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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318304 volte)
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« Risposta #270 inserito:: Marzo 13, 2011, 05:10:39 pm »


L'ANALISI

La terribile stagione dei grandi rischi

di EUGENIO SCALFARI

Il gigantesco cataclisma giapponese ci ricorda che siamo entrati da oltre vent'anni nell'epoca dei Grandi Rischi. Di ogni genere: climatici e geologici innanzitutto, l'epoca dello scioglimento dei ghiacciai, delle grandiose eruzioni vulcaniche, dei terremoti di altissima magnitudine e dei maremoti, delle onde anomale, degli "tsunami". Lo scontro tra le piattaforme continentali e le rovine che ne derivano, le vittime, centinaia di migliaia di senzatetto. Sembra che le forze profonde della terra si siano tutte insieme risvegliate e stiano mandando all'aria equilibri raggiunti da secoli e da millenni mettendo in pericolo la sopravvivenza di molte specie vegetali e animali. Sembra che gli dèi si siano ritirati al di là delle atmosfere che circondano il pianeta, in lontane galassie oltre lo spazio e oltre il tempo.

La nostra specie soffre di solitudine in un mondo sempre più affollato. Non è un paradosso: più il mondo delle nostre città è affollato e più siamo e ci sentiamo soli, anonimi, impauriti, litigiosi. Senza speranze nel futuro, senza memoria del passato, schiacciati su un presente sempre più precario.

Quest'epoca che vede oscillare tutte le realtà ha messo anche in moto energie positive: un'inventiva ed una creatività eccezionali, un accrescimento di ricchezza che non ha eguali, un desiderio di libertà e di diritti che la tutelino. La rivoluzione africana emersa d'improvviso due mesi fa ha coinvolto un territorio che va dalla sponda atlantica fino all'oceano
Indiano. Gli autori sono giovani, uomini e donne. Vogliono pane e libertà ma non sono plebi ignoranti, i loro punti di raccolta e di comunicazione sono i siti "web", gli strumenti di lotta sono le tecnologie più moderne e più diffuse.

L'ondata sollevata da queste energie positive la chiamiamo "tsunami" perché la sua forza sociale e politica ha un'intensità analoga al fenomeno geologico che sconvolge gli oceani. Pane e libertà è un'onda che travolge tirannie corrotte, tradizioni mummificate, reclama eguaglianza insieme alla libertà, esonda verso i territori di antica ricchezza.

La globalizzazione e la tecnologia hanno inserito nel sociale la legge fisica dei vasi comunicanti. L'immigrazione dalle terre povere alle terre ricche è lo "tsunami" sociale. Pensare di bloccarlo è pura illusione; bisogna governarlo commisurandolo al possibile, diluendolo nel tempo ma intanto preparandosi all'inevitabile. Nelle terre dei cataclismi ci si attrezza (o si dovrebbe) a costruire case ferrovie grattacieli antisismici; nel sociale ci si attrezza (o si dovrebbe) coltivando la politica dell'accoglienza, una diversa divisione del lavoro, una diversa concezione della cittadinanza. Chi crede che erigendo dighe di cartone cementate dall'intransigenza possa arginare quella marea, la renderà invece ancor più distruttiva.

Grandi rischi geologici e sociali ma anche economici. Sarà un caso ma induce a riflettere: una delle più grandi crisi che ha sconvolto l'economia mondiale partendo dai mutui immobiliari americani e propagandosi con incredibile velocità su tutto il pianeta, coincide con i grandi terremoti, con la crisi climatica, con le rivoluzioni africane. Gli effetti di queste ultime hanno scatenato il prezzo del petrolio, così come il sisma giapponese sta mettendo a rischio le centrali nucleari di quel paese nonostante la modernità tecnologica che avrebbe dovuto proteggerle da ogni incidente.

Le Borse di tutto il mondo sono in sofferenza ancora maggiore dopo questi eventi. Ecco perché occorre esser consapevoli, occorre predisporsi, bisogna selezionare gli obiettivi e la scala delle priorità. Una nuova scala di priorità, in mancanza della quale non saremo gli attori ma gli agiti di quest'epoca mobilissima, le vittime inermi e passive di eventi che ci sovrastano.

* * *

Per restare nel tema dei Grandi Rischi, sia pure a dimensione domestica, non si può non segnalare la riforma costituzionale della giustizia, approvata dall'ultimo Consiglio dei ministri e di imminente presentazione al Parlamento. Grande Rischio e spiegherò perché.

La riforma non riguarda i processi del presidente del Consiglio. Quindi possiamo discuterne "come se Berlusconi non esistesse".
Non per questo i rischi sono minori, poiché la riforma non si limita a modificare l'ordinamento giudiziario ma stravolge l'ordinamento costituzionale.

I cardini della legge Alfano sono i seguenti:

 -  L'articolo 104 della Costituzione, nella versione attuale, stabilisce che "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". La legge di riforma abolisce questa disposizione con la conseguenza che i poteri costituzionali vengono ridotti dai tre attuali a due soltanto, il legislativo e l'esecutivo.

 -  L'articolo 104 bis contenuto nella legge di riforma divide in due il Consiglio superiore della magistratura, uno per i magistrati giudicanti, l'altro per i pubblici ministeri. I membri "togati" dei due Csm, attualmente pari a due terzi dei componenti, sono ridotti alla metà e i membri eletti dal Parlamento costituiscono l'altra metà. I togati sono sorteggiati e non più eletti. (Mi domando perché non siano sorteggiati anche i membri parlamentari. Se si vuole assicurare parità occorrerebbe applicare lo stesso metodo del sondaggio anche agli eletti dal Parlamento).

 -  Il Presidente della Repubblica resta alla guida di entrambi i Csm; i vicepresidenti sono eletti tra i membri di provenienza parlamentare. La conseguenza è che i membri laici dei due Csm sono la metà più uno. (Mi domando perché questi due collegi continuino a chiamarsi Consiglio superiore della magistratura, visto che in entrambi i magistrati saranno in minoranza).

 -  L'articolo 105 bis istituisce una Corte di disciplina togliendo questa mansione all'attuale Csm. Questa Corte è anch'essa composta per metà dai togati e per metà dagli eletti dal Parlamento. Il vicepresidente della Corte è eletto tra i membri del Parlamento. Quindi anche nella Corte di disciplina la maggioranza è fatta di parlamentari. I membri parlamentari d'altra parte sono eletti dal Parlamento a maggioranza semplice, quindi non c'è tra loro nessun rappresentante dell'opposizione.

 -  Articolo 109: "Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge (ordinaria)".

 -  Articolo 111: "Le sentenze di proscioglimento in primo grado sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge (ordinaria)".

 -  Articolo 112: "L'ufficio del Pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge (ordinaria)".

 -  Articolo 113 bis: "I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri dipendenti dello Stato".

Questa legge di riforma costituzionale che affida a successive leggi ordinarie punti importantissimi che cambiano alla radice l'ordinamento giudiziario evadono in questo modo alla procedura prevista per le modifiche costituzionali. Si tratta di una furbizia che rimette alla maggioranza semplice questioni che dovrebbero essere viceversa affidate anch'esse alle maggioranze qualificate e al referendum confermativo. Ma qui non si tratta soltanto dell'ordinamento giudiziario. Le modifiche riguardano l'assetto intero della nostra Costituzione, i principi che la ispirano configurati nella prima parte della Carta, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'equilibrio tra poteri indipendenti e lo Stato di diritto.

Viene abolito uno dei poteri fondamentali, viene cancellata la dipendenza della polizia giudiziaria dalla magistratura, viene abolita l'obbligatorietà dell'azione penale, presupposto fondamentale dell'indipendenza della magistratura. Vengono infine aboliti i poteri di autogoverno del Csm, trasformato in un organo la cui maggioranza è determinata dalla maggioranza parlamentare. Il tutto in presenza di una legge elettorale in base alla quale la maggioranza relativa emersa dalle elezioni ottiene il 55 per cento dei seggi.

Il complesso di queste norme trasforma la democrazia parlamentare in una democrazia (si fa per dire) dominata dal potere esecutivo, cioè nella dittatura della maggioranza. Alexis de Tocqueville così spesso citato da Berlusconi afferma che la dittatura della maggioranza è quanto di peggio possa accadere in un paese democratico.

Non esistono dunque le basi per discutere anche perché il Pdl e la Lega hanno già preannunciato che ascolteranno le opposizioni ma non accetteranno che i cardini di questa riforma siano modificati.

Non resta che votare contro e andare al referendum. Si vedrà allora se le opposizioni saranno unite o separate. Prima sarà, meglio sarà. Dico anch'io: se non ora, quando?

Post scriptum. Grandi Rischi era anche il titolo della trasmissione Annozero condotta giovedì scorso da Michele Santoro. L'ospite d'onore era il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti; gli interlocutori Fausto Bertinotti, Ferruccio De Bortoli ed io.

Il dibattito ha avuto il pregio di svolgersi senza le urla rissose che troppo spesso trasformano gli appuntamenti televisivi in arene di scomposte corride. Gli interlocutori hanno potuto argomentare le proprie posizioni e il confronto è avvenuto civilmente, non senza qualche asprezza che è servita a sottolineare le diversità dei pensieri, delle diagnosi e delle terapie proposte.

La posizione del ministro  -  come da tempo sappiamo  -  è allineata con l'obiettivo delle istituzioni europee che raccomandano ed anzi impongono rigore nei bilanci, diminuzione del deficit e riduzione del debito pubblico. Quelle stesse istituzioni però raccomandano anche di abbinare il rigore con la crescita, ma da questo orecchio il nostro ministro dell'Economia è piuttosto sordo.
Si limita a proporre riforme senza spese.

Gli interlocutori hanno constatato che, nonostante il gran parlare che se ne fa, l'economia italiana continua a registrare da molti anni un encefalogramma piatto per quanto riguarda la crescita economica. Per di più siamo da poco entrati in una fase di accentuata inflazione-recessione: l'inflazione è ridiventata un pericolo attuale e rappresenta una vera e propria imposta regressiva che colpisce i redditi fissi e i ceti più deboli poiché erode il potere d'acquisto dei consumatori e scoraggia gli investimenti.

Per scongiurare l'inflazione la Banca centrale europea ha preannunciato per il prossimo aprile un aumento del tasso d'interesse che avrà ripercussioni sui tassi di tutto il sistema bancario europeo. Avremo dunque una nefasta combinazione tra inflazione e recessione, quanto di peggio possa accadere in un sistema economico già gravemente debilitato.

Personalmente credo che per abbinare il rigore con la crescita non vi sia altro modo che procurarsi nuove risorse chiamando a contribuire le fasce più opulente dei contribuenti e tassando le rendite finanziarie. Se ne ricaverebbero risorse sufficienti a rilanciare sia i consumi sia gli investimenti. Nel corso del dibattito Tremonti non ha avuto il tempo (o la voglia?) di rispondere a questa proposta. Sarei lieto che lo facesse.

(13 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #271 inserito:: Marzo 18, 2011, 05:08:12 pm »

ITALIA 150

Un Paese  in cerca dell'età adulta

di EUGENIO SCALFARI

Anzitutto i personaggi e gli obiettivi che si proponevano. Mettendo in chiaro questi due elementi sapremo che cosa è stato il Risorgimento, se sia un fenomeno storico da tempo concluso e archiviato oppure ancora vitale per i sentimenti che lo suscitarono e che sono tuttora operanti.

Il grosso della popolazione che abitava l'Italia di allora era composto da contadini. Dovunque, dalle Alpi alla grande pianura dove scorrono il Po e i suoi affluenti, alla dorsuta catena degli Appennini fino al tacco delle Puglie e alla punta delle Calabrie, alle isole di Sicilia e Sardegna.

Parlavano i loro dialetti, lingue incomprensibili al di fuori del loro circondario. "Una d'arme, di lingua, di altare" scrisse Manzoni, ma non era vero né per le armi (salvo il coltello) né per la lingua. Per l'altare sì, era vero, ma ogni paese aveva i suoi santi, le sue liturgie, le sue superstizioni, i suoi dei locali, invidiosi degli altri.
I contadini erano a loro modo un popolo per il fatto stesso di lavorare la terra con la pala, la zappa e il chiodo dell'aratro, ma questo era il solo elemento comune.

L'Italia era per loro parola sconosciuta.

Nelle città era diverso. C'erano tradizioni civili e c'era una storia comune; mille comuni, mille storie. C'erano commerci, contatti con altri paesi e c'era, al di là del dialetto, una seconda lingua, una lingua "franca", quella di Dante, dei poeti, degli scrittori, dei maestri di scuola, dei giornali. C'era insomma una pubblica opinione.
Il ceto superiore
era fatto di nobili famiglie e poi d'una cattolicità colta, una professionalità di medici, avvocati, ingegneri, magistrati, commercianti, imprenditori. Alla base della piramide sociale gli artigiani e i bottegai.
Il popolo era questo e conosceva il senso della parola Italia. Una parte numerosa voleva che a quella parola corrispondesse una realtà, un'altra parte l'avversava.

Sembra che molti garibaldini dei Mille che sbarcarono a Calatafimi avessero le mani callose. Erano artigiani, operai, che forgiavano il ferro, tessevano la lana e la seta, fabbricavano scarpe, mattoni, armi da guerra. E poi c'erano gli studenti e i loro maestri.

Questo popolo voleva anzitutto un'Italia indipendente dagli austriaci e voleva che le monarchie fossero costituzionali.

Molti volevano anche l'unità e alcuni la volevano repubblicana. C'erano anche molte donne nel movimento italiano e non soltanto le madri e le spose.

Dunque fu un fatto di popolo, ma quel popolo era una esigua minoranza rispetto ad una massa estranea e assente che viveva a livello della sopravvivenza e non ad altro pensava fuorché di sopravvivere.

                                                           * * *

In ogni città c'erano persone che pensavano, agivano, diffondevano informazioni e idee. Alcuni nomi avevano raggiunto notorietà nazionale.

Se vogliamo concentrare l'attenzione sulle persone di riferimento decisive, i nomi stanno sulle dita delle due mani: Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Settembrini, Manin, Minghetti, Giusti. Cavour fu il protagonista politico e diplomatico, Gioberti un ideologo cattolico di notevole spessore, Giuseppe Verdi una bandiera.

