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« Risposta #210 inserito:: Giugno 04, 2010, 06:49:44 pm » |
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Draghi nel segno di Einaudi Eugenio Scalfari L'assemblea di Banca d'Italia si è svolta come da mezzo secolo in qua. Il Governatore è sciolto e snocciola riflessioni apparentemente neutrali ma con angoli acuminati come spade Non andavo all'assemblea annuale della Banca d'Italia dal 1992. C'era ancora Carlo Azeglio Ciampi alla guida dell'Istituto di emissione, come allora lo si chiamava quando si voleva far sfoggio di parole arcaiche e pompose. L'assemblea aveva inizio alle 10.30 di ogni 31 maggio e si svolgeva sempre con lo stesso rito: puntuali come l'orologio di Greenwich entravano in fila indiana nel salone già colmo di gente il governatore, il direttore generale, i membri del direttorio. Quando al brusio si succedeva l'assoluto silenzio il governatore cominciava la lettura delle "Considerazioni finali" rivolgendosi ai "partecipanti, al rappresentante del governo, alle cariche costituzionali, al presidente del collegio sindacale della Banca e ai signori e signore invitati". La lunghezza del documento era variabile, tra le quindici e le trenta pagine. La lettura si chiudeva con un applauso che a mio ricordo fu sempre convinto e nutrito. Poi interveniva il presidente del Consiglio generale dell'Istituto. Alle 12 e mezzo tutto era finito e i presenti sciamavano, bombardati dai flash dei fotografi e assediati dai cronisti in cerca di dichiarazioni. Fino al 1992 non ne ho mancata quasi nessuna di quelle assemblee, a cominciare dal '56 quando il governatore era Donato Menichella, poi Carli dal '61, poi Baffi, infine Ciampi che governò per tredici anni. Di Carli e di Ciampi sono stato amico personale ed intimo, la Banca d'Italia ha sempre rappresentato per il nostro gruppo editoriale e per i nostri giornali un punto di riferimento costante. Insieme alle forze politiche della sinistra democratica, la Banca d'Italia fu l'altro pilone di sostegno del ponte che nella nostra concezione sosteneva una politica riformatrice e innovativa, un mercato aperto e guidato da regole di libera concorrenza, una politica del credito senza interferenze politiche, una gestione monetaria che finanziava investimenti mirati ad allargare la base produttiva e l'occupazione. Gli uomini che si succedettero alla guida dell'Istituto erano sensibili a questa concezione che metteva insieme la stabilità dei prezzi, la lotta contro i monopoli, il legittimo profitto di impresa, l'autonomia creditizia, la libertà di commercio e la diffusione del benessere tra i lavoratori. Politicamente quei quattro governatori che ho conosciuto assai da vicino si sentirono rappresentati da uomini come Ezio Vanoni, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Nino Andreatta, Pasquale Saraceno e questa fu la costellazione che guidò la società italiana, cercando di potenziarne le virtù e dominarne i vizi, rafforzando i valori della libertà, dell'eguaglianza e dell'efficienza. Al vertice di quella costellazione c'era stato Luigi Einaudi al cui insegnamento liberale e democratico tutti si sono poi richiamati. Rientrare in quei saloni la cui memoria ha fatto parte d'un lungo periodo della mia vita mi ha riportato indietro negli anni, mi ha fatto rivedere volti dimenticati ma improvvisamente riemersi dalla nebbia del tempo: i commessi che accolgono nel cortile, quelli che presidiano i saloni di ingresso, le segretarie che accompagnano gli ospiti ai posti loro assegnati, erano quasi tutti quelli di allora. Mi hanno riconosciuto come un vecchio amico d'altri tempi e ne sono stato commosso. Il rito si è svolto come sempre da mezzo secolo in qua, ma gli attori che celebravano e partecipavano a quella liturgia testimoniavano con i volti, le movenze, la voce, il passaggio di un'epoca. Al posto di Gianni Agnelli c'era il giovane nipote Elkann, sulla sedia dove facevano accomodare Angelo Costa c'era Emma Marcegaglia, Bonanni dove una volta vedevo Carniti e Lama. Ma soprattutto al centro della scena, dietro l'imponente leggio portatile, la figura e la voce parlante di Mario Draghi. Lui non somiglia a nessuno dei predecessori e non perché è giovane: anche Carli lo era mezzo secolo fa; ma perché è sciolto, segue la liturgia ma non se ne fa ingabbiare, alterna la gravità al sorriso, si corregge senza imbarazzo alcuno. Non loda né rampogna, ma snocciola cifre e aggancia ad esse riflessioni apparentemente neutrali ma con angoli acuminati come spade. Era ottimista o pessimista lunedì mattina? Mentre scendevo in ascensore con Cesare Geronzi, il nuovo presidente delle Generali la cui chioma bianca rivaleggia con quelle dei grandi attori del cinema e del teatro, ci siamo posti quella domanda. Geronzi propendeva per l'ottimismo e lodava l'equilibrio delle "considerazioni" di Draghi, il suo richiamo alla stabilità e alla crescita. "Se manca uno dei due termini - ha detto - non si va da nessuna parte". Ho chiesto a mia volta: "Lei pensa che la crescita ci sarà?". "Temo che la ripresa sarà lenta". "Lo temo anch'io, perciò sono pessimista e mi sembra che anche Draghi lo sia". L'ascensore aveva toccato terra. Ci salutammo. Mi venne in mente che mezzo secolo fa in quel palazzo c'era anche lui, Geronzi, con Carli e Ossola. Il tempo si perde e si ritrova, riconciliando anche gli opposti come avviene nell'ultima "matinée" nel palazzo dei Guermantes, quando Madame Verdurin è diventata principessa e Swann e Odette sono già morti da un pezzo... (03 giugno 2010) http://espresso.repubblica.it/dettaglio/draghi-nel-segno-di-einaudi/2128374/18/1
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« Risposta #211 inserito:: Giugno 13, 2010, 12:18:47 pm » |
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L'EDITORIALE Lo spettro del bavaglio e della deflazione di EUGENIO SCALFARI TIENE ancora banco e lo terrà per un pezzo la legge bavaglio sulla libertà di stampa. Il Senato l'ha approvata votandola sotto il ricatto della fiducia posta dal governo, ma gli ostacoli sono ancora molti: l'esame della Camera e la tempistica che quell'esame richiederà, la firma di promulgazione di Napolitano, l'esame della Corte costituzionale, un possibile referendum abrogativo. Del resto i punti di dubbia costituzionalità sono numerosi, a cominciare dal diritto di cronaca smaccatamente violato, dalle gravi limitazioni agli strumenti di indagine dei magistrati e - particolarmente pesanti - alle multe stratosferiche nei confronti degli editori rei di consentire ai giornalisti eventuali violazioni della legge in questione. Quelle multe spostano la responsabilità penale e civile dal direttore del giornale all'editore. L'attacco di questa normativa alla libertà di stampa non potrebbe essere più evidente.Tutto ciò configura quella legge come un classico tentativo liberticida, che va quindi combattuto con tutti i mezzi legalmente disponibili. Ma voglio qui segnalare anche l'inefficacia pratica di questa sciagurata normativa. Viviamo in un mondo ormai dominato dalla rete di comunicazioni "on line". Le notizie la cui diffusione viene impedita alla carta stampata, appariranno inevitabilmente sui siti "web". Che farà il governo? Oscurerà quei siti, come avviene in Iran e in Cina? E ancora: se un giornale straniero verrà in possesso di quelle notizie (intercettazioni comprese) e le pubblicherà, i giornali italiani avranno pieno diritto di citarlo e riferirne il contenuto. Che farà il governo? Arresterà e multerà giornalisti ed editori che riferiscono notizie pubblicate a Londra o a Parigi, ad Amburgo o a Zurigo, a Madrid o ad Amsterdam o a New York?Questa legge è dunque liberticida e al tempo stesso inutile perché non riuscirà ad imbavagliare la libera stampa, ma semplicemente a configurare l'Italia come un paese in mano ad una farsesca cricca ossessionata da tentazioni autoritarie e sanfediste. Voltaire avrebbe ampia materia, se rinascesse, per esercitare la sua aguzza ironia. * * * Della manovra economica voluta da Giulio Tremonti ci siamo già occupati domenica scorsa segnalandone alcuni aspetti di necessità e alcuni difetti. Soprattutto l'assenza totale di stimoli alla crescita, non potendo considerarsi tali le preannunciate e vacue misure di liberismo che il ministro dell'Economia gabella come risolutive spinte all'aumento del reddito mentre sono soltanto annunci lanciati nel vuoto. Ma fatti ben più gravi sono accaduti nel frattempo in Europa. È accaduto soprattutto che la Germania ha imboccato la pericolosissima strada di una vera e propria politica di deflazione, preannunciando 80 miliardi di tagli alla spesa nei prossimi quattro anni a cominciare da subito. Al G20 svoltosi nei giorni scorsi in Corea i membri europei hanno appoggiato questa politica, con qualche riserva soltanto da parte francese. Le dichiarazioni in favore di incentivi alla crescita, che sempre avevano accompagnato analoghe riunioni, questa volta sono state omesse; il tema dominante è stato la riduzione e la stabilizzazione del debito pubblico e il rientro del deficit nei parametri di Maastricht. La Germania ha fatto da apripista e da capofila di questa politica. Conseguenze? Un rallentamento congiunturale, la caduta della domanda interna e degli investimenti. La debolezza dell'euro ravviverà le esportazioni dirette verso altre aree monetarie ma scoraggerà gli scambi all'interno dell'eurozona, con grave pregiudizio proprio per la Germania le cui esportazioni all'interno dell'eurozona rappresentano il 40 per cento del totale delle sue vendite all'estero. Mario Draghi valuta a mezzo punto di Pil la caduta del reddito italiano per effetto della manovra Tremonti. Figuriamoci a quanto aumenterà la perdita di velocità nel totale dell'eurozona. In un articolo su 24 ore di ieri Paul Krugman bolla con parole di fuoco questa dissennata svolta depressiva. Personalmente esprimo da mesi giudizi altrettanto negativi. Il fatto grave consiste nella decisione della Germania di mettersi alla guida di questa politica. "I falchi del disavanzo hanno preso il controllo del G20" scrive Krugman. E aggiunge: "Operare drastici tagli alla spesa pubblica nel caso d'una grave depressione è un metodo costoso e inefficace. Le misure di austerità sono costose perché deprimono ulteriormente l'economia e sono inefficaci perché la contrazione della spesa pubblica frena il gettito fiscale". Il fatto inspiegabile è che tutta l'Europa si stia cacciando in questo vicolo senza uscita. * * * In Italia ci sono molte voci che reclamano un'azione espansiva di crescita accanto a quella depressiva di tagli della spesa. In testa c'è Bersani e tutto il gruppo dirigente del Pd, mobilitato altresì contro la legge bavaglio che censura la libertà di stampa. Sulla stessa linea Epifani e la Cgil. La Marcegaglia continua a reclamare sgravi fiscali robusti sul lavoro e sulle imprese, senza i quali "l'economia italiana rischia di morire asfissiata dalla deflazione e dalla disoccupazione". L'ha ripetuto al convegno di Santa Margherita dove non ha risparmiato di bacchettare la presidentessa dei giovani, Federica Guidi, la quale invocava una modifica costituzionale che consenta di sottoporre al referendum anche le leggi fiscali. "Dissennatezza", così la Marcegaglia ha definito la proposta della Guidi, che sarebbe difficile giudicare in altro modo. Infine in favore di interventi espansivi sono anche schierati Mario Draghi e Mario Monti, nonché Romano Prodi e Carlo De Benedetti, Pier Ferdinando Casini e Montezemolo, le Regioni e i Comuni. Sembrano numerose queste forze ma purtroppo, unite nella diagnosi, sono divise sulla terapia. Possono ottenere qualche risultato sulla politica economica italiana, ma hanno scarso peso sull'Europa e nessunissimo peso sulla Germania. Dovrebbero dunque cercare qualche raccordo con la Francia, con la Spagna e con Obama, ma per promuovere una sorta di "force de frappe" internazionale di questa portata dovrebbero marciare uniti. È troppo sperarlo? * * * Qualche parola, in conclusione, la dedicherò al Partito democratico. Nelle recenti settimane sembra uscito dall'afasia in cui era caduto. Affermare che sia in buona salute non corrisponde alla realtà, ma sostenere che abbia ormai cessato di esistere è altrettanto azzardato, così come mi sembra azzardato aizzare i giovani contro gli anziani, la periferia contro il centro. I sondaggi più recenti registrano le intenzioni di voto per il Pd attorno al 27 per cento collocando il Pdl al 33. Il divario è cospicuo ma non stellare. Battaglie come quelle contro la legge bavaglio e contro una manovra economica depressiva sembrano riscuotere un consenso molto esteso e potrebbero modificare le intenzioni di voto in misura sostanziale. Ma, lo ripeto, occorre che l'unità sulla diagnosi si accompagni ad una compattezza delle terapie e alla ricerca di uno sbocco politico comune. Se ciascuno continuerà a privilegiare la propria "ditta", le forze centrifughe avranno la meglio e continueremo ad essere sgovernati dagli annunci cui non seguono fatti, dalle cricche e dalle mafie. Capisco che l'attaccamento alle proprie ricette sia animato da buone intenzioni, ma nelle condizioni attuali le buone intenzioni lastricano percorsi pericolosi e talvolta nefasti, dai quali sarebbe meglio tenersi lontani. (13 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/13/news/lo_spettro_del_bavaglio_e_della_deflazione-4799015/?ref=HREA-1
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« Risposta #212 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:12:43 am » |
