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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318534 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:35:46 pm »

IL VETRO SOFFIATO

Se la Nazione resta un'idea

di Eugenio Scalfari


Berlusconi non è un federatore.

Il nucleo sociale su cui opera è il medesimo della Lega. Semmai ha spaccato il Paese. E non solo tra Nord e Sud, ma tra due società lontanissime fra loro
 
Torna in discussione per l'ennesima volta il tema dell'idea nazionale. Non ce ne lamentiamo; è un argomento che ne implica molti altri di natura politica, economica e soprattutto culturale, soggetti alle mutevoli situazioni storiche e capaci di suscitare nuovi valori e di abbattere quelli da tempo consolidati.

Questa volta l'occasione è stata fornita dall'imminenza del 150 anniversario della nascita dello Stato italiano (1861-2011) e delle previste celebrazioni. Ernesto Galli della Loggia (che nei confronti dell'idea nazionale ha una particolare sensibilità) ha documentato l'insufficienza del programma celebrativo ed è tornato a chiedersi se tale insufficienza sia colpa delle persone che avrebbero dovuto preparare l'evento oppure del fatto che l'evento stesso non è minimamente sentito dalla pubblica opinione.
Premesso che della Loggia ha piena ragione nella sua denuncia, è il caso d'affrontare il tema ideologico da lui riproposto: esiste un'idea e una realtà di nazione italiana? Oppure si tratta di pura invenzione che mostra ormai palesemente la corda?

Dico subito che la nazione è tutto fuorché una realtà etnica, demografica, territoriale.
Quando Alessandro Manzoni cercò di descriverla in un empito di appassionata poesia civile con i famosissimi versi "una d'arme, di lingua, d'altare / di memorie, di sangue, di cuor", ci mise dentro alcuni requisiti che nessuna nazione ha mai avuto; per esempio il sangue, le memorie, la lingua, il cuore (cioè i sentimenti). La religione? Forse, in alcune situazioni, ma non sempre e non per sempre. Allora che cosa? Quale requisito, quali valori, tengono insieme un gruppo di persone tale da potersi chiamare una nazione? E qual è il rapporto esistente fra tre termini che indicano altrettanti enti e cioè: la nazione, la società, lo Stato?

Il mio parere in proposito è che lo Stato sia l'anello primario di questa triade; esso ha come suo fondamento una società e, a sua volta, crea la figura ideologica e quindi rettorica della nazione. Non si dà una nazione senza uno Stato e senza un gruppo sociale che ad esso dia vita e ad esso fornisca il personale dirigente, i valori, la lingua, le armi, le memorie.

Questo è il percorso storico che si è ripetuto infinite volte in tutte le epoche e in tutte le latitudini.
Guardate all'antica Grecia. La lingua comune c'era, mancava però una società comune. La società differiva profondamente nelle varie città, perciò lo Stato si identificò con la 'polis' e la nazione fu la 'polis'. Lo Stato greco non è mai nato. Per analoghe ragioni nacque da Roma l'Impero romano ma non l'Italia, non la nazione italiana e tanto meno lo Stato italiano.
Le monarchie furono nell'Europa medievale e rinascimentale le incubatrici degli Stati. Sostennero lotte secolari per affermarsi sul sistema feudale. Il loro fondamento sociale fu per lunghi secoli di natura regionale. Le nazioni vennero quando gli Stati furono in grado di costruirne l'ideologia. Cioè molto più tardi.

In Italia lo Stato nato nel 1861 non fu che l'ingrandimento di quello piemontese, che infatti si allargò per successive annessioni. Quelle annessioni misero insieme, incollandole l'una all'altra, società che rimasero profondamente diverse, lingue diverse e diversi costumi, valori, interessi. Ci voleva dunque un federatore. L'ha scritto Angelo Panebianco qualche giorno fa sul 'Corriere della Sera', ravvisando nella Democrazia cristiana quel soggetto maieutico.
In parte fu così, ma solo in parte. Insieme alla Dc un ruolo altrettanto federativo esercitò il Partito comunista, operando su una base sociale diversa ma altrettanto indispensabile. Senza dimenticare che un altro federatore era stato il fascismo, che infatti produsse un'immagine di nazione. Un'immagine deformata, un'ideologia che portò guerre e rovine, ma l'immagine fu prodotta e messa in circolazione.