Questi uomini erano molto diversi tra loro salvo due che misero il loro talento al servizio della causa italiana senza pregiudizi o litigiose appartenenze. Verdi, il cui nome e la cui musica divennero gli elementi unificanti dell'intero movimento; il linguaggio di quella musica unì repubblicani, monarchici e federalisti, cattolici e liberali. Garibaldi, la cui spada, la camicia rossa, il "poncho", il cavallo, l'audacia, l'entusiasmo, dettero un volto al sogno italiano.

Cavour ebbe il talento e l'ardore politico di saper utilizzare tutti e al momento opportuno. Utilizzò anzitutto il suo re accompagnandone e spingendone le decisioni, utilizzò Garibaldi, utilizzò Napoleone III, utilizzò la guerra di Crimea e tentò perfino di utilizzare Mazzini, ma non ci riuscì e fece dell'uomo che per primo aveva risvegliato la coscienza del popolo un nemico da perseguitare.

                                                            * * *

È ancora vitale il Risorgimento?

Se non ci fosse stato, se l'Unità non fosse stata realizzata saremmo ancora un'espressione geografica.
D'Azeglio disse che dopo aver fatto l'Italia bisognava fare gli italiani. Ci siamo riusciti?
Gli italiani, come tutti i popoli, hanno vizi e virtù che derivano dalla loro storia. Una grande storia artistica, tra le più grandi del mondo. Ed anche una grande storia politica dalle Repubbliche marinare e dai Comuni alle grandi Signorie. Ma non la storia d'una nazione.

La nazione è nata quando è nato lo Stato, appena 150 anni fa, con un ritardo di almeno due secoli rispetto alla Francia, alla Spagna, all'Inghilterra, all'Austria, alla Polonia, all'Ungheria, alla Svezia, all'Olanda.

Per certi versi siamo ancora all'infanzia, per altri versi siamo già decrepiti e questo significa che non siamo mai stati maturi. Siamo civilmente immaturi, anarcoidi, politicamente cinici, generosi, laboriosi, bugiardi, malleabili, intransigenti. Anime belle e anime morte. Siamo tutti così, chi più chi meno. Adesso è arrivata l'ora di maturare. La scommessa è questa. La memoria del Risorgimento ci può aiutare ma tutto dipende da noi, qui e ora.   

(17 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #272 inserito:: Marzo 20, 2011, 10:03:04 pm »

IL COMMENTO

Rombano i motori dell'armata dell'Occidente

di EUGENIO SCALFARI


A PARIGI il vertice internazionale dei Paesi interventisti ha deciso l'attacco militare immediato avvertendo Gheddafi che lo stop ai raid è subordinato alla sua resa. Gli aerei delle potenze che agiscono sulla base della risoluzione dell'Onu sono arrivati nelle basi italiane. L'operazione militare è cominciata, ma il dibattito politico in Europa è apertissimo.

Aiutare gli insorti, impedire che le milizie del raìs libico occupino Bengasi e Tobruk, soccorrere i profughi e arginare l'ondata dei migranti, sono obiettivi condivisi da tutti. Resta invece una differenza di opinioni molto profonda sui limiti tattici dell'intervento e sulla strategia politica nei confronti di Gheddafi. Bisogna impacchettarlo consegnandolo alla Corte di giustizia internazionale e processarlo per i crimini commessi contro il suo popolo? Oppure munirlo d'un salvacondotto ed esiliarlo? Oppure ancora lasciargli una parvenza di potere in una sorta di libertà vigilata disarmata e commissariata? Infine: bisogna mantenere l'unità della Libia o prendere atto che quell'unità è un'invenzione perché Tripolitania e Cirenaica sono realtà diverse dal punto di vista storico, tribale, religioso e la loro fittizia unità è stata imposta dal colonialismo italiano prima e dalla dittatura di Gheddafi poi?

Questo dibattito divide trasversalmente l'opinione pubblica europea ed anche i governi dell'Unione. Soprattutto divide Parigi da Berlino, Sarkozy da Angela Merkel. Bombardare o negoziare, questo è il tema. In Italia
divide anche la destra; Berlusconi, dopo il lungo fidanzamento con il raìs libico, è entrato a far parte degli interventisti; Bossi si è allineato con la Merkel. Ma la divisione attraversa anche l'opinione pubblica al di là degli schieramenti politici.

Un fenomeno analogo si verificò trent'anni fa, quando l'Urss cominciò a dare palesi segnali di implosione. Regnava al Cremlino Breznev ma crescevano le tensioni all'interno del partito e del regime tra chi voleva perpetuare all'infinito la dittatura post-staliniana e chi voleva invece aprire la strada ad un "comunismo dal volto umano". L'opinione pubblica e le cancellerie occidentali si divisero tra i favorevoli all'innovazione e chi vedeva in Breznev una garanzia di stabilità europea e mondiale. Si sa come finì: Breznev, stroncato dalla malattia, aprì la strada ad Andropov, seguito da Cernenko, poi venne Gorbaciov, la "perestrojka", Eltsin e infine Putin.

Storie molto diverse e non paragonabili con quella libica ma è interessante ricordare come reagì allora l'Occidente e come reagisce oggi sul caso Gheddafi. Le analogie sono forti. Alla base, come sempre avviene in politica, ci sono i diversi interessi che ispirano l'azione dei governi e orientano la pubblica opinione.

* * *

Poche settimane fa, dopo la caduta di Mubarak, del dittatore tunisino Ali e delle insorgenze nello Yemen e negli Emirati, anche i giovani di Tripoli e soprattutto di Bengasi si ribellarono mettendo a mal partito la dittatura di Gheddafi che durava da oltre quarant'anni. L'Occidente non ebbe esitazioni: il caso libico appariva come un altro tassello della rivoluzione nord-africana; al Qaeda era scavalcata da un movimento che vedeva insieme uomini e donne, motivato da uno slogan formidabile: "pane e libertà", al tempo stesso sociale e ideale. Sembrò e in gran parte rimane una svolta storica, un'innovazione profonda che scavalcava il terrorismo di Bin Laden, il fondamentalismo coranico e talebano, aprendo un capitolo inedito nella convivenza delle civiltà. Questa fu la prima e unanime reazione dell'opinione pubblica ed anche delle cancellerie occidentali ma si pose subito il problema della gestione politica della fase successiva all'abbattimento delle dittature.

In Egitto l'esercito è sempre stato il perno dello Stato e non poteva che esser l'esercito a gestire la transizione. La storia della Turchia ne forniva l'esempio. In Tunisia mancava la "risorsa" dell'esercito e infatti la transizione si presenta ancora fragile e agitata. La Libia è un caso a sé, assai diverso dagli altri.

Il paese è geograficamente immenso, demograficamente assai poco popolato, non arriva a cinque milioni di abitanti. Ricco di petrolio solo parzialmente sfruttato. Da quasi mezzo secolo guidato da Gheddafi con mano di ferro, accortamente populista, spregiudicato, corrotto, avventuroso oltre ogni limite. L'esercito non è che una milizia ben pagata e ammaestrata, con reparti speciali mercenari, una sorta di "legione straniera" assai contundente e feroce. Convincerli alla resa è molto difficile. Alle brutte i mercenari si squaglieranno, la milizia tribale si difenderà fino alla fine. Dopo l'inizio dell'operazione militare resta dunque la domanda: bombardare fino a che punto? Negoziare fino a che punto?

* * *

Si possono, anzi si debbono bombardare gli aeroporti, abbattere i caccia se si alzeranno o distruggerli a terra, smantellare gli impianti di comunicazione, colpire le truppe se non si ritireranno nelle caserme. Più in là non si può andare. Quanto alla negoziazione si può forse rilasciare un salvacondotto al raìs e ai suoi familiari. Se non ci sta, bisogna abbatterlo, ogni altra soluzione è impensabile, sarebbe fonte di trappole continue e di incontrollabili avventure.

A questa strategia vengono opposte due obiezioni. La prima sostiene che il mandato dell'Onu non può violare la sovranità di uno Stato che tra l'altro non ha invaso nessun altro paese. Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait però si ritirò subito dopo l'ingiunzione internazionale ma l'armata di Bush in nome dell'Onu lo inseguì fino a Baghdad, lo processò e lo giustiziò.

L'Onu di tanto in tanto assume le sembianze di uno Stato mondiale di fronte al quale le sovranità nazionali debbono cedere il passo. È avvenuto di rado ma alcune volte le sue risoluzioni hanno avuto questa valenza. In quante occasioni avremmo voluto l'esistenza di uno Stato mondiale nell'era della globalizzazione?
La seconda obiezione è: che cosa avverrà dopo? Una Libia senza un capo, senza una classe dirigente, sarà ancora governabile? Si dividerà in due, in tre, in cinque pezzi? Diventerà preda dei signori della guerra? E il suo petrolio? Le sue città? Le sue aziende? Gli investimenti esteri?

I pessimisti temono che la Libia senza Gheddafi sarà un'altra Somalia, nido di briganti e di pirati. È un destino che le ex colonie italiane facciano tutte questa fine?

* * *

Questa obiezione è più pertinente della prima. Non considera però che anche in Tripolitania e in Cirenaica esiste un ceto evoluto, esiste una rete di aziende produttive, un artigianato folto, una gioventù che aspira a cimentarsi con l'amministrazione e con la politica e una religione che fa da cemento sociale.

Bisogna accompagnare questa fase di rinnovamento, aiutarli a costruire uno Stato, un'amministrazione, una rete di commerci e di produzione. La Turchia può aiutare, l'Egitto può aiutare. L'Europa deve aiutare e l'Italia che ha responsabilità notevoli a causa di un antico e di un recentissimo passato con parecchi peccati da scontare.

Romano Prodi in una recente intervista ha tracciato una lucida visione del "che fare" nell'Africa mediterranea e in Libia in particolare. Parlava con la duplice esperienza di ex presidente del Consiglio e di ex presidente dell'Unione europea. Proponeva tra le altre cose trattati di associazione dei Paesi africani mediterranei all'Unione europea. Non ingresso nell'Unione per il quale non esistono le condizioni, ma associazione, amicizia istituzionalizzata a vari livelli secondo le condizioni politiche, sociali ed economiche di quei Paesi.

Queste proposte andrebbero riprese e messe con i piedi per terra. Il Mediterraneo è stato per millenni il centro del mondo atlantico. In tutte le sue sponde è un mare europeo e ancora di più lo è oggi con l'immigrazione che in questo Ventunesimo secolo cambierà la fisionomia etnica del continente. Flussi di persone e di famiglie, flussi di capitale e di investimenti, flussi culturali e religiosi, conquista di diritti, osservanza di doveri poiché ogni dovere suscita un diritto e ogni diritto comporta un dovere.

L'Italia ha una missione da adempiere e una grande occasione da cogliere. Noi ci auguriamo che ne sia all'altezza. Le esortazioni di Giorgio Napolitano ci siano, anche in questo, di insegnamento e di stimolo.

In questi mesi la figura del nostro Presidente ha acquistato uno spessore etico e politico che ne fa il punto di riferimento di tutto il Paese. Questa unanimità non è posticcia né retorica, esprime un sentimento e un bisogno. Ci rafforza come nazione. Rafforza i nostri legami europei. Suscita all'estero rispetto e ascolto. Non eravamo più abituati a questa considerazione, avevamo scambiato (alcuni avevano scambiato) la politica delle pacche sulle spalle per considerazione internazionale. Ora non è più così. Abbiamo una guida ed una rappresentanza migliore. Possiamo di nuovo considerare la nostra presenza mediterranea come un punto di forza non solo per noi e per i nostri legittimi interessi nazionali, ma per l'Europa e per l'Occidente.
 

(20 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #273 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:14:28 pm »

Ma che destra abbiamo in Italia?

di Eugenio Scalfari

La Russa, che celebra a teatro il neofascismo.

Gianfranco Fini, che nessuno capisce dove voglia andare però ci va.

Sallusti e Bocchino, che si insultano per dieci minuti in tivù. Che strani "conservatori" abbiamo in questo Paese

(11 marzo 2011)

Il mondo politico italiano è pieno di tipi strani. Dico strani nel senso che tanti e così fuori dalle regole più elementari dell'etica pubblica non se ne trovano nelle democrazie dell'Occidente e dell'Europa in particolare.

Ce ne sono in tutti gli schieramenti. Vi ricordate Pecoraro Scanio? Vi ricordate Diliberto? E Mastella?
Ma tanti come ce ne sono a destra non se ne trovano in nessun'altra parte d'Italia e del mondo. Un primato di cui si farebbe volentieri a meno ma che c'è e rappresenta purtroppo uno dei "fondamentali" della nostra vita pubblica.

Tra le figure strane (Silvio Berlusconi a parte, poiché è il leader indiscusso di quel lungo corteo) primeggiano da qualche tempo il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, il presidente della Camera, Gianfranco Fini e il vicepresidente del partito Futuro e Libertà Italo Bocchino.

Faceva effetto domenica scorsa assistere alle "performances" di questi tre "eminenti" delle destre (le declino al plurale per le loro diversità accomunate però dalla stranezza) rispettivamente al cinema Adriano di Roma, al teatrino San Babila di Milano e - per quanto riguarda Bocchino - la trasmissione di Telese su La 7.

La Russa celebrava Giorgio Almirante, antico dirigente del partito fascista di Salò, poi fondatore del Msi e patrono del neofascismo del dopoguerra. Erano pochi i celebratori perché il teatrino non ospita più di cento persone. Sul palco, oltre a La Russa, c'era soltanto Donna Assunta, la vedova storica del patrono, che dopo aver coccolato per vent'anni il successore del consorte, adesso ha seguito le evoluzioni della Santanchè e sta nel novero dei berlusconiani di ferro.

Faceva effetto vedere quei "populisti della libertà" con l'icona di Almirante in mano perché, almeno in teoria, ci dovrebbe essere un'assoluta contraddizione tra Almirante e il Msi da un lato e Berlusconi e il Pdl dall'altro. In realtà - se ci pensate bene - la contraddizione non c'è e la celebrazione di San Babila ha avuto se non altro l'effetto di farcelo capire.