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Zitti, che i cinesi costano meno di Eugenio Scalfari Sacconi e Tremonti sono il tandem perfetto per abolire i diritti dei lavoratori italiani. Attraverso il ricatto (18 giugno 2010) Sacconi. Il ministro del Lavoro Sacconi. Anzi il ministro del Welfare e del Lavoro Maurizio Sacconi. Ex socialista. Di sinistra. Lombardiano come Cicchitto. Poi craxiano. Cicchitto, craxiano mai, però iscritto alla P2. Sacconi no, alla P2 no o almeno non risulta. Però ateo. Ma da tre o quattro anni in cerca. Poi in dubbio. Poi quasi in vista. Infine dal 2008 convertito, uomo di fede. Come Bondi. Cicchitto invece no, la fede no. Brunetta, ex socialista anche lui, non si sa ma si tende a credere che non sia in cerca e quindi non trova. Tremonti, anche lui un passato socialista pare l'abbia avuto. O forse socialdemocratico, tipo Tanassi. Lui sempre in cerca. Ieri oggi domani. La fede però sì: Dio, Patria, Famiglia. Lo Stato? Poco. La politica? Moltissimo. La politica deve comandare. Anche Sacconi su quel punto è d'accordo: la politica sì, lo Stato no. Del resto anche Carlo Marx: tanta politica, tanta rivoluzione, per abolire lo Stato. Uomini duri e puri. Marx però Patria e Famiglia poco anzi niente. Sacconi e Tremonti, Tremonti e Sacconi, un tandem perfetto. Prego passi lei. Ma vuole scherzare? Prima lei. Lei traccia il solco, io mi limito a difenderlo. Troppo gentile, però non si strapazzi. Per carità, è un piacere e un dovere. Il capo comunque è Berlusconi. E ci mancherebbe! Su questo concordano anche Gasparri e Quagliariello. Basta. L'ultima uscita di Sacconi avviene a Santa Margherita Ligure, convegno dei giovani industriali, padrona di casa Federica Guidi. I Guidi di Bologna. Parenti di San Guido? No, quello sta a Bolgheri in duplice filar. La Guidi di Bologna vuole cambiare la Costituzione nel punto che vieta di sottoporre al referendum abrogativo le leggi fiscali. Emma Marcegaglia dice no, è una dissennata sciocchezza, mica si possono abolire le tasse col referendum! Ma la Guidi insiste. Una provocazione. Come la pensa Sacconi? Ecco che arriva Sacconi. Sale sul palco. Di ben tutta la possa egli soverchia, con quel che segue. Tremonti ancora non c'è ma è già stato avvistato tra Portofino e Rapallo. Viene per annunciare l'abolizione dell'articolo 41 della Costituzione. Standing ovation dei giovani. Sulla provocazione della Guidi, Sacconi non si pronuncia, ha altro da fare. Infatti sta preparando l'abolizione dello Statuto dei lavoratori. Lo sostituirà con lo Statuto dei lavori. Un refuso? Macché, avete capito bene: dei lavori. Forse al singolare: del lavoro. Che testoni: al plurale, dei lavori, i lavori sono tanti. Anche i lavoratori. Sì, ma stanno diminuendo ed è un bene che sia così: diminuiscono i lavoratori, aumenta la produttività. Assiomatico. Moderno. Soprattutto moderno. Applausi in sala, standing ovation. Sapete che vi dico? Aboliamo anche il contratto nazionale. Addirittura? Marcegaglia: "Sì, ma....". Sacconi: "Senza se e senza ma". Marcegaglia: "Vede, serve alle Pim". Sacconi: "Lei mi è simpatica, ma almeno alleggeriamolo." Applausi convinti. "Servirà solo per la manutenzione", standing ovation. L'evento è quello di Pomigliano. Marchionne riporta la Panda in Patria, cinquemila operai italiani, ma in cambio niente più orari, niente più riposi, lavoro flessibile, prendere o lasciare. Hanno accettato felici. Bonanni: "Non è un ricatto". E chi l'ha mai pensato? Marchionne però vuole il referendum e vuole che anche la Fiom sia d'accordo. Sacconi della Fiom se ne frega. E poi l'evento di Pomigliano è un caso particolare. Eccezionale. Comunque siamo per il contratto aziendale. Caso per caso. Produttività. Lavorare di più, guadagnare di meno. Ma non ci staranno. Invece ci staranno. Ci vorranno i carabinieri. Ma quali carabinieri? Basterà dire la verità: o così oppure delocalizziamo. Spostiamo la produzione in Cina, o in Corea, magari in Indonesia. Ma vorremmo favorirvi, voi delle tante Pomigliano d'Italia. Però mangiate questa minestra perché i cinesi costano molto meno di voi. È la modernità, bellezza. Vengo anch'io? No, tu no. http://espresso.repubblica.it/dettaglio/zitti-che-i-cinesi-costano-meno/2129212
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« Risposta #213 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:16:56 am » |
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Il tandem perfetto Eugenio Scalfari Tremonti traccia il solco e Sacconi lo difende. Come? Abolizione dell'articolo 41 della Costituzione, dello Statuto dei lavoratori, del contratto nazionale, degli orari e dei riposi. (18 giugno 2010) Sacconi. Il ministro del Lavoro Sacconi. Anzi il ministro del Welfare e del Lavoro Maurizio Sacconi. Ex socialista. Di sinistra. Lombardiano come Cicchitto. Poi craxiano. Cicchitto, craxiano mai, però iscritto alla P2. Sacconi no, alla P2 no o almeno non risulta. Però ateo. Ma da tre o quattro anni in cerca. Poi in dubbio. Poi quasi in vista. Infine dal 2008 convertito, uomo di fede. Come Bondi. Cicchitto invece no, la fede no. Brunetta, ex socialista anche lui, non si sa ma si tende a credere che non sia in cerca e quindi non trova. Tremonti, anche lui un passato socialista pare l'abbia avuto. O forse socialdemocratico, tipo Tanassi. Lui sempre in cerca. Ieri oggi domani. La fede però sì: Dio, Patria, Famiglia. Lo Stato? Poco. La politica? Moltissimo. La politica deve comandare. Anche Sacconi su quel punto è d'accordo: la politica sì, lo Stato no. Del resto anche Carlo Marx: tanta politica, tanta rivoluzione, per abolire lo Stato. Uomini duri e puri. Marx però Patria e Famiglia poco anzi niente. Sacconi e Tremonti, Tremonti e Sacconi, un tandem perfetto. Prego passi lei. Ma vuole scherzare? Prima lei. Lei traccia il solco, io mi limito a difenderlo. Troppo gentile, però non si strapazzi. Per carità, è un piacere e un dovere. Il capo comunque è Berlusconi. E ci mancherebbe! Su questo concordano anche Gasparri e Quagliariello. Basta. L'ultima uscita di Sacconi avviene a Santa Margherita Ligure, convegno dei giovani industriali, padrona di casa Federica Guidi. I Guidi di Bologna. Parenti di San Guido? No, quello sta a Bolgheri in duplice filar. La Guidi di Bologna vuole cambiare la Costituzione nel punto che vieta di sottoporre al referendum abrogativo le leggi fiscali. Emma Marcegaglia dice no, è una dissennata sciocchezza, mica si possono abolire le tasse col referendum! Ma la Guidi insiste. Una provocazione. Come la pensa Sacconi? Ecco che arriva Sacconi. Sale sul palco. Di ben tutta la possa egli soverchia, con quel che segue. Tremonti ancora non c'è ma è già stato avvistato tra Portofino e Rapallo. Viene per annunciare l'abolizione dell'articolo 41 della Costituzione. Standing ovation dei giovani. Sulla provocazione della Guidi, Sacconi non si pronuncia, ha altro da fare. Infatti sta preparando l'abolizione dello Statuto dei lavoratori. Lo sostituirà con lo Statuto dei lavori. Un refuso? Macché, avete capito bene: dei lavori. Forse al singolare: del lavoro. Che testoni: al plurale, dei lavori, i lavori sono tanti. Anche i lavoratori. Sì, ma stanno diminuendo ed è un bene che sia così: diminuiscono i lavoratori, aumenta la produttività. Assiomatico. Moderno. Soprattutto moderno. Applausi in sala, standing ovation. Sapete che vi dico? Aboliamo anche il contratto nazionale. Addirittura? Marcegaglia: "Sì, ma....". Sacconi: "Senza se e senza ma". Marcegaglia: "Vede, serve alle Pim". Sacconi: "Lei mi è simpatica, ma almeno alleggeriamolo." Applausi convinti. "Servirà solo per la manutenzione", standing ovation. L'evento è quello di Pomigliano. Marchionne riporta la Panda in Patria, cinquemila operai italiani, ma in cambio niente più orari, niente più riposi, lavoro flessibile, prendere o lasciare. Hanno accettato felici. Bonanni: "Non è un ricatto". E chi l'ha mai pensato? Marchionne però vuole il referendum e vuole che anche la Fiom sia d'accordo. Sacconi della Fiom se ne frega. E poi l'evento di Pomigliano è un caso particolare. Eccezionale. Comunque siamo per il contratto aziendale. Caso per caso. Produttività. Lavorare di più, guadagnare di meno. Ma non ci staranno. Invece ci staranno. Ci vorranno i carabinieri. Ma quali carabinieri? Basterà dire la verità: o così oppure delocalizziamo. Spostiamo la produzione in Cina, o in Corea, magari in Indonesia. Ma vorremmo favorirvi, voi delle tante Pomigliano d'Italia. Però mangiate questa minestra perché i cinesi costano molto meno di voi. È la modernità, bellezza. Vengo anch'io? No, tu no. © Riproduzione riservata http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-tandem-perfetto/2129252/18
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« Risposta #214 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:30:57 am » |
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IL LIBRO Ciampi, le tre vite del presidente Autoritratto di un servitore dello Stato Al vertice della Banca d'Italia, ministro del Tesoro che ci traghettò nell'euro, l'approdo al Colle: nel libro-conversazione "Da Livorno al Quirinale" le tappe della sua storia. Tra rigore e sentimento di EUGENIO SCALFARI Ciampi, le tre vite del presidente Autoritratto di un servitore dello Stato LEGGENDO il bel libro-conversazione di Carlo Azeglio Ciampi con Arrigo Levi, che sta arrivando oggi nelle librerie (il Mulino, Da Livorno al Quirinale, pagg. 183, euro 14) e avendo conosciuto per diretta ed intima frequentazione sia l'uno che l'altro dei due interlocutori, ho fatto questa riflessione: un personaggio come Ciampi è unico nella storia dell'Italia repubblicana. Del resto questa constatazione emerge dal racconto della sua vita: voleva fare l'insegnante di latino e greco nei ginnasi-licei, ma per caso entrò da impiegato nella filiale di Macerata della Banca d'Italia e vi restò undici anni. Poi, per merito, fu chiamato a Roma, alla sede centrale della Banca, dove era destinato all'ufficio di Vigilanza, ma per caso fu invece inserito nell'ufficio studi. Non aveva alcuna preparazione economica, perciò si mise "a studiare come un matto" e, per merito, dopo qualche anno diventò capo del settore che si occupava di economia reale. Lì rimase qualche anno finché, per caso e per merito, fu nominato capo del servizio studi, un incarico di notevole rilievo nel nostro Istituto di emissione. Passò altro tempo e, per merito, fu promosso segretario generale; dopo poco entrò a far parte del Direttorio della Banca come vicedirettore generale. Per caso e per merito arrivò al posto di maggior rilievo nell'amministrazione dell'Istituto: direttore generale. Infine, per caso e per merito, governatore dopo che Paolo Baffi dette le sue irrevocabili dimissioni in seguito all'assalto contro l'indipendenza della Banca guidato da Andreotti ed effettuato tramite un magistrato della Procura di Roma. Seguirono 13 anni alla testa della Banca, 13 anni densi di fatti, di innovazioni, di scontri e incontri. Diciamo 13 anni drammatici e alla fine tragici, ma anche esaltanti e densi di vissuti privati e di vissuto collettivo. Tra di essi campeggia il fallimento del Banco Ambrosiano, e la sua rinascita su nuove basi, il suicidio-omicidio di Roberto Calvi, l'uccisione dell'avvocato Ambrosoli, lo scontro con lo Ior (la banca del Vaticano), il "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d'Italia, la crisi valutaria dell'85 e quella ancora più grave del '92. Infine un nuovo e mai immaginabile percorso: la politica. Dalla telefonata di Scalfaro del 26 aprile del '93, che lo chiama per incaricarlo di formare un nuovo governo, fino al settenato al Quirinale, concluso nel maggio 2006. Altri 13 anni (numero fortunato) costellati da eventi di portata nazionale, europea, mondiale: la battaglia vinta, contro l'inflazione a due cifre e contro il disavanzo, l'ingresso dell'Italia nell'euro che è stata la più grande delle riforme, la concertazione tra governo e parti sociali, il rilancio dell'Unità d'Italia contro le culture del localismo e del separatismo. Questo è il sommario d'una vita che tocca ormai i 90 anni. Quale altra vita, intesa nel senso di vita pubblica sostenuta da un metodo, da un'etica e da un carattere, gli si può paragonare? Su nove presidenti della Repubblica, due (Einaudi e Ciampi) provennero dalla Banca di Italia, ma Einaudi prima ancora che banchiere centrale era un eminente studioso di scienza delle finanze, scrittore, presidente del Partito liberale. Insomma un uomo politico sia pure d'un genere molto particolare. I governatori della Banca a loro volta sono stati fino ad oggi sette a cominciare anche qui da Einaudi, ma uno soltanto di loro cominciò da impiegato e alla fine arrivò alla carica di governatore; durò 43 anni la sua carriera nella Banca e 13 anni il suo servizio pubblico nel governo e al vertice dello Stato. In tutto sono stati 56 anni da piccolo funzionario a "grand commis" della Repubblica. Senza mai aver fatto parte di un partito, di una lobby, di una loggia, d'una "arciconfraternita di potere" come la chiamò Carli in una delle sue relazioni da governatore. Salvo che, quando aveva vent'anni, Ciampi fondò a Livorno una sede del Partito d'azione. Dopo sei mesi si dimise: le idee di giustizia e libertà restarono il caposaldo della sua vita, ma i partiti non facevano per lui. Ho osservato che molte tappe di questo lungo percorso furono compiute per caso, altre per merito. Il merito e il caso, o meglio: la costanza, il talento e la fortuna. Questo è stato Carlo Azeglio Ciampi. *** Ci sono alcuni punti salienti nella sua vita che meritano di essere rivisitati. Il primo è la religione, un sentimento privato ma anche un comportamento pubblico per chi è stato al servizio dello Stato per tanti anni. Levi gli domanda notizie sulla sua educazione religiosa. Lui ricorda una nonna paterna devota e una nonna materna non credente e poi prosegue così: "Dalla quarta elementare alla fine del liceo studiai dai Gesuiti, quindi un'educazione religiosa l'ho certamente avuta, ma debbo dire che i Gesuiti non erano opprimenti. Subito dopo passai alla Normale e mi trovai in un ambiente estremamente laico, quasi ateo direi. Trovai la composizione di questa che, ripensandoci, non è una contraddizione, nella mia prassi di vita. Nell'ambiente religioso mi è stato insegnato l'amore per il prossimo. Nell'ambiente della Normale, in particolare da Guido Calogero, mi è stato insegnato il rispetto del prossimo, al quale riconosci i tuoi stessi diritti e per i quali devi combattere ancor prima che per i tuoi". E aggiunge, per spiegare meglio la sua "prassi di vita": "Quando partecipavo a cerimonie ufficiali non ho mai voluto prendere la comunione. Mi sentivo di rappresentare tutti gli italiani, quindi ho sempre evitato di comunicarmi in pubblico. Mi ricordo che una