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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318383 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:22:24 am »

IL RICORDO

Un personaggio pirandelliano

di EUGENIO SCALFARI

SE si eccettuano Ciampi e Andreotti, non ci sono stati altri in Italia che abbiano avuto un "cursus honorum" così altisonante come quello di Francesco Cossiga: fu sottosegretario alla Difesa con delega sui Servizi, ministro dell'Interno, presidente del Consiglio, presidente del Senato, presidente della Repubblica.

Durante questo lungo percorso militò nella Dc e in particolare nella sinistra di quel partito. Ci furono varie sinistre democristiane: quella di Gronchi, quella di Fanfani, quella di Moro, di Tambroni, di Marcora, di De Mita, ed ebbero diversi destini e diversa dignità. Cossiga militò in una sinistra che aveva lui soltanto come aderente. Una sinistra estremamente mobile e capricciosa, capace di spostarsi su tutto il ventaglio della politica italiana ma con alcuni punti di riferimento fermissimi: i servizi di sicurezza, l'arma dei Carabinieri, l'arma della Marina, gli Stati Uniti d'America e la Corona britannica. Per quest'ultima nutriva una sorta di culto. Anche la massoneria, ma non per adesione ma perché segreta, almeno di nome e di tradizione.

Tutto ciò che era segreto lo affascinava, comprese le tecnologie che maneggiava con grande abilità. Fu un solitario con pochissimi amici.
Fu un sardo integrale. E fu un depresso per tutta la vita.

E' impossibile ricordare e capire Cossiga se non si ha presente la sua depressione. Io l'ho conosciuto bene, gli sono stato amico, e lui a me, per molti anni; direi dal '78 al '90. Poi l'amicizia finì quando lui cominciò a picconare dal Quirinale la Costituzione che aveva giurato di difendere. Da allora i nostri rapporti diventarono burrascosi e mai più amichevoli come un tempo. Va anche detto che la capricciosità depressiva del suo carattere aveva raggiunto un'intensità che rendeva precario e rischioso ogni rapporto. Ma sulla natura del suo male, sulla sua origine e il suo decorso non ho mai saputo se non quello che se ne diceva: che era imbottito di farmaci e non sempre con successo sulle sue condizioni generali di salute.

Come tutti i ciclotimici alternava fasi di cupa tristezza e atonia a fasi euforiche e attivissime. Di solito la tristezza solitaria coincideva con sconfitte politiche. Ne ebbe una particolarmente grave dopo l'uccisione di Moro; un'altra di analoga gravità quando fu minacciato di "impeachment" dal Pci guidato da Berlinguer del quale era un lontano cugino acquisito. Infine una terza al termine del settennato presidenziale che, con continue oscillazioni, non l'ha più abbandonato ed è stata probabilmente la causa della sua fine.

Un uomo di grande intelligenza appoggiata tuttavia ad una piattaforma psichica del tutto instabile, come ha potuto percorrere una carriera politica di quel livello? Come ha potuto essere scelto quattro volte per incarichi di massimo livello politico e istituzionale non avendo alle sue spalle una corrente che lo sostenesse in una Dc che sulle correnti ci viveva?

Queste domande sono rimaste finora senza risposte. Ne azzardo una: la Dc in alcuni momenti della sua storia ebbe bisogno di delegare responsabilità importanti a uomini sciolti dalla struttura correntizia del partito. Quella delega attutiva lo scontro interno o addirittura lo congelava per un periodo che servisse a far riprendere fiato a tutti.
Sceglievano uomini "en reserve" che di tanto in tanto entravano in scena per poi uscirne in attesa della prossima occasione.

Così accadde con Leone, presidente di governi balneari, presidente della Camera e poi al Quirinale. Così si spiega anche la collezione di incarichi di Andreotti, il quale nel partito fu sempre molto debole. Andreotti tuttavia fu un tessitore di contatti, di scambi di favori, di un sistema di potere che ebbe i suoi punti di forza nelle minoranze di tutti i partiti.
La sua tecnica è stata quella di sparigliare il gioco; di questo fu maestro e su questo entrò a far parte del Gotha politico.

Anche Cossiga sparigliava, ma non per calcolo consapevole bensì per malattia. Da questo punto di vista è stato un personaggio pirandelliano e il dramma Enrico IV sembra scritto su misura anche se lui all'epoca di Pirandello non era ancora nato.

Naturalmente nelle fasi euforiche del suo male l'istinto del Narciso prendeva il sopravvento su ogni altra considerazione. I due ultimi anni del suo settennato al Quirinale furono dominati dal narcisismo. I giornali davano quasi quotidianamente la prima pagina alle sue sortite, ai suoi discorsi, ai sassolini che si toglieva dalle scarpe, ai colpi di piccone che assestava all'ordinamento costituzionale.

Oggi riposa in pace. Ha ricoperto tanti ruoli e tutti di grande importanza ma la sua vita è stata profondamente infelice ed è passata come una meteora nella politica italiana.

(18 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/18/news/un_personaggio_pirandelliano-6345912/?ref=HREA-1
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« Risposta #226 inserito:: Agosto 21, 2010, 06:16:51 pm »

Il labirinto di Francesco Cossiga

di Eugenio Scalfari

Dall'uccisione di Moro la sua vita è stata solo una sequenza tragica (pubblicato il 13-06-2002)

(17 agosto 2010)

"Ebbene sì sono un depresso": ha detto Cossiga durante la conferenza stampa convocata  per confermare le sue irrevocabili dimissioni da senatore a vita contro Carlo Azeglio Ciampi; 'sono un depresso ma non un euforico; ciò non mi impedisce di lavorare e di avere la mente chiara anzi chiarissima. Ci sono state molte illustri persone afflitte da questa malattia". E ha citato Montanelli e perfino Nietzsche. Qualcuno, prendendo spunto da quest'ultimo nome, sussurrava la sera di quello stesso giorno nella frescura dei giardini del Quirinale in festa per l'anniversario della Repubblica: 'Infatti stamattina Cossiga ha abbracciato un cavallo' (l'episodio accadde a Torino nel dicembre del 1889 e segnò il passaggio di Nietzsche dalla depressione alla follia). L'ex presidente della Repubblica non è un folle e questo lo sappiamo tutti, ma certo è un caso, 'un carattere le cui pieghe sono diventate più profonde col passare degli anni' dicono le persone più legate a lui: una frase volutamente generica che manifesta un disagio senza spiegarne la natura. Sono stato abbastanza intimo di Francesco Cossiga per poterne parlare con qualche cognizione di causa. Dopo parecchi anni di amicizia, dal 1977 fino al 1990, ci fu una rottura politica che non fu più ricucita anche se negli ultimi mesi si era in qualche modo cicatrizzata. Avevo anch'io capito che il peso della vecchiaia incipiente aveva 'approfondito le pieghe del suo difficile carattere' e questa comprensione mi sollecitava ad un giudizio più equanime. Sicché posso esprimere oggi, di fronte a questa sua ultima bizzarria, un parere 'pro-veritate'. Ci provo.

Il rapimento e poi l'uccisione di Aldo Moro, avvenuti mentre Cossiga era ministro dell'Interno, lo segnarono per sempre. Non soltanto e forse non tanto per la totale inefficienza e impreparazione di cui dettero prova le forze della sicurezza pubblica alle sue dirette dipendenze; non tanto per la responsabilità politica che pesava su di lui per aver giustamente rifiutato - insieme ad Andreotti, Zaccagnini ed Enrico Berlinguer - di riconoscere alle Br un ruolo di interlocutori politici; quanto perché visse in quella circostanza un trauma emotivo di rapporto con la morte. Quel trauma gli capovolse la vita.

Da allora, da quella mattina in cui il corpo raggomitolato e cadaverico del capo del più grande partito italiano fu trovato nel bagagliaio di una vecchia Renault, la persona Cossiga, la sua mente, i suoi fasci neuronali, l'anima sua o comunque la si voglia chiamare sono stati come incendiati, sconvolti, fulminati da una corrente di eccezionale intensità. Era la seconda volta che ciò accadeva in cinquantasei giorni: la prima scarica da elettrochoc era avvenuta il giorno in cui Moro fu rapito dal commando delle Br alle sette del mattino e il ministro dell'Interno fu il primo, ovviamente, ad averne notizia. Ricordo questi fatti per averne vissuto la sequenza ed aver raccolto proprio da lui l'impressione a caldo di quelle terribili scosse e delle conseguenze indelebili che produssero 'sulle pieghe profonde del suo carattere'. Quelle "pieghe profonde" ci misero un bel po' di tempo prima di manifestare i loro effetti. Per oltre un anno l'ex ministro dell'Interno, che aveva firmato la sua lettera di dimissioni fin dalle prime ore del rapimento Moro con la decisione che sarebbero diventate operative a vicenda Moro conclusa e comunque conclusa, si chiuse in un isolamento pressoché totale, lontano da tutti, dalla famiglia, dagli amici privati, da quelli politici. Elaborava il lutto, il suo lutto. Scomparve dalla scena. Poi vi tornò. Prima da Presidente del consiglio di un effimero Ministero senza storia, poi da Presidente del Senato. Infine da capo dello Stato.

In cinque anni bruciò le tappe di un "cursus honorum" straordinario, quale raramente si era visto prima e mai in una persona sottoposta ad un doppio trauma di quella violenza. Ma era stonato, dominato dall'immagine della morte che gli aveva sconvolto la vita. Guardava alla sua vita con lo sguardo furbo e sospettoso di chi si sente braccato da qualche cosa di immenso cui si può sfuggire depistando, cancellando le tracce, cambiando abitudini, frequentazioni, modi di pensare e di vivere. Esplose al quinto anno della sua permanenza al Quirinale. Annunciò che da quel momento in poi si sarebbe tolto i sassolini che aveva nelle scarpe (ma quali?) e che gli impedivano di camminare spedito. Si mise all'opera con il fervore e l'empito di chi aveva deciso di combattere contro un'oppressione ignota, contro un fantasma che gli rubava il tempo e il respiro. Si dette il nome di Picconatore e menò fendenti in tutte le direzioni, risparmiando soltanto i servizi segreti e l'Arma dei Carabinieri quasi che fossero queste le sole forze che potevano difendere la sua incolumità psicologica. Il suo problema divenne ben presto quello di monopolizzare ogni giorno la prima pagina di tutti i giornali. Voleva stupire. Doveva stupire. Doveva esorcizzare la mortalità con la fama. Doveva bruciare i templi nei quali aveva officiato e tutt'ora officiava. Novello Erostrato, decise di picconare la Costituzione che aveva solennemente giurato di difendere. Fu applaudito e circondato da una vasta sequela di comici dell'arte recitanti a soggetto. Condivise con altri la predilezione per i guitti e i buffoni di corte. Ma il suo problema era molto più profondo: doveva sfuggire a quel qualcosa di incognito, di oscuro, di ineluttabile che lo perseguitava sotto le più diverse sembianze.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-labirinto-di-francesco-cossiga/2132214/18
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« Risposta #227 inserito:: Agosto 22, 2010, 09:04:23 pm »

IL COMMENTO

Il partito della P3 può perdere le elezioni

di EUGENIO SCALFARI


SARANNO presentati in Parlamento nei prossimi giorni i cinque dossier programmatici sui quali il governo è intenzionato a chiedere la fiducia: la riforma della giustizia, il federalismo, il fisco, il Mezzogiorno, la sicurezza. Si aspettava questo annuncio dopo l'ennesimo "consiglio della Corona" svoltosi venerdì scorso a Palazzo Grazioli.

Nella conferenza stampa tenuta subito dopo da un Berlusconi palesemente stanco e incattivito nonostante il consueto trucco di scena, il documento scaturito dal vertice è stato presentato come una sorta di ultimatum all'ala dissidente dei finiani, un pugno sul tavolo del premier di nuovo sicuro di sé: o mi date la fiducia senza cambiare una virgola o si vota a dicembre. Ma le cose non stanno esattamente così.

La mozione di fiducia verrà posta sul documento uscito dal vertice o su una sua parafrasi e i finiani hanno già dichiarato che lo voteranno senza problemi. Ma poi le varie leggi sui cinque punti in programma dovranno essere presentate, discusse e approvate dal Parlamento con le procedure previste dai regolamenti. Il voto di fiducia preliminare non lega le mani di nessuno, fa soltanto slittare la crisi dall'inverno alla primavera 2011. I motivi di questo sostanziale rinvio - anche se parzialmente smentito da Berlusconi nel secondo atto del vertice tenutosi ieri - sono svariati. Fini ha bisogno di tempo per organizzare le sue forze e la sua strategia, tuttora piuttosto incerta.

Berlusconi dal canto suo teme uno smottamento massiccio del consenso in suo favore. Le attuali intenzioni di voto registrate da numerosi sondaggi fino all'inizio di agosto danno il Pdl tra il 26 e il 28 per cento, di fatto alla pari con il Pd e il sorpasso leghista in tutte le tre regioni padane, Piemonte, Lombardia, Veneto. Di qui la tregua provvisoria con Fini e il rinvio della crisi. Ma la situazione politica non cambia, la scissione finiana non rientra, la "golden share" della coalizione di centrodestra resta saldamente nelle mani della Lega.

A Bossi importa poco dei programmi sul fisco e sul Mezzogiorno; li considera secondari rispetto al federalismo e del resto rientrano entrambi nella competenza di Tremonti che ha con Lega un legame ormai consolidato. Quanto alla sicurezza, è materia di Maroni che ieri ha dichiarato di voler essere molto più duro di Sarkozy per quanto riguarda i rimpatri degli immigrati e dei Rom.
Il vero scambio sotteso al programma dei cinque punti si verifica dunque tra il federalismo di cui Bossi reclama l'esclusiva e la riforma della giustizia che interessa Berlusconi e l'"inner circle" dei suoi accoliti.

In cambio della mano libera sul federalismo Bossi darà il suo appoggio incondizionato a Berlusconi sul tema della giustizia e su quello strettamente connesso dei conflitti di interesse che ormai, penetrando dalla persona e dall'azienda del premier, avvolgono in una fittissima rete l'intera cupola del Pdl ed ora, proprio sul fronte della giustizia, se ne profila un altro: dietro l'annuncio del premier, che dichiara di voler snellire il contenzioso delle cause civili, potrebbe celarsi l'ennesimo colpo di spugna. Stavolta sulla causa che vede contrapposte la Cir e la Finivest, già condannata in primo grado al pagamento di 750 milioni di euro come risarcimento dei danni subiti dal gruppo De Benedetti ai tempi del Lodo Mondadori.