Berlusconi è un federatore, come Panebianco ritiene? A me non sembra. Il nucleo sociale sul quale opera Berlusconi è il medesimo della Lega. Il fatto che riscuota consensi anche al Sud non è sufficiente ai fini della nostra discussione. Berlusconi semmai ha spaccato il Paese non solo tra Nord e Sud, ma tra due società che non si riconoscono tra loro né sul piano politico né su quello economico, culturale e soprattutto su quello morale. Lo Stato da lui guidato non è un elemento federatore. Può esplodere da un momento all'altro perché non c'è quasi nulla che lo tenga insieme.

(30 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #151 inserito:: Agosto 11, 2009, 11:29:15 am »

IL COMMENTO

Perché la Lega sta facendo ammuina

di EUGENIO SCALFARI


LA PAROLA "isteria" e l'aggettivo "isterico" sono stati usati per la prima volta da Ezio Mauro nel suo articolo di ieri a proposito dei recentissimi comportamenti del nostro presidente del Consiglio. Si sente braccato, inventa un suo ruolo maieutico in tutte le trattative internazionali che si rivela però del tutto infondato (a cominciare dal vertice russo-turco sul gasdotto); insulta come delinquenti due giornalisti che fanno domande scomode ma pertinenti nel corso di una conferenza stampa da lui convocata; teme l'arrivo di un settembre difficile per il governo e per lui e lo dice nel corso d'una riunione con i suoi collaboratori mentre contemporaneamente riafferma che il peggio della crisi è passato e che da settembre verrà il bello.
Insomma isteria. Isteria da insicurezza psicologica, economica, politica.
Osservo tuttavia che il presidente del Consiglio non è il solo a soffrire di questo sintomo e a manifestarlo con i suoi comportamenti. Ne sta infatti visibilmente soffrendo il partito a lui più vicino, quello dalla cui tenuta dipende la permanenza in carica del governo e del premier. Parlo della Lega Nord e del terzetto che la guida: Umberto Bossi e i suoi colonnelli Calderoli e Maroni. I loro più recenti comportamenti non consentono dubbi su questa diagnosi: il terzetto di punta della Lega sembra in preda ad un male oscuro al quale cerca di sottrarsi inseguendo alternative che hanno il solo effetto di peggiorare la situazione e di scaricarne gli effetti negativi non tanto sulla Lega quanto sull'intera comunità nazionale.

Le due insicurezze e le isterie che ne derivano - quella del premier e quella della Lega - rischiano di raggiungere la loro massima intensità nei prossimi mesi a partire dalla ripresa di settembre, con conseguenze preoccupanti sulla tenuta democratica. Perciò è urgente e necessario approfondire questa diagnosi e ricercarne le cause.

* * *

Sappiamo da sempre quali siano gli obiettivi politici della Lega: staccare le sorti del lombardo-veneto e possibilmente dell'intera Padania dal resto del Paese. Per un lungo periodo vagheggiarono una vera e propria secessione mantenendo semmai un innocuo legame confederativo con le altre zone del paese. Ma visto che la Padania in quanto tale era malvista come entità politico-territoriale da moltissimi dei suoi abitanti, ripiegarono sul federalismo, fiscale e istituzionale.
L'obiettivo era ed è quello di trattenere il reddito e la ricchezza nei luoghi dove si forma, concedendo blande forme di perequazione alle zone più deboli. E poiché l'alleanza politica con la Lega è sempre stato uno dei punti fermi di Berlusconi a partire dalla sua prima discesa in campo, così il federalismo fiscale e istituzionale diventò anche un obiettivo di Forza Italia ed ora del Partito della libertà, essendosi in buona parte spente le resistenze un tempo opposte da An in nome dell'unità nazionale.

Poiché un obiettivo così complesso come quello di trasformare uno Stato unitario e centralizzato in un'unione di regioni federate aveva bisogno di aggregare ampi e solidi consensi in tutto il Paese e poiché il federalismo in quanto tale quei consensi non era in grado di produrli, gli strumenti per ottenerli furono individuati nei due temi, strettamente connessi tra loro, della sicurezza e della lotta contro l'immigrazione.

Fu messa in campo tutta la potenza mediatica della quale Berlusconi dispone per montare al massimo la "paura percepita" dei reati e il loro collegamento con l'immigrazione. In particolare con quella clandestina, ma anche con quella regolarizzata che ammonta ormai a quasi 5 milioni di persone.
Questa strategia, che aveva già dato i primi risultati nella legislatura 2001-2006, fu ampiamente premiata durante la campagna elettorale del 2007 ed ha raggiunto ora il punto culmine di attuazione. La legge-quadro sul federalismo è stata votata (con l'astensione del centrosinistra) nello scorso maggio. Pochi giorni fa è stata approvata la legge sulla sicurezza. Alla ripresa di settembre verranno sul tavolo i problemi della delega e dei decreti delegati per la graduale attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma costituzionale che trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto il ricasco che una tale trasformazione avrà sull'organizzazione del governo, delle istituzioni di controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte costituzionale e dall'Ordine giudiziario. Per finire con inevitabili modifiche sul ruolo del presidente della Repubblica.