volta mi trovavo a Loreto. L'officiante era il Vescovo. Al momento della comunione fece un cenno verso di me, io feci segno di no, non è che mi nascondessi ma l'imponeva il mio ruolo". Ciampi fu molto amico di papa Wojtyla. Dalle pagine di questo libro apprendiamo che si vedevano spesso, quasi settimanalmente facevano insieme la prima colazione nell'appartamento privato del Papa e conversavano informalmente per quasi un'ora; c'erano lui, Franca e don Stanislao, l'assistente polacco del Papa. Questa abitudine durò fino a due mesi prima della morte di Wojtyla. Eppure questo non influì in nessun modo sulla concezione politico-costituzionale del presidente Ciampi, come non aveva del resto influito su Scalfaro prima e su Napolitano poi. Tre presidenti laici nonostante le loro private credenze o non credenze. Pertini li aveva preceduti in questo atteggiamento che è servito a distinguere la dignità dei vari "inquilini" che si sono susseguiti al Quirinale ed anche quelli che si sono susseguiti a Palazzo Chigi. *** Un'altra questione di grande rilievo riguarda i principi, anzi i valori che sono parte integrante di una concezione politica. Ciampi, ad un'esplicita domanda del suo interlocutore, risponde così: "Se non c'è libertà, cioè la capacità di esprimere liberamente i propri pensieri ed ascoltare liberamente i pensieri altrui, non c'è vera vita politica. Non c'è la città, la "civitas". Ma la libertà deve accompagnarsi con la giustizia sociale. Non si può essere completamente liberi quando c'è una situazione sociale iniqua, perché per poter esercitare la libertà bisogna essere liberi dal bisogno. Pensavo queste cose quando mi iscrissi al Partito d'azione, ma le penso ancor oggi a tanti anni di distanza". A questi principi si ispirò Ciampi quando da presidente del Consiglio nel 1993, all'indomani d'una gravissima crisi finanziaria che aveva messo a rischio la lira e lo stesso sistema economico nazionale, promosse la concertazione tra il governo e le parti sociali: un metodo che ha aiutato in misura determinante il governo a riportare entro limiti di normalità il valore della moneta nazionale, il disavanzo delle partite correnti e l'attività produttività e che ha funzionato egregiamente fino allo scorso 2008, quando il governo Berlusconi decise di abbandonarlo con il consenso della Confindustria e delle due confederazioni sindacali minoritarie: la Cisl e la Uil. La concertazione proposta e attuata da Ciampi nel '93 è durata 15 anni, dando risultati molto positivi. Seguiva un'idea lanciata poco tempo prima da Tarantelli, che poi fu ucciso dalle Br. L'idea era quella di costruire la politica dei salari, degli investimenti e della liquidità bancaria attorno al tasso di inflazione programmata. "Quell'accordo - scrive Ciampi - è stato fondamentale per portare la stabilità nell'economia italiana, stabilità che va strettamente collegata con la crescita". Oggi se ne parla inutilmente e restano parole vuote, slogan e chiacchiericcio. Ciampi, coadiuvato da Gino Giugni suo ministro del Lavoro, lo realizzò in pochi giorni e poi tenne ferma la barra passando il testimone ai suoi successori. *** Infine la neutralità attiva della Presidenza della Repubblica, custode della Costituzione, garante dei valori fondamentali che sono alla base del patto costituzionale, tutore dei diritti delle minoranze, del laicismo dello Stato, del pluralismo dell'informazione e dell'equilibrio dei poteri. Ad elencarli, questi compiti sembrano tessuti soltanto di parole che possono essere facilmente manipolate. In effetti è così: possono essere facilmente manipolate per far esprimere a quelle stesse parole significati e contenuti completamente opposti ai principi che le hanno ispirate. Opporsi a queste manipolazione distorsive della democrazia è appunto il compito dei grandi Presidenti della Repubblica e della Corte costituzionale che completa e corona, il sistema delle garanzie, dei diritti e dei doveri. Ciampi è stato particolarmente sensibile a questi problemi ed ha puntigliosamente difeso la vitalità - vorrei direi la sacralità - di quei principi. Lo dimostrano alcuni episodi da lui citati: la riunione del Consiglio supremo di Difesa da lui convocato all'inizio della guerra americana in Iraq, che impose al governo la formula della "partecipazione pacifica" del contingente italiano all'iniziativa di Bush, visto che la nostra Costituzione impedisce guerre offensive. Ci fu poi il messaggio al Parlamento sulla tutela del pluralismo e, in coerenza con quel messaggio, il rinvio della legge Gasparri alle Camere per manifesta incostituzionalità. Il racconto di questa vicenda, lo scontro al Quirinale col presidente del Consiglio che voleva impedire ad ogni costo il rinvio, è narrato con doveroso riserbo nel libro, ma il diario che Ciampi tenne per tutta la durata del suo impegno politico è ben altrimenti eloquente: noi abbiamo avuto modo di leggerlo e ne abbiamo riferito tempo fa su questo giornale, ma ora usciranno i quaderni del Presidente nella loro completezza e sarà un piccolo ma importante evento editoriale. Infine un altro durissimo scontro avvenne il 4 novembre 2005 a proposito della nomina dei membri della Corte costituzionale di spettanza del Capo dello Stato, sulla quale Berlusconi avanzava pretese di compartecipazione che Ciampi stroncò con durezza. Le ultime righe di questo bel libro riguardano i giovani. Le riferisco perché non c'è finale migliore. Aggiungo, che secondo me, queste pagine andrebbero lette nelle scuole a beneficio degli studenti, dei genitori e della scuola. "Ho incontrato molti ragazzi, studenti, giovani impegnati nello studio e nel lavoro. Spesso non sono soddisfatti della loro precaria condizione ma ho osservato che non cadono nel disincanto o peggio nel cinismo. Affrontano la realtà per quello che è e si preparano a cambiarla. Questo è per me il punto, il ricambio generazionale, quando questi giovani chiederanno con vigore ai loro padri: "Ora fatevi da parte". E' ciò che fece la mia generazione all'indomani della guerra. Tra molte difficoltà e incertezze dicemmo: "Ora tocca a noi". Ce la facemmo. Anche loro ce la faranno". (17 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/17/news/ciampi_le_tre_vite_del_presidente_autoritratto_di_un_servitore_dello_stato-4910575/
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« Risposta #215 inserito:: Giugno 20, 2010, 12:04:46 pm » |
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L'EDITORIALE A Pomigliano comincia l'epoca dopo Cristo di EUGENIO SCALFARI TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n'è una che è d'una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: "Io vivo nell'epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa". Il dopo Cristo per l'amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un'epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti. Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari. I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi. In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà. Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare. I sindacati che hanno firmato l'accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d'un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l'hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell'opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta. Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l'apripista d'un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo. Chi pensa di fermare l'alta marea costruendo un muro che blocchi l'oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell'opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà. Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo? * * * Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l'obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell'epoca "prima di Cristo" debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell'epoca del "dopo Cristo". Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha. Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti. Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall'emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l'inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti. Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza. Questa è a nostro avviso la linea da seguire, "buscando el levante por el ponente", cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra. * * * C'è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall'Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all'esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell'Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l'ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale. La Cina ha già risposto positivamente; l'Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata. Dal canto suo il segretario generale dell'Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell'Eurozona le seguenti domande: "Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell'Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l'entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell'occhio del ciclone?" (La Stampa del 19 scorso). Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all'interno dei paesi. Non c'è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune. * * * Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell'articolo 41 della nostra Costituzione. Quell'articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell'urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell'abusivismo di massa. Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l'abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l'intento di stravolgere l'architettura democratica del patto sociale. Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all'Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l'ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta. Siamo ancora tutti nell'occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti. (20 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/20/news/scalfari_pomigliano-4991542/?ref=HRER2-1
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« Risposta #216 inserito:: Giugno 27, 2010, 11:20:55 am » |
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IL COMMENTO Il boomerang finale dell'Aldo longobardo di EUGENIO SCALFARI Nella società tribale dei longobardi, tra il servo e l'uomo libero esisteva una categoria intermedia: quella degli "aldi". L'"aldo" era in qualche modo simile al liberto romano, ma con una notevole differenza: il liberto era uno schiavo liberato; in quanto tale aveva l'obbligo non solo morale ma addirittura giuridico di restar fedele alla "gens" cui apparteneva il suo liberatore. L'"aldo" invece non era stato beneficiario d'una vera e propria liberazione: semplicemente non era più soggetto alle limitazioni dei servi, si poteva muovere liberamente sul territorio e poteva anche svolgere affari e negozi in proprio nome, ma doveva fedeltà e obbedienza assoluta al suo padrone, assisterlo, rappresentarlo e battersi per lui e soltanto per lui. La volontà del suo padrone era la sola sua legge. Queste cose pensavo quando Aldo Brancher è asceso nei giorni scorsi agli onori della cronaca. Chi meglio di lui raffigura l'"aldo" longobardo? Chi più di lui ha rappresentato il suo padrone ed ha stipulato negozi per lui? Negozi di alta politica (snodo di collegamento tra Berlusconi e la Lega) e negozi di sordidi affari (pagamenti in nero destinati a fini di corruzione di partiti, uomini politici, dirigenti amministrativi, imprenditori)? Dalle accuse relative ad un periodo lontano, quando Berlusconi non era ancora entrato in politica e tanto più abbisognava di alleanze e coperture politico-affaristiche, Aldo Brancher si era liberato con la prescrizione raccorciata, disposta da una delle tante leggi "ad personam" volute dal Berlusconi ormai capo d'un partito e del governo, nonché con l'abolizione del reato di falso in bilancio, che gli era stato contestato dai magistrati della pubblica accusa. Del reato di appropriazione indebita per il quale è perseguito in relazione alla scalata della banca "Antonveneta" avrebbe dovuto liberarlo la nomina a ministro varata nei giorni scorsi: nelle intenzioni di Berlusconi avrebbe dovuto consentirgli di valersi del legittimo impedimento disposto pochi mesi fa da un'altra legge "personale" destinata a sottrarre il premier ed i suoi ministri dai rigori processuali in attesa del lodo Alfano già in discussione in Parlamento. Invece il caso Brancher è diventato un boomerang nei confronti di Berlusconi, del suo governo, delle sue alleanze, della compattezza della sua maggioranza; ha creato un profondo dissapore con Bossi e soprattutto con i leghisti, con Fini e soprattutto con i finiani, con un'opinione pubblica sempre più disamorata e critica. Ma principalmente un dissapore con il Quirinale. Non era ancora mai accaduto che Napolitano entrasse a piedi uniti in un dibattito costituzionale con risvolti così direttamente politici. Non era mai accaduto che la natura profondamente padronale del potere berlusconiano fosse denunciata politicamente dalla più alta autorità dello Stato con parole che non consentono interpretazioni di sorta. Ora il "boomerang" ha compiuto la sua traiettoria ed ha colpito non tanto Brancher quanto il suo padrone di cui da 25 anni è l'"aldo". La situazione di crisi che si è aperta è forse la più grave fin qui vissuta dal berlusconismo. Per le ragioni che l'hanno provocata. Per il momento in cui avviene. Per le sue possibili conseguenze sulle crepe sempre più vistose di quello che è stato finora un blocco sociale e politico e che rischia adesso di andare in pezzi molto prima del previsto. * * * Travolto dalle accuse (non solo dell'opposizione, ma anche dei suoi alleati), alla fine il neo ministro ha dovuto gettare la spugna, rinunciando allo scudo che il Cavaliere gli aveva regalato. Era il minimo che ci si potesse aspettare dopo il richiamo del Quirinale, imprudentemente attaccato da solerti portabandiera del Pdl. Il presidente della Repubblica non poteva esimersi dall'esternazione pubblica del suo pensiero avvenuta venerdì