Siamo dunque in presenza di uno scambio di grandi proporzioni: l'assetto federale dello Stato dato in appalto ad un partito territoriale che nel Paese raccoglie tra il 10 e il 12 per cento dei consensi e, dall'altro lato, il salvacondotto giudiziario al premier e al suo gruppo insieme ad un mutamento radicale dei rapporti tra la giurisdizione e l'autorità politica e, più in generale, tra la sovranità del potere politico e le istituzioni di controllo e di garanzia. Questo è il vero contenuto dello scontro politico in atto.

Ma il quadro sarebbe incompleto se non segnalassimo altri due aspetti della situazione.
Il primo riguarda il Pd. Messo alla frusta dalla gravità della crisi, Bersani ha deciso un rilancio in grande stile mobilitando i 3 milioni e mezzo di elettori delle primarie per una campagna capillare per riportare in linea quella parte dell'elettorato democratico - riformista che si è rifugiata nell'area dell'astensionismo. Se questa mobilitazione verrà condotta con efficacia e passione il risultato potrebbe addirittura consentire il sorpasso del Pd rispetto al Pdl, che avrebbe effetti clamorosi sull'intero quadro politico.

Il secondo aspetto della situazione riguarda il presidente della Repubblica ed è altrettanto essenziale. Ho scritto in un articolo dell'11 aprile scorso intitolato "L'ultima sfida del Cavaliere al Quirinale" una frase che voglio qui riportare perché ha acquistato in questi giorni un'inquietante attualità: "Sta emergendo con sempre maggiore chiarezza la volontà berlusconiana di dare una spallata definitiva alla Costituzione repubblicana sostituendola con un regime autoritario, un Parlamento di "cloni" plebiscitati, un potere giudiziario frantumato e subordinato all'esecutivo.
"In uno degli angoli del ring c'è Silvio Berlusconi, nell'altro, almeno per il momento, non c'è nessuno o meglio c'è un capannello di persone discordi tra loro dalle quali sembra difficile estrarre un valido competitore. "Giorgio Napolitano dovrebbe arbitrare la partita, dalla quale dovrebbe uscire una Repubblica ammodernata ma fedele ai principi dello Stato di diritto e alla libertà oppure un autoritarismo plebiscitario.

"Questo scontro comincerà tra meno di un mese e si concluderà nel 2011. Credo di sapere che Napolitano deve e vuole restare al di sopra delle parti anche perché il capitale di fiducia che riscuote nel Paese è il solo elemento che può far inclinare il piatto della bilancia dalla parte giusta e non da quella terribilmente sbagliata. "Credo di sapere che contro le sue intenzioni sul ring, a contrastare un vero e proprio "golpe bianco" ci sarà lui. "Non in veste di giocatore ma in veste di arbitro di fronte a chi contesta gli arbitri, i soli che possono richiamarlo a rispettare le regole del gioco. Credo di sapere e prevedo che sarà una durissima battaglia per la democrazia italiana".
È esattamente questa la piega che hanno preso le cose.

* * *
La riforma della giustizia è impostata su due punti che nel loro insieme costituiscono la concezione che il berlusconismo ha dello Stato e della democrazia. Il primo punto riguarda il rapporto tra il potere esecutivo e le istituzioni di controllo e di garanzia, prima tra tutte la magistratura. Il secondo punto si dà carico  -  così suona la motivazione  -  delle carenze del servizio, della estenuante lunghezza dei suoi percorsi che causano costi altissimi ai cittadini e al Paese. E quindi: processo breve, possibilità di rendere esecutive e inappellabili le decisioni dopo uno o almeno due ordini di giurisdizione, terzietà del giudice rispetto alla pubblica accusa, separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti, diluizione o addirittura abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale.

In questo quadro va da sé che vi sia una specialissima attenzione all'improcedibilità nei confronti dei membri del governo e la protezione assoluta del premier e delle altre massime cariche istituzionali per ogni tipo di reato, non importa quando commesso. Quest'aspetto del problema figura come un codicillo ma sappiamo che per gli estensori della riforma ne costituisce invece un punto capitale. Quale sia la concezione liberal-democratica dell'intera questione della giustizia è fin troppo noto perché sia necessario entrare nei dettagli anche se il tema dei disservizi della giurisdizione si impone oggettivamente ad ogni cittadino e ad ogni legislatore e va dunque affrontato con il massimo impegno e la massima concretezza. Ho la fondata sensazione che le cause principali di quei disservizi non siano minimamente presenti agli estensori della riforma in questione. Perciò mi propongo qui di formulare alcune riflessioni su questa delicatissima materia.

* * *
1. Esiste un assoluto caos nei rapporti tra le magistrature amministrative, le magistrature contabili e la giurisdizione ordinaria. Il Tar può aprire un processo a carico di un soggetto; la sua ordinanza o sentenza è appellabile al Consiglio di Stato. Nel frattempo sullo stesso soggetto e sullo stesso reato la Corte dei Conti può aprire un processo ed emettere sentenza. Sul medesimo imputato e presunto reato possono procedere in pari tempo il giudice penale e quello civile. Le sentenze di queste diverse giurisdizioni nei loro diversi gradi possono essere in totale contrasto le une con le altre dando luogo ad una situazione che definire caotica è un eufemismo e la cui lunghezza è infinita.

2. Di questo tema mi sono occupato alcuni anni fa segnalando altresì la situazione abnorme del Consiglio di Stato che è al tempo stesso collegio giudicante nei confronti del potere esecutivo ma anche consigliere autorevole e molto ascoltato del governo stesso: situazione abnorme a cui dovrebbe esser messo riparo. Questo ed altri temi sono stati ora risollevati dall'avvocato Giovanni Pellegrino che fu anche senatore e presidente della Commissione stragi, in un libro intitolato "Il morbo giustizialista". Merita d'esser letto e attentamente meditato.

3. Scrisse più volte Paolo Barile, il grande giurista erede spirituale di Piero Calamandrei, che l'obbligatorietà dell'azione penale è la norma che presidia l'indipendenza del Pubblico ministero. La sua abolizione determinerebbe la degradazione del magistrato inquirente al rango di un pubblico funzionario. Si può anche scegliere questa strada e imboccare quella dell'avvocato di pubblica accusa, sapendo però che l'indipendenza della magistratura diventa in questo caso una lugubre barzelletta della quale abbiamo fatto esperimento in cent'anni di monarchia e in vent'anni di fascismo. In altri paesi esistono contrappesi politici, culturali e professionali che in Italia sono sconosciuti. Perciò è bene si sappia che abolire l'obbligo dell'azione penale significa la cancellazione dell'indipendenza giurisdizionale.

4. Ciò non significa che l'obbligatorietà dell'azione penale non possa essere meglio organizzata. Per esempio concentrandola nelle mani del capo della Procura e bilanciando questo centralismo con la deroga per i reati in flagranza e con incontri frequenti e obbligatori tra il Procuratore capo ed i suoi sostituti su come orientare e specializzare l'azione penale in quel distretto giudiziario.

5. La giurisdizione antimafia ha creato un modello di organizzazione nazionale con un Procuratore unico alla guida del sistema. Probabilmente per alcuni reati non necessariamente mafiosi ma con analoghe caratteristiche, quel modello andrebbe esteso. Un Procuratore nazionale per tutti i reati di corruzione e concussione nei quali sia coinvolta la Pubblica amministrazione potrebbe essere una proposta di rilevante interesse.

6. Esiste infine una serie di comportamenti gravemente illeciti ai quali non corrisponde la definizione di un preciso reato. La magistratura e la giurisprudenza hanno creato in questi casi nuove formule di incolpazione come per esempio il reato di associazione per delinquere che spesso tuttavia serve soltanto a colmare un vuoto legislativo favorendo conflitti di giurisdizione tra Corti di merito e Corte di Cassazione che sono tra le cause più importanti dell'estenuante lunghezza dei processi. Molte altre cose potrebbero esser dette su questi temi. Li ho qui segnalati proprio per stimolare un dibattito e mettere in evidenza che la cosiddetta generale riforma della giustizia che sta per essere presentata alle Camere si riduce ad una pagliacciata messa in scena per proteggere gli interessi di una casta politica, come temo stia per avvenire.

(22 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/22/news/scalfari_22_agosto-6427545/?ref=HRER1-1
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« Risposta #228 inserito:: Agosto 23, 2010, 05:50:09 pm »

Che idea, torniamo al duello

di Eugenio Scalfari


Le ultime vicende politiche inducono a rivalutare un antico strumento di risoluzione delle controversie. Mi immagino Berlusconi all'alba, già certo di vincere, avvicinarsi con i suoi due padrini Previti e Bertone...

(16 agosto 2010)

Rovistando tempo fa tra vecchie cianfrusaglie di casa ho trovato un disco da 45 giri con le canzoni del Quartetto Cetra. Nei primi anni Cinquanta dello scorso secolo quel quartetto ebbe la sua celebrità che durò almeno vent'anni. Erano tre uomini e una donna e affrontavano con gustosa ironia vecchie usanze di un'Italia ottocentesca tuttora vive nella memoria dei padri e dei nonni.

Misi il disco sul grammofono, gracchiava per la polvere che si era depositata nei solchi ma le voci e la melodia erano perfettamente percepibili. Riascoltai "Il vecchio palco della Scala" e il "Il visconte di Castelfrombone", quest'ultimo in particolare godibilissimo. Ne trascrivo qualche verso a memoria:
"Il visconte di Castelfrombone/cui Buglione/ fu antenat/ ha sfidato il conte di Lomanto/ ed il guanto/gli ha gettat/tutto accadde al bal dell'ambasciata:/con l'amata/ lo trovò./ Uno sguardo e due perfetti inchini/e i padrini/ gli mandò/Poi dello scandalo ogni salotto/di ciarle ghiotto/fu presto edotto/ed ai rivali di quella tenzone/una canzone/il D'Annunzio dedicò".

Non è una delizia? Allora lo fischiettavamo ridendoci su. Risentirlo adesso fa uno strano effetto: è quasi ridiventato attuale, i politici di opposte sponde si lanciano accuse e parole che in altri tempi li avrebbero portati sul terreno, armati di spade o pistole. Felice Cavallotti, che sul finire dell'Ottocento era il leader della sinistra radicale, morì così, con un colpo di spada che gli spaccò il cuore.
E se questi costumi riprendessero piede? Ho cominciato a fantasticarci su e mi ci sono molto divertito. Un duello all'alba in un bosco fuori mano, i padrini, il direttore di gara, un medico per ogni evenienza. Al primo o all'ultimo sangue? Per una donna o per l'onore d'un partito?

Pensate: un duello tra Bondi che gli ha dato dello scostumato e del selvaggio e Bersani che gli ha risposto per le rime. Oppure tra Vendola e D'Alema, l'uno con l'orecchino e magari per l'occasione con i guanti alla moschettiera e l'altro vestito come le guardie del Cardinale, coi baffi appuntiti e il mantello rosso.

Potrebbe diventare una moda molto apprezzata nei salotti di Roma e di Milano. La Santanché ci camperebbe agevolmente e non sarebbe la sola.

Un duello tra La Russa e Della Vedova attirerebbe l'interesse generale, soprattutto se l'arma scelta fosse la sciabola. Un altro tra Gasparri e Bocchino, magari alla pistola con un solo colpo in canna. Quanto a Fini, non potrebbe esimersi dal mandare i padrini al cognato Giancarlo Tulliani che ha carpito la sua buona fede implicandolo in un pasticcio che proprio non ci voleva.

E Feltri? Sarebbero in molti a gettargli il guanto di sfida sulla faccia, da Boffo allo stesso Fini, ma non accetterebbe, invocherebbe la deontologia giornalistica, i probiviri della Federazione della stampa, ma in un prato con la spada in pugno francamente non ce lo vedo. Come non ci vedo Ferruccio De Bortoli: con l'elmetto mai.

E Berlusconi? Qui il discorso si fa più complicato. Il Cavaliere ha fegato ed è oltretutto un uomo d'onore. Per di più è ammalato di mania di grandezza perciò un duello l'accetterebbe, ma dovrebbe esser sicuro di vincerlo, uscirne sconfitto per lui è un'ipotesi intollerabile. Perciò dovrebbe trovare un suo pari che però accettasse di farlo vincere al primo assalto. Diciamo un suo pari arrendevole.
Mi sono scervellato per ore su questa ricerca. Un suo pari arrendevole chi può essere? Alla fine l'ho trovato. Un gioco da bambini, l'uovo di Colombo: Giulio Tremonti, un suo pari arrendevole.

Si dovrebbe mettere su uno scenario di quelli che passano alla storia. Berlusconi sceglierebbe come padrini Cesare Previti e il cardinale Tarcisio Bertone; Tremonti porterebbe con sé il presidente della commissione europea, Barroso e Umberto Bossi. Direttore di gara ci vedo bene Panebianco oppure Galli della Loggia. I medico lo sceglierebbe Berlusconi che ce ne ha una collezione.

"Nell'ottobre dell'Ottantasette/alle sette del mattin/ i rivali si trovarono presso/a un cipresso/d'un giardin".
Bisognerebbe ritoccare la data. Non c'è un D'Annunzio per scrivere la canzone, ma Bondi è maestro in materia, andiamo sul sicuro.

Tremonti è certamente arrendevole, ma qualche condizione la metterebbe: primo ministro quando il Cavaliere ascenderà al Quirinale. Il guaio per lui è che Alfano lo sfiderebbe immediatamente alla pistola e all'ultimo sangue. Gianni Letta no, come Feltri neanche Letta si batte. Semmai una goccia di veleno durante una cena da Bruno Vespa.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/che-idea-torniamo-al-duello/2132480/18
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« Risposta #229 inserito:: Agosto 25, 2010, 04:03:13 pm »

LA POLEMICA

Gli scrittori, i libri e il conflitto d'interesse

di EUGENIO SCALFARI 


A leggere dichiarazioni, articoli, interviste degli autori interessati e dello stesso Vito Mancuso che ha sollevato il caso su Repubblica, sembrerebbe che tocchi a me chiudere (o riaprire) il discorso sulla compatibilità di avere come editore dei propri libri il gruppo Mondadori oppure andarsene cercando altre case editoriali eticamente e politicamente più pulite.

