", non tutela alla luce del sole un interesse specifico e legittimo.
Il sistema Bisignani è la messa in comune di informazioni riservate d'ogni genere, provenienti da fonti d'ogni genere, utilizzabili per raggiungere obiettivi d'ogni genere.

Le informazioni riguardano procedimenti giudiziari, appalti, nomine nel governo, negli enti pubblici, nei giornali, nelle televisioni. Le fonti sono ministri, magistrati, uomini d'affari, faccendieri, ma anche uffici riservati dei carabinieri, dei servizi segreti e soprattutto della Guardia di Finanza.

È strano il destino di questo corpo armato dello Stato. È quello che con più tenacia e più lucidità persegue evasori e corrotti ma è quello anche che, specie nei dintorni del suo comando generale, fa parte da trent'anni di cosche e reti di malaffare.

Gli obiettivi di questa P4 sono di procurare vantaggi alle fonti.

Un'immensa massoneria che non ha neppure la forma d'una società segreta come fu la P2. Bisignani fu nella P2, ha esperienza, è stato condannato per le malefatte che compì allora; perciò la sua P4 è una rete molto più estesa ma molto più leggera dove la corruzione è il cemento, l'ex magistrato e deputato Papa è il simbolo più smaccato e Bisignani il confessore di tutti. Tutti si confessano, non per essere perdonati ma perché le loro confessioni hanno un valore di scambio e un valore d'uso. Le confessioni sono il patrimonio e l'avviamento della P4, la loro messa in comune è la ricchezza di Bisignani.

Di reati ce ne saranno una infinità e spetta alla magistratura perseguirli, ma la rete scoperchia una realtà obbrobriosa, un sistema istituzionale metastatizzato, un archivio di malefatte e di gossip di cui Bisignani è il paziente raccoglitore e il furbo custode.

Quando il potere si manifesta con queste fattezze lo schifo ti serra la gola. Il vento nuovo che spira da qualche tempo potrà, speriamolo, dissipare questi miasmi e scacciare i loschi mercanti che hanno venduto l'interesse pubblico alle cupidigie private corrompendo e deformando la democrazia, calpestando la giustizia ed elevando il privilegio a canone d'una politica.

Tutto questo deve finire.

 

(26 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #294 inserito:: Giugno 28, 2011, 04:33:46 pm »

IL COMMENTO

Non va bene un proconsole alla Banca d'Italia

di EUGENIO SCALFARI

IL "FORCING" di Giulio Tremonti sulla nomina del governatore della Banca d'Italia va osservato con molta attenzione. Avviene negli stessi giorni e quasi nelle stesse ore nelle quali si discute la sua manovra finanziaria alla luce delle richieste sempre più perentorie che gli vengono fatte da Berlusconi e da Bossi. Si direbbe che la nomina di Grilli al posto che ancora per poche settimane sarà occupato da Mario Draghi possa essere il prezzo di concessioni sulla manovra, nel senso di renderla più mite e di concedere qualche compenso alle famiglie e alle imprese secondo i desideri del governo e della Lega.

Se questo scambio dovesse avvenire la cosiddetta purezza d'intenti del ministro dell'Economia ne sarebbe fortemente compromessa ed è strano che non se ne renda conto. Così pure è strano che il suo appoggio alla candidatura di Grilli alla guida della Banca d'Italia si sia trasformato in una vera e propria imposizione nei confronti di Berlusconi, con sgarri procedurali vistosi in una materia dove il rispetto delle forme ha un'importanza sostanziale. Due giorni fa sul nostro giornale abbiamo pubblicato alcune "indiscrezioni" la cui paternità era facile intuire, che contenevano l'elenco delle ragioni in favore della candidatura di Grilli.

Ha 54 anni e quasi tutti i governatori di Banche centrali hanno più o meno la stessa età; seguiva l'elenco dei nomi e l'età anagrafica dei governatori in questione. Grilli è esterno alla Banca d'Italia e quasi tutti i governatori
di fresca nomina sono stati scelti all'esterno delle rispettive Banche centrali (seguiva l'elenco). In gran parte dei casi i governatori provengono dai ministeri del Tesoro dei rispettivi paesi (ennesimo elenco). Dal canto suo Tremonti annunciava pubblicamente - e Berlusconi confermava - che il Consiglio superiore della Banca di via Nazionale avrebbe dovuto emettere il suo parere martedì 28 (oggi per chi legge) mentre il Consiglio dei ministri avrebbe deciso il 30 sulla nomina e anche sulla manovra. E qui gli strappi di procedura: il Consiglio superiore non avrebbe dovuto dare il parere sul nome del candidato ma avrebbe dovuto limitarsi a tratteggiarne l'identikit; un solo nome sarebbe entrato in Consiglio dei ministri come candidato e ne sarebbe uscito come governatore; il Consiglio dei ministri avrebbe redatto il decreto e Berlusconi l'avrebbe portato alla firma del Presidente della Repubblica il quale però, nel giorno in cui queste notizie venivano diffuse dai giornali, era ancora all'oscuro dell'improvvisa accelerazione.
È opportuno - prima di procedere oltre - ricordare che il decreto di nomina del governatore della Banca d'Italia non è un atto del governo che viene portato al Quirinale per essere controfirmato. Al contrario: è un decreto del Presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio, sentito il Consiglio superiore dell'Istituto. Proprio per questo si è sempre parlato di un "atto complesso" nel quale debbono incontrarsi e coincidere diverse volontà.

A quanto risulta da fonti molto attendibili ci sono stati in proposito due incontri tra Napolitano e Berlusconi. Le stesse fonti escludono che i nomi dei candidati siano stati vagliati e tantomeno che uno di essi sia stato scelto. È stato però riaffermato un criterio: il candidato deve assicurare la piena indipendenza dell'istituto che andrà a presiedere e nei limiti del possibile la continuità con quanto fin qui per tre anni è stato fatto da Draghi e dal direttorio attualmente in carica. Lo stesso criterio è anche stato espresso nei giorni scorsi da Carlo Azeglio Ciampi e dallo stesso Draghi il quale dovrebbe essere ricevuto oggi a Palazzo Chigi Per quanto riguarda il Consiglio superiore della Banca, fonti altrettanto attendibili fanno sapere che il parere richiesto dalla legge, non vincolante ma obbligatorio, sarà dato dal Consiglio superiore soltanto sui nomi e non sui criteri. Fino a quando i nomi o il nome non saranno stati ufficialmente indicati il Consiglio non potrà emettere alcun parere. La procedura sarà dunque sospesa in attesa che i nomi siano stati fatti.

* * *
Dirà forse qualcuno che si tratta di quisquilie e di pagliuzze prive di importanza. Nessuno però l'ha detto per la semplice ragione che non è così. Si sta infatti discutendo di quale sia il ruolo della Banca d'Italia e di chi è preposto a guidarla nei confronti da un lato del governo nazionale e dall'altro della Banca centrale europea della quale i governatori nazionali fanno parte integrante.
A questo punto la discussione si deve necessariamente spostare sulla natura di questo duplice rapporto. Anzitutto con il governo nazionale. La Banca d'Italia non ha più - come tutte le sue consorelle dell'euro-gruppo - attribuzioni concernenti la politica monetaria, la fissazione dei tassi di interesse e di risconto e, di conseguenza, del tasso di cambio con le altre monete. Ha invece competenza sulla Vigilanza del sistema bancario nazionale e rappresenta la più qualificata tribuna sull'andamento dei "fondamentali" e della congiuntura.