scorso. Aveva firmato da pochi giorni la nomina di Brancher a ministro senza portafoglio ricevendone il giuramento; aveva chiesto e ricevuto dal presidente del Consiglio le motivazioni che rendevano necessaria (a suo dire) quella nomina per ragioni funzionali. Non era entrato nel merito di esse. Non gli spettava, riposavano sulla valutazione politica del premier che Napolitano ritiene gli sia preclusa, dando semmai al proprio ruolo una configurazione restrittiva. Ovviamente aveva volutamente escluso che la nomina in questione fosse dovuta a ragioni diverse dalla "funzionalità del governo" invocata dal presidente del Consiglio. Ma a mettere in dubbio quella motivazione erano intervenuti nel frattempo tre fatti: l'infastidita sorpresa di Bossi per quella nomina, manifestata al Quirinale direttamente dal ministro delle Riforme; il cambiamento della delega a Brancher, da ministro addetto all'attuazione del federalismo ad altra mansione tuttora non precisata e quindi non ancora pubblicata in "Gazzetta ufficiale"; infine (e più grave di tutti) la decisione di Brancher di sottrarsi immediatamente all'udienza del processo che lo vede indagato per appropriazione indebita e la richiesta di spostare la prossima data processuale ad ottobre, sulla base del legittimo impedimento. Di fronte a tre fatti di questa portata era tecnicamente impossibile che il Quirinale restasse silenzioso e non definisse con esattezza la posizione di un ministro senza portafoglio di fronte alle scadenze processuali che lo riguardano. È ciò che ha fatto Napolitano con un'asciuttezza di linguaggio che fa parte dei suoi poteri - doveri di custode della Costituzione. * * * Il caso Brancher nella sua esemplarità ci porta ad alzare lo sguardo sul panorama generale che configura il nostro paese. È un quadro niente affatto consolante perché al declino, in sé auspicabile e salutare, d'un blocco di interessi e di potere che controlla e manipola la nostra società ormai da oltre vent'anni, si aggiunge la fine di un'epoca che è sempre solcata - quando avviene - da lampi e tuoni e raffiche e terremoti e marosi che sconvolgono culture e istituzioni, comportamenti e consuetudini, senza ancora essere in grado di proporne di nuovi, guidati da nuovi ideali e fresche speranze. Ho scritto domenica scorsa del "dopo - Cristo" di Pomigliano e della legge dei vasi comunicanti che opera in un'economia globale percorsa da paurosi dislivelli tra opulenza e povertà. Ed ho osservato che quei dislivelli esistono non soltanto tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche all'interno dei paesi ricchi, da un confronto sempre meno accettabile tra sacche di povertà e di mediocre e precaria sostenibilità e fasce di antica opulenza e privilegiati benefici. Sempre più urgentemente si pone dunque il problema di governare la crisi anche attraverso una redistribuzione del reddito che sia spiegata al pubblico non certo come frutto d'invidia sociale ma come appello all'equità dei sacrifici e alla loro ineluttabilità in una prospettiva più dinamica e più coesa. Questo è il futuro della sinistra italiana, dei cattolici democratici e del liberalismo laico: libertà e giustizia, coesione sociale, efficienza da offrire e da reclamare. Io non credo che questa legislatura terminerà il suo corso come previsto nel 2013. Credo che Berlusconi senta il crescente scricchiolio del sistema di potere da lui costruito. Lo senta e ne sia angosciato, ma anche intestardito nel difenderlo con tutti i mezzi. Sente anche che il solo modo di protrarne l'agonia sia il ricorso alle urne prima che lo scricchiolio divenga schianto. La data probabile è a cavallo tra 2011 e 2012 e comunque al più presto possibile, quando l'informazione sarà stata totalmente blindata e solidamente nelle sue mani, la magistratura umiliata e asservita, le istituzioni di garanzia depauperate. Il prossimo autunno e l'inverno che seguirà saranno perciò teatro di questi scontri. Come ha scritto Ezio Mauro nel suo intervento di mercoledì scorso, è inutile scommettere sul meno peggio. Non ci sarà un meno peggio perché è il principale interlocutore a non volerlo. Il meno peggio passa necessariamente dalla sua personale uscita dal campo ma questa ipotesi non rientra nella sua natura. Chi lo conosce lo sa: il "meno male che Silvio c'è" è l'essenza d'un carattere che ha evocato gli istinti profondi d'una società desiderosa di lasciare in altre mani il governo di se stessa, fino a quando non sentirà di nuovo l'orgoglio di riappropriarsi del proprio futuro. Nei prossimi mesi sarà dunque questo il terreno di scontro e di confronto e dovrà esser questo il linguaggio che bisognerà parlare per essere ascoltati, compresi e incoraggiati. Non bastasse il resto, anche le vicende del calcio nazionale ne hanno fornito un'eloquente conferma. Dai naufragi speriamo che sorga una nuova e creatrice allegria. (27 giugno 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/06/27/news/scalfari_27_giugno-5186278/?ref=HREA-1
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« Risposta #217 inserito:: Luglio 04, 2010, 06:20:54 pm » |
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IL COMMENTO Quel buco nero del quale non si parla di EUGENIO SCALFARI NONOSTANTE il "ghe pensi mi" detto da Berlusconi nella sua doppia dichiarazione al Tg1 e al Tg5 dell'altro ieri, è sensazione generale che il blocco politico di centrodestra si stia sfaldando. I segnali più chiari vengono addirittura dalla Lega: Bossi solidarizza con il severo monito di Napolitano concernente la legge sulle intercettazioni e ha posto solidi paletti contro l'ipotesi d'uno scioglimento anticipato delle Camere. Fini dal canto suo ha confermato che quella legge, per come è uscita dopo il voto di fiducia al Senato, non è accettabile. Casini nell'intervista data oggi al nostro giornale respinge i pressanti inviti che gli vengono rivolti per rientrare nello schieramento di centrodestra. Infine cresce il livello dello scontro sulla manovra economica tra le Regioni e il ministro dell'Economia. Giulio Tremonti ha deciso di aumentare l'Irap per tutte le Regioni meridionali che hanno un bilancio della sanità in sfacelo, ma usare proprio l'Irap per ripianare quel buco nero avrebbe un effetto dirompente sul costo del lavoro proprio in quei territori in cui la disoccupazione e in particolare quella giovanile è già arrivata a livelli insostenibili. E qui i durissimi interventi critici della Marcegaglia e di tutta la Confindustria. Tutto ciò avviene a pochi giorni di distanza dalla sentenza di condanna a sette anni di reclusione di Marcello Dell'Utri per associazione mafiosa. La gravità politica di quella sentenza è stata rapidamente archiviata, eppure essa ha rivelato un retroterra impossibile da sottacere. Perciò sarà proprio questo l'oggetto delle mie odierne riflessioni. * * * Io non credo che quella parte della sentenza della Corte d'appello di Palermo che ha messo Dell'Utri fuori causa per quanto riguarda le stragi del 1992-93 sarà ribaltata da altri tribunali e da altre investigazioni. So bene che sono al lavoro da diversi ma convergenti punti di vista il tribunale di Caltanissetta, quello di Firenze e la stessa Procura di Palermo; è al lavoro la Commissione antimafia presieduta dal senatore Pisanu; indagano reparti specializzati di Carabinieri e Guardia di finanza ed anche giornalisti capaci e dotati di memoria storica e di collaudate relazioni informative. Ma non credo che questo lavoro sboccherà in una accertata verità giudiziaria. Bisognerebbe poter disporre di documenti e di testimonianze coperti da segreto, sprofondati in qualche fossa e in qualche buco nero talmente profondi da precludere un risultato giudiziariamente inoppugnabile. Può darsi naturalmente che questa mia previsione si riveli sbagliata. Come cittadino non so se augurarmelo o temerlo. Ma mi sono convinto dopo attenta riflessione che la sentenza della Corte d'appello di Palermo che ha condannato Dell'Utri sia comunque arrivata all'accertamento d'una terribile verità, trasformando ciò che era una ipotesi in una certezza giudiziaria che accomuna, attraverso la mediazione di Dell'Utri ma non soltanto, la Cupola di Cosa Nostra e Silvio Berlusconi per un periodo di vent'anni, un arco di tempo che abbraccia l'intera carriera imprenditoriale del "signore" di Arcore, la nascita del suo successo nel settore immobiliare, poi in quello televisivo, poi in quello commerciale, da Milano 2 fino a Fininvest, senza soluzione di continuità. Vale ovviamente per Dell'Utri e quindi per l'intera fattispecie giudiziaria la presunzione di innocenza ancora in piedi in attesa del giudizio della Cassazione. Il quale tuttavia riguarderà soltanto questioni di legittimità e non di merito. Non si può escludere l'ipotesi che la Suprema Corte - come è nei suoi poteri - ravvisi errori di legittimità che affidino ad un'altra Corte d'appello il compito di un nuovo giudizio. Tutto ciò è ancora possibile. Ma allo stato dei fatti una prima certezza sul merito è stata acquisita e confermata in due gradi di giurisdizione con dovizia di testimonianze e riscontri. Quanto a Berlusconi, che nel processo di Palermo ha rifiutato di rispondere nonostante fosse citato come semplice testimone, non è mai riuscito a fornire una credibile spiegazione alternativa ai finanziamenti con i quali intraprese la sua scalata imprenditoriale. La presenza di capitale riciclato di origine mafiosa, il ruolo della Banca Rasini, dotata di un unico sportello a Milano ma di solidi agganci con società-fantasma situate a Lugano e in altri paradisi fiscali, la nebulosa mai chiarita delle ventisei società fiduciarie che si spartirono le quote di Fininvest, infine la presenza di personaggi mafiosi nel più intimo "entourage" berlusconiano, sono fatti sui quali la sentenza di Palermo ha fornito una concretezza di tale solidità e coerenza che dovrebbero provocare un dibattito politico e storico di amplissime dimensioni. Al centro di questo dibattito c'è il ruolo di Marcello Dell'Utri. Ruolo finanziario, organizzativo, politico, a fianco di Silvio Berlusconi dai primi anni Settanta fino ad oggi. Giuseppe D'Avanzo nel suo articolo di martedì scorso di commento alla sentenza di Palermo ha ricordato quali sono stati i due angeli custodi di Berlusconi lungo tutto quel periodo: Cesare Previti e appunto Marcello Dell'Utri. Il primo condannato con sentenza definitiva per corruzione di magistrato, il secondo colpito ora in appello per associazione mafiosa. Entrambi gli angeli custodi e le condanne che li riguardano coprono un periodo che precede l'ingresso in politica di Berlusconi: fatti antichi che hanno tuttavia costituito la premessa necessaria anche se non sufficiente del successo politico berlusconiano. Questo è il tema del dibattito che tuttavia stenta ad avviarsi. Perché? Qual è l'elemento frenante che spinge su un binario morto un tema essenziale per comprendere quanto è accaduto in Italia nel corso di un ventennio che ha gettato le basi della situazione politica tuttora in corso? * * * Questa domanda ci porta direttamente al cuore dell'azione di governo di questi due anni: l'occupazione completa della Rai, la legge bavaglio sulla stampa, la messa sotto accusa della magistratura e la riforma che approderà nei prossimi giorni in Parlamento, gli insulti quotidiani contro la Corte Costituzionale degradata ad organo fazioso e politicizzato, l'intento di abolire l'obbligatorietà dell'azione penale trasformando di fatto i magistrati della pubblica accusa in funzionari del governo. Questa politica ha un senso e una lucida coerenza se la si mette in rapporto con i vent'anni che precedono l'ingresso dell'imprenditore Berlusconi nell'agone politico. Il controllo della Rai e la legge bavaglio servono a impedire che il pubblico sia informato di quanto realmente è accaduto e accade. Per sviare l'attenzione del pubblico si usa un diversivo: quello di contrapporre all'articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di stampa l'articolo 15 che tutela la privatezza delle persone: due principi che potrebbero facilmente integrarsi e che vengono invece contrapposti affinché il secondo prevalga sul primo o almeno lo elida. Basterebbe infatti, come più volte abbiamo proposto, affidare ad un collegio di magistrati l'esame preliminare delle intercettazioni eliminando quelle che riguardano soggetti estranei ai reati perseguiti e occasionalmente ascoltati. Basterebbe questa semplice e doverosa cautela per risolvere la questione, lasciando tutto il resto inalterato. Ma non è questo che vuole il potere berlusconiano ed è stupefacente vedere l'avallo che gli viene dato su questo delicatissimo tema da intellettuali che si professano liberali mentre offrono le loro firme per un'operazione palesemente liberticida. L'altro punto cruciale riguarda il progetto di abolire l'obbligatorietà dell'azione penale. Ricordate il film Z-L'orgia del potere che raccontò il regime dei colonnelli greci? Uno dei protagonisti di quel film era un giudice istruttore decisamente apolitico ed anzi di idee conservatrici, il quale scoprì le malefatte della "cricca" dei colonnelli e non ebbe tregua fino a quando non accertò la verità. Ne parlò anche Paolo Barile per sostenere la necessità dell'azione penale obbligatoria, unica vera salvaguardia dell'indipendenza del pubblico ministero: "Senza l'obbligatorietà, il pubblico ministero cessa di essere un magistrato indipendente e diventa un semplice funzionario al servizio del governo o, nel migliore dei casi, del Parlamento". La dipendenza dal Parlamento era ipotizzata da Barile come un'ipotesi accettabile, se i deputati fossero stati eletti dal popolo. Ma non lo sono. La legge elettorale "porcellum" affida al governo in via esclusiva la scelta dei candidati, inseriti in liste bloccate. Ogni tentativo da parte delle opposizioni di modificare quella legge è fin qui caduto nel nulla. Questo significa che il potere esecutivo ha smantellato completamente l'autonomia del potere legislativo e le sue funzioni di controllo. Il Parlamento è ormai ridotto ad una camera di registrazione dei voleri del principe. Come se non bastasse una maggioranza clonata, si aggiunge la decretazione d'urgenza ormai diventata normalità e il potere di ordinanza che sfugge perfino al vaglio del presidente della Repubblica. * * * La conclusione è questa: quando un imprenditore che ha subìto fin dall'inizio della sua carriera un condizionamento e una soggezione mafiosa durata almeno vent'anni, conquista il potere, il suo obiettivo non può essere altroché quello di blindarlo, affievolendo tutti i contropoteri di garanzia e di libera informazione, asservendo il Parlamento attraverso una legge elettorale vergognosa, smontando l'indipendenza della magistratura, intimidendo la Corte Costituzionale, infine degradando la pubblica accusa retrocedendola dal ruolo giurisdizionale a quello di un'avvocatura che opera su commissione. Questo è il quadro. La sentenza di condanna di Marcello Dell'Utri ne illustra le premesse e ne spiega la logica evoluzione. Per fortuna c'è ancora qualche giudice, c'è ancora un'opposizione, c'è ancora qualche giornale ad impedire che la democrazia si spenga sotto una cappa di piombo. E c'è un presidente della Repubblica che fa fino in fondo quello che deve fare. Gli elementi per combattere una buona battaglia ci sono dunque tutti. (04 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/07/04/news/quel_buco_nero_del_quale_non_si_parla-5372057/?ref=HREA-1