Non mi aspettavo questo privilegio. Forse dipende dalla cosiddetta età veneranda o dall'essere stato a suo tempo anch'io editore (ma di giornali e non di libri che è cosa diversa). Comunque mi si chiede un giudizio e forse una decisione. Da tre anni sono un autore dell'Einaudi, società che dal 1994 è controllata dalla Mondadori. Resto o me ne vado?

Da quanto ho capito, questa risposta sta particolarmente a cuore a Mancuso il quale è sull'orlo di una decisione ma, ch'io sappia, ancora non l'ha presa. E da me che cosa ti aspetti, caro Vito? Che io t'incoraggi a cercare nuovi lidi editoriali dove magari seguirti o ti convinca a restare dove sei e dove dici di trovarti bene, se non fosse per un rovello etico che ti rode dentro da quando hai letto sul nostro giornale, cui tu collabori, lo scandalo della legge "ad aziendam" imposta dal premier-editore per consentire alla sua Mondadori di saldare un debito fiscale presuntivamente accertato in 350 milioni di euro pagandone in tutto 8,6?

Tu sei un mio amico ed ho molta stima per la tua cultura religiosa. Diciamo "martiniana" e tu sai con quanto affetto e rispetto io guardi al cardinal Martini sebbene non condivida la fede che lo anima. Perciò rispondo alle tue sollecitazioni e per maggior chiarezza lo farò esaminando i vari aspetti della questione.

1. Il governo, dopo averci provato varie volte senza riuscirvi, ha inserito surrettiziamente in un recente decreto convertito in legge una norma che autorizza le aziende che abbiano una vertenza tributaria in corso ed abbiano vinto nei due primi gradi di giurisdizione, a chiudere la vertenza pagando una sanzione irrisoria. La Mondadori  -  vedi caso  -  si trova esattamente in questa condizione ed ha utilizzato uno "scivolo" estremamente favorevole.

2. Non ci sarebbe molto da obiettare se non fosse che il presidente del Consiglio è proprietario di riferimento della stessa Mondadori. Il problema nasce dunque dal gigantesco conflitto di interessi incorporato nella figura di Silvio Berlusconi.

3. Il suddetto conflitto di interessi è un morbo che avvelena la vita politica italiana fin dal 1993 e la condizionò anche prima. Quando Berlusconi faceva ancora l'impresario televisivo i suoi politici di riferimento erano Bettino Craxi e in minor misura Forlani. Poi entrò in politica portandosi appresso quel conflitto che permane tuttora senza che la classe politica vi abbia posto alcun rimedio. Ricordo queste cose per dire che il problema non nasce oggi ma almeno 17 anni fa se non prima.

4. La mia esperienza di autore è stata abbastanza lunga e varia. Ho avuto come editori Laterza, Feltrinelli, Mondadori (dove pubblicai "La sera andavamo in Via Veneto" quando quella società era controllata dalla Cir e dal gruppo dell'Espresso), Rizzoli. Alla Rizzoli ero affezionato al direttore editoriale Rosaria Carpinelli che seguiva gli scrittori con rara competenza professionale. Quando la Carpinelli lasciò la Rizzoli me ne andai anch'io e scelsi Einaudi pur sapendo che la proprietà di quella casa editrice era della Mondadori. Fu dunque nel mio caso una scelta perfettamente consapevole.

5. Scelsi Einaudi perché il gruppo dirigente che ha al suo vertice editoriale Ernesto Franco è ancora quello formatosi con Giulio Einaudi. La Einaudi fu per tanti anni una delle case editrici che contribuì fortemente alla formazione culturale del nostro paese e che tuttora  -  non a caso  -  vanta un catalogo di scrittori di prima grandezza nella narrativa, nella saggistica, nella storia, con particolari presenze di scrittori civilmente e politicamente impegnati, da Ingrao alla Rossanda, da Asor Rosa a Zagrebelsky.

6. Se il gruppo editoriale che guida la Einaudi cambiasse o se i suoi dirigenti si piegassero a richieste politicamente scorrette e per me incompatibili, non esiterei un istante ad andarmene. Finché questo non avverrà, alla Einaudi mi trovo benissimo e ci resto.

7. Ho avuto anche un'altra esperienza che forse è utile raccontare perché riguarda pur sempre il settore della comunicazione. Due anni fa la casa cinematografica Medusa di proprietà della Fininvest mi informò che era interessata a fare un film utilizzando come soggetto un mio romanzo intitolato "La ruga sulla fronte". In quello stesso giro di mesi la Medusa stava realizzando il film "Baarìa" con Giuseppe Tornatore. Accettai la proposta e si arrivò fino alla stesura del copione ma a quel punto accadde un fatto: il presidente della Medusa, Carlo Rossella, intervenendo alla trasmissione televisiva "Ballarò" e pochi giorni dopo a quella di "Porta a porta", fece affermazioni molto gravi e a mio avviso faziose in favore di Berlusconi e si lasciò andare a veri e propri insulti contro i partiti di opposizione. Scrissi dunque alla Medusa rescindendo il rapporto che avevo con lei. In campo cinematografico questa società è il solo produttore e distributore esistente sul mercato italiano, a differenza del mercato dei libri. Perciò chi rifiuta di lavorare con Medusa rinuncia a veder realizzato il film che lo interessa.

8. Il conflitto di interessi di Berlusconi è un'anomalia che  -  in queste proporzioni  -  esiste soltanto in Italia. Si combatte eliminando l'anomalia, cioè si combatte politicamente. Lo sciopero degli autori, degli operatori televisivi e, perché no, quello dei lettori o dei telespettatori non sono armi facilmente realizzabili. Si possono determinare casi personali come quello di Roberto Saviano, insultato da Berlusconi e da sua figlia Marina con giudizi offensivi sul suo libro "Gomorra" ancorché pubblicato dalla Mondadori. Ma si tratta di casi personali che l'interessato risolve come ritiene più opportuno.

L'importante è che le idee possano circolare liberamente senza condizionamenti o ricatti. Questa è la ragione della nostra battaglia contro la legge-bavaglio. Chi ci impone un bavaglio avrà da parte nostra pane per i suoi denti come si è visto nei mesi scorsi e come ancora si vedrà se quella legge dovesse essere nuovamente riproposta. 

(25 agosto 2010) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2010/08/25/news/gli_scrittori_i_libri_e_il_conflitto_d_interesse-6493004/?ref=HREA-1




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« Risposta #230 inserito:: Agosto 29, 2010, 09:20:36 am »

Tre carneadi cofondatori

Eugenio Scalfari

Rotondi, Pionati e Giovanardi. Vogliono contare come Fini. E con i loro dieci deputati e quattro senatori potrebbero far male a Berlusconi in difficoltà. E poi c'è anche Nucara

(27 agosto 2010)

Vi do tre nomi e vi invito a dire chi sono: Rotondi, Pionati, Giovanardi. Vi metto sulla buona strada: sono tre uomini politici. Ancora non ci siete? Sono tre cofondatori del partito di Berlusconi. Non ci siete ancora? Un altro aiutino: due di loro sono ministri senza portafoglio (per fortuna) nell'attuale governo. Non vi viene in mente niente?
È terribile per quei poveretti aver lavorato una vita al servizio - si fa per dire - del paese e non aver lasciato alcuna traccia. Pensate: uno di loro è addirittura proprietario della Dc. Ma sì, avete capito bene: proprietario del logo del partito, lo scudo crociato. L'ha registrato a proprio nome perché nessun altro aveva pensato a farlo. Qualche anno fa ha fatto rivivere il partito e si è fuso con Berlusconi. Dei tre è il più importante. Rotondi. Nel momento della fusione è stato seguito da una decina di amici e da un paio di parenti acquisiti.

La storia di Giovanardi è diversa: era alla guida di un gruppo nel partito di Casini e ad un certo punto nacque un dissenso; Giovanardi uscì dall'Udc e costituì un gruppo autonomo. Bussò alla porta di Berlusconi e il Cavaliere aprì.
Pionati è un caso più semplice. Era un cronista politico della Rai. Dopo anni di servizio la sua faccia era diventata abbastanza nota. Nell'ultima campagna elettorale, tra la candidatura di una velina e quella di una valletta, Berlusconi offrì un posto anche a lui e Pionati entrò finalmente in Parlamento, ma la sua delusione fu cocente: la sua faccia e il suo nome scomparvero immediatamente dalla memoria degli italiani. Pionati come Carneade: chi era costui.

L'ex cronista della Rai aveva però imparato i trucchi della politica e non si perse d'animo: fondò un movimento e gli dette anche un nome. Non ricordo se lo chiamò movimento dei liberali e democratici oppure dei liberali moderati oppure ancora dei moderati laici per distinguersi dai moderati cattolici di Giovanardi il quale a sua volta voleva distinguersi dalla Democrazia cristiana di proprietà di Rotondi.
Sta di fatto che, una volta fondati questi movimenti, i loro fondatori insieme alla massa dei fondati si fusero col partito del predellino. Tutti insieme tesserarono a dir poco 150 militanti e si guadagnarono la preziosa qualifica di cofondatori alla pari di Fini.
Ne consegue che i cofondatori sono almeno quattro, Fini quindi non faccia troppo il furbo, non ponga condizioni, insomma non rompa le scatole perché di fronte a Berlusconi l'ex leader di An si trova nella stessa condizione di Rotondi, Pionati e Giovanardi. E zitto!

I lettori si domanderanno perché mai ho sollevato questo caso. Giusta domanda ed ecco la risposta.
I tre suddetti Carneadi sono tuttavia espertissimi in trucchi e trappole di corridoio. Hanno fiutato che il Berlusca è in difficoltà ed hanno piantato la loro grana: nei vertici di venerdì e di sabato scorsi a Palazzo Grazioli tra i maggiorenti del partito loro non sono stati convocati. Come cofondatori avrebbero dovuto esserlo. Si trattava infatti di giudicare il quarto cofondatore e cioè un loro pari, e a chi spettava di farlo se non a loro?
Dunque gli è stato fatto un gravissimo sgarbo e gli è stato arrecato un gravissimo danno politico. Non sono soli, quei tre. Hanno con loro almeno dieci deputati e quattro senatori. Vi sembra poco? Coi tempi che corrono la loro utilità marginale è maledettamente cresciuta. Se quei dieci deputati e quattro senatori decidessero di uscire dal Pdl, la maggioranza già traballante finirebbe col sedere per terra. E se bisognasse poi decidere nuove elezioni oppure governo di transizione, quei dieci più quattro avrebbero anche loro una parola da dire.

Intanto un titolo su qualche giornale se lo sono guadagnato e anch'io gli ho dedicato questo "vetro soffiato". Sarà poca cosa ma chi si contenta gode.
Ci godo anch'io. Questa maggioranza è fatta proprio di ricotta. Ma non doveva salvare il paese?
Ho però dimenticato di dirvi che c'è un quinto cofondatore. Si chiama Nucara ed è proprietario dell'Edera, il vecchio simbolo del Partito repubblicano. Finora Nucara è stato zitto ma ormai è questione di ore, si farà vivo anche lui e ne vedremo delle belle.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tre-carneadi-cofondatori/2133308/18
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« Risposta #231 inserito:: Agosto 29, 2010, 08:57:50 pm »

COMMENTI

Le regole di Marchionne e l'etica di Berlinguer

di EUGENIO SCALFARI


IL MARCHIONNE intervenuto a Rimini al meeting di Comunione e liberazione non ha detto grandi novità rispetto al Marchionne di Pomigliano. Del resto da allora non è accaduto nulla di rilevante che non fosse già stato previsto: il mercato automobilistico mondiale continua a perder colpi in Occidente (e a guadagnarne nei grandi mercati dei paesi emergenti); la Fiat è una delle imprese più penalizzate sia sul mercato italiano sia su quello europeo; la stessa Fiat tuttavia vende in Italia circa il 40 per cento del suo prodotto e quindi in Italia ci deve restare, che lo voglia oppure no, ed anche le più massicce de-localizzazioni non possono cancellare con un tratto di penna tutti gli stabilimenti italiani e la manodopera che ci lavora.

Questa situazione è nota da un pezzo, fin da quando due anni fa Marchionne lanciò l'operazione Chrysler con l'accordo dei suoi azionisti, del presidente americano Barack Obama e dei sindacati di Detroit. Non tutti i commentatori capirono che non era la Fiat a conquistare la Chrysler ma viceversa: la Fiat si aggrappava alla Chrysler, anch'essa in stato pre-agonico, per fare di due debolezze una forza. Questo era il programma di Marchionne che d'altra parte fu onesto nell'ammettere questa verità.

Previde anche - e lo disse - che la Fiat avrebbe scorporato la produzione automobilistica dal resto del gruppo costituendo una nuova società, cosa che è avvenuta secondo le previsioni. Da allora non ci sono state svolte nuove: Marchionne aveva già dichiarato che lui operava in una nuova era di economia globalizzata; usò anche l'immagine "dopo Cristo" orami diventata famosa.

Di nuovo c'è stata la traduzione nei fatti di questo programma, a Pomigliano, a Termini Imerese, a Melfi e in parte a Mirafiori. Il referendum a Pomigliano, la nuova società diventata proprietaria di quello stabilimento, la resistenza della Fiom-Cgil, lo sciopero di Melfi, i tre licenziati, il ricorso al Tar e il loro reintegro, la decisione della Fiat di non riammetterli al lavoro in attesa del secondo grado di giudizio, l'intervento del presidente Napolitano e il suo auspicio di superare l'incidente con spirito di equità in attesa della sentenza definitiva. Infine il Marchionne di Rimini.

* * *

A Rimini l'amministratore delegato della Fiat ha esposto con la massima chiarezza alcuni suoi "mantra".