Insomma, un sommovimento istituzionale di ampie dimensioni che ha come radice il federalismo fiscale e come obiettivo della Lega quello di "isolare" la parte ricca ed efficiente del paese dal contagio con la parte "povera, brutta e cattiva" che vive "oziosa e parassitaria" nel Centro e nel Sud.

Poiché questa strategia sta andando avanti ed è stata fin qui largamente premiata per l'asse Berlusconi-Bossi, sembrerebbe incongruo parlare di isteria, soprattutto per quanto riguarda la Lega. E invece no. La strategia nordista si trova infatti proprio ora ad una stretta e in uno stallo che forse i suoi fautori non avevano previsto e che rischia di frantumargli in mano il giocattolo che volevano costruire.

* * *

Voglio dire che, passando da una versione generica e ideologica ad una concreta, sono emerse alcune gravi difficoltà ed alcune profonde reazioni che stanno prendendo corpo e suscitando crescente inquietudine. Non si tratta soltanto della rabbiosa rivendicazione dei siciliani di Lombardo e di Micciché, che il premier è ancora in grado di tacitare con regalie personali e spostamento di risorse.
Si tratta dell'incognita del federalismo fiscale che è arrivata ormai al punto di svolta. Dopo la legge-quadro che è stata un puro elenco di intenzioni e di vaghi principi, si profila ora il passaggio dall'ideologia al merito, emergono le contraddizioni, la diversità degli interessi, la complessità dei parametri e soprattutto l'incognita del costo.

Nessuno è in grado di dire quanto costerà il federalismo fiscale, chi ne sopporterà l'onere maggiore, quali ne saranno i vantaggi per la comunità nazionale, per le zone più ricche come per quelle più povere, tenendo presente che ricchezza e povertà non sono divisibili soltanto tra il Nord e il Sud poiché aree ricche esistono anche nel Mezzogiorno (soprattutto quelle che coincidono con le organizzazioni criminali e con le clientele della zona grigia) così come sacche di povertà frastagliano anche il Nord.

Le cifre del federalismo fiscale non le conosce nessuno, neppure il ministro dell'Economia che pure dovrebbe esserne debitamente informato. Quelle cifre danno (a regime) un saldo attivo o un saldo passivo? Quanto tempo dovrà passare perché il sistema funzioni a pieno ritmo? E che cosa accadrà nel frattempo, quali scosse, quali tensioni si verificheranno e quali ceti sociali e quali territori avvertiranno quelle scosse con maggiore intensità?

Questo nodo di domande ha fatto dire a chi spinge avanti il progetto federalista che la qualità del budino si conoscerà dopo averlo mangiato. Lo stesso Tremonti ha usato l'immagine del budino.
Dal canto mio dico, parafrasando, che il federalismo fiscale è come l'araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, come sia nessuno lo sa. Potrà essere un salto di qualità oppure una trappola di sabbie mobili, una più solida democrazia oppure un brulicare di burocrazie, un diretto controllo dei cittadini o una delega in bianco a gruppi di potere locali. Infine un'accresciuta solidarietà oppure una secessione silenziosa e lo sfasciamento del paese.
Tutto si svolge alla cieca. Ecco perché perfino la Lega è impaurita ed ecco perché i tempi di realizzazione concreta del federalismo fiscale saranno inevitabilmente allungati.

Nel frattempo però il consenso popolare rischia di smottare e alcuni segnali già ci sono.
In vista di questo pericolo il terzetto di punta della Lega ha deciso di fare "ammuina": le ronde, le gabbie salariali, il ritiro delle missioni militari all'estero, la guerra delle bandiere regionali contro quella nazionale, sono pura e semplice "ammuina" per nascondere che l'incognita del federalismo fa paura perfino a coloro che lo hanno voluto e portato avanti fino ad un punto di non ritorno.