L'indipendenza di questa tribuna e l'autonomia della Vigilanza dal potere politico sono requisiti essenziali, ma non collimano con la concezione di Tremonti in proposito. Il nostro ministro dell'Economia non fa mistero del suo pensiero, l'ha espresso e l'ha scritto più volte riaffermandolo ancora nei giorni scorsi: la Banca d'Italia deve marciare di pari passo con il Tesoro evitando le "prediche inutili" che possono dar luogo a discrasie e disturbare il supremo manovratore che è per l'appunto il governo e in particolare il ministro dell'Economia a ciò delegato. La Banca d'Italia, in questa concezione, è una qualificata "struttura servente".

Non è mai stato così. Non lo fu con Menichella, con Carli, con Baffi, con Ciampi. Le loro "prediche inutili" non furono affatto tali, costituirono invece un contrappunto prezioso inducendo i governi a correggere e comunque a tener conto di quelle considerazioni e fornendo orientamenti utili alle parti sociali, agli operatori e al mercato. Tanto importanti da indurre un ministro del Tesoro della levatura di Nino Andreatta a sancire il cosiddetto "divorzio" tra la Banca e il Tesoro sulla delicatissima questione del finanziamento monetario del debito pubblico.

Nessuno nega che l'attuale direttore generale del Tesoro abbia sufficienti titoli di competenza, ma le forzature di Tremonti in suo favore, come del resto la carica che attualmente ricopre, ne fanno un tipico e legittimo esempio di struttura servente che va benissimo per il ruolo che riveste attualmente ma nient'affatto con quello che andrebbe a ricoprire in via Nazionale. Il ministro dell'Economia del resto di strutture serventi ne ha già una quantità, dalla Cassa depositi e prestiti alla costituenda Banca del Sud, al fondo per finanziare banche e imprese "strategiche", alla Consob. Annettersi anche alla Banca d'Italia configurerebbe una sorta di proconsolato del tutto inadatto ad una democrazia liberale che richiede molteplicità di soggetti dotati di sufficiente autonomia nei rispettivi terreni di competenza.

Il rapporto delle Banche centrali nazionali con la Bce è di tutt'altra natura. La Bce è guidata da un direttorio permanente e da un presidente che lo rappresenta al massimo livello. È un soggetto che gode di piena indipendenza nei confronti delle altre istituzioni europee. I governatori delle Banche centrali nazionali compongono insieme al direttorio il Consiglio dell'Istituto, nel quale riversano le informazioni economiche di cui dispongono e le loro valutazioni sulla congiuntura europea e internazionale. In quella sede non rappresentano un potere-terzo ma fanno parte essi stessi d'un potere-terzo e come tale deliberano, indirizzano il direttorio e ne sono indirizzati. Queste questioni sono dunque molto chiare. Confonderle non giova e non giova forzarne l'esecuzione. L'atto complesso della nomina si svolga dunque nel rigoroso rispetto delle procedure e secondo i criteri che debbono tener conto soltanto dell'interesse generale.

(28 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #295 inserito:: Luglio 03, 2011, 10:37:50 am »

IL COMMENTO

80 miliardi di rigore senza crescita

di EUGENIO SCALFARI
 
 

 È SBAGLIATO sostenere che Tremonti abbia ceduto alle pressioni congiunte di Berlusconi e di Bossi rinviando il grosso della manovra (40 miliardi) al biennio 2013-14. Il calendario era stato concordato da tempo con la Commissione di Bruxelles: i conti pubblici italiani erano considerati in sicurezza fino al 2012 dopo le manovre effettuate nel biennio precedente. Ci voleva una manovra ulteriore per arrivare entro il 2013 all'eliminazione del deficit ed entro il 2014 al pareggio del bilancio.

Perciò - l'ha sottolineato anche Napolitano - tutto procede secondo i ritmi prestabiliti anche se il peso della manovra si scaricherà sui primi due anni della nuova legislatura e del governo che ne sarà l'espressione.

Il Presidente della Repubblica ha anche osservato che decidere oggi quello che dovrà avvenire tra due-tre anni vincola la responsabilità dell'attuale maggioranza. È un auspicio che tenta di stabilire un collegamento e una coerenza di comportamenti tra la maggioranza attuale e quella della nuova legislatura, quale che ne sarà la composizione e il colore; ma è un auspicio scritto sull'acqua perché, fermo restando il fine del pareggio del bilancio, i modi per arrivarci riguarderanno il futuro Parlamento, il futuro governo ed anche il futuro Presidente della Repubblica. Il futuro è sulle ginocchia di Giove, ammesso che Giove da qualche parte ci sia.

Resta il fatto che nel quinquennio 2009-2014 le manovre decise da Tremonti, dal governo e dalla maggioranza ammontano nel complesso a 80 miliardi pagati ovviamente dai contribuenti. Bisogna a questo punto chiedersi a che cosa è servito un prelievo di risorse così imponente ed anche quali sono i ceti che ne hanno sopportato il maggior peso.

Prima però di rispondere a questi due interrogativi è opportuno ricordare che, per quanto riguarda la manovra di 40 miliardi che avverrà nel biennio 2013-2014, è stata finora indicata la copertura per 18 miliardi (Sanità, sfoltimento delle detrazioni, congelamento degli organici e degli stipendi del pubblico impiego, tagli di contributi alle Regioni e ai Comuni). Per oltre 22 miliardi la copertura non è ancora nota ma dovrà esserlo prima che il decreto (ma meglio sarebbe un disegno di legge) venga trasmesso al Parlamento.

È opportuno altresì ricordare che contemporaneamente al decreto (o disegno di legge) concernente la manovra Tremonti presenterà anche una legge-delega per la riforma del sistema fiscale. Si tratta di due operazioni strettamente connesse che incideranno profondamente sull'economia reale ed anche sulla formazione delle risorse e sulla loro distribuzione.

Fa molto bene il Presidente della Repubblica a raccomandare condivisione politica su un fagotto di decisioni e di normative grosso come una montagna; purtroppo anche questa sua raccomandazione, come l'altra già citata, è scritta sull'acqua perché sia Tremonti sia Berlusconi sono disposti soltanto ad accettare che l'opposizione voti le loro decisioni senza tuttavia modificarle perché, come ha detto in proposito il ministro dell'Economia, "quattro deve restare quattro". E sono anche decisi - Tremonti e Berlusconi - a chiedere la fiducia se lo riterranno necessario, per cui l'esortazione di Napolitano non avrà alcun seguito.