1. L'economia globalizzata impone che l'aumento di produttività nei paesi opulenti sia molto più elevato di quanto negli ultimi trent'anni non sia avvenuto, per tenere il passo con quanto avviene nei paesi emergenti e non perdere altro terreno nei loro confronti.

2. La lotta di classe è finita perché non ci sono più classi.

3. La domanda di automobili in Occidente è molto diminuita ed è tuttora in calo, perciò bisogna concentrare la produzione in un numero limitato di imprese, riducendo il numero delle unità prodotte e aumentando la competitività.

4. I lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità negli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti.

5. La giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata.

6. Forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti derivanti dall'aumento della produttività sono auspicabili e vanno incentivate.

7. Le parti sociali debbono premere sui governi per ottenere nuovi tipi di "welfare" appropriati alle nuove regole.

Alcuni di questi principi sono ragionevoli e meritano di essere discussi. Altri hanno un'ispirazione profondamente reazionaria.
Inoltre in questo ragionamento colpiscono alcune omissioni, la più vistosa delle quali riguarda le diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili. Marchionne può dire che questi problemi non riguardano il suo "campo di gioco" ma negherebbe con ciò l'evidenza: ogni persona e quindi ogni lavoratore vive in un contesto sociale che non può essere parcellizzato, è un contesto globale ed implica in prima fila il tema dei diritti e dei doveri.

* * *

Bisogna riconoscere  -  e per quanto mi riguarda l'ho scritto più volte  -  che l'economia globale comporta un trasferimento di benessere dall'area opulenta all'area emergente e povera. Si potrà gradualizzare entro certi limiti questo processo, ma è del tutto inutile cercare di arrestarlo. Il trasferimento può avvenire in vari modi. Uno di essi è l'immigrazione dall'area povera all'area opulenta, un altro è la de-localizzazione della produzione e del capitale in senso contrario, un altro ancora consiste nella ricerca di analoghi trasferimenti di benessere sociale all'interno dell'area opulenta tra ceti ricchi e ceti poveri, accompagnati da ritmi di produttività più intensi nelle aree povere affinché la loro dinamica sociale accorci le distanze con le aree ricche.

Siamo cioè  -  e non certo per libera scelta  -  di fronte ad un gigantesco riassetto sociale di dimensioni planetarie, nel corso del quale bisognerà tenere ben ferma la barra sui due diritti fondamentali: la libertà e l'eguaglianza. Il riassetto sociale è infatti di tali proporzioni da mettere a rischio quei due diritti. Può cioè dar luogo a forme di governo autoritarie nell'illusione che solo in quel modo sia possibile governare i processi sociali; e può anche dar luogo a discriminazioni inaccettabili sul piano dell'eguaglianza. Purtroppo in Italia si rischia di caricare gli oneri del riassetto sociale sulle categorie più deboli e di ferire in tal modo sia l'eguaglianza sia la libertà.

* * *

Nel corso del meeting di Rimini, il giorno prima di Marchionne aveva parlato Giulio Tremonti. Un discorso ampio, di economia, di finanza e di politica. L'intervento di Tremonti è stato ampiamente riferito dai giornali e non ci tornerò sopra, ma c'è un punto che qui m'interessa cogliere: quando il ministro dell'Economia ha parlato di austerità ricordando che in anni ormai lontani quel concetto fu patrocinato da Enrico Berlinguer che propose di farne il cardine d'una nuova politica economica. È vero, Berlinguer vide con trent'anni di anticipo il grande riassetto sociale che stava arrivando, ne colse alcune implicazioni che riguardavano la politica e le istituzioni, decise di orientare in modo nuovo la politica del suo partito affinché si ponesse alla guida di quel riassetto.

Non fu soltanto Berlinguer a imboccare quella strada. Nel Pci a favore d'una politica di austerità si schierò Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione. Il richiamo di Tremonti è stato dunque molto opportuno: la sinistra, quella sinistra, aveva capito in anticipo i tempi e le crisi che si addensavano e ne vide le conseguenze sulla società italiana.

Tremonti però non ha reso esplicito il significato di quella posizione. Berlinguer voleva che fosse la sinistra a guidare il riassetto sociale incombente, per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo. Questo aspetto del problema è stato oscurato dal nostro ministro dell'Economia ed è invece l'aspetto fondamentale. Se si deve attuare una vasta modernizzazione istituzionale e un trasferimento di benessere sociale dalle economie opulente verso quelle emergenti; se un così gigantesco riassetto non può essere disgiunto da un riassetto analogo all'interno delle aree opulente; è evidente che i più deboli debbono partecipare in primissima fila a questa operazione. I ceti medi e medio-bassi non possono essere oggetto del riassetto sociale senza esserne al tempo stesso il principale soggetto.

Questo è il punto che manca all'analisi di Tremonti e che Marchionne ha vistosamente omesso come l'ha omesso la Marcegaglia. L'intero meeting di Rimini su questo punto ha taciuto: omissione tanto più vistosa in quanto avvenuta in una occasione promossa da una delle principali Comunità cattoliche, con tanto di benedizione papale e presenze cardinalizie. Né è accettabile che una così plateale omissione sia giustificata con l'argomento che l'aspetto politico non riguarda gli operatori economici e gli imprenditori.

Grave errore: l'economia politica ha come tema centrale proprio quello dell'etica, cioè dei diritti e dei doveri, della felicità e dell'infelicità, della giustizia e del privilegio. Una Comunità cattolica dovrebbe mettere al centro delle sue riflessioni questo tema e porlo ai suoi ospiti. Se non lo fa, diventa una lobby come in effetti Cl è da tempo diventata.

(29 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/08/29/news/scalfari-6586986/?ref=HRER2-1
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« Risposta #232 inserito:: Settembre 06, 2010, 06:03:12 pm »

L'EDITORIALE

Il fisco classista che blocca il Paese

C'è una crisi dell'occupazione con 200 mila precari della scuola e 500 mila lavoratori a rischio.

Serve una manovra che punti ad un trasferimento tributario dalle fasce deboli a quelle opulenti

di EUGENIO SCALFARI


LA RECESSIONE e la crisi economica a w sono dunque scongiurate: parola di Bernanke e di Trichet, cioè dei due banchieri centrali più potenti dell'Occidente. I tassi del Pil e della produzione industriale (automobile escluso) vengono rivisti al rialzo sia in Usa che in Eurolandia. Insomma il peggio sarebbe passato anche se sono gli stessi Bernanke e Trichet a metter le mani avanti: sì, il peggio è passato, dicono, ma camminiamo tuttora su terre incognite, la crisi sociale è ancora davanti a noi, la ripresa c'è ma non è omogenea; inoltre è aumentata la disparità di intenti tra i governi e specie in Europa ogni paese va per conto suo, perciò non si può allentare la guardia.

Del resto, appena quindici giorni fa sia Bernanke sia Trichet in pubbliche dichiarazioni avevano affermato esattamente il contrario. Prevedevano rallentamento produttivo, rivedevano al ribasso i tassi del Pil sulle due sponde dell'Atlantico, temevano stasi degli investimenti e diminuzione dei consumi specie nei settori sensibili delle costruzioni, segnalando con preoccupazione le posizioni debitorie di molti paesi e gli effetti che avrebbero potuto avere sui mercati finanziari e monetari. Il minimo che si possa dire di queste tesi contraddittorie dei due massimi banchieri centrali è che la loro visione della realtà è alquanto confusa e l'arco delle loro divisioni è quanto mai oscillante. Non so se se ne rendano conto, ma il loro comportamento sta diventando grottesco, il barometro di cui dispongono sembra uno strumento impazzito dal quale forse è più saggio prescindere.
 
Chi invece non ha dubbi di sorta è il nostro ministro dell'Economia. Intervistato ieri da Repubblica dichiara senza esitazione che siamo fuori dalla crisi. Dai problemi no, ma dalla crisi sì. I problemi per Tremonti consistono nel coordinamento delle politiche economiche tra i governi europei. L'Europa è ancora un arcipelago ma è arrivato il momento che diventi un blocco continentale guidato da un unico cervello, cioè dal Consiglio dei ministri europei (Ecofin) di cui la Commissione di Bruxelles è l'organo esecutivo. L'Ecofin si riunirà domani e varerà questa trasformazione epocale: la nascita del cervello economico europeo cui spetterà il compito di tutelare la stabilità già in atto e di avviare su scala continentale la politica della competitività che consentirà all'Europa di competere con successo sia con l'America sia con i colossi emergenti dell'Asia.

Va da sé che il canone della competitività risiede soprattutto nella fine della lotta di classe e nell'accordo tra capitale e lavoro da realizzarsi azienda per azienda, contratto per contratto. La sorpresa finale nell'intervista del ministro a Massimo Giannini consiste nell'apertura a tutte le parti sociali e a tutte le forze parlamentari, dopo aver comunque ricordato che il governo Berlusconi durerà come minimo fino al 2013 e probabilmente anche di più. Ricapitoliamo: un'Europa ormai in marcia accelerata verso l'unità economica e politica; un'Italia che, a dispetto del suo enorme debito pubblico, viaggia in perfetta e solida stabilità; il traino della locomotiva tedesca, modello di riferimento per tutti; una riforma fiscale nel nostro paese che privilegi le famiglie, il lavoro, le imprese e sposti il prelievo dalle persone alle cose. Nel frattempo bisognerà abolire tutti i divieti e tutte le regole salvo quelli esplicitamente riconfermati. Così Tremonti e così secondo lui l'Europa. Restano però molto lacune in questo paesaggio dipinto di rosa, molti interrogativi ed anche qualche marchiano errore da correggere.

Per cominciare: l'Europa vive in un complesso mondiale e in particolare in un ambito occidentale dove gli Usa giocano una partita decisiva. A parte le montagne russe sulle quali continuano a viaggiare sia Bernanke sia Trichet, il dato certo consiste nell'enorme debito pubblico del governo americano, nel deficit fiscale che continua a gonfiarlo, nel lago di liquidità che la Fed dovrà incrementare per sostenere la ripresa e nel debito con l'estero altrettanto elevato e preoccupante. Washington per ora tira avanti su questa strada in attesa delle elezioni di medio termine del prossimo novembre, ma subito dopo dovrà fare delle scelte. Rigore e rientro del debito in proporzioni accettabili, diminuzione del deficit con l'estero, dollaro debole per scoraggiare le importazioni, oppure inflazione. Inflazione consapevole, inflazione voluta e manovrata per diminuire il peso dei debiti e svalutare i crediti.

Queste scelte, quali che saranno, non risparmieranno l'Europa la quale a sua volta dovrà affrontare in modi appropriati le decisioni americane. Chi deciderà le risposte europee? L'Ecofin, risponderebbe Tremonti. La Germania, risponde la realtà. Deciderà la Germania, concedendo alla Francia qualche compenso in termini di cariche nella gestione dell'Unione. Ma se questo non bastasse è molto improbabile che l'arcipelago europeo possa trasformarsi nell'auspicato blocco continentale. In realtà lo schema tremontiano sembra ancora scritto sull'acqua, in attesa di eventuali incognite che non dipendono dall'Europa e tantomeno dall'Italia.

Su quanto sta accadendo nel nostro paese la diagnosi del ministro dell'Economia è a dir poco parziale. C'è una crisi dell'occupazione che coinvolge soprattutto i giovani e i precari. C'è una crisi del Mezzogiorno. C'è una stasi nei consumi e negli investimenti. E non ci sono risorse disponibili. Ne ha parlato con lucida competenza Tommaso Padoa Schioppa in un'intervista a 24Ore di venerdì scorso, nella quale tra l'altro loda il rigore di Tremonti. L'intervistatore domanda: «In Italia c'è chi rilancia i tagli fiscali. è una ricetta possibile?». Risposta: «Quando si fanno proposte che invece di ridurre il deficit lo aumentano, mi piacerebbe che si spiegasse come si fa a mantenere i conti a posto. Altrimenti la risposta è «no». «Sembra di sentire Tremonti» commenta l'intervistatore. Padoa Schioppa risponde: «Tremonti è stato fin dall'inizio consapevole del fatto che l'Italia non aveva margini di manovra. E questo è un fatto positivo».

L'ex ministro dell'Economia di Prodi vede una continuità con la politica del suo successore, basata su un dato di fatto: l'Italia non ha margini di manovra. Ma è un dato di fatto immodificabile? In un paese che comunque si colloca tra i primi dieci paesi ricchi del mondo? Qual è la risposta e c'è una risposta plausibile? E una ricetta attuabile? Prima di affrontare questo tema è però opportuno fornire ancora una fotografia di quanto sta per accadere nelle prossime settimane, anzi nei prossimi giorni. Ci sono 200 mila precari nella scuola che per decisione del ministro Gelmini saranno lasciati col sedere per terra. Ci sono 500 mila lavoratori che si troveranno di fronte a problemi occupazionali molto complicati da risolvere. Infine, in attesa che sia nominato il titolare del ministero dello Sviluppo dopo quattro mesi di vuoto, il calendario dei tavoli di crisi aziendali che riguardano il destino di 14 mila lavoratori è affollatissimo. Tra questi segnalo il caso Eutelia, l'Ideal-Standard, lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, il caso Oerlikon, Indesit, Burani, Merloni e molti altri.Dal 7 al 23 settembre queste vertenze dovranno esser decise in un modo o nell'altro. Questo è il quadro. Tutto in ordine, ministro Tremonti? Fruttifera cooperazione tra capitale e lavoro sotto l'egida dell'intramontabile governo Berlusconi?

Le risorse ci sono, bisogna solo aver voglia di trovarle. La prima via da perseguire riguarda la lotta contro l'evasione che in gran parte si identifica con il mercato sommerso. Dette i primi risultati quando il fisco era nelle mani di Vincenzo Visco, adesso continua a darne: nell'esercizio in corso siamo nell'ordine di nove miliardi di recupero, non è poco ma in queste dimensioni somiglia a una goccia d'acqua nel mare anche perché al recupero dell'evasione esistente fa da controfaccia un'evasione nuova è aggiuntiva, sicché lo stock che si sottrae al fisco rimane più o meno immutato.