Intanto all'Adriano il leader di Futuro e Libertà si dava da fare spiegando che le due debolezze e le due anomalie italiane sono Berlusconi da un lato e la sinistra dall'altro, due formazioni conservatrici e stantie a fronte delle quali si erge il progetto della destra finiana, democratica, liberale, portatrice di valori nuovi e di nuovi programmi. Quali non l'ha detto ma ha detto: "Sarà una traversata del deserto e la faremo da soli". I sondaggi attuali gli assegnano un 3,5 per cento di consensi. Per traversare il deserto va benissimo perché in molti non ci si va, ma per trasformare il Paese è un po' poco. Qualche incontro lungo la strada lo dovranno pur fare, ma non diranno con chi nemmeno sotto tortura.

La sera di quella benedetta o maledetta domenica Bocchino si è scontrato con il direttore del "Giornale", Alessandro Sallusti nella trasmissione di Telese. I due hanno passato non meno di dieci minuti, cioè un'eternità televisiva, urlando insieme in contrappunto. Urlando. Insieme. Bocchino urlava: "Devi dirmi quanto ti paga di stipendio Berlusconi per scrivere quello che scrivi". Sallusti urlava: "Devi dire quanto guadagni come parlamentare mantenuto con i soldi degli italiani".

Dieci minuti così, senza che il conduttore della trasmissione mettesse fine a quel miserando spettacolo. Osservo di passaggio che, secondo la tesi di Sallusti, i parlamentari sono tutti parassiti e mantenuti il che è un po' forte per chi dirige il giornale del presidente del Consiglio il quale - in quanto deputato - sarebbe anche lui un parassita e mantenuto. Forse in questo Sallusti dice cosa vera.

Telese guardava ogni tanto l'orologio e sbuffava senza intervenire. Passati dieci minuti ha interrotto l'alterco con la pubblicità. A quel punto ho cambiato canale.


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« Risposta #274 inserito:: Marzo 27, 2011, 10:50:23 am »

L'EDITORIALE

Gran confusione nei cieli d'Europa

di EUGENIO SCALFARI


GIORNALI di tutto il mondo, i nostri compresi, scrivono da giorni che c'è grande confusione. Lo dicono anche i governi, gli stati maggiori delle varie forze armate, i politici e le persone interrogate per strada.

C'è grande confusione sulla guerra di Libia, sulle sollevazioni africane e mediorientali (alle quali proprio in queste ore si sono aggiunte la Siria e la Giordania), sull'uso del nucleare, sui debiti sovrani, sugli schieramenti internazionali, sui flussi migratori. I grandi paesi emergenti, Cina India Brasile Russia Sudafrica, cominciano ad elaborare una posizione politica comune che sia alternativa a quella dell'occidente, cioè del Nord- America. L'Europa, come sempre, è divisa in due, forse in tre se non addirittura in quattro pezzi. Divisa su tutto: sul caso Gheddafi, sull'immigrazione, sull'energia atomica, sull'economia.

Ma c'è grande confusione anche sui concetti che sembravano chiari, sul significato di parole che sembravano univoche, su valori che sembravano condivisi: il fondamento della morale, il pacifismo, la democrazia, la dignità della donna. Perfino la libertà. Perfino l'eguaglianza. Perfino i diritti e i doveri.

Si direbbe che, quasi d'improvviso, il gomitolo della storia non riesca più a svolgersi, i fili si sono imbrogliati inestricabilmente, i nodi sono arrivati al pettine tutti insieme, la cruna dell'ago è ostruita. Babele trionfa e trionfano la ferocia l'astuzia la Suburra.

Bisogna dunque cercare il capo del filo e svolgerlo per poter capire qualche cosa.

E il capo del filo, sul terreno concreto, oggi sta in Europa perché è proprio qui in Europa che il groviglio è diventato più inestricabile e la confusione ha raggiunto il massimo.

                                                                  ***

La risoluzione dell'Onu ha stabilito che la popolazione civile della Libia sia protetta dalla Comunità internazionale contro le operazioni poliziesche e militari di Gheddafi. Protetta con tutti i mezzi disponibili ed efficaci per fermare Gheddafi, con l'esclusione di sbarcare truppe a terra. La "no fly zone" è uno degli strumenti, ma non il solo, anche perché porta con sé logicamente la distruzione degli impianti gheddafiani a terra e in volo: aeroporti, flotta aerea, installazioni radar, batterie contraeree. Ma poiché l'obiettivo è quello di tutelare la popolazione civile bisogna anche distruggere il sistema dei trasporti militari, le armi pesanti di cannoneggiamento, i mezzi blindati. Insomma bisogna disarmare Gheddafi. Infine, sempre ottemperando alla risoluzione dell'Onu fatta propria dall'Unione europea, bisogna applicare sanzioni economiche e impedire che il raìs riceva rifornimenti di armi.

In teoria tutti si sono dichiarati d'accordo con questi obiettivi salvo alcuni membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu (Russia, Cina, India, Brasile, Germania) che però, astenendosi, hanno consentito che l'operazione "protettiva" partisse.

Tralasciamo la bega tra Italia e Francia sul comando dell'operazione: ormai è stato deciso che il comando sarà affidato alla Nato.
Ma questo non cambia granché, salvo forse un rallentamento burocratico-operativo sul terreno.

Resta il problema di fondo: che farà Gheddafi?

Se la risoluzione dell'Onu sarà interpretata in modo limitato, Gheddafi resterà al potere a Tripoli e aspetterà che la presenza degli stranieri nei cieli libici e nel mare cessi. La "no fly zone" non potrà durare in eterno, prima o poi la coalizione dei "protettori" si scioglierà, il dispositivo militare sarà smantellato e tutti se ne torneranno a casa. Tutti salvo ovviamente Gheddafi e il suo esercito mercenario. I rifornimenti di armi riprenderanno e in Libia tutto ricomincerà da capo salvo l'alleanza dei "protettori" che una volta sciolta non si riformerà più.

Prima che ciò avvenga bisogna dunque avviare un negoziato.

                                                                      ***

Questa sequenza l'hanno capita tutti, più o meno tardivamente. L'hanno capita gli americani, l'Onu, la Nato, i francesi, gli italiani, la Turchia, la Lega araba, la Lega africana. Tra il capire e il fare c'è però di mezzo... Gheddafi. Non se ne andrà in esilio se non sarà con le spalle al muro. Farà ogni sorta di promesse, giurerà di "fare il buono", accetterà di emanare una Costituzione democratica e libere elezioni, lo giurerà sulla testa dei figli e dei nipoti. Tutto, pur di restare al comando. L'esilio no, non lo accetterà se non sarà ridotto all'impotenza.

Nel suo caso l'impotenza significa: senza più esercito, senza più mercenari, senza più consenso, senza più macchina di propaganda, senza più ricchezze se non quanto necessario al suo (lauto) sostentamento. Di fatto prigioniero nel suo bunker e con la denuncia alla Corte dell'Aia per crimini contro l'umanità pendente sul suo capo come avvenne per Milosevic.

Solo se ridotto in queste condizioni accetterà l'esilio come salvavita. Perciò se la risoluzione dell'Onu di protezione della popolazione civile libica deve essere rispettata il solo modo praticabile è quello di ridurre Gheddafi in quella condizione. Altrimenti diciamo che è stato tutto un macabro e dispendiosissimo scherzo.

È pienamente comprensibile che i Paesi definiti dalla sigla Bric (Brasile, Russia, India, Cina) puntino a questo risultato: l'umiliazione degli Usa, dell'Europa, di quello che un tempo si definiva Occidente. Ma che sia questo anche l'obiettivo della Germania è incomprensibile a meno che, per la Germania, l'umiliazione della Unione europea sia un punto di passaggio per instaurare l'egemonia tedesca sull'Europa. Egemonia non soltanto economica (quella già c'è) ma anche politica.

Quell'egemonia ha ormai un solo ostacolo: la Francia, guidata da un leader che qualcuno descrive come un personaggio da avanspettacolo. Quanto a noi, in fatto di avanspettacolo non accettiamo lezioni da nessuno. Infatti siamo noi che, dopo i primi tentennamenti, abbiamo considerato la Francia come il nemico o almeno il rivale numero uno. Sarkozy forse fa ridere ma la Francia è la Francia e purtroppo noi facciamo ridere tutti anche in circostanze nelle quali si dovrebbe piangere.
               
                                                                  ***

In realtà la sola questione che interessa chi detiene la "golden share" del governo italiano, cioè Bossi, è quella degli immigrati. Lampedusa è stata fin qui l'agnello sacrificale: è stata lasciata sola perché si è voluto che rappresentasse visibilmente, sotto gli occhi delle televisioni di mezzo mondo, una popolazione di cinquemila abitanti ridotti allo stremo ed una popolazione di ottomila immigrati ridotti in condizioni disumane.

Alla fine anche Maroni, che aveva vaticinato l'apocalisse senza aver preparato nulla per fronteggiarla, si è reso conto che la soglia dell'insopportabilità era stata varcata e ha preso (apparentemente) le misure per fronteggiarla requisendo due navi da crociera per sgombrare l'isola. Ci vorrà una settimana ma la sgombrerà, ma fino all'altro ieri non l'aveva fatto. Perché? Non ci vuole una gran fantasia ma a lui non era venuto in mente nulla.

Resta tuttavia un mistero: dove sistemerà, sia pure provvisoriamente, gli ottomila immigrati? E come fronteggerà quelli che nel frattempo continueranno ad arrivare?

Finora sono arrivati dalla Tunisia o meglio dai campi allestiti al confine tra Libia e Tunisia dove novantamila profughi si sono accalcati da quando in Libia è scoppiata la guerra civile. Ma ora le partenze sono cominciate anche dalla costa libica, dai campi di concentramento allestiti da Gheddafi dove a questo punto tutti i paletti sono saltati.

Questi campi erano un inferno e c'era gente di ogni provenienza: africani di Eritrea e di Etiopia, sudanesi e perfino neri provenienti dall'Africa equatoriale e subsahariana. La strada era di migliaia di chilometri e la Libia era la tappa verso il Mediterraneo.

Gheddafi faceva il carceriere. Berlusconi lo pagava per questo, petrolio a parte. Adesso il raìs ha altre cose cui pensare e semmai si serve del flusso di migranti per dimostrare la necessità di rimettere in sella un carceriere della sua stazza.

Voglio qui trascrivere un pensiero di Luigi Einaudi, un liberale conservatore che in realtà fu una grande persona che fa onore al nostro Paese.

"Le barriere giovano soltanto a impoverire i popoli, a inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare a ciascuno di essi uno strano e incomprensibile linguaggio, di spazio vitale, di necessità geopolitiche e a far pronunciare ad ognuno di essi esclusive scomuniche contro gli immigrati stranieri, quasi che fossero lebbrosi e quasi il restringimento feroce d'ogni popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza".

Questo scrisse Einaudi in un discorso pronunciato all'Assemblea Costituente il 29 luglio del 1947. Parole che sembrano scritte oggi. Gettate al vento in un Paese del quale fu il primo presidente della Repubblica appena nata.

                                                                      ***

Questa è la deplorevole, mortificante, lacerante situazione in cui ci troviamo mentre il Parlamento, forte d'una maggioranza che sta in piedi solo perché una ventina di deputati ricatta con successo il presidente del Consiglio, si occupa dei problemi giudiziari dell'imputato Silvio Berlusconi: cancellare i processi colpendoli con la legge "ad personam" sulla prescrizione brevissima, sollevare il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, intimidire i magistrati con la responsabilità civile personale.

La Lega acconsente perché ha il suo tornaconto e passa all'incasso. Almeno il suo è un ricatto politico ma gli altri sono ricatti di altro genere. Passano all'incasso gli "irresponsabili" dei vari gruppi di parlamentari comprati con cambiali che ora debbono esser pagate per non andare in protesto; passano all'incasso le veline e le escort, passano all'incasso i difensori d'ufficio e anche gli esiliati "pro tempore" come Scajola.

A me a volte Berlusconi fa tenerezza. Ma se penso allo scempio che ha fatto di questo Paese la tenerezza cede il posto ad un sentimento di giustizia che non saranno le aule giudiziarie a soddisfare ma l'isolamento morale e la disfatta politica che le sue azioni e omissioni si sono ampiamente meritate. 

(27 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #275 inserito:: Aprile 03, 2011, 10:53:57 am »

IL COMMENTO

Un governo fantasma e un paese allo sfascio

di EUGENIO SCALFARI

IL PRESIDENTE della Repubblica questa volta è andato più in là che in altre precedenti esternazioni. Ha raccomandato sempre moderazione di accenti, lealtà tra le istituzioni, condivisione di valori e di decisioni quando riguardino le regole di base della convivenza, ma giovedì scorso ha preso un'iniziativa insolita, un'iniziativa da grandi occasioni: ha convocato i rappresentanti dei gruppi parlamentari informandone per lettera il presidente del Consiglio. A tutti gli interlocutori che hanno varcato la soglia del Quirinale ha ripetuto il suo giudizio sulla situazione riassumibile in cinque parole da lui stesso pronunciate: "Così non si può andare avanti".

Le gazzarre avvenute negli ultimi giorni a Montecitorio sono state l'occasione determinante dell'intervento del Capo dello Stato, ma la motivazione di fondo è un'altra perché le gazzarre parlamentari non sono una novità e non avvengono soltanto in Italia.
La motivazione di fondo sta nella constatazione della paralisi parlamentare che dura ormai da molti mesi e rischia di durare ancora a lungo. Le opposizioni la denunciano da almeno un anno, ma ora l'ammette lo stesso presidente del Consiglio. Contrastano le motivazioni, ma entrambe le parti arrivano alla medesima conclusione. Dunque il potere legislativo non legifera né esercita i poteri di controllo sull'operato dell'esecutivo che pure la Costituzione gli riconosce; il potere esecutivo dal canto suo usa in quantità anormale strumenti impropri: ordinanze, decreti, voti di fiducia, per abbreviare forzosamente il dibattito parlamentare.

In queste condizioni il Capo dello Stato, con la sua iniziativa di giovedì, ha suonato l'allarme; in termini calcistici si direbbe che ha diffidato i giocatori con il cartellino giallo facendo capire che se non cambieranno registro dal cartellino giallo si passerà al rosso, cioè all'espulsione dal campo di gioco. Nel caso nostro il cartellino rosso equivale al decreto di scioglimento delle Camere che la Costituzione prevede tra le attribuzioni del Presidente della Repubblica con la sola modalità di consultare i presidenti delle Camere per un parere non vincolante.