Purtroppo non avrà seguito neppure l'osservazione che il Presidente della Repubblica ha formulato dopo aver firmato il decreto sui rifiuti di Napoli. Calderoli gli ha già risposto sprezzantemente a nome della Lega. La situazione in casa leghista deve essere molto seria se Bossi e i suoi colonnelli trattano con questa disinvoltura i suggerimenti del Capo dello Stato.

* * *

Consideriamo ora i due interrogativi che ci siamo posti: quali sono gli obiettivi che la manovra voleva realizzare e chi ne ha sopportato il peso maggiore. Con due necessarie premesse: l'intera operazione è avvenuta nel corso della grande crisi internazionale che ha investito il mondo intero; la suddetta operazione non contempla però le manovre che nel frattempo sono state compiute dagli enti locali con le poche imposte delle quali essi autonomamente dispongono e con i debiti che hanno autonomamente contratto, da aggiungere al debito pubblico che riguarda direttamente lo Stato. Ed ecco gli obiettivi che avrebbero dovuto essere raggiunti.

Un obiettivo politico che governo e maggioranza si erano posti fin dal 2001 (anzi fin dal 1994) fu la riduzione del carico fiscale. Ma questo impegno era una falsa e irrealizzabile promessa e tale si è dimostrata. Tale resterà anche quando nel 2014 la riforma fiscale sarà entrata in vigore.

Bisognava migliorare i servizi, statali e locali. Ma i servizi non sono migliorati, semmai sono peggiorati.

Bisognava ridurre il debito pubblico. Il debito pubblico è aumentato, attualmente viaggia al 120 per cento del Pil.

Bisognava creare una rete di protezione che desse un senso al lavoro flessibile e impedisse che la flessibilità si trasformasse in precariato. Questa rete non è stata costruita.

Bisognava ridurre le diseguaglianze sociali, ma le disuguaglianze sono aumentate.

Bisognava accrescere la produttività e la competitività del sistema. Sono entrambe fortemente peggiorate.

Bisognava bloccare la spesa corrente la quale è aumentata negli ultimi vent'anni ad un ritmo medio del 2 per cento annuo.

Bisognava far crescere gli investimenti e quindi la spesa in conto capitale. È avvenuto esattamente il contrario: la spesa corrente ha continuato nel suo ritmo di crescita del 2 per cento e quella in conto capitale è praticamente vicino allo zero.

Bisognava sfoltire e semplificare la burocrazia e liberalizzare le procedure che governano l'imprenditorialità. Non c'è stata alcuna semplificazione nonostante il falò di leggi abolite dal ministro Calderoli; nessuno ha mai saputo quali carte abbia bruciato quel folcloristico ministro. Sta di fatto che l'obiettivo semplificatorio viene riproposto quasi una volta al mese da alcuni anni. Se ne parla ancora nel progetto di riforma fiscale e se ne è parlato nei recenti provvedimenti sullo sviluppo. Insomma è un mantra ricorrente da vent'anni e mai realizzato. Sarebbe più serio non parlarne più. Doveva essere - la semplificazione burocratica - parte integrante del federalismo, ma anche il federalismo è rimasto allo stato larvale. Perfino i leghisti si sono ormai accorti che con questi chiari di luna il federalismo è diventato una parola vuota.

* * *

Tuttavia quegli 80 miliardi sono stati prelevati. Sono serviti a far diminuire il rapporto tra spese correnti e Pil al netto degli interessi sul debito, ma nel frattempo l'onere di quegli interessi è cresciuto. L'altro obiettivo di quegli 80 miliardi è come sappiamo l'azzeramento del disavanzo di bilancio. Dovrebbe avvenire entro il 2014. Incrociamo le dita.

Si aggiunga che i costi della politica non saranno toccati ora ma se ne parlerà anche per essi nella prossima legislatura.

Questo è il consuntivo. Nient'affatto esaltante.

L'onere della manovra ha pesato finora interamente sul lavoro dipendente e sui pensionati. Nel frattempo l'evasione fiscale è fortemente aumentata. La Guardia di Finanza e l'Agenzia delle entrate hanno quest'anno recuperato 10 miliardi dall'evasione ma nel frattempo l'ammontare complessivo dell'evasione è aumentato di 30 miliardi (cifre Istat, Banca d'Italia, Ministero del Tesoro): recuperano dieci e perdono trenta.

Ci siamo scordati di qualche cosa? Sì, ci siamo scordati della crescita. Sia l'Europa, sia la Bce, sia il Fondo monetario internazionale ci hanno chiesto rigore e rilancio della crescita. Il rigore c'è stato e continuerà, ma di crescita nemmeno a parlarne: non c'è stata e non si prevede che ci sarà, l'encefalogramma dello sviluppo è piatto da vent'anni e tale resterà fino al 2014. Berlusconi voleva, Bossi voleva, ma mettevano una condizione: niente mani nelle tasche. Di chi? Dei ceti abbienti. Tremonti li ha fatti contenti, la crescita aspetterà.

* * *

Nelle ultime ore i complimenti a Tremonti si sono sprecati. L'hanno ringraziato tutti: i ministri, il presidente del Consiglio, i dirigenti del suo partito, i giornali di famiglia, i cugini, anche quelli in quarto grado e oltre. Le autorità europee. Ma di che cosa?

Il debito sovrano è sempre esposto a tutti i venti. Il rendimento dei Btp è arrivato al 5 per cento, record storico. Il differenziale dei titoli italiani rispetto al Bund tedesco viaggia oltre quota 200. Le pensioni minime sia d'anzianità che di vecchiaia sono ferme a 500 euro mensili. I redditi sotto ai 30 mila euro sono tartassati, quelli sopra ai 70 mila sono favoriti dalla riforma fiscale. Il peso delle imposte sarà spostato dalle persone ai consumi e a i servizi.

Per sostenere i massicci rinnovi di titoli pubblici in scadenza, il Tesoro premerà sulle banche affinché sottoscrivano a fermo. Proprio per questo il ministro dell'Economia vuole che la Banca d'Italia diventi una "struttura servente" del Tesoro.

Di che cosa dobbiamo dunque ringraziare Tremonti? Francamente non so rispondere. Mi si potrà dire che poteva andare peggio, ma anche al peggio c'è un limite e a me sembra sia stato toccato.

Post scriptum. Qualche giorno fa il giornale Il Fatto quotidiano ha inventato un "disparere" tra me e il collega Massimo Giannini, vicedirettore ed editorialista del nostro giornale, a proposito delle nostre valutazioni sul ministro dell'Economia. Informo i colleghi del Fatto quotidiano che noi di Repubblica lavoriamo in squadra, fermo restando che non ci sarebbe niente di strano se ci fossero pareri diversi in un libero giornale. Nella fattispecie però quei pareri diversi non ci sono stati. Giannini ha avuto una conversazione con Tremonti e ne ha fedelmente riferito il contenuto con notizie esclusive e importanti sulla manovra. Poi ha scritto alcune considerazioni critiche su quanto il ministro gli aveva comunicato. Due giorni dopo ho scritto un articolo sulla Banca d'Italia che è stato letto, vagliato, messo in pagina e titolato da Giannini. A Repubblica noi lavoriamo così e ne siamo molto contenti.