Domenica scorsa scrissi che questa situazione di disfacimento e di secessione silenziosa richiede il lancio di un allarme rosso che blocchi la deriva e metta in campo tutte le energie positive, latenti ma disperse, e le riporti in campo. Ripeto quel mio invito. E' il momento che queste energie potenziali entrino in scena, si manifestino, usino gli strumenti che ci sono per costruirne altri più appropriati ed efficaci.
Temo che non ci sia tempo da perdere. L'abbiamo detto tante volte in questi quindici anni ed anche prima. Purtroppo era sempre vero ma questa volta è più vero che mai.

* * *

Post Scriptum. Il ministro Brunetta (ma sì, quel simpaticone) ci ha scritto una lettera a proposito dello sfondamento della spesa ordinaria di 35 miliardi tra il 2008 e il 2009. Avevo scritto che uno sfondamento di tali dimensioni in una fase di crisi e dissesto dei nostri conti pubblici (anche se il ministro Tremonti continua pervicacemente a negare quest'evidenza da lui stesso documentata nell'ultimo Dpef) era incomprensibile. Quei miliardi di euro equivalgono ad un aumento del 4,9 per cento della spesa ordinaria. Vogliamo sapere a che cosa sono serviti. E' una curiosità morbosa? Tremonti dovrebbe rispondere ma ecco che in sua vece ha risposto Brunetta nella lettera da noi pubblicata.
So bene che con questo "post scriptum" espongo i lettori di "Repubblica" al rischio di un'altra lettera del Brunetta medesimo, ma le cifre da lui fornite chiedono risposta.

Dunque. Scrive il ministro della Funzione pubblica che tra il 2008 e il 2009 le spese della Pubblica amministrazione destinate al personale sono aumentate di circa quattro miliardi. Il ministro ne spiega la ragione e noi non vogliamo entrare nel merito. Spiega anche che la spesa per "Consumi intermedi" è a sua volta aumentata da un anno all'altro di 3850 milioni. Non dice il perché, debbo dedurne che si tratta di sprechi.
Altro Brunetta non dice. Il totale delle risorse da lui giustificate nel modo suddetto ammonta dunque a poco meno di otto miliardi. Lo sfondamento della spesa ordinaria è stato di 35 miliardi. La differenza per la quale attendiamo ancora notizie dal ministro dell'Economia o dal suo vice alla Funzione pubblica è quindi di 27 miliardi di euro. Volete per favore dire alla pubblica opinione come diavolo li avete spesi?

(9 agosto 2009)

da repubblica.it
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« Risposta #152 inserito:: Agosto 16, 2009, 04:13:10 pm »

IL COMMENTO

Si riaccende lo scontro tra Guelfi e Ghibellini

di EUGENIO SCALFARI


Si è riacceso in questi giorni che coincidono con la grande vacanza nazionale di agosto l'antico dibattito tra guelfi e ghibellini, vecchio ormai di otto secoli. Vecchio ma sempre latente e attuale. Il dibattito riguarda il rapporto teorico tra la Chiesa e lo Stato democratico e quello più concreto tra il Vaticano di papa Ratzinger e il governo di Silvio Berlusconi.
Non ci sono molte novità da segnalare per quanto riguarda il rapporto teorico tra lo Stato e la Chiesa: si tratta di due entità che agiscono su terreni ben distinti e che come tali si riconoscono. Lo Stato democratico è laico per definizione e come tale riconosce alla Chiesa (anzi a tutte le Chiese e alle associazioni di qualunque genere) il diritto di usare lo spazio pubblico per diffondere le loro dottrine e tutelare i loro legittimi interessi.

La Chiesa a sua volta riconosce la laicità dello Stato con una sorta però di nota aggiuntiva che si concentra su un solo aggettivo: laicità purché sia buona. Se non è buona, la Chiesa di papa Ratzinger si riserva il diritto-dovere di emendarla raccomandando ai suoi fedeli nonché ai politici cattolici di sostenere e tradurre in norme di legge l'emendamento da lei sostenuto.
Questa è la novità e non è da poco. Si tratta di una novità tipicamente italiana che si spiega con il fatto che l'Italia è considerata dalla Chiesa come il giardino del Papa, luogo privilegiato dove il Vaticano si permette interventi, pressioni, forzature che in altre democrazie dell'Occidente cristiano sarebbero impensabili, non avrebbero alcuna risonanza e cadrebbero nell'indifferenza generale. Ma a questa eccezionalità del caso italiano siamo purtroppo abituati anche se noi "ghibellini" continuiamo a protestarne il carattere democraticamente abusivo.