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« Risposta #218 inserito:: Luglio 07, 2010, 05:10:46 pm » |
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Gli italiani: un popolo o una folla? di Eugenio Scalfari Siamo una nazione che da sempre tende all'emotività, agli istinti, all'irrazionalità, alla piazza. Quindi facilmente manipolabile da un capo carismatico che punta al consenso plebiscitario (06 luglio 2010) Una adunata oceanica in piazza Venezia ai tempi del Duce Una 'adunata oceanica' in piazza Venezia ai tempi del DuceSi fa un gran discutere sul tema dell'identità. La ricorrenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia ha rinfocolato l'argomento, ma esso teneva banco già da un pezzo. Chi erano allora e chi sono oggi gli italiani? È vero - come dicevano D'Annunzio e Mussolini - che sono una razza di navigatori, di guerrieri, di artisti, di santi? O invece - come pensano molti stranieri - di mandolinisti, di mangiatori di maccheroni, di furbi, di mafiosi e di vigliacchi? E più in generale, si può cercare e scoprire l'identità di un popolo, d'una nazione, d'una collettività? Oppure l'identità è un concetto valido per gli individui ma del tutto inappropriato per una moltitudine di soggetti? Esiste un Io collettivo oltreché un Io individuale? Sono domande alle quali è arduo rispondere. Ci ha provato tra gli altri Sigmund Freud; al fondatore della psicoanalisi bisogna riconoscere una competenza specifica in materia di identità, cominciò infatti curandone i disturbi e poi si pose anche lui il problema dell'identità delle masse e ne descrisse alcuni tratti. C'è tuttavia un punto fermo che distingue in modo radicale l'Io individuale dall'Io di una massa: la struttura psico-fisica d'un individuo poggia principalmente sul suo Dna, mentre una massa non ha alcun Dna che ne presidi l'identità. Naturalmente ci sono anche altri fattori che entrano in gioco: l'educazione, la memoria, la società, il costume, le consuetudini, il linguaggio, la cultura, la religione. Perfino il colore della pelle. Perfino il clima. Questi fattori agiscono sia sugli individui sia sulle masse, ma il Dna opera soltanto sui primi e non sulle seconde e non è piccola differenza. Significa che l'identità d'un individuo ha una stabilità molto maggiore di un'identità collettiva, la quale può cambiare assai più rapidamente e spesso addirittura capovolgersi nel suo contrario nello spazio di pochi mesi. L'emotività esercita sulle masse e quindi su una società massificata un ruolo molto rilevante con la conseguenza che gli individui massificati cedono molto più facilmente agli stimoli emotivi che a quelli razionali. Siamo ancora in un'analisi di prima approssimazione. Se vogliamo inoltrarci in questo percorso dobbiamo cominciare a distinguere le varie tipologie che può assumere una massa di persone. Direi che l'identità più stabile la si trova nelle comunità, cioè in un gruppo di persone che fanno vita comune e sono legate da una comune cultura, da una comune religione, da una comune convinzione del bene collettivo. Le comunità cristiane, ebraiche, islamiche, buddiste, taoiste, possiedono un'identità molto stabilizzata. Ma anche gli anarchici, i comunisti e in generale quelli che si identificano con un'ideologia che sfiori l'utopia, sono tenuti insieme da vincoli profondi la cui eventuale rottura determina traumi gravi in chi decide di spezzare quei vincoli. Metterei tra queste comunità anche la famiglia, che è dotata di un'identità molto precisa; si tratta però d'una micro-identità inserita in comunità più vasta sicché i traumi e le rotture a livello familiare sono molto più frequenti. All'estremo opposto di questa classifica massificativa c'è la folla. Si tratta d'una massa occasionale che si forma per cause esterne: un evento, una presenza casuale in un luogo, una convocazione, una celebrazione, il discorso di un Capo. La psicologia della folla è stata attentamente esaminata e il risultato è concorde: la folla è dominata dall'emotività degli istinti, esprime pulsioni inconsce, è facilmente manipolabile da chi possiede la capacità e gli strumenti per farlo. L'emotività della folla può esprimere forme di consenso plebiscitario oppure, all'opposto, forme distruttive e criminogene come il linciaggio d'un presunto colpevole e varie forme di giustizia sommaria. Spesso i regimi autoritari poggiano sulle folle, sistematicamente preparate e manipolate. Gli stessi individui che solitamente esprimono giudizi di buonsenso, una volta assembrati in una folla smarriscono spesso quel buonsenso e vengono con facilità assimilati dal senso comune. La piazza rappresenta l'immagine dei regimi autoritari. La chiamano democrazia ma ne costituisce invece il polo opposto. © Riproduzione riservata http://espresso.repubblica.it/dettaglio/gli-italiani:-un-popolo-o-una-folla/2130128/18
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« Risposta #219 inserito:: Luglio 11, 2010, 06:14:12 pm » |
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L'EDITORIALE La cena di Vespa per sedurre Casini di EUGENIO SCALFARI LE DOMENICHE di afa e di solleone incitano al raccoglimento e a pensieri non degradati dall'attualità. Emerge per esempio - ed è inconsueta la fonte dalla quale provengono questi segnali - un sentimento d'infelicità, una noia di vivere tra immagini false e verità mascherate, il senso d'un declino inarrestabile, la necessità di ricominciare da zero abbandonando ogni retaggio lungo una strada erta di sassi e opaca per la polvere che la sommerge. Le fonti che emettono questi segnali sono inconsuete perché fino a poco tempo fa essi erano del tutto diversi: si esaltavano conquiste di buon governo, prevalenza di spiriti liberali, dominanza d'un privato efficiente e sano e un lodevole ritrarsi d'un pubblico ancora inquinato da ideologie e impoverito da sprechi e ruberie. Sembrava - e così veniva fatto credere - che fossimo finalmente entrati in una fase costruttiva della quale perfino una rinata fede religiosa contribuiva a rafforzare i lineamenti e gli obiettivi fornendo un plus di valori ad una buona laicità capace di coniugare la fede con la ragione. Come mai, nel volger di pochi mesi e addirittura di poche settimane questo quadro positivo ha lasciato il posto allo sconforto? Perché le tinte rosee che lo illuminavano hanno di colpo assunto colori foschi dominati da nubi plumbee cariche di pioggia e di fulmini? Viene in mente che la causa possa essere di materia economica, la crisi che ha investito l'intero pianeta e in particolare le economie occidentali dei paesi opulenti. Ma non è così, non è questa l'origine dei segnali di sconforto: la crisi infatti è cominciata da oltre due anni e secondo gli esperti ha superato la fase più acuta; anche se molte preoccupazioni persistono, esse non spiegano quel sentimento di frustrazione che si va diffondendo e che molti "laudatores" delle nuove libertà registrano con sconsolato scoramento. Personalmente non mi stupisco di questo capovolgimento di atmosfera, di questa caduta di speranze e opacità di futuro. Ho scritto un libro in cui si racconta la storia di un'epoca che ha alle sue spalle quattro secoli ed ora dà segnali di estenuazione. Può darsi che non sia il solo ad aver colto il gran finale della modernità, che ha rappresentato il culmine della civiltà occidentale ed ora si decompone di fronte ad una sorta d'invasione barbarica che azzera i retaggi e inventa nuovi linguaggi e nuovi modelli. La modernità ha dato ciò che poteva ma non si è ancora spenta: sta difendendo i suoi valori che i nuovi barbari imbrattano e insultano. Può darsi - me lo auguro - che alcuni intellettuali organici a quel nuovo e barbaro potere si siano resi conto della deriva in corso e siano diventati disorganici, secondo una felice definizione di Umberto Eco. Sarebbe un evento fausto. Spero che non sia un vago miraggio destinato rapidamente a dissipare. * * * L'attualità di queste ore ci riporta alle consuete banalità di un potere che si disarticola giorno dopo giorno: all'indomani d'uno sciopero di tutto il sistema dell'informazione che ha risposto massicciamente all'appello dei suoi sindacati e della propria coscienza professionale, il presidente del Consiglio non ha trovato di meglio che accusare i giornali di sinistra di menzogna e disfattismo perché racconterebbero un'immagine del paese che sarebbe secondo lui l'opposto di una realtà positiva, stabilizzata economicamente e socialmente equa. Nelle stesse ore i sondaggi d'opinione hanno registrato - confrontando i dati della prima settimana di maggio con la prima di luglio - un calo di fiducia nel "premier" dal 50 al 41 per cento e un aumento della sfiducia dal 48 al 57. I sondaggi sono una fotografia del presente e nulla ci dicono su come evolverà, ma non accadeva da anni uno smottamento così cospicuo del consenso berlusconiano. La caduta più vistosa si è verificata nel Nordest, nel Mezzogiorno continentale e nelle isole (specialmente in Sardegna). Il caso Brancher è stato l'elemento determinante insieme alla manovra economica e alla legge-bavaglio sull'informazione. Lo scrittore Salman Rushdie, in un articolo di lunedì scorso sul nostro giornale, a proposito delle contraddizioni che costellano il nostro presente cita il romanzo "Gold!" di Joseph Heller e il personaggio dell'Assistente presidenziale che pronuncia frasi la cui fine contraddice sistematicamente l'inizio. Eccone una: "Il nostro Presidente non vuole dei leccapiedi. Ciò che vogliamo sono uomini indipendenti e integri che, una volta che avremo preso le nostre decisioni, concorderanno con ognuna di esse". Purtroppo siamo abituati a questa tecnica dell'imbonimento sotto la quale non c'è assolutamente nulla. * * * La manovra economica è stata un altro macroscopico esempio della disarticolazione del blocco di consenso berlusconiano. Fino all'ultimo il presidente del Consiglio ha cercato di disinnescare le mine che scuotevano il dissenso nelle sue file. Ha ottenuto poco o niente: briciole di piccoli miglioramenti lobbistici che hanno appagato piccole categorie (rinvio delle multe sul latte, compensazione tra debiti e crediti verso il fisco in favore di alcuni settori industriali) senza alcun piano coerente. La coerenza è così rimasta quella di Tremonti che ha ormai portato in salvo la sua manovra da 25 miliardi invocando l'Europa come madre di queste restrizioni che tutti i paesi membri hanno adottato e che Berlusconi alla fine ha dovuto sottoscrivere. Il problema non è se la manovra tremontiana dovesse farsi oppure no. Abbiamo più volte scritto e qui lo ripetiamo che la manovra che ha come obiettivo la stabilizzazione del debito pubblico era necessaria. I criteri possono essere controversi ma l'aggiustamento sui Ministeri e sulle Regioni era indispensabile. Il problema riguarda la seconda parte della manovra, quella che non è mai stata scritta perché Tremonti, sostenuto dalla Commissione di Bruxelles e soprattutto da Bce e dal suo presidente Trichet, si è rifiutato di prenderla in considerazione: cioè gli stimoli alla crescita e il sostegno della domanda, dei redditi medio bassi e degli investimenti che ne conseguono. Paul Krugman, premio Nobel per l'Economia, ha ricordato in una recente intervista al Sole 24 Ore che nel 1933 l'allora presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, lanciava messaggi in tutto simili a quelli che oggi lanciano la Commissione di Bruxelles, la Banca centrale europea e il governo della Germania federale: rigore rigore rigore, è questa la sola ricetta che scoraggia la speculazione e farà aumentare la domanda quando gli effetti di stabilizzazione saranno consolidati. Quando Franklin D. Roosevelt arrivò alla Casa Bianca pochi mesi dopo l'economia americana era alla canna del gas. Avesse tardato ancora a mettere in opera la reflazione, il sistema sarebbe crollato ancor più di quanto stava avvenendo, con una crisi che ancora non era stata domata nel 1937, cioè otto anni dopo il suo primo insorgere. Tremonti si ripara dietro le spalle dell'Europa, Berlusconi non ha alcun piano alternativo da contrapporgli poiché ha le mani legate dal suo "mantra" di non toccare le tasse. Mantra già smentito dai fatti poiché per tacitare almeno i Comuni e le Province Tremonti ha concesso la "tassa di servizio", nuova imposta di cui gli enti locali si serviranno per sopravvivere e che gli procurerà 5 miliardi l'anno. Ecco il primo buco nelle tasche degli italiani, cui altri inevitabilmente seguiranno, purtroppo senza sortire effetto desiderabile di rilanciare la crescita. Ci vorrebbe infatti un programma coerente, non uno stillicidio lobbistico. L'opposizione ha promesso che lo sta studiando. Si sbrighi e poi lo ponga come base di una politica forte e innovativa. Il tempo non aspetta. * * * Nel frattempo c'è anche chi trova il tempo per festeggiare in pompa magna il cinquantenario giornalistico di Bruno