(03 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #296 inserito:: Luglio 10, 2011, 05:12:07 pm »



di EUGENIO SCALFARI

LA FINE d'un regno ha sempre un andamento drammatico e talvolta addirittura tragico. Pensate a Macbeth e a Lear ma anche a Hitler e a Mussolini, dove la realtà sembra imitare i vertici della letteratura.
Talvolta però alla cupezza del dramma si accompagna la sconcia comicità della farsa; sconcia perché inconsapevole e quindi cupa e drammatica anch'essa. Vengono in mente alcuni comprimari del fine regno berlusconiano: Brunetta, Gasparri, La Russa, Quagliariello, Sacconi, Ghedini, Prestigiacomo, Gelmini, Alfano e il suo partito degli onesti. Con Calderoli siamo al culmine della comicità inconsapevole, a cominciare da come si veste e da come cammina: non è un pavone che esibisce la sua splendida ruota e neppure un tacchino con i suoi bargigli, ma ha piuttosto l'andare del gallinaccio, il più sgraziato dei pennuti.

Bossi no, non è comico ma profondamente drammatico: un leader lucido e sensibilissimo a cogliere gli umori della sua gente, cui la malattia aveva addirittura conferito un di più, quella parlata inceppata, quei gesti di una volgarità voluta, quella faccia segnata ma non rassegnata: così era stato fino a un anno fa, ma poi il vento è cambiato anche nella Lega e il Senatur ha cominciato ad annaspare. Ora sembra un timoniere senza bussola e senza stelle che procede alla cieca in una fitta foschia mentre infuria lo scontro per la successione.

Il dramma di Berlusconi è ancora più complesso ed enigmatica la sua comicità. A volte è anche per lui
inconsapevole e quindi oscena come nel caso della nipote di Mubarak. Ma poi usa consapevolmente quella stessa comicità, la trasforma in barzelletta con la quale strappare al suo pubblico una risata e un applauso con la duplice intenzione di dimostrare la sua autoironia e la sua calma nella tempesta. A volte però la barzelletta non piace, non provoca la risata liberatoria ma un assordante silenzio e in lui sempre più spesso emerge la sindrome della solitudine, del tradimento, della congiura.

Leggendo l'altro ieri la sua intervista a "Repubblica" tutti questi passaggi sono chiarissimi: c'è la stanchezza d'un leader che preannuncia il suo futuro di padre nobile, il disprezzo verso i nemici esterni, l'ira verso i traditori interni, la volontà di mantenere il potere attraverso i figliocci da lui delegati. Infine il colpo di teatro d'affidare il lascito testamentario ad un giornale da lui attaccato, vilipeso, ingiuriato.

E Tremonti? Qual è la parte di Tremonti in questo fine regno sempre più incombente?
Ha appena varato una manovra finanziaria che avrebbe dovuto mettere al sicuro i conti pubblici e il debito sovrano, ma proprio nei giorni del varo i mercati sono stati scossi da una speculazione che ha il nostro debito, le nostre banche, i nostri titoli, come bersagli primari. Invece di rafforzare la stabilità del governo e della maggioranza la manovra ha aumentato le crepe diventando a sua volta un fattore di instabilità.
Potrà in queste condizioni il ministro dell'Economia restare al suo posto? Potrà reggere al dibattito parlamentare che si annuncia estremamente difficile?

* * *

La storia  -  lo sappiamo  -  non si fa con i se, ma i se a volte ci aiutano a capir meglio i fatti che sono realmente avvenuti. Dove saremmo oggi se il 14 dicembre del 2010 Berlusconi non avesse avuto la fiducia?
Il governo sarebbe caduto, il Presidente della Repubblica avrebbe aperto le consultazioni e molto probabilmente avrebbe nominato un nuovo governo, un nuovo presidente del Consiglio, un nuovo ministro del Tesoro. I nomi non mancavano ed erano tutti di primissimo piano, da Mario Monti a Mario Draghi. I mercati sarebbero stati ampiamente rassicurati da quei nomi e dalla loro politica.
Purtroppo non andò così. Oggi i mercati stanno attaccando i titoli pubblici emessi dallo Stato e i titoli delle banche; il rendimento dei buoni del Tesoro decennali è salito al 5 e mezzo per cento, lo "spread" rispetto al Bund tedesco a 2,48.

Nel frattempo ieri mattina la Corte civile d'appello di Milano ha condannato la Fininvest, nel processo di secondo grado sul Lodo Mondadori, a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 560 milioni di euro. Si tratta d'una sentenza che fa giustizia in sede civile d'uno dei più gravi reati che il nostro codice penale contempla: la corruzione di magistrati. Quel reato fu accertato con sentenza definitiva ma Berlusconi ne fu tenuto fuori perché per lui erano decorsi i termini della prescrizione.
Restava tuttavia il diritto della parte lesa al risarcimento del danno e a questo ha provveduto la sentenza di ieri. Essa certifica che l'impero editoriale del presidente del Consiglio è fondato su un gravissimo reato penale. Noi l'abbiamo sempre saputo e sempre detto e questo è per noi il valore politico e morale della sentenza di ieri.

* * *

Ribadito che la reazione negativa dei mercati è motivata principalmente dall'implosione della maggioranza di centrodestra, occorre tuttavia esaminare la manovra nella sua impostazione politica e tecnica, ambedue estremamente manchevoli.

Il ministro dell'Economia aveva inizialmente spacchettato i tempi dell'operazione: per l'esercizio in corso un intervento di un miliardo e mezzo, di semplice manutenzione. Nel 2012 cinque miliardi e mezzo e tanto bastava secondo il calendario concordato con l'Ue. Il grosso nei due esercizi successivi, 20 miliardi in ciascuno di essi per azzerare il deficit nel 2013 e per realizzare il pareggio del bilancio nel 2014. In totale 47 miliardi, ai quali bisognava aggiungerne circa 32 utilizzati nel 2009-2010 per mettere i conti pubblici in sicurezza.
Sembrò che queste operazioni fossero sufficienti e che il loro risultato finale segnasse il pieno successo di Tremonti e per riflesso del governo di cui egli è il perno economico. Mancavano in questo quadro di rigore finanziario, interventi destinati alla crescita del prodotto interno lordo, ma il superministro non mostrava di preoccuparsene. La crescita sarebbe venuta al momento opportuno. Protestavano le imprese, protestavano i sindacati, protestavano le organizzazioni dei commercianti e dei consumatori e protestavano anche Berlusconi e Bossi, ma Tremonti restava fermo e sicuro con l'appoggio dell'Europa e  -  così sembrava  -  anche dei mercati.