La seconda strada da percorrere per recuperare risorse consiste nella lotta contro gli sprechi. Qui ci sarebbe molta polpa, gli impieghi improduttivi rappresentano una quantità ingente della spesa pubblica e i tagli disposti nelle leggi finanziarie 2009 e 2010 avevano infatti questa motivazione. Il metodo adottato tuttavia è stato piuttosto infelice. I tagli ai ministeri sono stati disposti in modo lineare, sicché sono state penalizzate nella stessa proporzione sia spese improduttive sia spese necessarie che anzi avrebbero dovuto essere accresciute. Quanto ai tagli su personale, la scelta di spremere gli impiegati pubblici fu giustificata dal fatto che gli aumenti stipendiali ottenuti in passato erano maggiori di quelli ottenuti dagli impiegati privati. Giustificazione assai difficile da provare e comunque contestatissima. L'insieme di queste misure non ha recuperato molto in fatto di sprechi ma abbassando il livello complessivo della spesa ha comunque compresso ulteriormente la domanda interna con effetti visibili sui consumi. Altri effetti depressivi provengono dal taglio dei trasferimenti ai Comuni e alle Regioni, con conseguenze sulle tasse locali e sulla qualità dei servizi.

Esiste infine una terza strada da percorrere per recuperare risorse ed è un trasferimento del carico tributario dalle fasce deboli alle fasce opulenti e dal reddito al patrimonio. In un paese dove le diseguaglianze sono enormemente aumentate negli ultimi vent'anni, un'operazione del genere dovrebbe esser fatta ma la casta politica fa finta che sia impraticabile. Diciamo che non è popolare perché colpirebbe in modo continuativo le corporazioni più potenti, le clientele più spregiudicate e una fascia di elettori preziosa per l'attuale maggioranza. La verità è che la politica fiscale in atto ha connotati tipicamente classisti, colpisce in basso anziché in alto ed ha di fatto trasformato la progressività fiscale in una vera e propria regressività, con tanti saluti al principio costituzionale. Eppure una modifica fiscale nel senso d'un ritorno al principio della progressività contribuirebbe fortemente al rilancio della domanda e della crescita. Contribuirebbe altresì al taglio effettivo degli sprechi e all'aumento della competitività. Però non sta scritta nelle tabelle di questo governo, perciò fino a quando non ci saranno mutamenti politici sostanziali la finanza e la fiscalità classiste resteranno inalterate, con buona pace per chi sostiene che la lotta di classe non esiste più.
 

(05 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/09/05/news/fisco_class-scalfari-6769634/?ref=HRER2-1
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« Risposta #233 inserito:: Settembre 13, 2010, 04:07:12 pm »

L'EDITORIALE

Perché il Cavaliere non vuole più le elezioni

In caso di risultato incerto del voto ci vorrebbe un governo di unità nazionale.

Ma il primo ministro non potrebbe più essere Berlusconi

di EUGENIO SCALFARI


SI DIMETTERA' oppure no? Gli voteranno contro o troveranno un compromesso per tirare avanti e guadagnar tempo? Napolitano sarà costretto a sciogliere le Camere oppure troverà una maggioranza alternativa per non strozzare un'altra volta la legislatura come già accadde con la crisi del governo Prodi?
Mentre scrivo sembra che tutto stia volgendo al meglio, almeno dal punto di vista di chi vede (e noi siamo tra questi) lo scioglimento anticipato del Parlamento come una iattura. Prima di procedere oltre spiego perché.
Anzitutto l'economia. Mi aveva stupefatto - lo confesso - la tranquillità con la quale pochi giorni fa il ministro Tremonti aveva pubblicamente affermato che l'economia e la finanza pubblica italiana erano completamente salvaguardate e blindate e che quindi una campagna elettorale anticipata non avrebbe procurato alcun danno.
Un'affermazione del genere fatta dal titolare di un ministero che tra la fine di settembre e i primi di dicembre vedrà scadere e dovrà rinnovare circa 160 miliardi di titoli di Stato e sul quale incombe uno stock di debito pubblico che ha superato il 117 per cento del Pil, dimostra un senso di responsabilità molto leggero.
Ma quella leggerezza si trasforma addirittura in irresponsabilità se si pensa ai probabili risultati di elezioni anticipate. Quand'anche la coalizione Pdl-Lega vinca con questa legge le elezioni alla Camera, resta assai alta la possibilità che le perda al Senato.

Questa è una delle ragioni particolarmente presenti al Capo dello Stato: l'ingovernabilità di una legislatura con maggioranze diverse tra una Camera e l'altra. È incredibile che un pensiero analogo non abbia neppure sfiorato il ministro dell'Economia.
Ma c'è un altro elemento ancora che avrebbe dovuto allarmarlo fin dall'inizio di quest'assurda girandola di fuochi d'artificio: uno scioglimento anticipato della legislatura che avvenisse entro ottobre per poter votare prima della fine dell'anno, interromperebbe la sessione di bilancio dedicata all'approvazione della legge finanziaria. Il bilancio dello Stato andrebbe in esercizio provvisorio e ci resterebbe fino all'entrata in carica di un nuovo governo, il che significa da ottobre fino a febbraio nel migliore dei casi.
Tremonti sa, come tutti noi sappiamo, che quei quattro o cinque mesi di esercizio provvisorio sarebbero un pascolo pingue per la speculazione internazionale contro i titoli pubblici italiani e contro l'euro e aprirebbero nelle maglie di Eurolandia un buco ben più grave del temuto "default" della Grecia.
In una tardiva dichiarazione di mercoledì scorso finalmente anche Tremonti ha dichiarato di esser contrario allo scioglimento anticipato. Ha aspettato che lo dicesse Bossi. Non è proprio questo un teatro dei pupi?

* * *

Il teatro dei pupi, del resto, sta dilagando in tutta la politica italiana. Qualche esempio di questi giorni per tener sveglia la nostra spesso latitante memoria.
1. All'indomani del discorso di Fini a Mirabello, Berlusconi e Bossi dichiararono che avrebbero portato il caso Fini dinanzi al presidente della Repubblica cui avrebbero chiesto di obbligare Fini a dimettersi da presidente della Camera.
2. Il Capo dello Stato ha precisato dal canto suo che i presidenti di Camera e Senato non possono essere sfiduciati da nessuno e restano in carica per tutta la legislatura salvo che siano essi stessi a dimettersi.
3. Berlusconi e Bossi hanno reiterato la loro intenzione di sollevare il caso Fini al Quirinale.
4. Tutta la stampa italiana e tutti i giuristi, Costituzione alla mano, hanno definito Berlusconi, Bossi e i loro fedeli seguaci come altrettanti analfabeti costituzionali.
5. Berlusconi ha dichiarato che la volontà a lui attribuita di voler sollevare il caso Fini dinanzi al Quirinale è una delle tante falsità della stampa italiana e si è rimangiato tutto chiudendo la questione. Non è la prima volta e purtroppo non sarà l'ultima.
6. Nel frattempo tutto l'apparato berlusconiano e leghista è stato mobilitato per affrontare le elezioni entro la fine dell'anno. Il ministro dell'Interno leghista Maroni ha indicato il 27 e 28 novembre come la data probabile; il ministro della Semplificazione Calderoli ha spostato la data al 3-4 dicembre. Tutti e due evidentemente se ne infischiano delle prerogative del Capo dello Stato in materia di scioglimento anticipato delle Camere.
7. Berlusconi nel frattempo si è rivolto ai suoi "legionari della libertà" allertandoli per votazioni immediate entro l'anno per prendere contropiede sia Fini sia i partiti d'opposizione. Ma resta il problema di come mettere fine a questo Parlamento.
8. Il presidente del Consiglio esclude le sue dimissioni. Non vuole che la gente pensi che sia lui il responsabile di quella morte anticipata.
9. Bossi è stufo di queste lentezze e annuncia che sarà la Lega a votare la sfiducia al governo ammazzando così il Parlamento. Per chiudere in bellezza quell'annuncio fa una sonora pernacchia al microfono in stile Totò e la dedica a Fini.
10. Sia Berlusconi sia Bossi sia Tremonti dichiarano tra martedì e mercoledì scorso che non vogliono affatto le elezioni immediate e cercheranno invece di governare al meglio nonostante i finiani. Naturalmente se le Camere voteranno la fiducia al programma berlusconiano che sarà presentato al Parlamento il 28 di settembre.
Non è un teatrino di pupi? Un dire oggi cosa diversa ed anzi opposta a quella detta ieri ed a quella che sarà detta domani su questioni del massimo rilievo? È questo il modo di infondere negli italiani fiducia nella politica e nelle istituzioni?

* * *

Nel frattempo Berlusconi cerca un manipolo di ascari che rafforzi la sua pericolante maggioranza e dia fiducia al programma quando lo esporrà a fine mese alla Camera.
La ricerca finora si è indirizzata verso tre o quattro cani sciolti del gruppo misto e verso Raffaele Lombardo detto il siciliano che ne controlla altri otto. Ci sono poi quattro deputati eletti nelle liste del Pdl ma iscritti fin dall'inizio in un gruppo chiamato "Noi-Sud" per confondersi con l'"Io-Sud" della Poli Bortone. In sostanza si tratta di contare due volte una manciata di trasformisti di professione che hanno sempre votato Berlusconi e che ora si ripresentano mascherati da autonomi che tornano alla casa madre. Voteranno la fiducia al governo con i finiani. La prova che il governo ha in suo rinforzo questo gruppetto dunque non si avrà.
Resta da spiegare per quale ragione Berlusconi si è improvvisamente convinto ad evitare le elezioni anticipate anziché volerle a tutti i costi subito come pensava e diceva appena pochi giorni fa. Ebbene la ragione è chiara: c'è il rischio di perdere la maggioranza al Senato.
Questo rischio è reale anche con l'attuale e pessima legge elettorale. Il risultato dipende dalla probabile alleanza elettorale tra Fini e Casini in alcune Regioni-chiave come la Sicilia, la Campania, la Sardegna, il Lazio, il Piemonte. In queste Regioni l'accoppiata Fini-Casini potrebbe ottenere la vittoria o favorire quella del centrosinistra togliendole comunque a Berlusconi e realizzando al Senato una maggioranza diversa da quella della Camera.

In tal caso si renderebbe necessario un governo di quelli che si chiamano di "unità nazionale" che veda unite insieme tutte le maggiori forze politiche presenti in Parlamento. Un governo cioè del tipo delle "grosse coalizioni" tedesche, che potrebbe nascere soltanto se il nuovo presidente del Consiglio fosse persona diversa da Berlusconi, il quale diventerebbe semplicemente un deputato leader di un partito importante ma in fase - a quel punto - di un sommovimento interno di incalcolabili esiti. Per cinque anni in questa condizione e senza più alcuno scudo che possa difenderlo dai processi in corso.

Il rischio per Berlusconi è insomma enorme e per questa ragione egli farà di tutto per scongiurarlo. Ci riuscirà? Accetterà di essere cotto a fuoco a lento per due anni e mezzo? E come reagirà l'opinione pubblica, le categorie sociali più colpite dalla crisi, i giovani, le forze politiche d'opposizione? Come reagirà la Lega che scalpita per incassare l'incremento di voti tolto nel Nord al Pdl?
Queste sono le domande dei prossimi mesi. Diciamo: tutto a posto, niente in ordine, proprio così dopo 15 anni di anomalia berlusconiana.
 

(12 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #234 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:11:37 pm »

Fini, D'Alema e la nuova destra

di Eugenio Scalfari

Liberali, riformisti, centristi, moderati, conservatori, progressisti: oggi tutti dovrebbero contribuire a eliminare quella suburra fatta governo chiamata berlusconismo. Per confrontarsi dopo sulla via migliore per ottenere il bene comune

(10 settembre 2010)

Massimo D'Alema ha sempre sostenuto che la sinistra e perfino il centrosinistra sono sempre stati in minoranza in Italia. Il nostro è un Paese il cui cuore batte a destra, perciò bisogna praticare l'acrobazia per portare la sinistra al governo.

Ha torto o ha ragione? La questione, non nascondiamocelo, è piuttosto complicata ed è diventata più attuale che mai dopo il discorso di Gianfranco Fini, il 5 settembre a Mirabello. Quel discorso è stato molto importante sia dal punto di vista dei contenuti sia per il linguaggio. L'ho ascoltato in diretta televisiva e mi ha ricordato l'arringa di Cicerone, quella che comincia con la famosa frase dell'"usque tandem". "Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra?", fino a quando abuserai della nostra pazienza? Perciò sono rimasto perplesso leggendo su un giornale che uno dei finiani più combattivi, mi pare fosse Granata, voleva regalare ai militanti convenuti a Mirabello il discorso tenuto da Catilina ai suoi seguaci la vigilia della battaglia di Fiesole, dove lo stesso leader ribelle trovò la morte e i suoi compagni furono massacrati dalle legioni romane. Non il discorso di Catilina doveva regalare, ma l'"usque tandem" di Cicerone. Ciò detto torniamo al tema.

Fini si propone di dar vita ad una destra nuova di zecca: un partito liberale di massa. Repubblicano. Nazionale. Costituzionale. Ma poi, continuando a specificare sempre meglio l'oggetto del suo sogno politico, ha aggiunto altri aggettivi. Esattamente questi: riformista, sociale, federalista ma fortemente unitario, liberista ma con interventi robusti dello Stato in politica industriale, europeista e favorevole all'Unione economica e politica dell'Europa. Infine: cattolico ma coraggiosamente laico.
Si può definire di destra un partito con queste caratteristiche? La questione è ardua. Per quanto mi riguarda ne dubito. Il primo dubbio mi sorge dalla definizione del nuovo movimento-partito: liberale di massa. L'Italia sarà pure, come dice D'Alema, strutturalmente di destra, ma liberale certamente no. Il grosso degli italiani non è mai stato liberale se per liberale si intende chi capisce la necessità di darsi delle regole che tutelino l'interesse generale e la necessità di rispettarle. La necessità che il fisco sia equo ma che le tasse siano pagate. La necessità che la legge sia veramente eguale per tutti. La necessità che vinca il merito e non la furbizia, che le raccomandazioni siano un demerito, che le clientele vengano sciolte e le corporazioni contenute, che i deboli siano messi in condizione di competere con i forti con pari opportunità. C'è perfino un ministero di questo nome ma si è sempre occupato di questioni marginali mentre dovrebbe essere il ministero più importante di tutti. Perciò un partito liberale di massa non è mai esistito. Non solo in Italia ma in tutta Europa, in Gran Bretagna, in Germania, in Francia, in Spagna, in Scandinavia. Minoranze liberali sì, maggioranze mai, almeno da quando esiste il suffragio universale.
Faccio queste riflessioni non già per criticare la sortita di Fini e neppure le opinioni in proposito di D'Alema, ma per inquadrarle in una cornice realistica. Una destra costituzionale, nazionale, democratica come quella tratteggiata da Fini sarebbe (sarà, io spero) un importante passo avanti per il nostro Paese e la fine dell'anomalia berlusconiana che ci blocca da quindici anni, ma non potrà certo aspirare alla conquista della maggioranza degli italiani.