* * *

Temo che l'allarme e la diffida non produrranno alcun risultato perché ne mancano i presupposti e non da oggi. I presupposti mancano dal maggio del 1994, da quando cioè il proprietario di un impero mediatico, immobiliare, commerciale, finanziario, bancario, calcistico, diventò capo d'un partito, presidente del Consiglio o alternativamente capo dell'opposizione e insomma protagonista della politica italiana. Questa presenza insolita, corredata da una serie di effetti a pioggia che sono stati cento volte elencati e analizzati, hanno determinato la spaccatura in due della pubblica opinione dando luogo a due diversi schieramenti e a due diversi blocchi sociali.
La dislocazione bipolare non configura di per sé nulla di terribile, anzi costituisce la normalità dei reggimenti democratici quando avvenga in un quadro di valori condivisi, ma non è questo il bipolarismo italiano nato in era berlusconiana. Non c'è nulla di condiviso né di condivisibile tra due concezioni opposte della democrazia, della politica, dell'economia, della cultura, dell'informazione. Perfino della libertà e perfino dell'eguaglianza.
Non sono due schieramenti alternativi ma antagonisti. Non vanno d'accordo su niente. Allo stato di diritto che fu recuperato nel 1945 dopo il totalitarismo fascista, il berlusconismo oppone vocazione autoritaria fondata sulla dittatura della maggioranza e rinforzata dal monopolio dell'informazione. L'elenco delle anomalie è lungo e ogni giorno si arricchisce di nuovi capitoli. Non è quindi il caso di ripercorrerlo. Lascio invece la parola ad una fonte non sospetta, Andrea Marcenaro, autore d'una rubrica che compare ogni giorno sulla prima pagina del "Foglio". Rubrica partigiana ma scapestrata e talvolta veridica. Nel caso nostro così racconta l'ultima comparsata di Berlusconi a Lampedusa.
"L'Amor Nostro rientrato a Roma dallo sprofondo dove aveva appena comprato una villa, ristrutturato un'isola, piantato ortensie, proposto pioppi sugli scogli, vivacizzato le facciate delle case, fondato un casinò, affittato sette navi per la "Crociera dello Sfigato", pescato due triglie minorenni nonché perforato 18 buche dell'istituendo campo da golf; ma che cazzo  -  esplose  -  il mio processo breve? Beh! Capita, Cavaliere, quando si sceglie un ministro che confonde la Difesa con l'offesa".
Così Marcenaro descrive la trasferta lampedusana cogliendo una parte del tutto. Il tutto è molto di più.

* * *

Dovrei ora parlare del processo breve, della responsabilità civile dei magistrati, della riforma della giustizia e del conflitto d'attribuzione che la maggioranza parlamentare intende sollevare con una votazione prevista per martedì 5 aprile, un giorno prima dell'apertura del processo che vede Berlusconi imputato per concussione e prostituzione minorile. Ma mi limiterò a quest'ultimo tema; sugli altri non c'è che ricordarne il contenuto con poche parole. Il processo breve è soltanto una prescrizione brevissima tagliata su misura per azzerare i processi che vedono Berlusconi imputato. La responsabilità civile dei magistrati è un nonsenso, viola il principio del libero convincimento del magistrato nella formulazione delle ordinanze e delle sentenze, pretendendo che quel principio sia sostituito con la prova raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio: sostituzione del tutto inutile visto che anche l'assenza di ogni ragionevole dubbio viene accertata attraverso il libero convincimento del magistrato. Del resto il nostro codice penale prevede già l'incolpabilità dei magistrati, procuratori e giudici, in sede penale con eventuali ripercussioni civilistiche di indennizzo, quando ricorrano gli estremi del dolo o della colpa grave. Aggiungere a queste norme già esistenti da tempo la possibilità di un'incolpazione civile per "violazione di diritti" significa semplicemente consentire a tutti coloro che perdono cause giudiziarie di aprire un percorso parallelo di controversie che produrrebbe il solo effetto di sfasciare la struttura giudiziaria già per varie ragioni insoddisfacente.
Resta il tema del conflitto di attribuzione che andrà in votazione martedì ed ha l'obiettivo di bloccare il processo "Ruby-gate".

Il conflitto d'attribuzione si verifica quando uno dei poteri dello Stato invada la sfera riservata ad un altro potere. In quel caso la competenza di giudicare chi sia l'invasore ed impedire che l'invasione avvenga spetta alla Corte costituzionale. Ma nel caso specifico chi ha invaso chi?
Il tribunale di Milano darà inizio mercoledì 6 aprile ad un processo penale. I legali dell'imputato contestano la competenza del tribunale di Milano e chiedono che il processo sia trasferito al tribunale dei ministri. Si tratta con tutta evidenza di un conflitto di competenza, non di invasione di un potere su un altro potere. Giudicare sulla competenza territoriale o funzionale spetta unicamente alla Cassazione. Quanto alla Giunta parlamentare delle autorizzazioni a procedere, essa ha il compito di accettare o respingere le richieste eventuali del tribunale o della procura. Nel caso specifico ha respinto la richiesta di perquisizione di un ufficio della presidenza del Consiglio situato in un palazzo di Milano Due. Infatti quell'ufficio non fu perquisito. E questo è tutto.
Vedremo come risponderà la Corte costituzionale alla richiesta del Parlamento di giudicare il conflitto di attribuzione. L'evidenza suggerisce una pronuncia di irricevibilità del ricorso perché  -  lo ripeto  -  si tratta di un conflitto di competenza all'interno della giurisdizione che spetta unicamente alla Corte di Cassazione.

* * *

Le vicende della Libia, dell'immigrazione, della lunga e sempre più agitata paralisi del Parlamento, dell'intervento ammonitorio del Capo dello Stato, hanno messo in ombra un altro tema che deve invece essere affrontato per quello che è: una sterzata estremamente grave della politica economica verso un intervento sistemico dello Stato nell'economia e nel mercato, in palese contrasto con la legislazione dell'Unione europea. Parlo del decreto promulgato giovedì scorso dal consiglio dei Ministri e voluto da Giulio Tremonti per impedire che un'impresa alimentare francese assuma il controllo della Parmalat.
Se fosse questo il solo obiettivo di Tremonti, potrebbe anche essere accettato sebbene si concili assai poco con l'auspicio più volte ripetuto di un aumento di investimenti esteri nel nostro paese. Siamo il fanale di coda nella classifica degli investimenti esteri rispetto agli altri paesi europei. Ce ne lamentiamo, se ne lamenta il governo, la Confindustria e gli operatori finanziari e imprenditoriali, ma quando finalmente qualcuno arriva dall'estero per investire i suoi capitali in iniziative italiane viene preso a calci e rimandato indietro dimenticando che oltre di essere cittadini italiani siamo anche cittadini europei. Il mercato comune non è nato per abolire frontiere e consentire il libero movimento delle merci, delle persone e dei capitali?
Ma Tremonti ricorda  -  ed ha ragione di farlo  -  che la Francia protegge la nazionalità delle imprese ritenute strategiche e quindi  -  sostiene il ministro  -  se lo fa la Francia perché non può farlo l'Italia? Difficile dargli torto. Bisognerebbe sollevare il tema nelle sedi europee e speriamo che venga fatto, per ripristinare il funzionamento del libero movimento degli investimenti contro ogni protezionismo. Comunque, su questo tema, Tremonti per ora ha ragione. Senonché...
Senonché la questione Parmalat è soltanto un pretesto o perlomeno un caso singolo dentro un quadro assai più ricco di possibilità. Infatti il testo del decreto non dice affatto che l'obiettivo è la difesa dell'italianità delle aziende nazionali. Dice un'altra cosa: autorizza la Cassa depositi e prestiti (di proprietà del Tesoro al 70 per cento) ad intervenire in caso di necessità per finanziare aziende ritenute strategiche per fatturato o per importanza del settore in cui operano o per eventuali ricadute sul sistema economico nazionale. Il caso Parmalat rientra in questo elenco ma non lo esaurisce perché il decreto va molto più in là. Praticamente resuscita l'Iri di antica memoria rendendo possibile che lo Stato prenda il controllo delle imprese che abbiano requisiti ritenuti strategici dal governo (da Tremonti) nella sua amplissima discrezionalità.
Tutto ciò avviene per decreto. Dovrà essere convertito in legge ma intanto produrrà effetti immediati sul mercato. Ma se il decreto non fosse convertito in legge? è realistico pensare che il governo, per evitare che quest'ipotesi si avveri, chieda per l'ennesima volta l'ennesima fiducia. Ma se in sede europea quella legge fosse bocciata in quanto aiuto indebito dello Stato ad un'impresa, vietato dalla legislazione comunitaria?
Ho detto prima che la Parmalat è un pretesto. Infatti il vero obiettivo di Tremonti è di far entrare lo Stato non soltanto nelle aziende che hanno necessità di finanziamento ma direttamente nel sistema bancario. In particolare nelle cosiddette banche territoriali: le banche popolari, le banche cooperative, le Casse di risparmio. Quelle più a corto di capitali, quelle alle quali la Lega guarda con occhi avidi, quelle che procurano voti, organizzano interessi e clientele. Una rete immensa di sportelli, di prestiti, di mutui. Di fatto la politicizzazione del credito.
È una delle più gravi malattie la politicizzazione del credito. Il decreto di giovedì scorso ne segna l'inizio. Che cosa ne pensano i partiti d'opposizione? Che cosa ne pensa il governatore della Banca d'Italia? Che cosa ne pensa il Quirinale?
La politicizzazione del credito è un altro modo per deformare la democrazia, forse il più insidioso insieme al monopolio dell'informazione. Chi può manipolare le notizie e il danaro è il padrone, il raìs, il Capo assoluto, circondato da una clientela enorme e solida. Inamovibile. O ci si arruola o se ne è esclusi. La clientela vota. Chi spera di entrarci se ancora non ne fa parte, vota nello stesso modo.
La chiamano democrazia ma in realtà è soltanto un grandissimo schifo.

(03 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #276 inserito:: Aprile 07, 2011, 04:51:00 pm »

In quel film Silvio non si piacerà

di Eugenio Scalfari

Berlusconi racconta se stesso nello specchio di Faenza: un arci-italiano nel peggio.

E dovrà rivedere tanti fatti come accadevano, non come la sua memoria oggi li manipola o li rimuove

(24 marzo 2011)

Roberto Faenza è un bravissimo regista, Rizzo e Stella due ottimi ricercatori e in questo caso anche sceneggiatori e Berlusconi un grande attore, anzi "showman", uomo di spettacolo. Perciò "Silvio forever", il film sulla sua vita che in questi giorni è nelle sale, aveva tutte le premesse per un buon risultato e l'ha pienamente realizzato.

L'intuizione di Faenza (leggi l'intervista) è stata cinematograficamente perfetta: raccontare la vita di un personaggio così comune e al tempo stesso così eccezionale si poteva fare in vari modi. Si poteva affidarne l'interpretazione a un attore, come ha fatto il regista Sorrentino con Andreotti nel "Divo"; si potevano intervistare i suoi collaboratori più intimi, quelli che hanno condiviso le sue imprese e i suoi successi, insieme ai suoi più tenaci avversari e concorrenti. Oppure si poteva chiedere a lui medesimo di raccontarsi, una intervista "autorizzata" dove i fatti fossero narrati dal protagonista e quindi presentati a suo modo.

L'intuizione di Faenza è stata appunto questa ma effettuata all'insaputa del protagonista. Non è Berlusconi che racconta oggi la sua vita a un interlocutore, ma è il regista che mette insieme tutta la documentazione e il tessuto di una esistenza, colta dalla viva voce del protagonista, registrando il passato così come avvenne. Il montaggio dei fatti non lo fa Berlusconi filtrandoli con la sua memoria di oggi, ma lo fa Faenza all'insaputa di Berlusconi. � questa la trovata scenica ed è stato questo l'improbo lavoro dei ricercatori-sceneggiatori. Che cosa arriva allo spettatore, qual è il senso di quella vita vista in retrospettiva?

Il personaggio è un esempio di coerenza, non è mai cambiato dall'infanzia fino ad oggi, da quando faceva i compiti di scuola e li vendeva ai compagni, da quando suonava e cantava sulle navi di crociera e faceva "l'entraineur", e poi i mesi di Parigi, le prime case costruite (con i soldi di chi?), Milano Due, l'amicizia con Craxi, il crollo della Prima Repubblica, la nascita di Forza Italia, fino alla D'Addario, al "bunga bunga" e a Ruby-rubacuori. Un pezzo di storia d'Italia attraverso la vicenda pubblica e privata di un protagonista.

Lo spettatore vede all'opera un inarrivabile venditore di patacche, un formidabile illusionista, un bugiardo in buona fede, che non appena detta l'ennesima bugia, si persuade che quella sia la pura verità e giura sui figli perché ne è assolutamente convinto. Così quando firma da Vespa il contratto con gli italiani, nel quale scrive che si dimetterà dalla politica se almeno quattro dei cinque impegni presi in vista delle elezioni non saranno realizzati. Neppure uno di quegli impegni fu raggiunto ma lui è sempre lì.

Mamma Rosa, anch'essa ripresa mentre racconta il figlio, è un'altra pennellata del quadro; tutte le mamme adorano i figli ma questa lo vede e lo dipinge come lui si vede e si dipinge. L'identificazione di Mamma Rosa con Silvio è totale ma analoga a quella di milioni di italiani; i comizi e le feste di Forza Italia, le canzoni, il "meno male che Silvio c'è", sono momenti di reale entusiasmo per la gente che vi partecipa mentre i suoi compagni d'avventura sorridono sotto i baffi. Loro sanno benissimo chi è Silvio e si identificano con lui per i benefici che ne ricevono.

Il montaggio di Faenza non è partigiano: è un occhio che guarda, non dà giudizi. Ma nel corso degli anni il personaggio si decompone: dal bel ragazzo al vecchio, dal narcisismo giovanile a una patologica megalomania, dal maschilismo al machismo, dal sesso al vizio. Il tutto appena accennato nel film, ma colto nei momenti determinanti. Ne risulta, per dirla con una sola parola, un arci-italiano nel peggio.

Il film è divertente, fa pensare. Farà discutere. Il finanziatore è lo stesso Faenza, il che gli ha consentito un'assoluta neutralità. Ha fatto parlare i fatti. Ciascuno li interpreterà a suo modo, perciò probabilmente piacerà a tutti. Ma chi lo conosce sa che non piacerà a Berlusconi. Dovrà rivedere quei fatti così come li raccontò lui stesso mentre accadevano, non come la sua memoria li manipola oggi o li rimuove. No, lui non sarà contento di rivedersi nello specchio di Faenza e di quanti quei fatti li hanno volta per volta registrati sulle pagine dei libri e dei giornali.