Ma poi le cose sono radicalmente cambiate e una realtà del tutto diversa è venuta a galla. Fermo restando lo spacchettamento temporale, si è venuti a sapere che Tremonti aveva effettuato un altro tipo di spacchettamento: la manovra vera e propria non era di 47 miliardi ma soltanto di 40; di questi, 25 erano contenuti nel decreto firmato quattro giorni fa da Napolitano (dopo che era stata ritirata la vergognosa norma mirata a bloccare la sentenza sul Lodo Mondadori). Altri 15 miliardi sarebbero stati invece reperiti con la legge delega per la riforma fiscale, che dovrà anch'essa esser votata dal Parlamento nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

È proprio la riduzione della manovra che ha indotto Giorgio Napolitano nel momento in cui firmava il decreto a indicare la necessità di ulteriori interventi da prendere al più presto possibile. Senza ancora entrare nel merito, la criticità che ha allarmato i mercati si deve soprattutto a quei 15 miliardi affidati alla legge delega. Dovrà essere approvata dal Parlamento e dovrà poi confrontarsi, nel momento di emettere i decreti delegati, non solo con l'apposita commissione bicamerale ma soprattutto con la conferenza Stato-Regioni. E poiché la parte più rilevante dei 15 miliardi da reperire è prevista proprio a carico delle Regioni e degli Enti locali, è facile prevedere che il negoziato sarà lungo e molto complesso.

La reperibilità e la tempistica restano dunque i punti interrogativi che difficilmente saranno risolti nel prossimo esercizio.
Quanto al merito, la manovra da 25 miliardi e la riforma fiscale per reperirne altri 15 poggiano, come ha più volte osservato Bersani, su prelievi a carico del sociale: il taglio dei contributi agli Enti locali, le maggiori imposte territoriali, il peggioramento dei servizi, il potere d'acquisto delle famiglie, la mancata rivalutazione delle pensioni, i giovani disoccupati, l'età pensionistica delle donne.

Se si dovesse definire con due parole il significato politico di questa imponente operazione, di cui uno degli interventi principali è l'imposta sui titoli depositati nelle banche, si dovrebbe definirla una manovra di classe. Forse questo piacerà al Pdl e per alcuni aspetti anche alla Lega, ma certo non piacerà alle opposizioni e soprattutto a quelle fasce sociali che si sono manifestate nelle recenti elezioni amministrative e nel voto referendario.

* * *

L'ultimo capitolo che marca il fine regno berlusconiano è la marea degli scandali che coinvolge due eminenti deputati del Pdl, Alfonso Papa e Marco Milanese, un ministro di recente nomina, quel Saverio Romano sul quale il Presidente della Repubblica nell'atto di firmare il decreto di nomina voluto da Berlusconi indicò un possibile impedimento giudiziario che in quel momento era soltanto potenziale ma che ora è diventato di stringente attualità perché a suo carico è stato formalizzato dal Tribunale di Palermo un mandato di cattura per associazione mafiosa.
Papa, Milanese, Romano sono i tre terminali sui quali stanno lavorando le Procure di Napoli, Palermo e Roma e che riguardano appalti, nomine in alcune imprese di natura pubblica, dazioni di danaro, gioielli, automobili di altissimo pregio, immobili, informazioni riservate ed usate per ricatti e vere e proprie estorsioni.
Il centro di alcuni di questi scandali e di questi reati è la Guardia di finanza e il suo Comando generale. Il ministro dell'Economia, ascoltato di recente come testimone dalla Procura di Napoli, ha addirittura ammesso che esistono due cordate nella Guardia di finanza che operano per favorire due diversi candidati alla nomina di comandante generale.

Tremonti del resto è coinvolto in pieno dallo scandalo Milanese; un uomo che è al suo fianco dal 2005 e che è stato colto con le mani nel sacco per decine di reati, ricatti, uso di informazioni riservate. Di tutto ciò il ministro garantisce di non essere mai stato al corrente. Delle due l'una: o il ministro non dice il vero oppure la sua dabbenaggine nella scelta dei collaboratori rasenta un livello tale da minare la sua credibilità.
In questa situazione sarebbe estremamente urgente che il Partito democratico producesse una seria proposta alternativa di politica economica, di politica istituzionale e di legge elettorale. Bersani si era impegnato a farlo subito dopo le elezioni del maggio scorso, ma quella promessa non è stata mantenuta, si è restati nel vago di dichiarazioni che non descrivono una politica nella sua completezza e concretezza.
Il Pd rischia di perdere un'occasione storica per ridare un ruolo al centrosinistra e al riformismo. Viene da dire  -  insieme alle donne italiane di nuovo mobilitate  -  se non adesso, quando?

(10 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #297 inserito:: Luglio 13, 2011, 04:13:24 pm »

IL COMMENTO

Un cura immediata da 12 miliardi

di EUGENIO SCALFARI

LA BORSA italiana ha paurosamente sbandato nella prima mattinata di ieri, poi si è ripresa. L'emissione di titoli del Tesoro è andata male, c'è stato un calo della domanda e un'ulteriore impennata dei rendimenti e dello "spread" rispetto al Bund tedesco. Le altre Borse europee hanno continuato a ballare per tutta la giornata e la stessa cosa è avvenuta a Wall Street. L'attacco della speculazione è dunque rivolto contro tutta la finanza europea e non soltanto contro l'Italia. Ho avuto modo di parlarne ieri con Mario Draghi. La sua valutazione riguarda la necessità che il Consiglio dei Capi di Stato e di governo dell'Unione europea che si riunirà tra una settimana decida di rafforzare anzi di costruire una politica unitaria che finora non c'è stata e la cui assenza ha stimolato l'aggressività della speculazione e la fragilità dei mercati. Avremo dunque ancora alcuni giorni molto agitati in Europa (e anche in Usa) prima di "riveder le stelle". E in Italia? I commentatori italiani hanno spiegato il miglioramento di Piazza degli Affari con la dichiarazione di Tremonti appena rientrato da Bruxelles a Roma: "Torno al mio posto per chiudere la manovra".

Il presidente del Senato dal canto suo ha fissato per giovedì il voto ed ha incassato l'accordo delle opposizioni a collaborare costruttivamente con il governo. Napolitano segue minuto per minuto l'andamento dei mercati e il comportamento delle forze politiche e ne sollecita il senso di responsabilità. L'insieme di questi fatti spiegherebbe il recupero del mercato italiano dopo un inizio che faceva temere il peggio, ma non dice tutto. I mercati non danno gran peso alle dichiarazioni politiche se ad esse non seguono fatti concreti e se ne infischiano delle intenzioni di Alfano, di Bersani, di Bossi e di Schifani. Se ne infischiano anche delle dichiarazioni di Tremonti. Se l'andamento del mercato italiano ha registrato un recupero, ciò si deve soprattutto ad un massiccio intervento della Bce che ha acquistato titoli pubblici italiani per sostenerne il corso e alleggerire le nostre banche. Questa è la vera ragione del recupero e il deterrente che l'Europa può mettere in campo. Se il prossimo Consiglio dei Capi di Stato e di governo autorizzerà la Bce ad utilizzare il fondo già esistente per intervenire sui mercati in difesa dell'euro, la schiarita sarà duratura. Quel fondo ammonta a 500 miliardi con i quali la Bce può sbarrare il passo alla speculazione con un efficace tiro di controbatteria. Naturalmente ciascun paese deve dal canto suo mettere in campo politiche economiche adeguate che affianchino le iniziative prese dall'Ue e dalla Bce. L'Italia in particolare deve costruire una politica economica che sia all'altezza del suo peso: è il terzo tra i paesi ricchi dell'Eurozona; come ha ricordato ieri Ezio Mauro, il nostro debito pubblico rappresenta il 25 per cento del Pil dell'Eurozona, troppo elevato per farci fallire, ma anche impossibile da salvare se il fallimento diventasse inevitabile. In quel caso sarebbe l'intero sistema dell'euro ad affondare.