Vespa. Cena giovedì scorso nell'abitazione del conduttore - padrone di "Porta a Porta" ospiti con le rispettive consorti: Gianni Letta, Mario Draghi, Cesare Geronzi e Pier Ferdinando Casini; Silvio Berlusconi con la figlia Marina e il cardinale segretario di Stato, Bertone, ovviamente celibe. Sembra si sia parlato di tutto, manovra economica compresa. Forse anche dei Mondiali di calcio e della non brillante performance degli "azzurri". Forse di intercettazioni. Sicuramente dell'invito a "Pier" di tornare a casa, cioè nell'alleanza di centrodestra. Berlusconi gli avrebbe proposto di rifondare la Dc, gli avrebbe offerto il ministero dello Sviluppo, forse quello degli Esteri, sicuramente la vicepresidenza del Csm. Casini avrebbe ringraziato ma declinato, a meno che non si passi attraverso una formale crisi di governo. Letta ha concluso che tutto è rinviato ma qualche cosa è cominciato. Mentre scrivo mi arriva sul tavolo un'Ansa con un comunicato ufficiale del ministro dell'Interno, Bobo Maroni. Con riferimento appunto alla cena di Vespa, Maroni accusa la classe politica d'esser tornata ai salotti del 1992, aggiunge che qualunque ritorno al governo dell'Udc provocherebbe l'immediata uscita dal medesimo della Lega e comunica che in caso di crisi ministeriale la Lega chiederebbe l'immediato ritorno del popolo sovrano alle urne. Una specie di convitato di pietra che si è fatto vivo con ventiquattr'ore di ritardo per stabilire chi è il padrone del vapore in questo momento. Non si hanno altre notizie su quella cena, soprattutto sul ruolo di Draghi, Geronzi e Bertone nella conversazione. Si strologa. Che altro si può fare? Geronzi si è complimentato con Draghi per il suo lavoro allo Stability Financial Forum. Draghi con Bertone per l'efficienza del volontariato cattolico. Bertone con Marina per le opere di assistenza da lei finanziate. Casini ha chiesto notizie a Marina sulla causa in corso con De Benedetti per il risarcimento del danno subito dalla Cir per il lodo Mondadori. Berlusconi ha pestato un piede alla figlia e le ha fatto gli occhiacci affinché lasciasse cadere la domanda. Marina non ha capito e ha fatto cadere in terra il tovagliolo. Bertone s'è inchinato per raccoglierlo ma ha dato una testata al bordo del tavolo. Letta ha pregato la padrona di casa di portare ghiaccio e bende di lino per la fronte del porporato. Vespa ha versato champagne nei calici, il premier ha gridato Viva Vespa, ricordando il Viva Verdi che infiammava le riunioni dei cospiratori giacobini del Risorgimento. Vespa ha obiettato che i presenti non erano né cospiratori né tanto meno giacobini. Alla fine sono tutti usciti da un portoncino laterale su piazza Mignanelli. Notte afosa. Nuvole di zanzare intorno alla fontana della Barcaccia. La macchina nera targata Vaticano ha sgommato verso il Babuino. Un ragazzotto in maglietta ha detto ad un altro che era con lui: "Aò, là drento c'era 'n cardinale. Chissà 'n do va a quest'ora". "Ma che te frega a te" ha risposto l'altro. "Annerà a pregà per i peccati der prossimo e pe li sua". [I fatti qui riferiti sono di pura fantasia. Ogni riferimento è puramente casuale]. (11 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/07/11/news/la_cena_di_vespa_per_sedurre_casini-5508353/?ref=HREA-1
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« Risposta #220 inserito:: Luglio 25, 2010, 12:27:15 pm » |
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FIAT La vera storia del caso Marchionne di EUGENIO SCALFARI ROMA - Fa piacere a tutti quelli che fanno il mio mestiere poter dire ogni tanto: "l'avevo scritto prima di tutti" anche se molte volte ci sbagliamo nelle previsioni e nei giudizi. E allora: quando Marchionne annunciò che la Fiat aveva conquistato il controllo della Chrysler, gran parte della stampa magnificò quell'operazione come un'offensiva in grande stile della società torinese per proporsi come uno dei quattro o cinque gruppi automobilistici mondiali che sarebbero sopravvissuti nell'economia globale. Io scrissi invece che l'operazione di Marchionne era puramente difensiva. La Fiat stava affondando; aggrappata alla Chrysler sarebbe sopravvissuta, sia pure con connotati industriali e territoriali completamente diversi. Ma perché proprio la Chrysler e non invece la Peugeot e magari la General Motors che sembrava anch'essa sull'orlo del disastro? La Peugeot non si poneva il problema di sopravvivenza planetaria e non stava affatto affondando; quanto alla GM, aveva un programma di rilancio che infatti è andato a buon fine con l'aiuto dei fondi messi a sua disposizione dal governo Usa. Chrysler era completamente decotta e il governo americano non l'avrebbe rifinanziata, l'avrebbe lasciata fallire. L'arrivo della Fiat e del piano industriale di Marchionne la salvò, Obama decise il rifinanziamento e in questo modo tenne a galla Chrysler e indirettamente la stessa Fiat. Il capolavoro di Marchionne è stato questo. Ma poi arrivarono allo stesso pettine altri nodi. Massimo Giannini, trattando ieri questo stesso tema, ha scritto che la questione di Pomigliano è stata una "provocazione" di Marchionne per saggiare la risposta dei sindacati. L'errore dei sindacati (Cisl e Uil) - ha scritto - è stato di pensare che la provocazione riguardasse soltanto Pomigliano; invece no, riguardava l'assetto di tutto il gruppo Fiat a cominciare dal Lingotto. In effetti è così. È vero che nell'accordo firmato con Cisl e Uil la Fiat ha preso l'impegno che le nuove regole non saranno applicabili in nessuno degli altri suoi stabilimenti in Italia; Marchionne infatti non ne applicherà ma semplicemente trasferirà in Serbia l'attuale lavoro previsto per Mirafiori. Ma perché in Serbia? La differenza di costo salariale tra la Serbia e Torino è molto forte ma la componente salariale non pesa più dell'8 per cento sul prodotto finale. La ragione del trasferimento dunque non è questa; la ragione sta nel fatto che lo stabilimento Fiat in Serbia sarà pagato per tre quarti dall'Unione europea e per il resto da incentivi fiscali del governo di Belgrado. Quello stabilimento non costa nulla alla Fiat; per di più la sua gestione è vantaggiosa e genera utili. Perché Marchionne dovrebbe rinunciarvi? Quanto al governo italiano, non ha assolutamente nulla da dare alla Fiat. L'azionista della società torinese non ha soldi per nuovi investimenti automobilistici; tanto meno ne ha il governo Berlusconi-Tremonti. Quindi liberi tutti, checché ne pensino Chiamparino e la Regione Piemonte a guida leghista. Bossi vuole il federalismo, della Fiat non gliene frega niente. Il tavolo aperto dal ministro Sacconi per mercoledì prossimo si limiterà ad auspicare qualche dettaglio; sotto l'auspicio niente. Tutto questo era prevedibile ed infatti era stato previsto. Come era stata prevista la mossa fondamentale di scorporare l'automobile dalla Fiat e quindi dal gruppo Agnelli. In gergo borsistico quest'operazione è stata chiamata "spin off", un termine che richiama in qualche modo lo "spinnaker", la vela di prua che viene alzata quando il vento soffia da poppa. Se quel vento è forte la barca vola sulle onde. Infatti la Borsa ha accolto con molto favore lo scorporo. Il significato strategico è chiaro a tutti: gli azionisti del gruppo e "in primis" la famiglia Agnelli, vogliono disfarsi dell'automobile. Lo "spin off" serve appunto a questo: predisporre la vendita dell'automobile ex Fiat a chi vorrà comprarlo. Nel frattempo preparare la fusione con la Chrysler. La Fiat resta a Torino, ma senza più l'auto. Questa è la prospettiva del futuro prossimo. Fin qui abbiamo considerato la questione Fiat misurandola su tre dimensioni successive: Pomigliano, Lingotto, scorporo dell'auto. Ma c'è una quarta dimensione ancora più importante e ancora più globale. Ne scrissi due mesi fa e non l'ho chiamata "provocazione" ma "apripista". Il caso Pomigliano cioè, e ciò che ne sta seguendo, funziona da caso "apripista" per un'infinità di operazioni analoghe che possono coinvolgere l'intero apparato industriale italiano, soprattutto quello delle imprese medio-piccole e piccole, quelle che occupano tra i 300 e i 20 dipendenti e che rappresentano il vero ed unico tessuto industriale italiano soprattutto nel nord della Lombardia, nel Triveneto, nell'Emilia-Romagna, nelle Marche, in Puglia, in Campania, nel Lazio. Queste imprese esportano nell'euro e fuori dall'euro. Avevano registrato una grave crisi nel 2007-2008, poi si sono riprese, aiutate dalla svalutazione dell'euro, dal lavoro nero e precario e dal lassismo fiscale. Non sappiamo quanto reggeranno all'"austerity" di Tremonti e alla ripresa dell'euro nei confronti del dollaro. Il rischio è che adottino anch'esse la delocalizzazione di cui Pomigliano ha funzionato come apripista. Nelle imprese medio-piccole e piccole il sindacato è molto più debole che nelle grandi e grandissime. Quindi il problema non è di disciplinare il sindacato, ma di disciplinare direttamente i dipendenti. La minaccia della delocalizzazione servirà a questo e sarà estremamente difficile resistervi. Andiamo dunque verso un rapido azzeramento delle conquiste sindacali e dell'economia sociale di mercato degli anni Sessanta fino all'inizio di questo secolo? Io temo di sì. Temo che la direzione di marcia sia proprio quella ed ho cercato di definirla parlando della legge chimico-fisica dei vasi comunicanti. In ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello, obbedendo all'azione della pressione atmosferica. In un'economia globale questo meccanismo funziona per tutte le grandezze economiche e sociali: il tasso di interesse, il tasso di efficienza degli investimenti, il prezzo delle merci, le condizioni di lavoro. Tutte queste grandezze tendono allo stesso livello, il che significa che i paesi opulenti dovranno perdere una parte della loro opulenza mentre i paesi emergenti tenderanno a migliorare il proprio standard di benessere. La prima tendenza sarà più rapida della seconda. Al termine del processo il livello di benessere risulterà il medesimo in tutte le parti, fatte salve le imperfezioni concrete rispetto al modello teorico. La Fiat ha fatto da apripista. Marchionne disse all'inizio di questa vicenda che lui ragionava e operava nell'epoca "dopo Cristo" e non in quella "ante Cristo". Purtroppo il "dopo Cristo" è appena cominciato. C'è un modo per compensare la perdita di benessere che il "dopo Cristo" comporta per i ceti deboli che abitano paesi opulenti? Certo che sì, un modo c'è ed è il seguente: far funzionare il sistema dei vasi comunicanti non solo tra paese e paese, ma anche all'interno dei singoli paesi. L'Italia è certamente un paese ricco. Anzi fa parte dei paesi opulenti del mondo, che sono in prevalenza in America del nord e nella vecchia Europa. Ma l'Italia è anche un paese dove esistono sacche di povertà evidenti (e non soltanto nel Sud) e dislivelli intollerabili nella scala dei redditi e dei patrimoni individuali. Tra l'Italia dei ceti benestanti e quella dei ceti poveri e miserabili il sistema dei vasi comunicanti è bloccato, non funziona. Il benessere prodotto non viene redistribuito, rifluisce su se stesso e alimenta il circuito perverso e regressivo dell'arricchimento dei più ricchi e dell'impoverimento dei poveri. Una politica che volesse perseguire il bene comune dovrebbe dunque smantellare il circuito perverso e far funzionare il circuito virtuoso. Attraverso una riforma fiscale che sbloccasse il meccanismo e redistribuisse il benessere. E poiché la mente e lo stomaco dei ceti poveri e medi reclamano un meccanismo meno iniquo dell'attuale, la riforma del fisco può e deve essere anticipata da misure specifiche di pronta attuazione, stabilite dalla concertazione tra governo e parti sociali che funzionò egregiamente tra il 1993 e il 2006, finché fu abolita con un tratto di penna all'inizio di questa legislatura. Le opposizioni dovrebbero a mio avviso concentrarsi su questo programma. Bersani ne ha parlato recentemente, ma le opposizioni dovrebbero convergere su un programma concreto con questo orientamento per uscire da una situazione caratterizzata da vergognosi privilegi e diseguaglianze. Si parla molto di riforme. Questa delle ingiustizie sociali da combattere è la madre delle riforme. Perciò mi domando: che cosa aspettate? Che la casa vi crolli addosso? (25 luglio 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/economia/2010/07/25/news/la_vera_storia_del_caso_marchionne-5811628/?ref=HRER2-1
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« Risposta #221 inserito:: Luglio 31, 2010, 05:05:02 pm » |