Ho letto su qualche giornale (mi pare su un recente numero di "24 Ore") che la vecchia questione tra guelfi e ghibellini non rispecchia più la realtà e quindi non merita d'esser ripresa. Sarei felice se fosse così ma purtroppo non lo è affatto; ma se volete possiamo anche cambiare il lessico usando le parole di Chiesa militante e di laici impegnati. Va meglio così?

* * *

Il rapporto tra il Vaticano di papa Ratzinger e il governo di Silvio Berlusconi è invece molto complesso e si sta sviluppando su diversi piani gestiti per la parte cattolica dal segretario di Stato, cardinal Bertone, dal presidente della Cei, cardinal Bagnasco, dal cardinale Ruini sempre vigile malgrado l'apparente pensionamento e, naturalmente, dal papa in prima persona. Per il governo Gianni Letta in veste di gentiluomo vaticano, il ministro del Walfare Sacconi e direttamente dal presidente del Consiglio.

Il Vaticano agisce su due pedali. Il primo potremmo definirlo il pedale dei rimproveri: il dissenso della Chiesa sulla politica dell'immigrazione, sui respingimenti in mare, sulle ronde, sul reato di clandestinità e su ciò che ne consegue. Su tutti questi temi il rimprovero cattolico è stato ed è vibrante e netto, fortemente appoggiato dal clero parrocchiale e dalla stampa cattolica che ad esso fa capo. Fa parte del tema del rimprovero anche la spinosa questione dei comportamenti licenziosi del premier, più volte denunciati con crudezza da "Famiglia cristiana" e con più prudente fermezza dall'"Avvenire". Lo stesso cardinal Bagnasco è intervenuto in proposito manifestando rincrescimento e disapprovazione per "certi comportamenti" di personalità che non danno "buon esempio e tanto meno esempio di virtù cristiana".

Il secondo pedale è invece quello delle richieste, tanto più perentorie quanto più si estenda minacciosamente nelle coscienze cattoliche il rimprovero e la censura. Esiste tra questi due pedali un nesso molto visibile che non mette affatto in dubbio né la sincerità dei rimproveri né la fermezza delle richieste, ma che dà a queste ultime una forza che proviene dalla debolezza del governo e dalla sua ricattabilità politica. Si è spesso parlato in questi mesi della ricattabilità internazionale del presidente del Consiglio e anche della maggior forza acquisita dalla Lega nei suoi confronti; ma esiste anche una soverchiante pressione del Vaticano dovuta ai comportamenti "morali" del premier e al suo urgente bisogno di riguadagnarsi una nuova legittimazione sul versante cattolico.

Il ventaglio delle richieste vaticane è vario e ampio: la revisione delle procedure della legge sull'aborto e sulla procreazione medicalmente assistita, una rigorosa limitazione nell'uso della pillola abortiva; un'attentissima sorveglianza sul testamento biologico che di fatto ne vanifichi ogni più liberale disposizione; il finanziamento esplicito delle scuole cattoliche. Da ultimo è sopraggiunta la sentenza del Tar che esclude l'insegnamento della religione dai "crediti scolastici" riaprendo così il tema estremamente controverso dell'immissione in ruolo dei docenti indicati dai vescovi, avvenuto tre anni fa ad opera del governo Prodi.

Su questa sentenza, contro la quale ha già fatto ricordo il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, la disputa tra Chiesa militante e laici impegnati si è vivacemente riaccesa. La senatrice Binetti ha reindossato il cilicio e affianca la Gelmini, la pubblicistica laica lamenta la debolezza congenita del laicismo, il cardinal Bagnasco sentenzia che la morale non può esser decisa dalla pubblica opinione, Angelo Panebianco distingue moralità e moralismo con il solo evidente intento di proteggere il premier dalle critiche che gli piovono addosso da più parti. A lui ha risposto giovedì scorso Mario Pirani sicché mi astengo dal maramaldeggiare.

* * *

La questione dell'insegnamento della religione nella scuola pubblica merita qualche precisazione; si tratta infatti di un tema capitale per la laicità dello Stato e non può essere liquidato sulla base delle convenienze di parte.

1. La religione non può essere un insegnamento facoltativo. Dev'essere obbligatorio come debbono esserlo la storia della letteratura, la storia degli avvenimenti politici, la storia dell'arte, quella della filosofia, quella della musica.

2. L'insegnamento della religione non ha nulla a che fare con il catechismo, che viene invece insegnato nelle parrocchie o nelle scuole private cattoliche. Quell'insegnamento non può che consistere in una storia comparata delle religioni e in particolare delle tre religioni monoteistiche che hanno in Abramo il loro ceppo comune.