*  *  *
C'è un problema di credibilità politica italiana ed anche un problema di credibilità tecnica. E' difficile dire quale sia dei due quello di maggior peso. La credibilità politica del nostro governo è prossima allo zero in Europa, ma anche la credibilità tecnica si aggira su quel livello. Per dirla con parole chiare: la manovra attualmente in discussione in Parlamento è piena di buchi, di contraddizioni, di proposte sbagliate nel merito e nella tempistica. La sua approvazione al Senato entro giovedì dimostrerà soltanto il senso di responsabilità delle opposizioni, ma non cambierà la natura d'una operazione che è del tutto inefficace e a sconfiggere la speculazione e le reazioni negative del mercato.

Abbiamo già esaminato le manchevolezze della manovra. Le principali sono i due spacchettamenti effettuati dal ministro dell'Economia: quello d'aver collocato il grosso dell'operazione nel biennio 2013-14 e l'altro d'avere limitato la manovra vera e propria a 25 miliardi affidando la reperibilità degli altri 15 alla legge delega della riforma fiscale. Questo duplice spacchettamento ha lasciato il campo libero alla speculazione per tutto l'esercizio attualmente in corso. Tremonti ha più volte dichiarato che i conti pubblici italiani erano in sicurezza per tutto il biennio 2011-12. La risposta dei mercati è stata tale da ridurre a zero la credibilità del ministro. Dimostra che alla guida dell'Economia c'è un timoniere che naviga a vista e non ha alcuna percezione degli scogli disseminati sulla sua rotta. Ma questi non sono i soli errori contenuti nella manovra. Un errore è stato quello d'imporre una vera e propria patrimoniale sui titoli depositati presso le banche.

Dovrebbe fruttare un gettito di 3,6 miliardi ma scoraggerà l'affluenza di risparmio in Borsa e quindi il finanziamento degli investimenti sia pubblici sia privati. Un altro errore è stato quello di rinviare "sine die" il taglio dei costi della politica. Potevano fruttare almeno un miliardo. Molto di più se fossero state abolite le Province. Il solo azzeramento dei vitalizi agli ex parlamentari vale 218 milioni. Personalmente riscuoto come ex deputato un assegno netto di 2400 euro mensili.
Cinque anni fa inviai una lettera ai questori della Camera chiedendo che mi fosse annullato. La risposta fu che ci voleva una legge recepita dal regolamento della Camera, in mancanza di che l'assegno mi sarebbe stato comunque accreditato. Mi domando che cosa si aspetti ad annullare i vitalizi, ad allineare lo stipendio dei parlamentari a livello europeo, a diminuirne il numero, ad accorpare le Province e i Comuni.

Tornando all'insieme della manovra, 15 miliardi sono attesi dalla riforma del fisco. Significa che la nuova fiscalità dovrebbe concludersi con un saldo attivo di almeno 15 miliardi da destinare appunto al risanamento dei conti pubblici (ma non ci aveva detto il ministro che erano stati risanati?). Non conosciamo tuttora da dove verranno quei 15 miliardi perché l'architettura della riforma è sconosciuta (perfino al ministro?). Che cosa debbono pensarne gli operatori, i mercati, la speculazione? Penseranno questo: quei 15 miliardi in realtà sono una scommessa, l'intera manovra sarà parzialmente operativa non prima del 2013, la prateria è dunque aperta alle incursioni speculative d'ogni tipo e genere. Questa è stata la lungimiranza di Tremonti. E questa sarà la manovra che il Senato approverà giovedì. Pensare che basterà a calmare i mercati significa sognare a occhi aperti.

*  *  *
C'è una sola cosa da fare e da fare immediatamente: anticipare con decorrenza immediata le operazioni collocate nel 2012 e nel 2013. Anticiparle per un ammontare di almeno 10 miliardi puntando soprattutto sul taglio di spese e non su inasprimenti fiscali. Insomma elevare la manovra per il 2011 dagli attuali due miliardi a dodici. Questo deve proporre Tremonti al governo del quale è parte e questo deve ottenere. La manovra così emendata è quella che il Parlamento deve approvare. Diversamente approverà un documento scritto sull'acqua, privo di qualsiasi attuale efficacia. Dopodiché sia il presidente del Consiglio sia il ministro dell'Economia dovrebbero sgombrare il campo. Di danni ne hanno fatti fin troppi. Il loro ritorno a casa sarebbe l'unico regalo che dovrebbero fare al paese.

(13 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #298 inserito:: Luglio 17, 2011, 07:05:07 pm »

   
L'OPINIONE Berlusconi Governo

Quei due personaggi senza più autore

di EUGENIO SCALFARI

Abbiamo tutti lamentato il silenzio assordante di Berlusconi in questi lunghi giorni di tempesta finanziaria e sociale, ma il Cavaliere si conosce bene e sapeva che se avesse parlato avrebbe creato altri e serissimi guai. Infatti così è stato. È intervenuto alla Camera venerdì scorso nella seduta di approvazione della manovra economica ed ha letto una dichiarazione di poche righe nella quale si compiaceva della tenuta della maggioranza e della capacità del governo di governare. Ma poi è sceso nell'emiciclo ed ha parlato con i suoi deputati e con i giornalisti nei corridoi di Montecitorio.
Il succo delle sue dichiarazioni è stato questo: è falso che sia "commissariato" da Napolitano e da Tremonti; la manovra è stata imposta dall'emergenza e così com'è non gli piace affatto ma la colpa è dell'Europa; c'è una congiura dei giudici comunisti contro di lui a cominciare dalla Corte d'Appello civile di Milano che vuole rovinare Fininvest e mettere sulla strada duemila lavoratori di Mediaset; al ministro Romano, presente in aula, ha raccomandato di non dimettersi in nessun caso; ai deputati del Pdl ha raccomandato di difendere compattamente il loro collega Alfonso Papa quando tra pochi giorni l'aula di Montecitorio dovrà votare sul suo arresto chiesto dal Gip di Napoli. Infine ha ammonito Bossi perché receda dal preannunciato voto della Lega in favore dell'arresto di Papa, che sarebbe "un fatto gravissimo con effetti estremamente pericolosi". Questo è dunque il Berlusconi-pensiero quale risulta non da indiscrezioni più o meno attendibili, ma da sue dichiarazioni che sono state registrate dagli operatori televisivi e dai telefonini dei giornalisti assiepati attorno a lui. Se l'Europa e i mercati avevano bisogno di un'ennesima prova della confusione che aleggia sulla "governance" dell'Italia, la prova è stata ampiamente fornita dal presidente del Consiglio.
A questo punto si pone la domanda: la permanenza di Berlusconi alla guida del governo contribuisce positivamente alla stabilizzazione finanziaria o è invece un fattore altamente destabilizzante? Si può andare avanti in questo modo fino al gennaio 2013 e poi per altri sei mesi fino alle elezioni di maggio con i poteri del Quirinale affievoliti dal semestre pre-elettorale?
Ce la poniamo in molti questa domanda. Immagino che se la ponga soprattutto Giorgio Napolitano la cui attiva presenza è stata uno degli elementi che ha consentito l'approvazione della manovra in appena cinque giorni. "Un miracolo" ha detto il presidente della Repubblica. È vero, un miracolo mai avvenuto prima, ma i miracoli non si ripetono e non bastano per guidare un Paese. Ci vuole un governo credibile, un'opposizione credibile, una classe dirigente credibile.