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Il boom dei divorzi di Eugenio Scalfari Ora ci troviamo invece in presenza di una famiglia allargata in senso orizzontale, aperta cioè a quelli che furono coniugi in precedenti matrimoni (30 luglio 2010) La notizia (fonte Istat) è che negli ultimi dieci anni i divorzi sono aumentati del 101 per cento, cioè più che raddoppiati. Ma la seconda notizia, non meno interessante della prima, è che il periodo di buona convivenza tra coniugi dura mediamente quindici anni, poi cominciano i primi litigi, le prime amarezze, specie in assenza di figli ma non necessariamente. La terza notizia infine consiste nell'età dei divorziandi; i picchi sono due: 25-30 anni e 60-65. C'è di che commentare. L'aumento dei divorzi si spiega semplicemente: il tabù del matrimonio indissolubile impiega un suo tempo tecnico per smantellarsi; aumenta anche la secolarizzazione nella società ed anche questo è un elemento importante per spiegare la crescita delle separazioni. È dunque molto probabile che la curva dei divorzi continuerà col tempo ad aumentare. La seconda notizia, quella sulla durata media della buona convivenza, va messa in rapporto con l'età dei coniugi nel momento del matrimonio. È fortemente aumentato il numero di chi si sposa a quarant'anni, magari dopo un periodo più o meno lungo di convivenza in prova reciproca. Questo tipo di coppia coniugale sa - specie per quanto riguarda la donna - che trovare un nuovo partner non sarà facilissimo; perciò il tasso di sopportazione dei reciproci difetti tende ad aumentare. Un tempo si diceva che la prima crisi avviene dopo sette anni; per le coppie che si sposano in età adulta il punto di crisi risulterebbe perciò raddoppiato. Resta invece piuttosto breve il buon rapporto matrimoniale per chi si sposa intorno ai 20-25 anni di età. Tanto più gli sposi sono giovani, tanto più sono impazienti. È cresciuto il numero di chi si sposa a vent'anni o poco più ma è frequente che si tratti di decisioni avventate e che nell'inconscio dei due giovani coniugi ci sia già allo stato latente la via d'uscita divorzista. Il dato più difficile da capire riguarda però il picco dei divorzi tra sessantenni. Perché decidono di separarsi in un momento della vita che coincide con l'ingresso nella fascia dei pensionati e comunque degli anziani? Affrontando l'evidente difficoltà di trovare un nuovo partner? E quindi di dover organizzare una vita da singoli che, specie per l'uomo, è assai più complessa? Ragionare su dati macroscopici diventa a questo punto molto difficile; occorre dunque spacchettare le diverse situazioni per capirci qualche cosa di più. Intanto influisce il tema dell'età dei figli, se figli ci sono. Coniugi sessantenni hanno probabilmente figli di almeno trent'anni, ai quali è molto più facile comunicare la separazione dei genitori senza causare i traumi che colpiscono invece i figli bambini. Poi c'è l'egoismo - tutto maschile - di vagheggiare una moglie o comunque una compagna più giovane della moglie sessantenne. Al tempo stesso però può giocare un'altra considerazione: i sessantenni di oggi - sia uomini sia donne - sono incomparabilmente più giovani, anzi più giovanili dei sessantenni di ieri. È una constatazione che tutti facciamo ogni giorno e che induce chi decide di divorziare a quell'età a considerare in modo meno drammatico la ricerca di un nuovo partner. Queste considerazioni, diverse tra loro ed anche in parte contraddittorie, ci fanno capire meglio il picco dei divorzi tra sessantenni che un tempo sarebbe stato considerato un errore statistico. Del resto la durata della vita si è notevolmente allungata ed anche questa è un'altra ragione dei divorzi ritardati. Crisi dell'istituzione familiare? Se consideriamo la famiglia tradizionale, quella che poggiava sul fondamento dell'indissolubilità, allora sì, quel modello è senz'altro in crisi. Così pure è in crisi la famiglia verticalmente allargata con la convivenza nella medesima abitazione dei nonni e degli zii, altra figura essenziale della quale si è ormai perduta la traccia. Ora ci troviamo invece in presenza di una famiglia allargata in senso orizzontale, aperta cioè a quelli che furono coniugi in precedenti matrimoni e che frequentano abitualmente il nuovo nucleo familiare mettendo insieme i figli di letti diversi, fratelli e sorelle che hanno in comune soltanto il padre o la madre. © Riproduzione riservata http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-boom-dei-divorzi/2131642/18
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« Risposta #222 inserito:: Agosto 01, 2010, 11:09:36 am » |
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IL COMMENTO Dove porta il paese l'avventura del cavaliere di EUGENIO SCALFARI SI VOLEVA la prova di quale fosse la democrazia concepita da Silvio Berlusconi e dai suoi accoliti della «cricca»? Ebbene, basta aver seguito i suoi comportamenti nei confronti del presidente della Camera, reo ai suoi occhi di dissentire su alcuni temi importanti e soprattutto sulla concezione, appunto, della democrazia e delle istituzioni che dovrebbero esserne il presidio. Per Berlusconi il presidente della Camera, eletto a suo tempo dalla maggioranza parlamentare di centrodestra, è semplicemente un funzionario alle sue dipendenze che se perde la fiducia del padrone deve andarsene senza fiatare. Questo modo di concepire lo Stato, che Berlusconi ha esteso a tutte le istituzioni nelle quali lo Stato si articola, dal presidente della Repubblica alla Corte costituzionale, alla magistratura, rappresenta una gravissima deformazione della nostra democrazia repubblicana e un continuo attacco alla Costituzione. L'incompatibilità del premier con lo Stato di diritto era del resto nota da tempo e da tempo denunciata. La rottura con l'ala finiana del Pdl ne ha dato una conferma talmente plateale che non è più possibile ignorarla senza diventarne complici. Quell'incompatibilità costituisce una pregiudiziale che va al di là delle distinzioni tra destra, sinistra e centro. Fino a quando non sarà eliminata il rischio d'un regime autoritario incombente resta di altissimo livello e richiede decisioni dettate ormai dall'emergenza. Non si tratta di non mettersi l'elmetto, come per tanto tempo e tuttora esortano quelli che si bendano gli occhi per non vedere e si turano le orecchie per non sentire. Si può combattere anche a testa nuda purché si sia consapevoli che il peggio è già avvenuto e non può essere arginato cedendo ulteriormente terreno. Questo hanno scritto nei giorni scorsi Ezio Mauro, Massimo Giannini, Stefano Rodotà e questo voglio anch'io ripetere perché sia chiaro il discrimine tra chi si accuccia sperando non so in quale «stellone» che ci porti in salvamento e chi invece sostiene che il peggio è già accaduto e non ci resta che combatterlo a schiena dritta con i mezzi che la democrazia repubblicana può utilizzare per recuperare la sua essenza e il popolo la sua sovranità confiscata. Credo che Berlusconi abbia fatto un grave errore scatenando l'attacco contro il co-fondatore del Pdl. Governo e maggioranza si sono cacciati in una sorta di vicolo cieco; l'opinione pubblica che finora gli ha assicurato un largo appoggio assiste sbigottita allo sfaldamento del Pdl. I sondaggi segnalano questo stato d'animo e non sono certo incoraggianti per il Cavaliere. L'errore di Berlusconi ha comunque una causa che l'ha determinato o almeno fortemente incoraggiato. Sono stati infatti Bossi e lo stato maggiore leghista ad incitare il Cavaliere a licenziare Fini ed hanno contemporaneamente interposto una barriera contro ogni ipotesi di aggregare Casini al centrodestra. Bossi sapeva di rischiare una posta molto alta se Fini e Casini avessero acquistato maggior peso all'interno del centrodestra. Si sarebbe acuita la pressione in favore delle Regioni e dei Comuni meridionali, il federalismo fiscale e la valutazione dei «costi standard» sarebbero diventate questioni di alta criticità; così pure tutta la politica di accoglienza dell'immigrazione. Perciò Bossi ha puntato la sua partita sulla rottura con Fini e sull'irrilevanza di Casini, accompagnando gli incitamenti con la minaccia di cercare per conto proprio altri appoggi alla sua politica. Resta ora da vedere se l'errore sia stato commesso anche da Bossi. La Lega non vuole che si parli di elezioni anticipate fino a quando i decreti attuativi del federalismo fiscale non saranno stati emanati. Con la sua consueta eleganza Bossi ha risposto alzando il dito medio alle domande dei giornalisti su eventuali elezioni anticipate. Ma il protrarsi della situazione attuale espone l'intero schieramento di centrodestra, Lega compresa, ad un processo di continuo logoramento. Quanto potrà reggere il governo ad una cottura a fuoco lento qual è quella cui Fini e Casini possono sottoporlo graduando con sapienza l'intensità di quel bollore? Un supplizio tanto più tormentoso in quanto non prevede la morte del suppliziato ma lo sfaldamento graduale del consenso fino a limiti minimi. Potranno Berlusconi e la Lega reggere ad un processo di questo genere? Personalmente credo sia impossibile. A quel punto cercheranno la via d'uscita tornando alle urne. La risposta l'avremo non oltre la fine dell'anno. La richiesta di scioglimento anticipato delle Camere comporta in via preliminare che il presidente della Repubblica verifichi se esiste una maggioranza favorevole al proseguimento della Legislatura. Se questa maggioranza c'è, dovrà indicare il presidente del Consiglio. Ma il capo dello Stato può anche dar vita ad un governo istituzionale che abbia la fiducia del Parlamento, se ritiene che la fine anticipata della Legislatura esponga il Paese a gravi rischi. Nel nostro caso i gravi rischi obiettivamente esistono e sono di natura economica e soprattutto finanziaria. Scadrà a partire dall'autunno una massa di titoli pubblici dell'ordine di cento e più miliardi di euro che imporranno al Tesoro una gestione tecnica particolarmente oculata e richiederanno al tempo stesso una guida politica che abbia una sua visione degli interessi generali e della coesione sociale. Passare attraverso una campagna elettorale estremamente accesa e dall'esito incertissimo che dovrebbe svolgersi proprio nell'arco di tempo in cui il Tesoro si troverà al centro di mercati ribollenti e fortemente speculativi significa alzare le vele in mezzo ad un tifone che potrebbe diventare uno «tsunami» catastrofico. Il presidente Napolitano credo sia perfettamente consapevole della pericolosità che la strategia d'attacco di Berlusconi ha messo in moto. Sarà perciò suo diritto-dovere esplorare tutte le soluzioni che evitino un'imprudenza di massimo rischio. Tutte le forze politiche e sociali che abbiano consapevolezza degli interessi del Paese dovranno fornire pieno appoggio al capo dello Stato creando le condizioni che assicurino successo alle sue iniziative. La condizione numero uno è di evitare le elezioni finché durerà l'emergenza del debito pubblico. Da questo punto di vista gli inviti ripetutamente lanciati da Di Pietro e anche da Vendola alle elezioni anticipate sono – è il meno che si possa dire – irresponsabili e sconsiderati, anteponendo meschini interessi di bottega a quelli reali del Paese. Darebbero di fatto una mano all'irresponsabilità berlusconiana e aprirebbero la strada alle peggiori avventure. È perciò auspicabile che si rendano conto di quale sia la risposta necessaria per evitare un caos politico e uno «tsunami» finanziario. Bersani propone da tempo un governo di larghe intese. Casini ha detto più volte che in caso di emergenza è disposto a partecipare ad una soluzione di questo tipo. L'emergenza c'è, è in atto e raggiungerà il suo culmine se Berlusconi chiederà lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma è del pari evidente che le larghe intese dovrebbero essere estese anche a quei settori del centrodestra che hanno fin qui subito con disagio e frustrazione il dominio della «cricca» all'interno del Pdl. Ce ne sono più di quanto non si creda. Il nuovo movimento di «Futuro e libertà» creatosi intorno a Fini potrebbe calamitare alcuni di quei settori risvegliandoli dall'ipnosi e portandoli ad una piena consapevolezza dei propri doveri civici. Personalità come Pisanu potrebbero svolgere un compito importante di raccordo con altri settori cattolico-democratici. E la Lega? Bossi ha la responsabilità d'aver rafforzato in Berlusconi la strategia dell'attacco contro Fini. Ma ora vede il rischio che l'errore commesso può creargli per la nascita d'un federalismo che non sia nordista e secessionista ma crei una novità utile per snellire lo Stato burocratico e sprecone di cui la Lega denuncia l'esistenza ma del quale in quindici anni di partecipazione al potere non ha saputo creare né la giusta configurazione né le giuste alleanze per costruirlo. Anche Bossi ha privilegiato finora la sua ditta rispetto a un'idea nazionale del federalismo. Ma non è questa la strada giusta. La Lega è molto forte nel Nord ma sul piano nazionale rappresenta il 12 per cento del corpo elettorale. Il tanto irriso Partito democratico è più del doppio della Lega e se avesse la grinta e la compattezza necessaria, specie in tempi d'emergenza, potrebbe recuperare nel suo bacino elettorale una parte almeno degli elettori che si sono rifugiati nell'area dell'astensione non per odio contro la politica ma per delusione ripetutamente subita. Il bacino potenziale del Pd è valutabile intorno al 40 per cento, ma basterebbe che ritornasse al risultato raggiunto da Veltroni nelle ultime elezioni politiche, pari al 34 per cento, per dare corpo al centrosinistra e a tutta l'opposizione. In conclusione, nei prossimi mesi (se non addirittura nei prossimi giorni) si possono verificare tre diversi scenari. 1. Il governo cerca di governare affrontando un lento ma costante logoramento, senza avere né la bussola né più la forza di attuare una politica capace di preparare le condizioni d'un rilancio economico e sociale, e continuando invece a privilegiare gli interessi del padrone e dei suoi accoliti. 2. Per uscire dall'«impasse» Berlusconi tenta l'avventura delle elezioni anticipate. Se riesce nel suo intento il rischio è uno «tsunami» del debito pubblico con i titoli italiani al centro della speculazione mondiale. 3. L'avventurosa iniziativa elettorale viene bloccata e si dà luogo ad un governo d'emergenza con caratteristiche accentuatamente istituzionali che ricordino il governo Ciampi nominato dal presidente Scalfaro nel 1992. Le persone di buon senso e di sollecitudine nazionale ed europea sanno benissimo in quale direzione muoversi purché trovino il coraggio di metter da parte le proprie botteghe e si assumano il carico di responsabilità che la situazione richiede. (01 agosto 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/08/01/news/avventura_cavaliere-scalfari-5994553/?ref=HREA-1
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« Risposta #223 inserito:: Agosto 08, 2010, 10:15:51 am » |