3. Gli insegnanti debbono essere scelti attraverso pubblico concorso come avviene per tutte le materie in questione.

4. Il "placet" del vescovo rappresenta una latente violazione della laicità, raffigura una discriminazione inaccettabile rispetto agli altri insegnanti e una lesione del diritto degli studenti ad una corretta istruzione.

5. Da questo punto di vista il ricorso del ministro Gelmini contro la sentenza del Tar è un atto molto grave perché lesivo d'un diritto costituzionalmente garantito. Esso difende infatti uno stato di fatto discriminatorio in vigore nella scuola pubblica, che cozza contro le norme di reclutamento dei docenti e contro i diritti degli studenti.

6. Il fatto che la maggioranza degli studenti abbia aderito all'attuale insegnamento facoltativo della religione cattolica non ha alcun peso in una discussione che coinvolge principi costituzionali che (ha ragione il cardinal Bagnasco) non possono essere affidati al computo delle maggioranze.

7. La popolazione di fede musulmana è ormai presente in forze in Europa e in Italia ed è destinata a crescere ancora nel prossimo futuro. Dovremo dunque aprire corsi facoltativi di quella religione, affidati anch'essi al "placet" di qualche autorità religiosa che possa designare docenti coranici?

8. Il ministro dell'Istruzione che ha firmato il ricorso contro la sentenza di un tribunale amministrativo ha agito a nome del governo che si è pronunciato in proposito oppure di propria iniziativa? Ha i poteri per farlo quando si tratta di materia di questa delicatezza?
L'opposizione di centrosinistra si è già pronunciata in proposito ma non ha ancora, ch'io sappia, dato luogo ad una mozione o interpellanza capaci di promuovere un dibattito parlamentare. Eppure se c'è un luogo deputato ad affrontare una questione di tale genere è per l'appunto il Parlamento. E' perciò auspicabile che questa mozione sia presentata fin d'ora e iscritta dalle Camere per la ripresa settembrina. Da vecchio ghibellino (scusate, da laico impegnato) sarei stupito che tutto finisse qui.

(15 agosto 2009)
da corriere.it
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« Risposta #153 inserito:: Agosto 23, 2009, 10:50:09 am »

L'EDITORIALE

Quei morti che gridano dal fondo del mare


di EUGENIO SCALFARI

È SINGOLARE (non trovo altro aggettivo) il comportamento della stampa nazionale sulla strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa.
Il primo giorno, con notizie ancora incerte, tutti hanno aperto su quell'avvenimento: il numero delle vittime, la storia raccontata dai cinque sopravvissuti, i dubbi del ministro Maroni sulla loro attendibilità, le responsabilità della Marina maltese, i primi commenti ispirati al "chissenefrega" di Bossi e di Calderoli.

Ma dal secondo giorno in poi i nostri giornali hanno voltato la testa dall'altra parte. Le notizie nel frattempo sopraggiunte sono state date nelle pagine interne. Uno solo, il "Corriere della Sera", ha tenuto ancora quella strage in testata di prima pagina ma senza alcun commento. Il notiziario all'interno tende a riposizionare i fatti entro lo schema della responsabilità maltese. Il resto è silenzio o quasi. Fa eccezione "Repubblica" ma il nostro, com'è noto, è un giornale sovversivo e deviazionista e quindi non può far testo.

Comincio da qui e non sembri una stravaganza. Comincio da qui perché la timidezza, la prudenza, il dire e non dire dei grandi giornali nazionali sono lo specchio d'una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro, rintronato da televisioni che sfornano a getto continuo trasmissioni insensate e da giornali che debbono ogni giorno farsi perdonare peccati di coraggio talmente veniali che qualunque confessore li manderebbe assolti senza neppure imporre un "Pater noster" come penalità minimale.

Perfino il durissimo attacco della Chiesa e della stampa diocesana, che su altri temi avrebbe avuto ampia risonanza, è stato registrato per dovere d'ufficio. Bossi, che ha orecchie attentissime a queste questioni, si è addirittura permesso di mandare il Vaticano a quel paese, definendo insensate le parole dei vescovi sulla strage del mare e invitando il papa a prendere gli immigrati in casa sua perché "noi qui non li vogliamo".
Alla vergogna c'è un limite. Noi l'abbiamo varcato da un pezzo nella generale apatia e afasia.