***

L'opposizione credibile c'è e tutti (salvo Berlusconi) l'hanno riconosciuto, dallo stesso Napolitano ai presidenti del Senato e della Camera, dal ministro dell'Economia alla Lega e ai capigruppo del Pdl.
Ma proprio perché l'opposizione è credibile e ne ha dato la prova, proprio nel momento in cui il Parlamento dava il via libera alla manovra il segretario del Pd e tutto lo stato maggiore di quel partito hanno chiesto le dimissioni immediate del presidente del Consiglio ed hanno preannunciato che a cominciare da subito formuleranno un programma per capovolgere l'asse portante della manovra evitando la "macelleria sociale" che essa contiene, fermi restando i saldi che la manovra ha posto come paletti necessari a rassicurare i mercati e a tutelare il debito e i titoli dello Stato.
Il Partito democratico, l'Idv e il Terzo Polo hanno accumulato un credito consistente rendendo possibile il "miracolo". Ora hanno il diritto e il dovere di mettere questo credito all'incasso nell'interesse generale, ma è evidente che l'opposizione parlamentare da sola non basta.
Per uscire dallo stallo è necessario un più vasto concorso di popolo e di istituzioni, ciascuna nell'ambito della propria competenza. La classe dirigente, le forze sociali, la società civile sono chiamate a dare un fondamentale contributo. Andare avanti così significa che il miracolo compiuto il14 luglio ha cessato di operare.
Un commentatore molto attento, Fabrizio Forquet, ha scritto venerdì scorso su 24 Ore: "La manovra ha tenuto in carreggiata la macchina, ora è tempo di darle benzina per tornare a macinare terreno. Anche perché quando lunedì i mercati si riapriranno la manovra-sprint sarà già passata. E ai desk dei traders si tornerà a guardare all'Italia in cerca di buone ragioni per acquistare o per vendere titoli italiani". Sarà esattamente così.

***

Ma Tremonti non è da meno quanto a improntitudine. Non parliamo dei suoi cinque anni di "finanza creativa" nella legislatura del 2001, basati sui condoni e sulle cartolarizzazioni senza coperture; parliamo di oggi, di questa manovra. Quando la presentò poco meno di due mesi fa era molto diversa e molto più mite di quella approvata il 14 luglio. Per lui bastava così e per la Commissione europea di Barroso anche.
Poi ci fu il nerissimo venerdì e l'altrettanto nero lunedì successivo e la manovra fu radicalmente cambiata sotto la spinta di Napolitano e con i suggerimenti di Mario Draghi. Da 40 miliardi fu aumentata a 48 ma per metterla ancor più in sicurezza, una clausola di salvaguardia ne prevede altri 20 eventualmente riassorbibili nella riforma fiscale. Siamo dunque ad un totale di quasi 80 miliardi, un salasso di quelli che possono ammazzare un Paese se non saranno gestiti con altissima professionalità e con altrettanto solida credibilità. Osserviamo che il rapporto tra tagli di spesa e maggiori imposte raggiunge il 50 per cento. La vera macelleria sociale è questa perché si tratta di imposte regressive.
Domanda: è credibile un ministro dell'Economia costretto a rivoluzionare un'operazione perché non aveva previsto le reazioni negative dei mercati? Nella seduta del 14 luglio alla Camera Tremonti ha pubblicamente ringraziato l'opposizione la quale gli ha risposto che aveva reso possibile l'approvazione per senso di responsabilità ma senza alcuna corresponsabilità perché giudicava pessima la manovra approvata e si preparava a proporne sostanziali modifiche.
Ora Tremonti parla del Titanic e ricorda che in disastri come quello se la nave va a fondo muoiono tutti. Qualcuno ha interpretato quelle parole come un richiamo alla Germania e alla Francia, altri come un richiamo ai ceti abbienti del nostro Paese, i quali tuttavia escono abbastanza immuni dalla macelleria sociale denunciata dall'opposizione. Ma c'è anche un'altra considerazione da fare: se la nave affonda muore anche il comandante che l'ha guidata a cozzare con l'iceberg, ma se la nave miracolosamente si salva, il comandante finisce comunque sotto processo e viene radiato dalla Marina.
A rigor di logica debbono dunque andarsene sia Berlusconi sia Tremonti. Le loro responsabilità sono molto diverse ma della stessa gravità. La loro presenza è destabilizzante, debbono dunque esser sostituiti con rapidità da persone credibili e competenti delle quali c'è per fortuna ampia scelta e disponibilità.
Nel frattempo il ministro dell'Economia è tenuto a spiegare come sia stato possibile che le nomine nei consigli d'amministrazione di società controllate direttamente o indirettamente dal Tesoro siano state affidate a quel Milanese che non aveva altro titolo fuorché quello di essere un consulente del ministero, scavalcando il direttore generale Vittorio Grilli, che peraltro si è fatto tranquillamente scavalcare senza opporre alcuna resistenza.
Tremonti sapeva che Milanese e non Grilli gestiva le nomine? Se lo sapeva la sua responsabilità politica è enorme, se non lo sapeva la sua credibilità politica è sotto zero.