Analogo discorso - e su questo D'Alema ha ragione - si può fare per la sinistra e per il centrosinistra. Il bipolarismo visto coerentemente come bipartitismo, è dunque impossibile?
Credo di sì, credo che sia impossibile. Non è impossibile invece assumere il riformismo come elemento politico e culturale discriminante all'interno di un quadro che abbia la costituzione e le regole come valori condivisi. Esiste un riformismo con connotati di sinistra e un riformismo con connotati moderati. Il riformismo non è un partito ma un elemento dominante, un fatto culturale. Prendete i partiti americani. I democratici sono strutturalmente riformisti ma ospitano anche una minoranza di conservatori; i repubblicani sono conservatori ma ospitano una minoranza di riformisti. Il mondo globale è complesso e la geometria euclidea ha fatto il suo tempo.

Non si scoraggi D'Alema: il riformismo di sinistra può competere ed anche vincere la sfida. Ed anche la nuova destra costituzionale di Fini o il centrismo di Casini o una loro alleanza possono competere e vincere. L'importante è scrivere insieme le regole del gioco avendo di mira il bene comune. Al primo punto del bene comune c'è oggi l'eliminazione dell'anomalia berlusconiana. Dell'impunità fatta legge. Della suburra fatta governo. Tutto il resto viene dopo.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/fini-dalema-e-la-nuova-destra/2133970/18
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« Risposta #235 inserito:: Settembre 19, 2010, 06:24:52 pm »

La sinistra divisa tra realisti e sognatori


di EUGENIO SCALFARI


ROMA - Prima (ma necessaria) premessa. A me non piace il politichese. Non mi piace come linguaggio e cerco infatti di tenermene lontano; ma non mi piace neppure come argomento anche perché  -  ne sono certo  -  non piace neppure ai nostri lettori. Voglio rubare a Franco Marcoaldi le parole con le quali chiude il suo spettacolo "Sconcerto" che ha avuto all'Auditorium di Roma tre serate di grande successo: "Le cose sono quello che sono. Un'arancia è un'arancia. Una casa è una casa. La pioggia che cade è la pioggia che cade". Ecco. Ai nostri lettori piace questo linguaggio ed anche a me.

Seconda premessa. La comparsata di Berlusconi alla cena che ha concluso il vertice di Bruxelles tra i capi di governo dell'Unione europea è stata semplicemente scandalosa. Si parlava dei "rom", alias zingari. Sarkozy li sta cacciando dalla Francia ancorché  -  come lui stesso ha detto  -  metà di loro siano cittadini francesi. La Commissione europea è contraria ad una politica che colpisce un'etnia anziché singoli responsabili di eventuali reati. Il nostro premier gli ha fatto eco per ingraziarsi la Lega. La Francia, due secoli e mezzo fa, esportò in Europa e nel mondo lo slogan "fraternità" insieme a quelli di libertà ed eguaglianza. Sarkozy si è messo sotto i piedi la fraternità e Berlusconi ha fatto altrettanto e in più si sta mettendo sotto i piedi anche gli altri due principi che hanno costituito il fondamento della modernità liberal-democratica. Questo modo di comportarsi di chi rappresenta il nostro Paese mi fa vergognare d'essere italiano.

Terza premessa. Il governo italiano, il ministro dell'Economia, le principali agenzie economiche internazionali hanno pochi giorni fa diffuso informazioni secondo le quali il peggio della crisi economica era ormai alle spalle. La Confindustria ha fatto  eco. I vari indici economici, a cominciare dal Pil dei vari paesi, sono stati corretti al rialzo. Ma tre giorni fa la Banca d'Italia ci ha informato che il debito pubblico ha raggiunto nuove vette mentre le entrate tributarie registrano una netta diminuzione rispetto all'anno precedente. La Confindustria dal canto suo ha comunicato che la produzione industriale è ai minimi storici,  l'evasione fiscale è salita ai massimi e nei prossimi mesi saranno distrutti altri trentamila posti di lavoro nell'industria manifatturiera. Per conseguenza i principali indici economici sono stati rivisti al ribasso. Questi Soloni dicono a distanza di pochi giorni o di poche ore una cosa e il suo contrario. Trovo vergognosi questi comportamenti. Lo ripeto: un'arancia è un'arancia e la pioggia che cade è la pioggia che cade.

Fatte queste premesse, oggi è d'obbligo che mi occupi di quanto sta accadendo nel Partito democratico e nel vasto arco della pubblica opinione orientata a sinistra e comunque all'opposizione nei confronti dell'anomalia berlusconiana. Nel centrodestra è in corso una crisi devastante e tutt'altro che conclusa. Sono in corso manovre da calcio mercato di deputati e senatori comprati e venduti, di mini-ribaltoni consumati sotto gli occhi di tutti. Ci potrebbero persino essere estremi di reato per voto di scambio. Ma la sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché? Questo è il mio tema di oggi. Domenica prossima, se non accadranno sconquassi peggiori, vorrei esaminare il tema dell'amore e della sua storia. Spero proprio di poterlo fare.

* * *

I sondaggi, per quel che valgono, danno nelle intenzioni di voto il Pdl leggermente sotto al 30 per cento, la Lega tra l'11 e il 12,  il Pd tra il 25 e il 26, Di Pietro al 5, Vendola al 5, Casini tra il 5 e il 6, Fini al 7. La platea di chi non ha ancora deciso al 30 per cento, quelli che comunque non voteranno, al 20. Perciò le intenzioni di voto sopra indicate riguardano la metà del corpo elettorale. I valori reali di quei numeri vanno dunque ridotti della metà, il che significa che il partito di Berlusconi rappresenta oggi il 15 per cento del corpo elettorale e il Partito democratico il 13. Un'arancia è un'arancia.

Finora il Pd non ha tratto alcun beneficio quantitativo dalla crisi del centrodestra, ma neanche Di Pietro e  -  a guardar bene  -  neanche la Lega. Il deflusso dal Pdl è andato in buona parte a Fini e in altra parte all'area delle astensioni e o a quella di chi non ha ancora deciso se votare e per chi. Il Pd non ha "appeal" (stavo per scrivere "sex appeal") Bersani da qualche tempo è più incisivo, ma ha ancora un'aria da buon padre di famiglia, di buonsenso, ma non certo da trascinatore. Bersani non fa sognare. Non è il suo genere e credo che non gli piaccia. Shakespeare dice nella "Tempesta" che la nostra vita è fatta della stessa stoffa di cui son fatti i sogni. Beh, Pierluigi Bersani non è fatto di quella stoffa. Berlusconi  -  incredibile a dirsi  -  invece sì. Solo che, come capita a tutti i ciarlatani, spesso la stoffa dei suoi sogni si strappa come il cerone che si mette in faccia e dagli strappi si vedono le vergogne. Questa comunque è la situazione.

* * *

Quello che con un po' di enfasi possiamo chiamare il popolo di sinistra si divide in due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti su temi concreti che interessano la vita di tutti.
I temi concreti, più o meno, coincidono con quelli sui quali Berlusconi il prossimo 28 settembre chiederà la fiducia alla Camera: la riforma fiscale, la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, la sicurezza. I finiani li voteranno perché, allo stato dei fatti, sono soltanto titoli di cinque temi tutti da svolgere. Lo svolgimento e il consenso sullo svolgimento si vedranno dopo.

   Quegli stessi temi interessano anche il popolo di sinistra e i partiti che in qualche modo vogliono rappresentarlo. Specialmente i riformisti del Pd. I quali dovrebbero nel frattempo produrre il loro proprio svolgimento di quei temi. Finora questo svolgimento non c'è stato oppure è stato parziale e generico.
Ma il popolo di sinistra e i partiti hanno anche altri temi non meno importanti: l'occupazione, le tasse sul lavoro e sulle imprese, la crescita dell'economia e dei consumi, la lotta all'evasione, la diminuzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e dei patrimoni. Ed anche il conflitto di interessi e la legge elettorale per sostituire il vergognoso "porcellum" escogitato tre anni fa da quel sinistro burlone di Calderoli.

 Come si vede, di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe in abbondanza, ma finora i cuochi si sono occupati d'altro. Non si sa bene di che cosa. E poi c'è quella parte di popolo che vuole sognare. Va detto per la precisione che spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona. Per soddisfare quest'intreccio che anima l'intero corpo elettorale in tutti i paesi liberi e democratici ci vogliono leader carismatici. Carismatici sì, ma anche capaci di governare. Non dico governare nel senso ristretto dei ministeri, ma governare organizzazioni complesse, grandi enti territoriali, processi di forze umane in movimento.
Non sempre le persone che hanno carisma hanno familiarità con strutture complesse da governare e, viceversa, non sempre anzi quasi mai persone capaci di governare possiedono carisma. Per di più il cosiddetto popolo della sinistra considera i volti dei leader di partito come nomenklature spremute e non più utilizzabili. Non tutti ragionano in questo modo, ma molti sì. Il corto circuito di questo modo di sentire è un'ipotesi e un pericolo che va segnalato e analizzato con grande attenzione.

* * *

Chi può provocare il corto circuito è Nichi Vendola. In misura molto minore Grillo. In misura minima, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Sfasciacarrozze per carattere e/o per convenienza. C'è chi ama gli sfasciacarrozze, ma per fortuna sono pochi. Il popolo di un paese, anche un po' sballato, è più serio e più intelligente di quanto si pensi. Se è furbo e un po' malandrino come molti sono, ha sempre una goccia di saggezza nei momenti di svolta e questo è uno di quelli.

Ma Vendola è un'altra cosa e il discorso su di lui va affrontato diversamente. Ha carisma, non c'è dubbio. Il suo strumento è la parola, l'affabulazione, il suo racconto della situazione. Vendola racconta benissimo la situazione. Chi cerca il sogno, nelle sue parole lo trova. Sa governare? Non c'è prova, né pro né contro. Solo questo: la maggioranza dei pugliesi, anche molti che non amano la sinistra lo hanno votato. Come amministratore non lo approvano un granché e la situazione della sanità in Puglia non gioca certo a suo favore.

Ce lo vedo poco un Vendola a Palazzo Chigi alle prese con i capi di governo stranieri, con le banche, con gli imprenditori, con Marchionne. Comunque non è questo  il punto. Il punto è che Vendola vuole fare a pezzi il Pd e tutti i partiti e con i frammenti sparsi sul terreno costruire intorno a lui la sinistra italiana. La sinistra, non il riformismo. Il suo obiettivo non è di battere Berlusconi. Avere Vendola come avversario per Berlusconi sarebbe una carta vincente. Lui lo sa ma non è questo che lo interessa. Vuole costruire la sinistra. Vuole fare le primarie, ma dove e contro chi? Per fare le primarie di coalizione dovrebbe prima costruire un'alleanza con il Pd, ma non ci pensa neppure. Le primarie le farà con se stesso o comunque alle sue condizioni.

Esercita notevole attrazione sul popolo di sinistra, stufo delle nomenklature e qui sta il corto circuito. Vendola può costruire una nuova sinistra intorno a sé che starà però per vent'anni all'opposizione sfrangiandosi un anno dopo l'altro. Oppure Vendola dovrebbe fare un programma e una squadra capace di governare. Ma non pare sia questa la sua strada, ragione per cui il corto circuito è possibile e sarebbe una iattura. Lo scrivo con molta simpatia per il governatore della Puglia che in Puglia ha vinto, ricordiamocelo, perché la Poli Bortone ottenne l'8 per cento dei voti e non li portò a Fitto ma se li tenne ben stretti.

* * *

Ora sulla scena del Partito democratico, già notevolmente affollata, è ritornato anche Veltroni con un suo documento-proposta che è stato firmato da 75 deputati, circa un quarto dei parlamentari del Pd.
Non è un documento di rottura anche se giornali e televisioni (con l'eccezione di Mentana e nostra) si sono precipitati a dipingerlo come tale. Per il complesso del circo mediatico infatti l'equilibrio è fatto non tanto di verità ma di equidistanza e quindi niente di meglio che affiancare allo sfaldamento del centrodestra l'analogo sfaldamento del centrosinistra. Questo sfaldamento minaccia di esserci e ne ho indicato prima alcune ragioni e alcune rilevanti personalità che puntano in quella direzione, ma non mi pare che il rientro di Veltroni ne sia la causa.

L'ex segretario e in qualche modo fondatore al Lingotto del Pd è partito dalla constatazione dello scarso "appeal" del suo partito e dalla necessità di riportare in linea i tanti che se ne sono allontanati. Le intenzioni sono buone se contenute in questi limiti. Purtroppo per il Pd, Veltroni non è un uomo nuovo e soffre quindi del logoramento di tutta la classe politica italiana. Sarà pure un errore discriminare i politici con questo semplicissimo criterio del nuovismo, un errore di incultura e di semplicismo, ma è un dato di fatto come attesta l'area dell'indifferenza e dell'assenteismo che i sondaggi hanno quantificato. Proprio perché se ne rende conto Veltroni parla di un "papa straniero" come fu a suo tempo Romano Prodi, che guidi il riformismo di centrosinistra mettendo insieme il carisma del leader e le capacità di governo che la politica richiede.

Sarà difficile trovarlo un "federatore" che corrisponda all'identikit, ma questa è la scommessa per vincere questo durissimo scontro in difesa della democrazia, della libertà, dell'eguaglianza e della fraternità, offese e ferite.