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« Risposta #277 inserito:: Aprile 09, 2011, 12:25:13 pm »

Quella giunta che uccide la speranza

di Eugenio Scalfari

La commissione che valuta i procedimenti sui parlamentari con il suo comportamento spegne la fiducia dei cittadini.

Era così nel 1976 e oggi non è cambiato nulla. Come dimostra il caso Ruby

(08 aprile 2011)

"Ho sotto gli occhi l'elenco dei membri della Commissione parlamentare inquirente sui procedimenti d'accusa, un nome in verità troppo lungo per il niente assoluto che questo importante organo del Parlamento ha fatto finora. Sono venti tra deputati e senatori e tra di essi, ne sono certo, non mancano le brave persone. Alcuni li conosco da tempo e sono disposto a giurare che nessuno di loro ha mai schiaffeggiato un bambino, depredato una vedova, approfittato d'un debole o commesso comunque atti in qualche modo riprovevoli. Eppure queste venti persone sono secondo me, dal punto di vista della moralità pubblica, tra coloro che si sono macchiati del più grave dei reati e cioè di spegnere nei cittadini di questo Paese ogni fiducia e ogni speranza nell'istituto parlamentare.

A questi deputati e senatori è stato affidato un compito delicatissimo. Spetta a loro infatti giudicare dei reati politici eventualmente commessi dai ministri e perfino, se del caso, dal presidente della Repubblica. Essi sono il giudice inquirente, il braccio inflessibile del Parlamento che tutela l'eguaglianza di tutti dinanzi alla legge.

In realtà questi deputati e questi senatori stanno facendo da anni mercato del potere a essi affidato e lo stanno facendo senza nemmeno il pudore di nascondere le loro intenzioni. Hanno fatto di tutto; hanno tolto dalle mani dei magistrati processi sui quali non avrebbero avuto, in base alla legge, alcuna competenza; hanno privato il giudice ordinario perfino della possibilità di trattenere presso di sé le copie degli atti; hanno rifiutato di restituirgli le istruttorie almeno per quanto riguardava gli imputati non coperti dalle prerogative istituzionali. Hanno avocato tutto e hanno insabbiato tutto.

Su di loro e sulla loro squallida commissione sono state coniate barzellette, gli sono stati affibbiati nomi d'arte, gli sono state dedicate vignette di scherno, ma a nulla è servito perché essi hanno proseguito imperterriti nel loro comportamento".

I lettori che hanno letto fin qui queste righe che ho trascritto tra virgolette penseranno che mi sia stato suggerito dall'attualità del tema. La giunta delle autorizzazioni a procedere ha infatti sollevato il conflitto di attribuzione per bloccare il processo "Ruby" e trasferirlo al tribunale dei ministri. Se questo trasferimento dovesse avvenire quel tribunale prima di procedere dovrebbe avere il benestare della giunta che certamente glielo negherebbe.

Ebbene, le righe che fin qui avete letto io le ho scritte sulla "Repubblica" del 25 gennaio 1976, nel primo mese di vita del nostro quotidiano. Sembrano scritte oggi, non è vero?

In quell'articolo - che aveva come titolo "Venti nomi da ricordare" - davo anche l'elenco dei componenti della giunta. Potrei trascrivere qui i venti nomi dei membri attuali e dei gruppi parlamentari di appartenenza, ma a che cosa servirebbe? Sono passati 35 anni da allora e il problema è sempre lo stesso. Quasi tutti i problemi dell'etica pubblica nel nostro Paese sono gli stessi. A volte, rileggendo gli articoli che ho scritto sull'"Espresso" e su "Repubblica" nel corso di tanti anni, mi sorge un sentimento di disperazione. � mai possibile? Speravamo in un Paese migliore e ci ritroviamo invece in una situazione peggiore di prima, con problemi aggravati ma non diversi.

Disperazione significa scomparsa della speranza. Appunto, è proprio questo che mi sta capitando.

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« Risposta #278 inserito:: Aprile 10, 2011, 04:45:27 pm »

L'ANALISI

Geronzi sperava, Tremonti sapeva

di EUGENIO SCALFARI


LO CHIAMANO il banchiere di Marino ma è uno sberleffo che Cesare Geronzi non merita: è stato molto peggio che un semplice provincialotto, ma anche molto di più. Ha avuto in mano per lungo tempo le leve che governavano un sistema di potere ed ha ambito che quel sistema prevalesse su tutti gli altri. Non ce l'ha fatta ed è caduto. Gli era già capitato altre volte ma era sempre riuscito a rialzarsi; questa volta è difficile che accada.

Il suo sistema di potere nacque dalla fusione del Banco di Roma con il Banco di Santo Spirito, di proprietà d'una Fondazione di origine vaticana. Il Banco di Roma era una delle tre banche d'interesse nazionale, le altre due erano possedute dall'Iri: la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano. Le tre Bin avevano il controllo di Mediobanca, guidata da Enrico Cuccia.
Il sistema era questo: l'Iri, le tre Bin, Mediobanca. Cuccia diceva che il corpo di Mediobanca era pubblico ma la testa era privata. La testa privata era la sua, il corpo pubblico era l'Iri, ma il sangue che circolava nel sistema e lo teneva in vita era frutto delle tre Bin perché erano loro a collocare tra i risparmiatori le obbligazioni emesse da Mediobanca per raccogliere i capitali necessari a farla funzionare come banca d'affari. Queste erano le entità societarie, alla testa delle quali c'erano uomini in carne ed ossa con le loro storie e i loro caratteri.

Cuccia era uno di quegli uomini, ma insieme a lui e prima di lui ce n'erano altri, tutti molto speciali: Raffaele Mattioli,
Adolfo Tino, Ezio Vanoni, Bruno Visentini, Ugo La Malfa, Pasquale Saraceno. E la Banca d'Italia di Donato Menichella e poi, dal 1960, di Guido Carli.
Questa era la struttura di quel sistema e di quell'intreccio tra finanza e politica: la rete di sostegno che proteggeva l'economia reale, la finanziava e la regolava. I pilastri dell'economia reale erano: la Fiat di Valletta e poi, dal 1968, di Gianni Agnelli; l'Eni di Enrico Mattei, la Edison di Giorgio Valerio, la Montecatini di Carlo Faina, la siderurgia a ciclo integrale, le autostrade, i telefoni e le telecomunicazioni, la Rai, l'Alitalia, la Finmeccanica, tutte dell'Iri insieme alle tre Bin. Ma delle banche l'Iri si limitava a custodire le azioni; la politica bancaria la guidava la Banca d'Italia e nessuno si sognava di metterne il ruolo in discussione.

Così andarono le cose dal 1947 fino agli anni Settanta. Adesso sembra preistoria, sono cambiate le strutture, sono cambiati gli uomini. La spinta in avanti dell'economia italiana cominciò a rallentare fino a quando si fermò del tutto. Il debito pubblico prese a crescere fino a diventare, dagli anni Ottanta ad oggi, una mostruosa montagna. La disoccupazione, dopo esser stata riassorbita per tutto il decennio 1955-65, ricomparve fino a diventare strutturale. La competitività e la produttività scesero a livelli infimi. Ma soprattutto il rapporto tra gli affari e la politica diventò perverso e la sua perversità andò sottobraccio con la corruzione. Fino a quando la Prima Repubblica cadde e la Seconda che la sostituì si rivelò peggiore al punto da far rimpiangere quella che l'aveva preceduta.

* * *

Geronzi diventò un elemento del sistema quando già il rapporto tra affari e politica era imputridito, la rete di protezione e di regolazione era stata strappata in più punti, gran parte delle grandi imprese erano scomparse o avevano cambiato padrone. Per di più era ancora un elemento marginale perché il Banco di Roma che aveva cambiato il nome in Capitalia era molto più debole di Unicredit mentre la Commerciale era addirittura scomparsa nelle ampie braccia di Intesa-Sanpaolo. Tanto debole da mettersi in vendita poiché nella nuova era della globalizzazione le banche italiane non reggevano il confronto; per sopravvivere dovevano assumere ben più ampie dimensioni. La scorciatoia obbligata per Geronzi che guidava Capitalia fu la fusione con l'Unicredit di Profumo.
 
Nella spartizione dei ruoli a lui toccò la presidenza di Mediobanca, da tempo orfana di Cuccia e poi del suo successore Maranghi.
Non ebbe deleghe, gli amministratori Nagel e Pagliaro se le tennero ben strette salvo il comitato "nomine" che era ed è la cabina di regia delle società partecipate. Ma Geronzi era un bravissimo navigatore ed aveva un suo speciale talento: utilizzava le aziende per accrescere il suo potere. Talvolta le sue iniziative andavano anche a vantaggio dell'azienda, ma più spesso il vantaggio era suo soltanto. Così fece anche con Mediobanca. C'era entrato quasi di soppiatto, per "generosità" di Profumo; ma ne prese sempre più saldamente le redini lasciando le operazioni bancarie alle mani dei manager. Lui si occupò del suo potere. Diventò il referente di Gianni Letta e di Berlusconi; in quella veste si attribuì il ruolo di supervisore di una delle società partecipate, la Rcs-Mediagroup, cioè il Corriere della Sera la Gazzetta dello sport e i tanti settimanali del gruppo.

Strinse un sodalizio con i francesi di Bolloré e di Tarak Ben Ammar, che avevano un piede in Mediobanca e un altro nelle Generali. Vagheggiò una fusione tra Generali e Mediobanca; tenne l'occhio su Bernabè e su Telecom, con la sua importante rete di comunicazioni e la sua televisione La7, la sola esistente fuori dal duopolio Rai-Mediaset. E forse non fu estraneo alla caduta in disgrazia di Profumo e alla sua defenestrazione da Unicredit. A quel punto pose la sua candidatura alla presidenza di Generali. Si era convinto che fosse più agevole guidare Mediobanca dall'alto di Generali anziché guidare Generali da Mediobanca. Forse pensava che il management del Leone (Perissinotto e Balbinot) fosse più malleabile di Pagliaro e di Nagel. Ma su quel punto sbagliò. Non aveva previsto che quei quattro si sarebbero messi d'accordo per farlo fuori. Ci hanno impiegato un anno. Più veloci di così...!

* * *

Chi volesse definire con una sola parola Cesare Geronzi, potrebbe chiamarlo l'Uccellatore, colui che per professione ha quella di catturare uccelli vivi. Non è poi tanto male acchiappare uccelli vivi e metterli in gabbie dorate e provviste di buon mangime. Certo, con poca o pochissima libertà. Ma c'è un altro personaggio di questa storia ed ha anche lui il suo soprannome: chiamiamolo Convitato di pietra o Gran Commendatore, secondo il testo di Da Ponte. Parliamo naturalmente di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia. Tremonti non ha armato la mano dei manager di Mediobanca e di Generali, tanto meno li ha ispirati e guidati. Però sapeva. Aveva anche avvertito, ma molto alla lontana, Berlusconi, come se parlasse di un'ipotesi remota e abbastanza facile da bloccare. Invece era questione di ore. Non sapeva nulla Geronzi, non sapevano nulla Bolloré e Tarak Ben Ammar, non sapevano nulla Marina figlia e Silvio padre; ma il Convitato di pietra sì, lui sapeva.

Palenzona sostiene che il nuovo sistema, la nuova astronave, è composta di tre moduli: a valle ci sono le Generali, il comando di Generali è in mano a Mediobanca, il comando di Mediobanca è in mano a Unicredit. Cioè a Palenzona che ne è vicepresidente. Il presidente è il tedesco Dieter Rampl, che sta dietro Palenzona e forse è lui il vero perno alla faccia dell'italianità. Ma probabilmente alle spalle corporalmente possenti di Palenzona c'è il Gran Commendatore, Giulio Tremonti, protettore della Lega e fautore delle banche territoriali. Negli anni Ottanta un'architettura di questo genere avrebbe potuto essere immaginata e costruita, ma oggi non direi. L'economia globale, la finanza globale, la libera circolazione dei capitali non vanno in questa direzione. Le economie nazionali non reggono se non hanno dimensioni continentali. Usa, Cina, India, Russia, Brasile, queste sono le dimensioni. L'Europa le avrebbe ma per ora l'Europa non c'è. I finanzieri, i banchieri, gli industriali debbono immaginare e operare come se l'Europa ci fosse. Le architetture pensate sulla dimensione del cortile di casa non reggono all'urto della realtà, sono attendamenti fabbricati con le carte da gioco dei bambini. L'Uccellatore così come il Convitato di pietra sono anomalie nel paese delle anomalie.

Perciò è più corretto prevedere che i manager di Mediobanca, di Generali, di Unicredit, di Intesa, di Telecom, di Fiat-Chrysler, punteranno sul valore delle aziende e saranno giudicati su quella base. Valori non effimeri, non ottenuti con accorgimenti speculativi, ma di media-lunga durata, aggiornati ogni anno ma proiettati almeno verso il quinquennio o meglio ancora il decennio. Incrementi di valore, ampliamento delle basi produttive, regole di concorrenza, titoli giudicati dal mercato, competitività, creazione di nuovi prodotti, conquista di nuovi mercati. Le "matrioske" immaginate da Palenzona non servono più. Dietro Generali c'è il mercato internazionale delle assicurazioni; dietro Mediobanca c'è il mercato degli affari da intermediare e da finanziare; dietro Intesa e Unicredit c'è la banca generale, il credito da offrire sul territorio e in Europa. Lo Stato ha un solo e vero modo di stare sul mercato: produrre servizi pubblici e infrastrutture efficienti e far rispettare le regole di concorrenza che impediscano monopoli, conflitti d'interesse e rendite non tassate.
Buona giornata e buona fortuna.
 