***

Va di moda da qualche giorno addossare la crisi dei mercati all'inconsistenza dell'Europa e la prova sta nel fatto che la speculazione attacca con assalti ricorrenti tutte le piazze europee e non soltanto quelle più deboli e disastrate. Luigi Spaventa ha sostenuto questa tesi su Repubblica di ieri con dovizia di argomenti. Non è il solo, l'inconsistenza di un'efficace "governance" dell'Eurozona è evidente a tutti e ne sono altrettanto evidenti gli effetti negativi.
Va detto tuttavia che non tutte le istituzioni europee sono state assenti dalla gestione della crisi. Non è stata assente per esempio la più autonoma e la più europea di quelle istituzioni e cioè la Banca centrale che è nei mesi scorsi più volte intervenuta acquistando o accettando in garanzia titoli dei paesi più disastrati a cominciare dalla Grecia, dall'Irlanda, dal Portogallo. Al bisogno ha acquistato anche titoli spagnoli e austriaci.
Lunedì scorso, quando la turbolenza ha investito in pieno per il secondo giorno consecutivo il mercato italiano, la Bce ha massicciamente acquistato titoli italiani attingendo dalla massa monetaria appositamente accantonata per operazioni sul mercato aperto.
Di questa massa monetaria fa parte anche il Fondo di stabilità per la sicurezza dell'euro; ammonta a mezzo miliardo e potrebbe  -  dovrebbe  -  essere incrementato fino a quattromila miliardi. Si tratta d'un deterrente imponente che la Bce può usare per controbattere la speculazione, purché i paesi con più elevati debiti sovrani procedano alla loro graduale riduzione azzerando i disavanzi di bilancio e recuperando saldi attivi nelle partite correnti.
In Italia in questi ultimi tre anni il debito non ha fatto che crescere e il fabbisogno per finanziarlo ad aumentare e così continuerà fino al 2013. Solo in quell'anno avrà infatti inizio la riduzione netta del disavanzo di bilancio.
Questa è un'altra delle manchevolezze della manovra che è ancora troppo spostata in avanti. Occorre dare inizio all'aggiustamento già da questo esercizio e dal successivo se si vuole veramente recuperare la fiducia dei mercati.
Infine bisogna pensare da subito alla crescita e alle riforme di liberalizzazione. Farsi dettar legge dai notai e dagli avvocati circa la liberalizzazione degli ordini professionali è una prova di impotenza; spostare alla prossima legislatura tutti gli interventi che riducono il costo della politica segnala un'altra impotenza. Questi segnali non aiutano a recuperare la perduta credibilità e la smarrita fiducia.
Ancor meno aiuta l'aria di irrespirabile corruzione all'interno della Guardia di Finanza. Non è un fenomeno nuovo, dura a dir poco da trent'anni. Ma ora la sensibilità della pubblica opinione è finalmente aumentata e quel fenomeno non è più oltre sostenibile. Spetta anche in questo caso al ministro dell'Economia dal quale dipende quel corpo dello Stato fornire un quadro esaustivo della situazione, delle responsabilità, degli eventuali peccati di omissione suoi e dei suoi collaboratori e proporre efficienti terapie. Come si vede non siamo affatto fuori dai rischi che tuttora ci sovrastano. La sola vera buona notizia riguarda il nostro sistema bancario: nessuno dei nostri maggiori istituti di credito ha avuto giudizi negativi nei test europei sul patrimonio delle banche. Bisogna quindi evitare di penalizzarle sia con provvedimenti fiscali sia mobilitandole per l'assorbimento dei titoli alle aste del Tesoro. Le banche debbono destinare le loro risorse al finanziamento degli investimenti. Altri compiti sono impropri e debbono essere evitati.

Post Scriptum. È stato approvato alla Camera un obbrobrioso testamento biologico. Probabilmente contiene disposizioni anticostituzionali. Ma indipendentemente dai rilievi eventuali del Capo dello Stato al momento della firma e dagli accertamenti di costituzionalità della Corte, questo è uno dei casi in cui la società civile e le forze politiche sensibili ai temi di libertà debbono mobilitarsi e lanciare il referendum abrogativo. Subito, prima ancora che il Senato completi l'iter parlamentare della legge. La libera stampa parteciperà a questa mobilitazione. Noi di Repubblica certamente ci saremo.

(17 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #299 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:16:14 am »

Bravi i finanzieri, i generali mica tanto

di Eugenio Scalfari

Nell'affare Bisignani rispunta la doppia anima della Guardia di Finanza: affidabile nei suoi gruppi operativi, spesso inquinata al vertice. È una storia che comincia con lo scandalo petroli di quarant'anni fa

(30 giugno 2011)

L'affare Bisignani (uso la parola affare nel significato francese del termine) fornisce uno spaccato raccapricciante di corruzione morale e di bassissima qualità della classe dirigente del nostro paese. I reati che stanno man man emergendo dall'inchiesta della Procura di Napoli sono gravi ma ancor più desolante è il livello delle persone coinvolte, la loro cupidigia, le loro invidie, le loro paure, la loro vocazione al ricatto, la flessibilità dei loro comportamenti e la durezza delle loro vendette.

A volte c'è grandezza perfino nel malaffare, ma nel sistema Bisignani c'è soltanto un'esasperante mediocrità che disegna perfettamente l'epoca berlusconiana. Una raffigurazione letteraria che descrive un sistema analogo si trova nel romanzo "La Curée" di Emile Zola, che prendeva di mira l'affarismo e la corruzione dei "palazzinari" e i faccendieri parigini durante l'impero di Napoleone III. Ecco un titolo - "La cuccagna" - che si attaglia perfettamente a questa "fin de règne" berlusconiana.
Un aspetto particolarmente inquietante di quanto finora è emerso dagli atti dell'inchiesta di Napoli riguarda la Guardia di Finanza. Questo corpo speciale delle forze armate italiane ha un singolare destino e una singolare struttura. A cominciare dalla gerarchia dalla quale dipende.
La dipendenza politica e funzionale risale al ministro delle Finanze, l'eventuale impiego per compiti di ordine pubblico riguarda le Prefetture e il ministro dell'Interno, la partecipazione ad azioni di guerra il ministro della Difesa. Infine per i compiti di polizia giudiziaria la Guardia di Finanza opera alle dipendenze delle Procure della Repubblica.

In quest'ultimo compito i finanzieri si sono guadagnati sul campo il rispetto della pubblica opinione. Le inchieste più delicate li hanno spesso visti protagonisti, alcuni magistrati inquirenti di alto rango si sono appoggiati a loro a preferenza dei Carabinieri e della Polizia di Stato. Insomma la Finanza è un corpo che merita lode e rispetto, ma non altrettanto si può dire per il suo Comando generale. Qui, al vertice di quel corpo, sono stati rari e brevi i periodi di pieno rispetto delle norme di correttezza e legalità.
La norma stabilisce che il Comandante generale non provenga dall'interno ma dall'esterno del corpo proprio per non accentuarne la separatezza e l'autoreferenzialità; ciò nonostante i fenomeni di corruzione con traffici di contrabbando, con episodi di concussione, sono stati molto frequenti a cominciare con lo scandalo dei petroli di quarant'anni fa, quando il Comando generale fu identificato addirittura come il principale centro di contrabbando e di evasione fiscale. Da allora i casi di coinvolgimento del Comando generale e soprattutto dei Capi di Stato maggiore e dei generali della Guardia sono stati pressoché continui. Ed ecco riapparire oggi il Capo di Stato maggiore Adinolfi e una decina di generali e alti ufficiali della Guardia in veste di favoreggiatori, informatori, complici del sistema Bisignani.

Strano destino che la Guardia di Finanza condivide in parte con analoghe deviazioni che hanno coinvolto i Capi di Stato maggiore e dei reparti speciali dei Carabinieri, a cominciare dal caso Sifar-De Lorenzo-Piano Solo. Sicché questi corpi separati sono quelli che riscuotono al tempo stesso la maggiore fiducia e la maggiore sfiducia degli italiani: fiducia nell'arma territoriale e operativa, sfiducia negli alti comandi che la guidano e la rappresentano. Tra le tante contraddizioni del nostro Paese questa è tra le più inquietanti.

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