(19 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #236 inserito:: Settembre 24, 2010, 06:32:14 pm »

Nord e Sud, la tagliola di Bossi

di Eugenio Scalfari

Le Lega confonde il federalismo con il disprezzo di tutto ciò che le appare diverso e con l'umiliazione delle minoranze. Invece redistribuire i poteri sarebbe una cosa seria, se viene fatto per il bene comune

(24 settembre 2010)

Renzo e Umberto Bossi Renzo e Umberto BossiMi capita assai di rado di colloquiare con qualche collega editorialista di altri giornali in questa mia rubrica di "vetro soffiato". Se non ricordo male mi è accaduto con Galli della Loggia, Giuliano Ferrara e Luca Ricolfi ed è ancora con lui che colgo questa volta l'occasione di dialogare. Per alcune sue recenti dichiarazioni nella trasmissione "Otto e mezzo" e per l'articolo da lui pubblicato sulla "Stampa" del 19 settembre sul federalismo.

Nella trasmissione della Gruber Ricolfi ha delineato una sua concezione del giornalismo piuttosto singolare. Più che del giornalismo, una sua concezione delle notizie. Secondo lui le sole e vere notizie degne d'esser pubblicate con la dovuta evidenza sarebbero: i provvedimenti importanti della pubblica amministrazione, i risultati conseguiti dalle imprese e i fatti che le riguardano, gli analoghi eventi che avvengono nell'area internazionale e i sinistri naturali di qualche rilievo.

La cronaca non interessa, le dichiarazioni dei politici meno ancora, la vita politica nel suo complesso va mandata in soffitta e così pure le prese di posizione degli imprenditori, dei sindacati e di chiunque voglia esprimere le sue idee sul cosiddetto bene comune. I giornali insomma, se ho ben capito, dovrebbero essere la bella (o la brutta) copia della "Gazzetta Ufficiale": leggi e ordinanze con in più i bilanci delle imprese, i contratti dei sindacati e l'analisi dei risultati. Via tutto ciò che si può dichiarare "immateriale", cioè il punto di vista di chi ha una responsabilità operativa o anche soltanto culturale. Insomma, i numeri primi sì, il racconto no, troppo arbitrario, troppo suggestivo, poco neutrale. A Luca Ricolfi non piace.

Naturalmente Luca (lo chiamo per nome perché lo conosco da quando era bambino e per questo gli voglio bene) non ignora che il giornalismo è stato fin dalla sua nascita il racconto della realtà, la sua narrazione, ancorata ai fatti e alle idee ma inevitabilmente guardata dal punto di vista dal quale quel giornale e quel giornalista guardano. Con l'obbligo di mantenere la propria indipendenza e soprattutto di dichiarare quale sia il punto di vista dal quale stanno guardando.
E Luca sa anche che le società contemporanee in tutti i paesi del mondo sono civiltà mediatiche. Sicché ragionare come se non lo fossero è un'ideologia utopistica: il cantiere nel quale operiamo fornisce quel tipo di mattoni e non altri.

L'articolo del 19 scorso affronta invece il tema del federalismo. Lo affronta, anche in questo caso, in un modo alquanto anomalo. Scrive Ricolfi che la sorte del federalismo è nelle mani del Sud. Infatti il Nord vota tradizionalmente a destra ed è federalista, il Centro vota tradizionalmente a sinistra ed è statalista, il Sud di volta in volta cambia il suo voto, oscilla e quindi decide a chi dare la vittoria, se al Centro rosso o al Nord bianco, anzi verde per via della Lega.

Importante, secondo Luca, sarebbe che nel Sud prevalessero quegli elettori che vogliono accettare la sfida del federalismo (e ce ne sono) migliorando le proprie capacità produttive, tagliando gli sprechi, diventando economicamente e civicamente virtuosi. Se questo avverrà sarà un gran bene per il Sud e per l'Italia; se non avvenisse il Nord ne trarrà le conseguenze perché non può più permettersi di mantenere i vizi e la pigrizia del Sud.
Questa visione parte da una concezione molto schematica: un Nord di destra e federalista, un Centro di sinistra e statalista, un Sud oscillante. Può forse essere una fotografia dell'oggi ma non un processo storico. Il Nord (Luca è torinese e lo sa bene) fu il motore del centralismo italiano; spesso ha votato più a sinistra che a destra, mentre il Sud purtroppo è stato il luogo delle clientele oltreché delle mafie.
Le virtù del Nord sono indiscutibili, ma i vizi che ha - come tutti - lo sono altrettanto. Il Nord ha con una mano mantenuto il Sud mentre con l'altra mano si è ripreso i suoi denari più gli interessi. La nostra storia nazionale è stata interamente dominata da questo contrasto.

   
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« Risposta #237 inserito:: Settembre 26, 2010, 11:25:36 am »

L'EDITORIALE

La macchina da guerra che schiaccia il dissenso

di EUGENIO SCALFARI

Da un lato Gianfranco Fini e la famiglia Tulliani, dall'altro il comunicato di un ministro della Giustizia dell'isola caraibica di Santa Lucia, i giornali della famiglia di Silvio Berlusconi e lo stuolo di "aiutanti" che si sono prodigati per incastrare il presidente della Camera.

La posta dello scontro è la distruzione politica dell'uno o dell'altro con le conseguenze che possono derivarne per tutto il paese. Esamineremo tra poco queste conseguenze, ma prima dobbiamo mettere a fuoco il video con il quale Fini si è ieri sottoposto al giudizio dell'opinione pubblica nazionale e internazionale.

A tale proposito e a titolo di premessa anticipo una riflessione: la risposta di Fini è comunque tardiva, poteva e doveva arrivare molto prima, subito dopo le notizie pubblicate dal "Giornale" di Feltri. Il presidente della Camera disse allora con una pubblica dichiarazione (e l'ha ribadito nel video di ieri) che nulla aveva mai saputo fino a quel momento della vicenda concernente l'abitazione di Montecarlo a suo tempo venduta ad equo prezzo (secondo le valutazioni di allora) da Alleanza nazionale che ne era proprietaria. Aggiunse che il coinvolgimento di suo cognato in quella vicenda gli aveva causato un forte disagio. Alle parole avrebbero dovuto seguire i fatti e cioè la netta separazione tra lui e la famiglia Tulliani. Comprendiamo benissimo che un comportamento del genere implicava non solo interessi ma soprattutto sentimenti, ma la responsabilità istituzionale avrebbe dovuto far premio su ogni altra considerazione anche a costo di mettere in gioco un assetto privato molto delicato.

Si parla spesso (e non sempre a proposito) dell'autonomia della politica. Ma questo concetto non può essere invocato soltanto per rivendicare i diritti, bensì anche i doveri che l'autonomia della politica impone a chi ne è protagonista. Fini non separò le sue responsabilità da quelle della famiglia. È stato un grave errore che ha purtroppo aperto la strada ad un imbarbarimento senza precedenti del quale Fini è stato al tempo stesso inconsapevole artefice e vittima, di fronte alla spregiudicatezza estrema del suo avversario sulla quale nessuno che lo conosca poteva aver dubbi. Chi ne ha sofferto il danno maggiore sono state le istituzioni della Repubblica e il danno non ha ancora terminato di generare i suoi effetti.
Ciò detto esaminiamo la risposta del presidente della Camera.

* * *

La risposta, cioè la verità di Fini, ribadisce i seguenti punti: Fini nulla sapeva. Apprese solo un mese fa che suo cognato era affittuario dell'appartamento di Montecarlo. Mostrò disagio, ebbe una violenta lite in famiglia, invitò il cognato a disdire il suo contratto di locazione e ancor oggi ha ripetuto l'invito con molto vigore.

Suo cognato continua a smentire privatamente e pubblicamente di essere non solo il locatario ma anche il proprietario dell'appartamento in questione. Fini ne prende atto ma dubita che il cognato dica la verità. Se sarà accertato dalla magistratura o da altra fonte ufficiale che suo cognato ha mentito e gli ha mentito, darà le dimissioni da presidente della Camera non perché abbia una responsabilità in quanto è accaduto ma per rispetto dell'etica pubblica che gli sta particolarmente a cuore. Contro di lui è partita una vergognosa campagna di killeraggio nel momento in cui ha manifestato un legittimo dissenso politico rispetto alla linea del partito di cui è stato cofondatore. Questa campagna è stata condotta da giornali di proprietà della famiglia Berlusconi e da televisioni asservite ai suoi ordini e ai suoi interessi.

Tali metodi sono stati adottati non solo contro di lui ma contro chiunque dissenta dalla voce del padrone. Questa è una gravissima ferita inferta alla democrazia. Riconosce d'aver commesso qualche ingenuità. Ma nessun reato è stato compiuto da nessuna delle persone implicate in questa vicenda nella quale non sono in gioco soldi pubblici e interessi della pubblica amministrazione. Infine per quanto lo riguarda non ha alcuna responsabilità in una vicenda privata che riguarda un appartamento di 50 metri quadrati.
Fin qui il video-messaggio del presidente della Camera il quale ha accompagnato queste sue dichiarazioni sui fatti ad una durissima requisitoria contro lo stile di governo e l'atmosfera di killeraggio che è diventata purtroppo una nota dominante e può colpire chiunque dissenta dal potere berlusconiano.
Oltre a prendere atto delle affermazioni di Fini, molte delle quali sono a nostro avviso pienamente condivisibili, bisogna anche leggerne in controluce alcuni passaggi.
Soprattutto quello che riguarda la sua "ingenuità" e la lite in famiglia quando alcuni fatti compiuti sono arrivati a sua conoscenza.

Abbiamo già scritto all'inizio che l'ingenuità - evidentemente connessa ai sentimenti più che ad un attento esame dei fatti - comporta un prezzo da pagare. Fini si è impegnato a pagarlo con le dimissioni se il fatto della proprietà del cognato (che non è un reato) sarà accertato.
Questa posizione è fragile. Ci si aspettava che Fini esibisse la prova che la proprietà non è di Tulliani ma questa prova non è stata data. Lo stesso Fini dice di dubitare della parola di Tulliani. Sarà quindi difficile che resista a lungo in una posizione di evidente difficoltà.

Resta un problema che ci porta ad esplorare che cosa è veramente accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni. È accaduto ciò che sappiamo da tempo e che siamo in grado di prevedere in anticipo: la macchina da guerra berlusconiana entra in funzione per colpire il dissenso e per proteggere gli amici e gli amici degli amici. Se Fini si fosse sottoposto, la macchina da guerra contro di lui non avrebbe colpito. Ma per difendere Cosentino da ben altre colpe la macchina da guerra berlusconiana si è mossa, togliendo dalle mani dei giudici un elemento decisivo per le sorti del giudizio, cioè le intercettazioni dalle quali emergerebbe la prova dei legami tra l'imputato e le cosche camorristiche. Quell'elemento non soltanto non sarà reso noto alla pubblica opinione ma non potrà essere utilizzato in processo, per i giudici sarà come se non sia esistito.
A questo risultato la macchina da guerra è arrivata con l'intimidazione, le promesse, le lusinghe, la compravendita delle persone e del loro voto. Si parla molto di trasformismo, ma non è soltanto di questo che si tratta.
Il trasformismo è un vizio antico delle democrazie, in Italia particolarmente diffuso. Il voto di scambio, ottenuto attraverso la concessione di benefici o la minaccia di ritorsioni, è invece un reato previsto dal codice penale e come tale andrebbe perseguito.

Per concludere su quanto è accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni: il caso Fini ha dimostrato per l'ennesima volta la natura del potere berlusconiano che si regge sullo slogan "o con me o contro di me", sul belante ritornello del "meno male che Silvio c'è" e sul dossieraggio ricattatorio come pratica di governo.

* * *

Le conclusioni di questa avvilente vicenda mi sembrano le seguenti: le elezioni si allontanano di qualche mese ma non di più. La legge elettorale resterà quella che è, strumento formidabile di pressione e corruzione. Le ipotesi di un terzo polo si fanno evanescenti perché anche Casini è nel mirino della macchina da guerra berlusconiana che alterna nei suoi confronti lusinghe e minacce. Berlusconi imporrà al Parlamento la legge sul processo breve e ritirerà fuori quella sulle intercettazioni.

Intanto l'economia è ansimante, la coesione sociale è a pezzi e nessuno se ne dà carico. Un bilancio che dire sconfortante è dir poco.

(26 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #238 inserito:: Ottobre 03, 2010, 05:03:52 pm »

L'EDITORIALE

L'amore romantico e quello libertino

di EUGENIO SCALFARI

FINALMENTE un felice giorno di tregua politica. Il governo ha incassato un voto di fiducia sui cinque titoli del suo programma; i finiani sono determinanti alla Camera; Berlusconi continua a lanciare insulti alla magistratura, a collezionare barzellette sconce da ogni punto di vista e a magnificare il suo ruolo di demiurgo della politica mondiale; l'opposizione è unita e aggressiva.

Insomma, soddisfazione per tutti e avanti finché durerà. Durerà poco, penso io, ma forse mi sbaglio. Il solo legittimamente preoccupato è Belpietro, direttore di Libero, che ancora non conosce la verità sulla causa delle sue preoccupazioni. Gli invio la mia convinta e doverosa solidarietà.

Posso dunque dedicarmi oggi al tema dell'amore, come avevo promesso ai nostri lettori. Non è un tema peregrino. In una società agitata da guerre, terrorismo, crisi economica, egoismi feroci, l'amore sembra un sentimento quasi scomparso. Le donne, che dell'amore rappresentano l'elemento cardine, sono vilipese e usate come è sempre accaduto; la loro emancipazione che sembrava ormai conquistata anche se ancora parziale e imperfetta, sta regredendo e molte di loro non si oppongono più, anzi sembrano felici di collaborare a questo "richiamo all'ordine" che va tutto a loro detrimento. Perciò riflettere sull'amore è un tema di stretta attualità. Umberto Veronesi, in un bel libro uscito in questi giorni, è del mio stesso avviso ed arriva addirittura ad augurarsi una qualche forma di matriarcato.

Sostiene che la famiglia a direzione maschile diseduca le donne. Proprio perché sono l'elemento debole di fronte alla cultura maschile tuttora dominante, l'educazione che ricevono le sospinge a far propri i valori di competizione che sono tipici del maschio. Quelle che riescono ad emanciparsi e a raggiungere posizioni di spicco hanno introitato l'immagine della virago e fanno concorrenza agli uomini sul loro stesso terreno.