(10 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #279 inserito:: Aprile 17, 2011, 05:02:30 pm »

   
IL COMMENTO

Il golpe puritano di Pisanu e Veltroni

di EUGENIO SCALFARI

Le notizie della settimana sono queste:
1. Berlusconi ha dichiarato alla stampa estera che alla fine della legislatura nel maggio del 2013 non si candiderà più come capo del governo ma resterà leader del suo partito.
2. Ventiquattro Paesi dell'Unione europea su ventisette hanno respinto la richiesta italiana di accogliere gli immigrati sbarcati sulle nostre coste. A fianco dell'Italia sono rimaste Malta e la Grecia.
3. Il piano economico e finanziario preparato da Tremonti per il prossimo biennio prevede una crescita del Pil dall'1 all'1,6 per cento. La disoccupazione e la pressione fiscale resteranno ferme sulle posizioni attuali. Il debito pubblico si è nel frattempo attestato al 120 per cento e non diminuirà fino al 2014.
4. La guerra contro i giudici deve proseguire a ritmo serrato: dopo la prescrizione breve sarà la volta della legge sulle intercettazioni e comincerà l'iter parlamentare della riforma generale della giustizia.
Come si vede, il panorama politico è al tempo stesso agitato e immobile.
Diciamo che è il tremito d'un organismo paralizzato e dura così da due anni.

La prospettiva, almeno per quanto riguarda l'economia e l'immigrazione, è che si andrà avanti così per altri due anni.
Il governatore della Banca d'Italia avverte che in queste condizioni ci vorranno cinque anni per uscire dalla crisi attuale.
Per poterne uscire nel 2013 sarebbe necessaria una crescita del Pil del 2 per cento in ciascuno dei due anni: obiettivo
possibile ma soltanto con una politica economica diversa da quella attuale.
Chi viaggia all'estero e incontra persone di altri Paesi con le quali ha rapporti di amicizia o di affari, riferisce la domanda che gli viene fatta in ogni occasione: perché Berlusconi è ancora al governo e riscuote ancora la maggioranza relativa dei consensi? Il viaggiatore non sa rispondere.
La stessa domanda ce la poniamo da tempo anche noi, sebbene essa si sia notevolmente ridotta negli ultimi mesi.
Ridotta, ma ancora consistente nel Paese e in Parlamento.
Come si spiega?

La risposta è contenuta in due diverse narrazioni di quanto accade in Italia, inconciliabili tra loro. Il Paese è dunque irrimediabilmente spaccato in due parti che non comunicano?
In realtà il Paese è diviso in tre parti e la terza è composta da chi ha perduto ogni interesse ad occuparsi di questo problema. La situazione è dunque terribilmente seria: stasi economica, isolamento in Europa, Paese diviso in tre parti quantitativamente equivalenti. Una palude, con i miasmi e i malanni d'ogni palude. Di qui una seconda domanda: come uscirne?

* * *

Pisanu e Veltroni hanno indicato un modo: un nuovo governo sostenuto da tutti coloro che in Parlamento e nel Paese vedono i rischi di questo agitatissimo immobilismo e decidono di uscirne unendo le forze per riscrivere insieme le regole provocando una "discontinuità" rispetto a quanto finora è accaduto.
La parola "discontinuità" significa politicamente una rottura con la situazione attuale. Che l'abbia pronunciata Veltroni non è una notizia ma che l'abbia scritta e firmata Pisanu, senatore del Pdl e presidente della Commissione antimafia, questa sì, è una notizia. Nel lessico dei seguaci dell'"Amor nostro" probabilmente sarà definita un "golpe" o almeno un para-golpe o un proto-golpe. Non Badoglio, ma Pisanu.

Che cosa ne pensano i poteri forti? Che cosa ne pensa la Chiesa? Ci vuole una premessa, per quanto ovvia, in questi tempi di vistosa confusione lessicale: la discontinuità non può aver luogo senza che emerga una maggioranza parlamentare diversa da quella attuale. E un'altra premessa: qualora quella nuova maggioranza emergesse, spetterebbe al presidente della Repubblica decidere se dar luogo ad un nuovo governo senza por fine alla legislatura oppure consultare il corpo elettorale.
Nel 1994, quando la Lega decise di ritirarsi dal governo passando all'opposizione dopo appena cinque mesi di esperimento, la legislatura continuò fino al  '96.

L'ossessione del ribaltone ancora non c'era per la semplice ragione che costituzionalmente il cambiamento di alleanza da parte di un gruppo parlamentare è pienamente legittimo e rientra nella normale dialettica democratica. Del resto in questa legislatura di ribaltoni ne sono già avvenuti parecchi: Fini è stato cacciato dal Pdl ed ha formato un partito che si è dissociato dalla politica del governo; alcuni parlamentari che l'avevano seguito hanno poi cambiato opinione tornando nel partito d'origine; altri parlamentari eletti con partiti di opposizione hanno varcato la soglia e sono passati con la maggioranza.
Nessuno ha invocato la fine della legislatura per questo motivo.

* * *

Esaurite le premesse procediamo con l'analisi delle forze in campo. Gli imprenditori, i rappresentanti dei lavoratori, la gerarchia cattolica, i movimenti ecclesiali, l'opinione laica, gli interessi e i sentimenti del Nord, gli interessi e i sentimenti del Centro-Sud.
La Confindustria reclama da tempo una politica orientata verso la crescita della domanda, dell'occupazione, degli investimenti e dei consumi. Tanto più urgente in una fase di crescente inflazione globale, di aumento del tasso di interesse e di un tasso di cambio dell'euro che penalizza fortemente le esportazioni.

Negli ultimi tempi questa posizione della Confindustria si è radicalizzata, con l'adesione pressoché unanime delle imprese grandi, medie e piccole. Queste ultime finora avevano considerato con favore e speranza le promesse berlusconiane, ma negli ultimi tempi le speranze sono appassite e il favore è venuto meno.

Analoghi mutamenti sono avvenuti nell'ampio settore delle costruzioni (Ance) e nelle organizzazioni dei commercianti e degli artigiani. Gli interessi di queste categorie sono penalizzati dalla politica del rigore senza crescita. Ciò non vuole necessariamente significare che le intenzioni di voto di queste categorie siano cambiate; la paura dei "comunisti" e degli immigrati gioca in favore della continuità politica e non della discontinuità. Ma quando è leso l'interesse, la tenuta ideologica diventa friabile e può favorire il mutamento delle intenzioni di voto soprattutto in favore dell'astensionismo.

Per quanto riguarda le forze del lavoro, il ragionamento è analogo salvo l'assenza di elementi ideologici. Sono molti i lavoratori e i pensionati che passarono da sinistra a destra nelle scorse occasioni elettorali, sedotti dalle promesse e dalle capacità seduttive di quella vera e propria macchina di voti che è il Grande Comunicatore. Ma il problema dei "comunisti" per loro non si pone e quello della sicurezza anti-immigrazione ha un peso assai minore rispetto ad altri ceti. Il problema dei lavoratori è il lavoro. Se manca o si devalorizza gli effetti prima o poi si vedono e infatti cominciano a vedersi.
Il Sud è terra incognita per un motivo evidente: è la parte del Paese socialmente meno strutturata. La classe dirigente locale è sempre stata "ballerina", il lavoro difetta, l'iniziativa imprenditoriale è scarsa, il credito di difficile accesso, le infrastrutture sono miserevoli e i trasporti ancora peggio.

Dove manca il radicamento degli interessi suppliscono radicamenti alternativi: la clientela, le organizzazioni malavitose. Aumenta l'emotività e contemporaneamente l'indifferenza politica. Il combinato di questi elementi rende appunto incognita la risposta politica meridionale anche se l'opinione pubblica strutturata (quel poco che esiste) è particolarmente reattiva allo sradicamento sociale e quindi molto sensibile all'etica pubblica. Può sembrare un paradosso ma è proprio nell'ambiente sociale più degradato che il desiderio di un'etica pubblica più rigorosa ed un salto di qualità nell'efficienza e nell'innovazione si manifestano con maggiore intensità.
Questa apparente contraddizione va guardata con particolare cura dalle forze politiche che puntano sulla discontinuità.

* * *

Il Nord invece non è terra incognita. Gli interessi sono ben radicati ed anche l'ideologia. Il nordismo è ormai un modo di pensare e di sentire che accomuna le genti della grande pianura dove scorre il Po, la stella cometa che ha la sua testa tra Varese Milano e Bergamo e la coda luminosa che s'irradia fino a Udine e Treviso da un lato e Mantova Ferrara e Rimini dall'altro, fino alle propaggini della costa adriatica marchigiana. Ci sono differenze e rivalità in questa ampia superficie che produce il sessanta per cento del reddito nazionale e ospita il quaranta per cento della popolazione, ma coincidono le priorità: libera impresa, regole al minimo livello, investimenti pubblici e infrastrutture come prima scelta dello Stato, Comuni e Regioni fiscalmente e istituzionalmente autonome, ricchezza reinvestita sul territorio, immigrazione condizionata all'offerta di lavoro.
La Lega costituisce il cemento e fornisce l'ideologia, ma non è esportabile, perciò la sua compromissione con il governo nazionale non è popolare. La condizione ideale del leghismo è il federalismo inteso come confederazione.

Il nordismo confederato rappresenta una metà degli abitanti di quei territori e molto meno della metà dei giovani. I giovani sono sempre più cosmopoliti e sempre meno attratti dalle patrie, grandi o piccole che siano.
Non amano la ghettizzazione né le tradizioni. Vogliono successo, ricchezza, competizione e cultura. Sono propulsivi e dinamici. Il mito di Pontida non è cosa loro, Bossi e Calderoli non sono i loro punti di riferimento. Forse il Berlusconi giovane sì, quello di oggi non più o sempre meno.
Se si aggiunge che la Chiesa è entrata nell'ordine di idee che la palude attuale non sia giovevole né ai suoi valori né ai suoi interessi, il quadro complessivo sembrerebbe favorevole ad un'evoluzione che privilegi la discontinuità rispetto al presente e pericolante assetto. Ma a questa salutare evoluzione fa ostacolo una difficoltà non da poco ed è una natura molto diffusa nella nostra gente. Francesco De Sanctis ne parla a lungo in un suo saggio e definisce quella natura come l'uomo del Guicciardini perché fu appunto lo storico fiorentino che meglio di tutti ne fece il racconto. Lo fece nelle "Historiae fiorentinae" e nei "Ricordi". Ma valeva ancora, quel racconto, tre secoli dopo, quando ne parlava De Sanctis nelle sue lezioni all'Università di Napoli. Purtroppo vale ancora oggi.
"Mancava la forza morale; supplì l'intrigo, l'astuzia, la simulazione, la doppiezza. Ciascuno pensava al proprio particulare sì che nella tempesta comune naufragarono tutti. La consuetudine nostra non comportava che s'implicassi nella lotta tra i principi, ma attendesse a schierarsi, ricompagnandosi con chi vinceva secondo le occasioni e le necessità. Noi abbiamo bisogno di intrattenerci con ognuno dè potenti e mai fare offesa ad alcun principe grande".

E il De Sanctis così conclude questa lunga citazione guicciardiniana: "Non c'è spettacolo più miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza. La razza italiana non è ancora sanata da questo marchio che ne impedisce la storia. L'uomo del Guicciardini lo incontri ancora ad ogni passo; ci impedisce la via se non avremo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza".
È un obiettivo da puritani? Oppure la condizione necessaria per far vivere una società moderna dove libertà e giustizia siano equilibrate e consentano di affermarsi al merito onestamente guadagnato?

(17 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #280 inserito:: Aprile 25, 2011, 12:03:30 am »

IL COMMENTO

Pasqua, lo spirito risorge per tutti

di EUGENIO SCALFARI


IL MALE non esiste. Dio decise di incarnarsi, di assumere natura umana e assumere su di sé tutti i peccati del mondo. Ripristinò l'alleanza tra l'umanità e il suo creatore e indicò la via della salvezza lasciando agli uomini la libertà e la responsabilità di scegliere.

Nel giorno del giovedì cenò con i suoi apostoli. La sera si ritirò con loro nell'orto del Getsemani. Nella notte fu arrestato. Il venerdì fu processato, torturato e crocifisso. Sepolto. Dopo tre giorni (ma il sabato secondo la liturgia) resuscitò da morte, apparve alle donne e poi agli apostoli. Così raccontano i Vangeli.

Un altro racconto, pur sempre condotto sui testi della Scrittura ma diversamente interpretati, narra la storia di un uomo, figlio di Giuseppe e della giovane Maria, nato a Betlemme nei giorni del censimento, ma residente a Nazaret. Di lui, dopo la nascita ed una fuggitiva presenza al Tempio, i Vangeli non dicono più nulla, non esiste alcun racconto della sua infanzia e della sua adolescenza. Non sappiamo nulla del suo lavoro, dei suoi studi, della sua famiglia, della sua vita.

Lo ritroviamo a trent'anni, quando inizia la sua predicazione in Galilea e in Tiberiade. Va al Giordano a farsi battezzare dal Battista, raduna un gruppo di discepoli, pescatori, artigiani, mendicanti. La sua predicazione ha all'inizio contenuti soprattutto sociali; sostiene che nel regno di Dio gli ultimi saranno i primi, i deboli, i poveri, gli ammalati, saranno confortati, i giusti avranno giustizia,
gli ingiusti saranno castigati.

Ma intanto quell'uomo sente crescere dentro di sé una potenza misteriosa, connessa a capacità medianiche e taumaturgiche. Ed è allora che domanda: "Voi chi credete che io sia?". Alcuni dei discepoli rispondono: "Tu sei il "rabbi", il Maestro". Altri: "Tu porti in te lo spirito di Mosè". Ed altri: "Un grande profeta, più grande di Ezechiele e di Geremia". Altri ancora: "Tu sei il Messia, discendente dalla stirpe di David e sei venuto ad annunciare la fine dei tempi".

Gesù ascolta, si chiude in sé. Si ritira nel deserto passando dalle terre dove vive la comunità degli Esseni, rimane quaranta giorni solo con le sue tentazioni, ode la voce del Tentatore e ne respinge le impure proposte. Torna tra i suoi. Ora è convinto di essere il Figlio di Dio, il solo tramite attraverso il quale l'unico Dio manifesta il suo amore per gli uomini e la sua sconfinata misericordia.

Questi due racconti, pur svolgendosi nello stesso modo e configurando lo stesso percorso, sono però profondamente diversi, ma convergono nella stessa conclusione: quell'uomo dà inizio ad un'epoca che si ispira al principio dell'amore e della carità, del perdono e della misericordia. Il peccato è una caduta dalla quale ci si può rialzare. Il male è soltanto l'eccezionale assenza del bene. Il bene è il regno dei giusti che godono la beatitudine di poter contemplare Dio nelle sue tre consustanziali epifanie di Padre, di Figlio e di Spirito Santo.
In questa fine del viaggio e della storia il male avrà cessato di esistere, non ci sono né purgatorio né inferno, ma soltanto paradiso, senza tempo e senza luogo.