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IL COMMENTO Il bastone della Lega deciderà la partita di EUGENIO SCALFARI CHI PENSAVA con timore oppure con gioia che l'espulsione di Fini e dei finiani fosse l'inizio della fine del berlusconismo e ne aveva avuto conferma dal voto della Camera di mercoledì scorso che aveva trasformato la maggioranza in minoranza, dovrà invece ricredersi? Dopo l'ira per la sconfitta subita il Capo dei capi dalle cento vite sembra infatti aver riacquistato lucidità e starebbe mettendo a punto una duplice strategia, un programma di governo su quattro punti concreti sui quali chiedere la fiducia di Fini e perfino di Casini, oppure elezioni a marzo per cogliere l'opposizione impreparata e spazzarla via, Fini e Casini compresi. I quattro punti rappresentano un ponte per raccogliere intorno a sé tutti i moderati, una sorta di Berlusconi-bis con annesso rimpasto ministeriale e si articolano su altrettante riforme: Fisco, Federalismo, Giustizia, Mezzogiorno. Gli scrivani incaricati di metterle in carta sono Tremonti, Calderoli, Alfano, Fitto. Poi il vaglio dei finiani ed eventualmente di Casini. Infine il voto. Un patto di legislatura. E perfino (perfino) un'apertura verso i riformisti del Pd, quelli veri, identificati con gli ex popolari (Rosy Bindi esclusa) ma anche con D'Alema, Enrico Letta e forse Bersani. Che ne dite? Non è un fior di strategia? Non volevate, voi arrabbiati e decisi a far fuori l'Orco ad ogni costo e ad ogni prezzo, un governo d'unità nazionale da chiunque presieduto, perfino da Tremonti se necessario? Eccolo il governo d'unità nazionale. Solo che a presiederlo ci sarà Berlusconi in prima persona e governerà fino al 2013. Provare per credere. Il senatore Pisanu - l'ha detto venerdì a "Repubblica" - è convinto che questa sia la sola via percorribile. Casini del resto fu il primo a proporlo mentre si accingeva a concordare con Fini l'astensione dei 75 sulla sfiducia a Caliendo. Quanto al presidente della Camera, un patto di legislatura all'interno del Pdl del quale tuttora dichiara di far parte l'aveva proposto martedì mentre preparava la formazione dei gruppi parlamentari separati. Chi dirà la verità e qual è la verità? Le lingue dei politici sono biforcute per definizione, ma mai come ora il gioco degli inganni è stato lo strumento-principe per la conquista del potere. Neanche ai tempi d'oro di Andreotti. E meno che mai all'epoca del trasformismo di Depretis e poi, un secolo fa, a quello di Giolitti. Giolitti aveva un obiettivo: portare dentro le istituzioni liberali le masse cattoliche e le masse socialiste. Lo fece in due tappe e allargò il suffragio elettorale per render possibile quella trasfusione di sangue dentro l'esangue oligarchia della vecchia destra. Fu intelligenza politica, non trasformismo e non fu colpa sua se cattolici e socialisti sprecarono malamente l'occasione. Berlusconi si inscrive in una fenomenologia del tutto diversa. Non è un fenomeno nuovo nella nostra storia nazionale. Interpreta quel fiume carsico, come più volte l'abbiamo definito, che rappresenta una delle costanti della nostra vicenda politica, prima ancora della nascita dello Stato unitario, riapparso poi in modi diversi ma con analogo spirito illiberale con Crispi, Di Rudinì, Pelloux, Mussolini, Tambroni, Craxi. Alcuni si affidarono alle sciabole, altri al populismo, altri ai dossier e ai ricatti e ci fu chi utilizzò tutti questi strumenti spolverandoci sopra una bella manciata di corruzione. Infine ci fu perfino chi non esitò neppure a negoziare il silenzio-assenso o addirittura l'amichevole benestare delle organizzazioni mafiose e camorristiche. Berlusconi appartiene a questa tipologia. È il figlio imbarbarito dell'antipolitica, del qualunquismo, dell'anarchismo, che sono le tre condizioni preliminari che conducono alla delega di tutto il potere all'uomo della provvidenza. E questo è quanto è accaduto negli ultimi quindici anni e in particolare negli ultimi otto. Sperare di trasformarlo in un leader liberal-democratico non è un crimine e non è neppure un errore; piuttosto è il tentativo - in chi formula questi progetti - di procurarsi un lasciapassare per entrare a far parte di quel sistema di potere cercando di mantenere un'apparenza di dignità. Questi sono i veri trasformisti e non sono l'ultimo dei pericoli che minacciano la nostra sgangherata democrazia. *** Quando avrà fine il gioco degli inganni e chi avrà in mano il manico del bastone per chiudere a proprio vantaggio la partita che si sta svolgendo tra Berlusconi da un lato e Fini-Casini dall'altro? C'è un quarto giocatore ed è lui che tiene in pugno fin da ora il manico del bastone. È Umberto Bossi, il convitato di pietra che ha già piantato saldamente i paletti che delimitano il campo da gioco. La riforma della Giustizia gli interessa poco o niente: per la Lega quella riforma è una merce di scambio e l'ha già ceduta a Berlusconi assicurandogli il suo appoggio per chiuderla come a lui conviene. Gli altri due temi, del Fisco e del Mezzogiorno, sono due sfaccettature della questione principale, quella del Federalismo sulla quale la Lega gioca l'intera sua posta. Sul Federalismo la Lega vuole carta bianca e non accetta condizionamenti. Non è certo Berlusconi che potrà intralciarla: per lui il Federalismo è merce di scambio così come per la Lega lo è la riforma della Giustizia, tu dai una cosa a me e io do una cosa a te. Il condizionamento può venire da Fini. Non a caso Calderoli ha preannunciato un incontro con il presidente della Camera nei prossimi giorni. Gli porterà le carte sui costi-standard dei servizi pubblici nelle varie regioni, i calcoli sulla perequazione tra le Regioni povere e quelle ricche, le imposte attribuite agli Enti locali; insomma il meccanismo federalista finora fotografato nello stato in cui si trova. E chiederà anche a lui carta bianca affinché sia la Lega a gestirne la costruzione che è ancora tutta da fare. Neppure Calderoli conosce le vere cifre che il Federalismo comporta. Luca Ricolfi, in un articolo di tre giorni fa sulla "Stampa" afferma che ci vorranno almeno altri due anni di studi per dare vera sostanza alla trasformazione dello Stato centralizzato in Stato federale e forse la sua valutazione è ottimistica. Perciò l'importante per la Lega è di assicurarsene la gestione in esclusiva. Il voto di fiducia che il governo chiederà su questo punto ha questo significato. Fini è disposto a darla questa cambiale in bianco, insieme a quella sulla giustizia di Alfano e Ghedini? Certo può darla oggi e smentirla e rimangiarsela domani quando sarà più rafforzato sul territorio per tentare un'altra spallata decisiva contro il berlusconismo. Ma in che modo può rafforzarsi? Se dovrà cessare di logorare il suo avversario, se dovrà votare la fiducia quattro volte su quattro capitoli, se dovrà stipulare un patto di legislatura dopo aver digerito quattro rospi di quella portata, la credibilità di Fini sarà ridotta a zero e si sarà anche dovuto separare da Casini per la semplice ragione che Casini la Lega non lo vuole nell'alleanza. Accetta un Fini con quattro rospi in pancia ma senza Casini. Fini potrebbe rivalersi negoziando le future liste per le elezioni del 2013. Affidandosi alla parola di Berlusconi? O ad un rogito notarile? Sono possibili e pensabili queste due ipotesi? Finora il presidente della Camera ha dimostrato di essere un ottimo tattico, una dote che gli si conosce da tempo. Ma la strategia difetta. Quando il più fedele dei suoi luogotenenti, Italo Bocchino, afferma che "Futuro e Libertà" non sarà mai alleata con la sinistra, la strategia gli fa evidentemente difetto: l'area finiana ha un senso se può giocare su due sponde, altrimenti sarà riassorbita in poche settimane. È anche vero che l'altra sponda non versa in condizioni migliori. *** L'altra sponda, cioè il centrosinistra, per ora aspetta. Con l'arma al piede, dice chi vuole incoraggiarla. In realtà annaspa perché ha un suo progetto solo nel caso in cui Berlusconi si dimetta e chieda le elezioni anticipate. Qualora si arrivasse a questa eventualità il centrosinistra chiederebbe l'"Union sacrée" di tutte le opposizioni, Fini compreso, per mettere quelle forze a disposizione del presidente della Repubblica il quale deciderà sulla base dei suoi poteri-doveri costituzionali. In realtà quando diciamo centrosinistra diciamo soltanto Partito democratico e Italia dei valori. Il resto (che equivale più o meno all'8 per cento del corpo elettorale) è rimasto fuori dal Parlamento salvo uno spicciolame di poche unità. Manca però ogni traccia di strategia nel caso che Fini rifluisca sul programma berlusconiano e il governo duri fino al 2013. E manca altresì ogni strategia sul che fare in caso di scioglimento della legislatura. Bersani dice in proposito cose accettabili ma non è riuscito finora a guadagnare maggiore consenso nel bacino elettorale del suo partito. Forse perde troppo tempo con inutili mediazioni. Dovrebbe spostare la sua attenzione verso gli elettori potenziali e occuparsi poco o niente dei vari Fioroni, Marini, Letta, D'Alema, Veltroni, Chiamparino. Se il partito resta nei limiti dei soli iscritti e dell'oligarchia che ne è l'espressione, la partita è chiusa, sia che ci siano tre anni di tempo sia che ci siano soltanto 3 mesi. (08 agosto 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/08/08/news/scalfari_8_agosto-6146202/?ref=HREA-1
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« Risposta #224 inserito:: Agosto 15, 2010, 04:32:14 pm » |
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IL COMMENTO Siamo tutti stufi di questa politica di EUGENIO SCALFARI SONO maledettamente stufo di dover seguire i miei obblighi professionali commentando la ripetitiva rissosità e inconcludenza dei politici, l'incontenibile pulsione anticostituzionale di Berlusconi, l'uso dei dossier nei confronti di Fini e le controaccuse dei finiani contro il Cavaliere, gli sbraiti di Di Pietro contro tutto e tutti, il bastone secessionista della Lega che spunta dai borbottii di Umberto Bossi, l'attesa del Partito democratico e Godot che non arriva perché ce ne sono troppi e si paralizzano reciprocamente. Sono maledettamente stufo e non sono il solo. Sono stufi la maggioranza schiacciante degli italiani con il pessimo risultato che il distacco dalle istituzioni è diventato un abisso. Ed è stufo e molto preoccupato il Presidente della Repubblica, come lui stesso ha detto con parole sue nell'intervista rilasciata tre giorni fa all'Unità. Napolitano ha segnalato il vuoto che si è aperto da quando la rissa politica si è trasformata in rissa istituzionale; ha chiesto ai responsabili di questo stato di cose di mettervi fine al più presto; ha osservato che una crisi di governo al buio e un'eventuale campagna elettorale "selvaggia" rischierebbero di avere esiti nefasti per la democrazia. Quanto a lui, ha confermato quanto già sapevamo del suo modo di pensare e di agire: farà tutto ciò che la Costituzione gli consente e gli impone di fare se si aprirà una crisi di governo. Niente di più e niente di meno. Questo suo rispetto degli obblighi costituzionali ai quali ha giurato di attenersi (l'hanno giurato anche tutti gli altri "pubblici ufficiali" a cominciare dal presidente del Consiglio, dai membri del governo e dai presidenti delle Camere, ma sempre più spesso se ne scordano) gli ha infatti procurato un livello di fiducia popolare che sfiora l'unanimità e rappresenta uno dei pochi elementi positivi, forse il solo, della pessima situazione che stiamo vivendo. La Costituzione stabilisce che spetta al capo dello Stato il potere di sciogliere le Camere se il Parlamento non è in grado di esprimere una maggioranza, così come è in suo potere nominare il presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri rinviando il governo alle Camere per ottenerne la fiducia. Da questo punto di vista ha ragione Napolitano di ricordare che non esiste un governo tecnico: i governi debbono ottenere la fiducia del Parlamento e quindi sono tutti e sempre governi politici, quali che siano il presidente del Consiglio e i ministri che ne fanno parte. Purtroppo gran parte dei politici ignorano o dimenticano questi principi costituzionali e le norme che li configurano. Di qui lo stucchevole teatrino che va in scena ogni giorno con poche varianti. * * * Una variante notevole era sembrata la separazione dei finiani dal Pdl. Le motivazioni erano chiare, il dissenso su punti decisivi - a cominciare col rispetto della legalità - e la mancanza di luoghi e strumenti per renderlo palese all'interno del partito giustificavano la secessione. Essa però non fu portata alle logiche conseguenze. Si volle mantenere una fittizia appartenenza dei finiani al Pdl "per non tradire la volontà degli elettori che li avevano votati". Va detto - e Fini lo sa perfettamente - che uno dei cardini portanti della nostra Costituzione è l'articolo 67 che stabilisce che "i membri del Parlamento rappresentano la nazione e sono eletti senza vincolo di mandato". Quest'articolo è fondamentale perché è il solo strumento che impedisce alle oligarchie dei partiti di asservire gli eletti dal popolo. Il popolo trasferisce ai suoi delegati la propria sovranità fino a quando si tornerà a votare. Non c'era dunque alcun bisogno della finzione finiana che il cordone ombelicale con il Pdl non potesse essere tagliato. Quella finzione è stata adottata affinché fosse evidente chi era stato il responsabile della secessione: un'evidenza però talmente plateale da non richiedere percorsi così tortuosi e sterilizzanti. Ma ora, dopo che è cominciato e continua ad andare avanti il massacro mediatico che i giornali berlusconiani infliggono a Fini con l'evidente supporto dei dossier dei Servizi segreti, si è delineata un'altra anomalia di segno opposto: i finiani, per difendere il loro leader dall'attacco di cui è vittima, sono partiti al contrattacco non solo ricordando fatti antichi e non sanate illegalità del Cavaliere, ma indicando temi recenti di gravissima portata e cioè: l'uso dei Servizi di sicurezza per distruggere gli avversari politici del premier, rapporti di comparaggio del presidente del Consiglio con il primo ministro russo Putin; analoghi rapporti di comparaggio di Berlusconi con il leader libico Gheddafi. Se i finiani dispongono di prove o almeno di gravi indizi su queste presunte e gravissime illegalità, hanno a nostro avviso l'obbligo di esibirle informandone la competente Procura della Repubblica; non possono invece tenerle in serbo come potenziale deterrente. Chi ha sollevato una questione di legalità deve anzitutto difendere se stesso esibendo prove certe contro le accuse che gli sono state lanciate, ma non può a sua volta ritorcerle senza provarne la consistenza. Qui risiede il coraggio e la forza della propria coscienza morale. (15 agosto 2010) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2010/08/15/news/scalfari-6297904/
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