Bisognerebbe dunque  -  scrive Veronesi  -  che la loro educazione avvenisse in famiglie culturalmente orientate da valori femminili: l'amore  -  appunto  -  la pace, la solidarietà, la comprensione. Non ha torto, Veronesi, anche se l'attuale temperie in tutto il mondo sta procedendo nella direzione opposta.

L'amore però è una parola che esprime una quantità di sentimenti. Ha una sua mitologia, un suo approccio religioso, una sua poetica ed anche una sua storia. Di tempo in tempo e di luogo in luogo, quella parola ha avuto significati diversi e spesso opposti l'uno all'altro.

Questo è dunque il tema sul quale mi sembra opportuno fare chiarezza per poter meglio colmare un'evidente lacuna che affligge le nostre società, quelle ricche e quelle povere, ad Occidente e a Oriente del mondo.

 *  *  *

Le civiltà antiche  -  e qui mi limito a parlare di quelle mediterranee che più da vicino ci riguardano  -  non conoscevano il "privato". Gli uomini si realizzavano nella "polis" della quale la famiglia e la tribù costituivano le cellule. L'amore faceva parte dei valori familiari, incoraggiati e protetti dagli dei del luogo. Si amavano i genitori, si amavano i fratelli e le sorelle, si amava la sposa, fonte di procreatività. Le tavole mosaiche contengono la normativa più antica dell'amore familiare: "Onora il padre e la madre. Non commettere atti impuri. Non desiderare la donna d'altri". Il destinatario di queste norme è il maschio, la donna resta in una zona d'ombra ma è anch'essa colpevole dell'eventuale trasgressione.

Naturalmente i sentimenti amorosi finivano, allora come oggi e come sempre, anche al di fuori del recettacolo familiare, ma era un fatto privato e quindi del tutto irrilevante. Se però diventavano una sfida contro la famiglia l'irrilevanza diventava colpevolezza e veniva repressa con la massima severità.

Non è un caso che la guerra delle guerre, quella di Troia, scoppia a causa del tradimento di Elena e della sua fuga con Paride. È un pretesto, si sa. Simboleggiò lo scontro tra la civiltà achea e quella medio-orientale. Ma il pretesto dello scontro è la violazione dell'amore familiare e il ritorno di Elena a casa con il marito Menelao sancisce che l'ordine violato è stato ripristinato.

Nello stesso ambito leggendario il teatro greco racconta la vendetta di Elettra e di Oreste contro l'uccisore del loro padre e contro la loro madre che ne era stata l'amante durante la sua assenza da Argo.

C'è, al fondo di questa tragedia, l'ombra d'un sentimento incestuoso che si coglie nell'amore quasi morboso tra il fratello e la sorella vendicatori. L'incesto del resto rappresenta un elemento spesso presente nell'amore familiare; Edipo e il suo destino ne costituiscono il fondamento, non a caso recuperato da Freud come uno degli elementi fondanti della psicologia del profondo.

 *  *  *

Il carattere "pubblico" e familiare dell'amore dura molto a lungo e scavalca i secoli. Neppure il Cristianesimo riesce ad intaccarlo.

La predicazione di Gesù tramandataci dai Vangeli è intrisa di amore e questa è la grande innovazione rispetto al monoteismo ebraico che descrive il dio biblico come il condottiero del suo popolo, ancorato alla severità della Legge.

Il dio dei Vangeli è giusto ma soprattutto misericordioso e non si identifica con un popolo. Si rivolge a tutte le persone, ne riscatta la dignità, esalta i deboli e i poveri che saranno i primi a varcare la soglia della beatitudine. Parifica tutte le persone quando entreranno nel regno dei cieli, le donne come gli uomini, gli schiavi come i loro padroni. Ma sulla terra le istituzioni restano quelle che sono. I cristiani sono animati dalla fede e dalla speranza; il male e l'odio vanno ripagati dall'amore. E l'amore è la "caritas", indirizzata verso tutti, verso il prossimo, verso i nemici.

L'amore tra uomo e donna dà luogo alla famiglia, viene santificato nel sacramento del matrimonio, indissolubile con i vincoli della fedeltà e l'obiettivo della procreazione.

Si tratta dunque d'un amore che sale dai coniugi verso Dio e si santifica attraverso i figli e la loro educazione cristiana. La "pubblicità" dell'amore rimane dunque intatta, con una differenza essenziale rispetto al politeismo pagano: la "caritas" diventa il fondamento della religione. Paolo e Agostino arrivano a farne un valore addirittura più importante della stessa fede.

 *  *  *

La cultura medievale inventa un altro tipo di amore: l'amore cortese, cantato dai trovatori nei castelli e portato in giro per l'Europa della lingua occitana e dell'italiano volgare.

Lo "stil novo" vagheggia amori immaginari e figure di amati e di amanti stereotipi. Di qui sorge la malinconia che occhieggia nei versi del Guinizelli e diventa sostanza poetica nel Cavalcanti, nel Dante della "Vita Nova" e nel Petrarca.

Ma accanto all'amore cortese si affaccia quello licenzioso del Boccaccio e più tardi di Machiavelli della "Mandragola" e dell'Aretino. Sono i primi segnali del "privato" ma ci vorranno ancora due secoli perché il "privato" si affermi nelle società dell'Europa moderna.

 *  *  *

Il "privato" nasce con l'Illuminismo con l'abolizione degli assoluti e dell'assoluto come concetto. Trasforma l'economia e la politica. Poteva il sentimento amoroso sottrarsi all'irruenza di questa rivoluzione?

Nasce infatti l'amore libertino, l'amore individuale, il "privato" dell'amore e nasce nei salotti gestiti da donne emancipate da una prima sembianza di femminismo. Diderot teorizza l'amore per l'amore che prevede la libertà di amori molteplici in nome, appunto, di amare l'amore.

Dura un secolo questa forma amorosa. Se si vuol chiedere alla letteratura, alla poesia e alla musica la chiave di un nuovo mutamento, la si trova nel Werther di Goethe, nelle "Affinità elettive", nella poesia di Leopardi e in quella di Baudelaire. L'amore romantico, la poesia e la musica romantiche.

L'Ottocento è intriso di amore romantico, dove si uniscono i sentimenti e i sensi ed è questo l'amore "privato" che diventa costume pubblico e che tuttora rappresenta uno dei cardini della società moderna.

Quell'amore tuttavia contiene le spore d'un mutamento ulteriore che emerge nella seconda metà del secolo scorso ed è ora nel pieno del suo svolgimento. Deriva proprio dal "privato", dalla sopravvenuta libertà sessuale, dall'accentuarsi dell'elemento sessuale e dalla liberazione della donna e del suo accesso al lavoro fuori casa.

L'amore romantico non è scomparso ma è divenuto mobile. Sempre più raramente dura per tutta la vita. Si realizza nella fase iniziale dell'innamoramento, si trasforma dopo qualche tempo in affetto e poi in amicizia. Infine la coppia si scompone e si ricompone con altri soggetti e altri innamoramenti. Sono segmenti di amore romantico al posto della linea retta dell'amore ottocentesco.

È a questo punto che l'amore verso l'amore riacquista peso e può  -  potrebbe  -  intrecciarsi alla solidarietà laica e alla "caritas" cristiana verso il prossimo, con uno spessore sociale in grado di soverchiare l'egoismo esasperato e l'amore egolatrico verso il proprio ombelico.

Questa è la scommessa affidata al futuro: un mondo dove l'essere assume una curvatura erotica capace di avere la meglio sull'istinto del potere.

(03 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #239 inserito:: Ottobre 08, 2010, 12:52:27 pm »

Silvio alla guida del G2 Usa-Cina

di Eugenio Scalfari

Ha salvato le banche Usa che stavano per fallire.

Ha evitato l'invasione della Georgia e ora sta per diventare il presidente di tutti i vertici internazionali...

(08 ottobre 2010)

Sembra - dico e sottolineo sembra - che alcune recentissime dichiarazioni fatte dal presidente del Consiglio italiano nel suo ultimo discorso al Senato durante il dibattito sulla fiducia abbiano provocato notevole agitazione sia alla Casa Bianca sia al Cremlino.

Berlusconi, rispondendo al senatore Luigi Zanda che aveva documentato l'irrilevanza della politica estera italiana, aveva contestato con irruenza quel temerario giudizio del suo contraddittore. "Questa persona", aveva detto il nostro premier indicando se stesso, "è quella che ha convinto Putin a non invadere la Georgia per non aumentare la tensione internazionale. Non è stato facile, c'è voluta un'intera giornata di telefonate, ma alla fine Putin ha capito ed ha seguito il mio consiglio. Questa persona", ha continuato sempre indicando con il dito il suo petto, "è anche quella che al primo insorgere della crisi bancaria negli Stati Uniti ha più volte preso contatto telefonico con il presidente Obama per convincerlo ad intervenire con 800 miliardi di dollari per evitare il crac delle maggiori banche Usa. Ho mobilitato anche gli esponenti di maggior prestigio della comunità italo-americana. Abbiamo sudato sette camicie ma alla fine ce l'abbiamo fatta e il Tesoro americano è intervenuto proprio con quella astronomica cifra evitando un crac che avrebbe avuto paurose ripercussioni su tutto il mondo. Questa persona", ha proseguito, "è quella più ascoltata e più ammirata nelle riunioni del G6, del G7, del G8 e del G20. Altro che irrilevanza!". (Applausi e prolungati).

Sembra - sottolineo sembra - che dopo questa replica il senatore Zanda sia stato amichevolmente rimproverato per la sua imprudenza da Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Ds e da allora si sia chiuso in casa in preda a cupa tristezza e staccando telefono e telefonino.
Incuriosito da queste vicende, ho cercato di saperne di più. Ho buone relazioni con alcuni italo-americani che contano a Washington; nella capitale Usa il nostro gruppo editoriale ha corrispondenti e inviati di prim'ordine; conosco da tempo ex ambasciatori americani a Roma ed ex ambasciatori italiani a Washington. Anche a Mosca siamo ben rappresentati e anche in quella capitale ho eccellenti punti di riferimento fin dai tempi di Gorbaciov. Ho messo tutti al lavoro ed ecco quanto ho saputo e che riferisco ai lettori.

Quando le agenzie internazionali hanno messo in rete le affermazioni del nostro presidente del Consiglio, il vicepresidente americano, Joe Biden, si è precipitato nella sala Ovale dove Obama stava ricevendo il generale Petraeus, comandante in capo delle truppe che operano in Afganistan. Biden - mi dicono - era agitato ed aveva in mano un fascio di fogli con le notizie delle agenzie. "Bar - avrebbe detto chiamando il presidente con un diminutivo - tu veramente hai seguito i consigli di quel buffone?". "Ma ti pare!" aveva risposto Obama. "Sai bene che quell'intervento l'aveva deciso Bush quando io ero ancora in "standby" a dicembre". "Non mentirmi, Bar: Bush decise lo stanziamento ma l'ok alla spesa l'hai dato tu". "E non avrei dovuto? Stavano per fallire la Chase, la City e la Bank of America". "Ma tu hai aperto un buco spaventoso nel bilancio. Non c'era copertura". "E allora? Non c'era copertura. I soldi li anticipò Bernanke". "Vuoi che non lo sappia? Voglio sapere soltanto se è vero che l'idea te l'ha data quel puttaniere. Puoi finire sotto "impeachment", lo sai? Un buco nel bilancio che è una voragine su indicazione d'un governo straniero!". "Ora basta. Di chi stiamo parlando? Di quel bassetto coi tacchi che in ogni riunione mi si mette a fianco per esser fotografato con me? Una volta mi abbracciò sotto i flash dei fotografi, un'altra mi fece il solletico al collo e un'altra ancora mise la bocca incollata al mio orecchio. Quest'uomo è un rompiscatole micidiale. Con la Merkel cerchiamo di tenerlo a bada in tutti i modi, spostiamo gli orari per evitarne la presenza. Figurati al telefono! Non sa l'inglese e tocca parlarci per interpreti". "Siamo sicuri?". "Ma va a quel paese...".

Sembra che abbia detto proprio così e così - mi dicono i miei - anche Putin a Medvedev quando il presidente della Russia gli ha contestato il mancato intervento in Georgia su pressione di Berlusconi. "Non intervento?", ha gridato Putin, "abbiamo addirittura assediato la capitale. E siamo ancora lì. Ma che dici? Chi te le racconta queste scemenze?". "Il tuo amico. Gli affari li fa con te, non con me". "Vuoi litigare? Vuoi che parliamo di affari? Fossi in te non ci proverei". "Lo sanno tutti che a Ginevra...". "Vai al diavolo".

Beh, sentite: i miei mi dicono che è tutto vero quello che ha detto Berlusconi contestando Zanda. Anzi, sembra che sia stato Barack Obama a chiamare Silvio al telefono quando scoppiò la bolla e dovette anche aspettare perché a Roma era notte fonda per via del fuso e Lui a Palazzo Grazioli era occupatissimo e il centralino aveva l'ordine di non disturbarlo neppure se all'altro capo del filo ci fosse stato Gesù Bambino. Sic. Quanto a Putin, lo sanno tutti: lo consulta prima di prendere qualunque decisione. Al G8 gli invia bigliettini quando tocca a lui parlare. È Silvio che ha dato la linea alla Russia per le sanzioni all'Iran. Ma anche Barroso non muove foglia che Silvio non voglia.
Non parliamo di Sarkozy: l'espulsione dei rom dalla Francia è venuta da Palazzo Grazioli anche se in quel caso Silvio s'è mosso per fare un favore a Maroni. Adesso - mi dicono i miei - la presidenza del G20 che si riunirà a fine novembre prepara un festeggiamento in onore del premier italiano e della campagna elettorale da lui decisa che lo porterà al Quirinale. L'idea è di farlo presidente a vita di tutti i vertici compreso il G2, quello tra Usa e Cina. Il progetto è di escludere l'Italia da tutti i vertici e mettere Silvio a presiederli. Tremonti sembra che non sia affatto d'accordo perché perderebbe il posto.

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