* * *

Ma c'è un terzo racconto, quello che caratterizza l'epoca della modernità. In esso non esistono né il male né il bene, non esiste il peccato. Ogni essere vivente è dominato dalla natura dei suoi istinti e vive in perfetta innocenza. Ma noi, unica specie dotata di mente riflessiva e capace di pensiero, noi ci vediamo vivere, invecchiare e morire; noi siamo animati da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri. Nessuno di questi due amori riesce a cancellare l'altro e la nostra vita non è che la dialettica convivenza di essi che si confrontano nella caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale.

In questo terzo racconto non esiste metafisica, nulla è divino oppure tutto è divino, due modi per significare la stessa cosa: "Deus sive natura".

Il terzo amore che tutto sovrasta è quello verso la vita e il solo peccato pensabile è quello contro la vita, la sua dignità, la sua libertà. Non una vita idealizzata, ma una vita storicamente determinata dagli istinti che si misurano, si combattono, si trascendono, si trasfigurano, diventando passioni e sentimenti analizzati dalla lente della ragione, cioè del pensiero che pensa se stesso e che si vede vivere.
Questo pensiero è capace di inventarsi e di raccontarsi molti mondi, è una fabbrica di illusioni che ci aiutano durante il viaggio, di speranze che alimentano la nostra energia vitale, di architetture morali indispensabili a tutelare la nostra socievolezza.

Noi siamo una specie pensante e socievole, perciò costruiamo regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico. Ecco perché non esistono peccati ma esistono reati.
Quando finisce un'epoca, finisce anche una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura per costruirne un'altra affinché la vita possa proseguire alimentata e incanalata da nuovi limiti, da nuove correnti, da nuove sorgenti.

* * *

Ognuno di questi racconti ha una sua Pasqua, ognuno raffigura un'epifania, una morte apparente e una resurrezione. Non c'è fine perché non c'è principio. Non c'è altro senso fuorché la vita che la nostra specie è in grado di raccontare, interpretare, trasfigurare, inventare. Abbiamo perfino inventato il tempo.
Il tempo morirà con noi. La morale morirà con noi. Purtroppo stanno già morendo e questo non è buon segno.
Quando si rifiuta di ricordare il passato non si può costruire il futuro, si vive schiacciati da un eterno presente come gli animali che vivono infatti fuori del tempo.

Quando si smonta un'architettura morale senza costruirne un'altra il fiume della vita cessa di scorrere diventando imputridita palude.
A questa sorte dobbiamo ribellarci, questo pericolo dobbiamo scongiurare.
"Resurrexit" suoneranno oggi le campane. La Pasqua è di tutti ed è lo spirito di tutti che deve risorgere.
 

(24 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #281 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:52:15 pm »

L'amore per sé e quello per gli altri

di Eugenio Scalfari

Perché Gino Strada non sorride mai?

Il fondatore di Emergency ha capito che il suo sforzo per diffondere il pacifismo non porterà a nulla.

Nella natura umana prevale infatti un istinto contrario

(22 aprile 2011)


Alcuni giorni fa ho ascoltato Gino Strada, il medico che ha fatto della carità e dell'assistenza ai feriti d'ogni guerra e d'ogni colore lo scopo della sua vita, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione "Che tempo che fa".

Strada, oltre che medico caritatevole e coraggioso, è anche un pacifista integrale, propagandista e ideologo della pace e nemico - ovviamente pacifico - del potere e dei potenti. In questo è molto coerente: le guerre non sono che le conseguenze della brama di potere. Distruggere quella brama, riuscire a scacciarla dal cuore degli uomini, quello sì, sarebbe un formidabile passo avanti verso il trionfo della pace universale e Gino Strada, insieme a tutti quelli che appoggiano l'associazione "Emergency" da lui fondata, cerca di diffondere ovunque può il sentimento pacifista. Ma è triste, Gino Strada, ci se ne accorge guardandolo e ascoltandolo, al punto che lo stesso Fazio gliel'ha fatto notare nel corso della trasmissione.

I due sono vecchi amici e Fazio condivide il pacifismo di Strada e cerca di aiutarlo concretamente. Ma non vorrebbe vederlo triste.
"Sorridi ogni tanto", gli ha suggerito davanti a quattro milioni di ascoltatori. "Sei in pace con la tua coscienza, tanta gente ti vuol bene.
Sorridi e ridi, carità e tristezza non vanno d'accordo".
"Hai ragione", ha risposto Gino e ha abbozzato un sorriso, ma si capiva che era forzato. Infatti è presto scomparso e il suo volto si è fatto di nuovo triste e cupo.

Mi sono chiesto il perché di quella tristezza e ogni tanto mi torna in mente. Gli esempi di carità sono quasi sempre associati alla letizia. Francesco d'Assisi mendicava in letizia, digiunava e dava tutto ciò che poteva ai poveri in letizia e così facevano i suoi frati.
Così facevano Santa Chiara e Santa Caterina e ai tempi nostri Madre Teresa di Calcutta.

Così faceva Gandhi. La letizia fa parte integrante della carità perché l'uomo caritatevole è felice di quanto fa, la sua coscienza si sente alleggerita dalla colpa e lo riflette nello sguardo e nel sorriso buono che gli spiana il volto. Perché Gino Strada è triste?

Mi ci sono arrovellato su questa domanda. In questa fase della mia vita sto studiando gli istinti e i sentimenti, perciò chiarire questa questione non è un'oziosa curiosità, fa parte del mio lavoro.
Dopo averci pensato su sono arrivato a una conclusione: Strada ha capito che la sua predicazione pacifista non approderà a nulla.
E non perché lui sia un cattivo predicatore, non perché i suoi argomenti non siano persuasivi, non perché le persone di buona volontà non si riconoscano in lui. Ma lui deve aver capito che la brama di potere, la volontà di potenza, lo scontro con gli altri e infine la guerra sono un istinto della nostra specie.

Non è un vizio, non un'indole perversa da rieducare: un istinto che convive con quello della generosità e con l'amore per gli altri.
L'uomo è un groviglio di due amori: quello per gli altri e quello per se stesso. E se mai ci si chiede quale sia il più forte e il più irruente di questi due istinti amorosi, s'arriva presto a concludere che l'amore per sé è quello dominante. Lo si può contenere, si può fare in modo di arginarne la pericolosità, ma non si riuscirà mai a spegnerlo perché si dovrebbe trasformare l'uomo in un angelo, dotarlo cioè di un'altra natura che estingua la natura umana.

La storia biblica comincia con Caino che uccide Abele. E neppure Cristo riuscì a spegnere l'amore di sé nell'umana natura.
Provò a compiere questo miracolo ma non riuscì. Se non c'è riuscito lui sembra difficile che ci possa riuscire Gino Strada.

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« Risposta #282 inserito:: Maggio 13, 2011, 11:20:05 am »

Dire Nato non è più come dire Usa

di Eugenio Scalfari

Obama non vuole fare il gendarme del mondo. E l'alleanza Nord-atlantica si trasforma in una rete di "poliziotti di quartiere".

Dove però gli interessi dei Paesi coinvolti non sempre coincidono

(05 maggio 2011)

Se si facesse un sondaggio per sapere quale sia, tra le migliaia di sigle che infestano i media, quella più conosciuta, credo che ai primissimi posti figuri la Nato, Alleanza del nord-atlantico. La conosciamo da oltre sessant'anni e raduna anche paesi che con il nord atlantico hanno poco o nulla a che vedere: Italia, Turchia, perfino Germania. Per gli europei infatti la sigla Nato e la relativa organizzazione militare che costituisce il nerbo dell'alleanza non è altro che la forza armata americana opportunamente travestita con una mezza divisa europea.

L'Europa non ha una forza di difesa comune e le singole difese nazionali hanno tutt'al più una potenzialità locale. Quindi, lo ripeto, la Nato è sempre stata vista dall'opinione pubblica europea e anche americana come un "travestito": si dice nord-atlantico ma si intende Stati Uniti d'America. Però da qualche tempo la situazione è cambiata, soprattutto negli ultimi due anni, da quando alla Casa Bianca c'è Barack Obama. Gli Usa sono meno interessati a mantenere il ruolo di gendarme mondiale, anzi vogliono abbandonarlo perché, con l'emergere di Paesi che sono veri e propri continenti come Cina e India, quel ruolo è diventato insostenibile.

Le guerre hanno cambiato natura: non sono scomparse ma non sono più globali. La deterrenza nucleare non è più in grado di fermarle come fu ai tempi della guerra fredda tra Usa e Urss. Perciò il gendarme mondiale non esiste più. Esistono ormai gendarmi locali, poliziotti di quartiere. La Russia è uno di quelli, la Francia, la Turchia, la Siria, l'Iran, altri. C'è una grande quantità di poliziotti di quartiere nel mondo e ci sono anche reti che coordinano la loro azione. La Nato è una di quelle ma gli europei ancora non se ne sono resi conto; continuano a pensare che Nato significhi Usa. Non è più così e la guerra di Libia ha reso palese questa trasformazione.

Gli Stati Uniti seguono quella guerra da lontano ma ne hanno delegato l'esecuzione a due poliziotti di quartiere: la Francia e la Gran Bretagna. In sott'ordine anche l'Italia, soprattutto a causa della nostra posizione geografica. Ci sono però alcune vistose contraddizioni in questo coordinamento di ruoli. I tre poliziotti di quartiere incaricati di seguire le direttive Nato hanno obiettivi e interessi diversi. L'Unione europea, che dovrebbe parlare con una sola voce, è tutt'ora inesistente per quanto riguarda la politica estera, la difesa e la politica dell'immigrazione. Quindi ogni paese membro dell'Ue in queste materie fa da sé e non è affatto vero, almeno in questo caso, che chi fa da sé fa per tre. Questa è la vera e sola ragione per la quale Gheddafi resiste dopo due mesi di guerra. In realtà il rais libico è in guerra contro una squadra aerea di una trentina di apparecchi. E' vero che dominano incontrastatamente i cieli libici ma poco possono fare senza fanterie che si muovano a terra. I cosiddetti ribelli non sono un esercito combattente, vanno bene per dimostrazioni di piazza ma dal punto di vista militare non hanno alcun peso. Perciò Gheddafi resiste mentre la Nato se la cava con un paio di "raid" al giorno in un paese dove i trasporti contano poco, le città sono al massimo cinque e il deserto si estende sui nove decimi del territorio.

Questa situazione rischia d'andare avanti ancora per parecchi mesi. In Italia poi, a differenza degli altri paesi europei, le forze politiche sono divise sulla questione libica e l'opinione pubblica è in grande maggioranza contraria a una "guerra umanitaria" che ha notevole peso sui flussi di immigrazione. La nostra opinione pubblica è un vero mistero. L'uomo che riscuote i maggiori consensi è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. In occasione dell'evento dei 150 anni dalla nascita dello Stato unitario l'opinione pubblica ha riscoperto il Risorgimento. Però se ne infischia della Nato e non tiene in alcun conto la linea di Napolitano su quel tema. Quanto agli immigrati da distribuire equamente in tutte le regioni, è un tema che mette in soffitta lo stato unitario. Strano paese. Si chiama Italia ma sembra anch'esso un "travestito". Sotto il vestito che cosa c'è?

 
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« Risposta #283 inserito:: Maggio 21, 2011, 10:16:16 am »

L'opinione

Che comunisti, quei giudici Usa

di Eugenio Scalfari

La procura di New York ha arrestato uno degli uomini più potenti del mondo. Da noi subito direbbero: hanno rovistato nelle sue lenzuola e nella sua vita privata! Senza testimoni! Magistrati eversivi! Però, per loro fortuna, negli Usa non hanno Ghedini e la Santanchè

(18 maggio 2011)

La Procura di New York ha fatto arrestare nell'aereo dell'Air France che stava per decollare da New York con destinazione Parigi uno degli uomini più potenti del mondo: Dominique Strauss-Kahn direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, favorito competitore alla presidenza della Francia nelle elezioni che avverranno l'anno prossimo.

Solo le manette gli sono state risparmiate. Rischia vent'anni di reclusione. I suoi sogni di gloria sono crollati. Aveva tentato di violentare una cameriera nell'albergo Sofitel di New York.

Ragazzi, direbbe Crozza! Ma sono matti in quella Procura? Ma chi credono di essere? E quei poliziotti? Bloccano l'aereo e fanno prigioniero un uomo da cui dipende la salvezza o il baratro della Grecia, dell'Irlanda, del Portogallo, dell'Europa, la sopravvivenza dell'euro, la sorte di centinaia di milioni di persone. Rovistano tra le lenzuola di un appartamento, danno immediato seguito alla denuncia di una cameriera.

Non c'erano testimoni, la parola di questa ragazzetta contro quella dell'uomo che sarebbe stato tra pochi mesi il presidente della Repubblica francese! Lesione della vita privata, garantismo alle ortiche, dittatura di magistrati. E se fosse tutto un complotto ordito da Sarkozy o il raptus di un "prosecutor" in preda a una sconsiderata volontà di potenza?

Noi, qui in Italia, lo sappiamo bene. Noi, brutture di questo genere le viviamo da anni. Noi siamo schiacciati dalla dittatura delle Procure dove si annidano veri e propri terroristi che non hanno altro obiettivo fuorché quello di ferire la democrazia, la libertà del popolo sovrano e l'uomo che quel popolo ha liberamente designato a guidarli.

Oh, noi italiani purtroppo possiamo dar lezione al mondo intero su questa cancrena che deturpa il Paese; questo cancro e le sue metastasi, questa persecuzione contro l' uomo più amato, più dolce, più necessario al nostro bene comune, e proprio per questo ha contro di sé una setta di puritani faziosi, tutta la stampa, tutte le televisioni. E come non bastasse, tutte le istituzioni: la magistratura, la Corte Costituzionale, il presidente della Camera e perfino (perfino!) il presidente della Repubblica.