* * *

Ci sono varie responsabilità in quanto è accaduto nel barcone dei 78 eritrei, per venti giorni alla deriva in uno specchio di mare popolatissimo di motovedette, aerei, elicotteri, pescherecci delle più diverse nazionalità, italiani, maltesi, ciprioti, egiziani, tunisini e libici. Responsabilità specifiche e responsabilità più generali.

La prima responsabilità specifica riguarda il mancato avvistamento da parte della nostra Marina e della nostra Aviazione. Venti giorni, un barcone di quindici metri con 78 persone a bordo, sballottato dai venti tra Malta e Lampedusa, un braccio di mare poco più ampio di quello percorso da una normale regata di vela.
I ministri Maroni e La Russa dovrebbero fornire al Parlamento e alla pubblica opinione l'elenco dei voli e dei pattugliamenti da noi effettuati in quello spazio e in quei giorni. Il ministro dell'Interno finora si è limitato a chiedere un rapporto sull'accaduto al prefetto di Agrigento.

Che c'entra il prefetto di Agrigento? Il responsabile politico dei respingimenti in mare è il ministro dell'Interno che si vale della guardia costiera, delle capitanerie di porto e delle forze armate messe a disposizione dalla Difesa. Maroni e La Russa debbono rispondere, non il prefetto di Agrigento.

La seconda responsabilità specifica riguarda il pattugliamento italo-libico sulle coste della Libia. Sbandierato ai quattro venti come un grande successo diplomatico, viaggi del premier in Libia, abbracci e baci sulle guance tra Berlusconi e Gheddafi, promesse di denaro sonante e investimenti al dittatore-colonnello, viaggio del medesimo con relativa tenda a Villa Pamphili, scortesie a ripetizione, sempre del medesimo, nei confronti di quasi tutte le autorità istituzionali italiane; secondo viaggio del colonnello e seconda tenda al G8 dell'Aquila, dichiarazioni del ministro degli Esteri, Frattini, per sottolineare l'importanza dell'asse politico Roma-Tripoli.

Risultati zero. Riforma dei centri di accoglienza libici sotto controllo italiano, zero. Quei centri sono un inferno dove i migranti provenienti dall'Africa sahariana e dal Corno d'Africa sono ridotti per mesi in schiavitù e sottoposti alle più infami vessazioni fino a quando alcuni di loro vengono affidati ai mercanti del trasporto e imbarcati per il loro destino. Le vittime in fondo a quel tratto di Mediterraneo non si contano più.

In quei centri, tra l'altro, le autorità italiane dovrebbero individuare quegli immigranti che hanno titolo per essere trattati come rifugiati politici. Queste verifiche non sono avvenute. I migranti eritrei in particolare dovrebbero poter godere di uno "status" particolare come ex colonia italiana, ma nessuno se ne è occupato (e meno che mai, ovviamente, il prefetto di Agrigento).

In compenso le motovedette italiane dal primo giugno ad oggi hanno intercettato un elevato numero di barconi e li hanno respinti nel girone infernale dei centri di accoglienza libici, il che significa che le partenze dalla coste cirenaiche continuano ad avvenire in barba a tutti gli accordi.
Questo stato di cose è intollerabile. Frutto di una legge perversa e d'un reato di clandestinità che ha addirittura ispirato un gioco di società inventato dal figlio di Bossi e brevettato con il titolo "Rimbalza il clandestino".
Mancano le parole per definire queste infamità.

* * *

Ma esistono altresì responsabilità generali, al di là del caso specifico. Le ha elencate con estrema chiarezza il proprietario di un peschereccio di Mazara del Vallo da noi intervistato ieri.
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l'autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall'intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell'Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare. La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabrodo.

* * *

Alcuni si domandano i motivi del silenzio di Berlusconi su questo delicatissimo tema. La ragione è chiara e l'ha fornita l'onorevole Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl insieme a La Russa e Bondi e quello che meglio di tutti conosce la natura del capo del governo essendo stato con lui e con Dell'Utri uno dei tre fondatori di Forza Italia nell'ormai lontano 1994.

Di che cosa vi stupite, ha scritto Verdini in una sua lettera al "Corriere della Sera" di pochi giorni fa ribattendo alcune domande di Sergio Romano nel suo fondo domenicale. Di che cosa vi stupite? Silvio Berlusconi, con almeno una parte di sé, è un leghista né più né meno di Bossi e quando nel '93 decise di impegnarsi in politica pensò, prima di decidersi a fondare un nuovo partito, di guidare con Bossi la Lega. Poi scelse di fondare un partito nazionale del quale il nordismo leghista sarebbe stato il pilastro più rilevante.