Ci vuole una grande alleanza internazionale per schiacciare la testa di questa piovra che minaccia tutti. Il caso Strauss-Kahn è l'ultimo tassello di un complotto. Lo si capisce chiaramente perché i complottisti si ripetono e si copiano. Il reato che imputano alle vittime che vogliono distruggere è sempre il medesimo: il sesso libero, il libero desiderio, il libero amore. Sono sessuofobici, sono puritani, sono dei sessisti repressi, sono ossessionati dai loro fantasmi.

Ma noi, qui in Italia, non ci siamo fatti mettere sotto i piedi da questa setta di veri criminali che indossano abusivamente la toga e l' ermellino dei giudici. Noi stiamo reagendo e chiamiamo a raccolta le persone per bene, quel poco di giornalisti per bene che ancora resistono, quel poco di magistrati per bene. Abbiamo con noi il popolo. Anzi, noi siamo il popolo. Il popolo sovrano. Il popolo italiano non è più stregato dalle ideologie: la separazione dei poteri, le autorità di controllo, la Costituzione vista come una religione civile, balle, balle inventate per ingabbiare il popolo privandolo dei suoi poteri, riducendolo ancora una volta in servitù.

Il nostro popolo è per fortuna adulto e sa come difendersi anche se la lotta è durissima. Ma la vinceremo. E voi americani, voi francesi, liberatevi anche voi dalle ideologie che ancora vi inceppano. Ripensate criticamente alle vostre rivoluzioni. Credete ancora che vi abbiano liberato dall'assolutismo? Non siate così ingenui. Le vostre rivoluzioni hanno soltanto cambiato un assolutismo con un altro, un'ideologia con un'altra.

Il sesso, sempre il sesso è stato il pretesto. Le amanti del Re Sole, le amanti del suo successore, il peccato. E oggi, Dominique Strauss-Kahn ridotto in ceppi perché aveva sfiorato il culo di una cameriera!

Ragazzi! Siamo matti! Se volete, a voi americani e a voi francesi, vi prestiamo la Santanché. Statela a sentire.

Quanto a Dominique, l'avvocato Ghedini è pronto ad assumerne la difesa. Nel suo interesse gli consigliamo di chiamarlo subito.

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« Risposta #284 inserito:: Maggio 23, 2011, 04:53:27 pm »

L'EDITORIALE

L'estremista Golia e il David moderato

di EUGENIO SCALFARI

L'INVASIONE televisiva di Berlusconi è un fatto vergognoso che si ripresenta ad ogni campagna elettorale, alla faccia della "par condicio" dietro la quale si riparano i berluschini. La novità di questa volta consiste - per quanto possiamo cogliere dalle prime reazioni del pubblico - nell'inefficacia del messaggio berlusconiano: è passato come acqua sul vetro. Se quello è lo strumento per rimontare la sconfitta subita dal centrodestra nel primo turno elettorale, tutto porta a ritenere che il risultato dei ballottaggi confermerà che il "tappo è saltato" e la fascinazione mediatica del Cavaliere di Arcore è ormai diventata una logora liturgia che non riesce più a sedurre i fedeli ormai in libera uscita.

La domanda che a questo punto si pone riguarda la Lega, poiché la sconfitta del Pdl al primo turno elettorale ha scompaginato il leghismo altrettanto se non addirittura di più. Come si spiega questo fenomeno del tutto inatteso? Dipende da un parziale disimpegno di Bossi e dei suoi colonnelli? Da errori commessi soprattutto nella politica dell'immigrazione? Oppure anche nella Lega come nel Pdl, da una crisi del carisma del leader? Anche per la Lega il tappo di bottiglia è saltato?
Le risposte a queste domande sono di importanza capitale per l'intera situazione politica. La Lega è infatti un partito territoriale che detiene però la "golden share" del governo nazionale. Aveva puntato su un travaso di voti in tutto il Nord dal Pdl a proprio favore.

Non solo quel travaso non è avvenuto, ma la Lega ha perso massicciamente voti. Perché? I dati sui flussi segnalano due fenomeni molto diversi tra loro. I leghisti "puri e duri" sono profondamente scontenti della politica "moderata" di Bossi e di Maroni sull'immigrazione; vorrebbero che gli immigrati, clandestini o profughi, siano ributtati a mare, non siano fatti sbarcare, siano comunque respinti subito dopo lo sbarco, non gli vengano dati permessi di soggiorno sia pure transitori. Si collocano cioè molto più a destra dello stato maggiore leghista e questo spiega il mutamento tattico della leadership in senso massimalista per riguadagnare i voti perduti nel primo turno elettorale.

Ma si è verificato anche un deflusso di voti di chi ha negli anni scorsi votato per la Lega senza essere leghista nel senso proprio del termine. Questo secondo tipo di deflusso si spiega con motivazioni del tutto opposte alla precedente: un richiamo al patriottismo nazionale patrocinato dal Presidente della Repubblica, un crescente disagio per i comportamenti di Berlusconi nei confronti della magistratura e dello stesso Capo dello Stato, un giudizio severo su Letizia Moratti; infine e soprattutto una critica forte della politica economica del governo e quindi della Lega che ne fa parte determinante.

Questo secondo tipo di deflusso non è facilmente riassorbibile e rischia addirittura di aumentare di fronte al massimalismo filo-berlusconiano messo in scena da Bossi in queste ultime ore. Due tappi di bottiglia stanno saltando contemporaneamente?

* * *

Molti osservatori, di quelli cosiddetti "distaccati" (ma sono mai esistiti osservatori distaccati? Non è anche il distacco un'ideologia?) hanno fissato la loro lente sul Partito democratico del quale segnalano una deriva a sinistra. E la deprecano. Dio sa perché.
Ma i distaccati hanno la risposta pronta: il Pd ha dimenticato i moderati? Li lascia tra le braccia accoglienti di Berlusconi? Bersani abbandona Casini per inseguire Vendola e Di Pietro? Pisapia sarà sicuramente un galantuomo, De Magistris assai meno, ma tutti e due sono a sinistra; i moderati sono un'altra cosa, la pancia dell'Italia è moderata. E allora dove andrà a sbattere Bersani?

Sono domande insidiose, dettate dal senso comune che non sempre coincide con il buonsenso. Si potrebbe rispondere con altre domande: Berlusconi è un moderato? La Santanché è moderata? Sallusti e Belpietro sono moderati? Stracquadanio è moderato? E la Brambilla? E la Gelmini? Non si tratta di personaggi di periferia, fanno parte dell'"inner circle" del presidente del Consiglio. Se questi sono i moderati, si salvi chi può.

E tuttavia non è questa la risposta giusta da dare. Il tema proposto dagli osservatori distaccati merita un approfondimento oggettivo e una risposta adeguata.

* * *

Le vicende dell'economia globale e della crisi sociale che ne è stata conseguenza hanno determinato negli ultimi mesi fenomeni di portata mondiale che anche l'Italia ha inevitabilmente registrato. Il nostro governo riteneva, dopo averne pervicacemente negato l'esistenza fin quando ha potuto, che la crisi fosse ormai alle nostre spalle. Le Cassandre (tra le quali noi in prima fila) avvertivano invece che il peggio non era ancora arrivato. Infatti.

Proprio ieri mattina la grande agenzia di rating "Standard & Poor's" ha declassato il giudizio sul "trend" dell'economia italiana da "stabile" a "negativo". Non c'è alcun segnale di crescita. Non c'è uno straccio di riforma capace di riavviare lo sviluppo. L'Europa chiede una manovra per rafforzare i conti pubblici e avviare una consistente diminuzione del debito. Tremonti la valuta sui 14 miliardi da effettuare per due anni di seguito; la Banca d'Italia ha parlato di 40, l'opposizione la valuta in 60.
Dovrebbe servire a portare il bilancio in pareggio e a ridurre sia il deficit sia il livello della spesa corrente la quale, dal canto suo, dovrebbe esser ridotta di due punti di Pil all'anno nel prossimo triennio.

Una cura da cavallo, in presenza di un "trend" al rialzo dei tassi d'interesse in tutto il mondo a cominciare dall'Europa.

In queste condizioni i giovani che hanno visto confiscato il loro futuro stanno insorgendo in tutti i paesi della costa mediterranea e mediorientale.
Cominciò la Tunisia, seguirono l'Egitto, gli Emirati, lo Yemen, la Libia, la Siria, perfino l'Iran. La settimana scorsa il vento della rivolta è sbarcato in Spagna e da lì riecheggia anche da noi.

Questi giovani non hanno futuro. Le classi dirigenti gliel'hanno confiscato e loro vogliono riappropriarsene. È molto difficile fare spallucce ad una richiesta così corale, che non ha per ora alcuna canalizzazione politica, anzi si colora di antipolitica. Si tratta d'una spinta sociale che però ha trovato uno sponsor fin qui imprevisto ma estremamente autorevole: il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. "Non sappiamo quali ne saranno gli sbocchi" ha detto tre giorni fa dal Dipartimento di Stato "ma sappiamo che questi giovani chiedono futuro e libertà e l'America democratica deve appoggiarli".

E l'Europa? E l'Italia?

* * *
Perciò la risposta che oggettivamente si deve dare agli osservatori distaccati è questa: le forze politiche democratiche, a cominciare dal Pd che è il maggior partito d'opposizione, non possono che stare sulla linea di Barack Obama, il che significa prendere atto che l'asse sociale della politica italiana si è spostato a sinistra. Questo è il senso del risveglio registrato nel primo turno elettorale: uno spostamento sociale a sinistra. A cominciare dai moderati. Le donne e i giovani in particolare. Chiedono futuro e libertà, pane e libertà, diritti e libertà, lavoro e libertà, civismo e libertà. Non sono anarchici. Non sono estremisti. Non sono "contro" ma sono "per".

Il Partito democratico - se vogliamo parlare di una formazione politica che è coinvolta direttamente in queste vicende - sembra aver compreso questi nuovi elementi di realtà e sembra aver deciso, finalmente compatto, in questa decisione, di gettare tutto il peso di cui dispone in questa battaglia.

Rileggete quelle parole sopracitate che terminano sempre con la parola libertà alla quale accoppiano le parole: futuro, pane, lavoro, diritti, civismo. Questo è il programma, questo il percorso, questo dovrebbe essere il patto generazionale che coinvolga le forze sindacali, l'imprenditoria, gli artigiani, le partite Iva, gli agricoltori, gli studenti, i docenti, l'impiego pubblico e privato. Questo è il nuovo blocco sociale.
I moderati innovatori e liberali sono al centro di questo blocco. I moderati conservatori sono contro e per la forza delle cose sono diventati estremisti.

Sapremo domenica prossima chi avrà avuto la meglio questa volta, ma la strada è ormai disegnata.

* * *
Dedico il finale a un problema specifico del quale tuttavia non può sfuggire l'importanza. Si tratta di colmare il vuoto che Mario Draghi lascerà nel prossimo novembre quando assumerà la sua nuova carica di presidente della Banca centrale europea. Chi sarà il suo successore alla Banca d'Italia? L'importanza delle Banche centrali nazionali è molto diminuita in questi ultimi dieci anni. L'intera politica monetaria è passata nelle mani della Bce e con la politica monetaria anche la fissazione dei tassi d'interesse, il tasso di cambio dell'euro e la vigilanza sul sistema bancario europeo nel suo complesso. Alle Banche centrali nazionali (i cui governatori fanno parte del Consiglio della Bce) è rimasta la vigilanza sulle banche del proprio paese sotto la supervisione della Bce e soprattutto la formazione dei quadri e lo studio dei dati strutturali e congiunturali del paese in questione.
Monitoraggio e pilotaggio intellettuale, in costante raccordo con le autorità nazionali preposte alla politica del bilancio, cioè con i rispettivi ministri del Tesoro e delle Finanze.

Non ripeteremo qui ciò che è stato ampiamente scritto nei giorni scorsi a proposito di Mario Draghi. La sua presenza alla Banca d'Italia e la sua presidenza d'un organismo internazionale che ha studiato e messo in opera alcune riforme essenziali per la stabilità dei mercati, sono state il "pedigree" sulla base del quale è stato scelto a guidare la Bce. La nazionalità italiana non gli ha giocato né contro né a favore, a quei livelli la sola nazionalità che conta è quella europea. Avrà un compito delicatissimo in questa fase di crisi perdurante, tra spinte all'inflazione e pericoli di deflazione, acquisti su un mercato aperto di titoli di Stato dei paesi europei, debiti sovrani al limite del "default", politiche tributarie ancora fortemente differenziate e tassi di sviluppo altrettanto divergenti tra i vari paesi.

C'è una sola via ed un solo sovrastante obiettivo da perseguire per chi guida la Bce - oltre alle capacità operative da mettere in campo: accrescere il potere delle istituzioni europee rispetto a quelle nazionali. Draghi ne è perfettamente consapevole e crediamo di sapere che opererà in quella direzione.

Il suo successore a Roma non ha comunque un ruolo secondario. Anzitutto partecipa con i colleghi degli altri paesi dell'euro-gruppo, alle decisioni della Bce. In Italia è il principale interlocutore del ministro dell'Economia.

Le due istituzioni (ministro e governatore) hanno poteri e ruoli autonomi ma convergenti. Non sono subordinati l'uno all'altro mai si muovono comunque all'interno di un sistema che non sopporterebbe scosse violente e comportamenti difformi. Autonomia all'interno del sistema: è un obiettivo indispensabile anche se non facile da raggiungere.

La scelta del nuovo governatore, che dura in carica sei anni, è dunque delicata ed avviene sulla base di una concertazione tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, con un decreto da entrambi firmato.

La tradizione consolidata vorrebbe che il governatore sia scelto all'interno dell'Istituto. Luigi Einaudi veniva da fuori, ma fu il primo governatore del dopoguerra ed era ovvio che la scelta non potesse in quel caso che essere esterna. Menichella, Baffi, Ciampi, Fazio, provengono tutti dall'interno dell'Istituto e di fatto anche Carli perché quando fu nominato direttore generale e poi governatore proveniva dalla presidenza dell'Ufficio dei cambi che era posseduto interamente dalla Banca d'Italia.
La sola vera eccezione è stata proprio quella di Mario Draghi.

La tradizione vorrebbe dunque che si scelga all'interno tra i membri del Direttorio, dove non mancano personalità di livello europeo.
Per una scelta al di fuori i nomi adeguati non mancano. Spetta comunque a Napolitano e a Berlusconi vagliare le diverse personalità e decidere di conseguenza.

Auguri a loro e al prescelto.

(22 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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