Così Verdini, il quale in quella lettera rivendica il merito d'aver convinto il premier all'opportunità di dar vita a Forza Italia.
Non si poteva dir meglio. C'è da aggiungere che il peso della Lega è ultimamente aumentato in proporzione diretta alla minor forza politica del premier. La Lega ha oggi una forza di ricatto politico che prima non aveva e la sta esercitando in tutte le direzioni non senza alcuni contraccolpi sulle strutture e sulle alleanze all'interno del Pdl.

Uno dei temi di dibattito di queste ultime settimane è stato il collante che spiega nonostante tutto la persistenza del potere berlusconiano e la sua eventuale capacità di sopravvivere ad un possibile ritiro di Berlusconi dalla gestione diretta di quel potere. Tra le varie spiegazioni è mancata quella a mio avviso decisiva. Il collante del berlusconismo consiste nell'appello continuamente ripetuto e aggiornato agli istinti più scadenti che rappresentano una delle costanti della nostra storia di nazione senza Stato e di Stato senza nazione.

Una classe dirigente dovrebbe rappresentare ed evocare gli istinti più nobili di un popolo, educandolo con l'esempio, spronandolo ad una visione alta del bene comune. Un compito difficile che alcune figure della nostra storia esercitarono con passione, tenacia e abilità politica.
È più facile evocare gli "spiriti animali" e questo è avvenuto frequentemente nelle vicende del nostro paese a cominciare dal "O Franza o Spagna purché se magna" e alle sue più recenti e non meno abiette manifestazioni.

Giorni fa, rispondendo nel suo giornale alla lettera di un giovane leghista a disagio ma privo di alternative alla sua visione nordista, Galli Della Loggia spiegava al suo interlocutore quale fosse l'errore in cui era incappato: una falsa prospettiva storica, un falso revisionismo che ha messo in circolazione una falsa e deteriore immagine del nostro Risorgimento.
Ho riletto un paio di volte l'articolo di Della Loggia perché non credevo ai miei occhi. Il revisionismo da lui lamentato come deformazione della nostra storia unitaria è nato negli ultimi quindici anni proprio sulle pagine del suo giornale e lo stesso Della Loggia ne è stato uno dei più autorevoli esponenti.

Meglio tardi che mai. Purtroppo di vitelli grassi da sacrificare per il ritorno del figliol prodigo oggi c'è grande scarsità. Il solo vitello grasso in circolazione è lo scudo fiscale preparato da Tremonti, che però non riguarda la questione dell'Unità d'Italia e del revisionismo politico. Festeggia soltanto gli evasori fiscali. Anche questa è una (pessima) costante nella storia di questo paese.


(23 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #154 inserito:: Agosto 30, 2009, 10:27:51 pm »

IL COMMENTO

Le convulse giornate della perdonanza


di EUGENIO SCALFARI


Venerdì scorso il Tg1 diretto dall'ineffabile Minzolini, incurante del fatto che le notizie del giorno fossero l'attacco del "Giornale" contro il direttore dell'"Avvenire", lo scontro tra la Cei e la Santa Sede da un lato e il presidente del Consiglio dall'altro e infine la querela di Berlusconi a Repubblica per le 10 domande a lui dirette e rimaste da giugno senza risposta; incurante di queste addirittura ovvie priorità, ha aperto la trasmissione delle ore 20 con l'intervento del ministro Giulio Tremonti al meeting di Comunione e Liberazione.

Farò altrettanto anch'io. Quell'intervento infatti è rivelatore d'un metodo che caratterizza tutta l'azione di questo governo, mirata a sostituire un'onesta analisi dei fatti con una raffigurazione completamente artefatta e calata come una cappa sulla pubblica opinione curando col maggiore scrupolo che essa non percepisca alcun'altra voce alternativa.

Cito il caso Tremonti perché esso ha particolare rilievo: la verità del ministro dell'Economia si scontra infatti con dati ed elementi di fatto che emergono dagli stessi documenti sfornati dal suo ministero, sicché l'improntitudine tocca il culmine: si offre al pubblico una tesi che fa a pugni con i documenti ufficiali puntando sul fatto che il pubblico scorda le cifre o addirittura non le legge rimanendo invece colpito dalle tesi fantasiose che la quasi totalità dei "media" si guardano bene dal commentare.

Dunque Tremonti venerdì a Rimini al meeting di Cl. Si dice che fosse rimasto indispettito per il successo riscosso in quello stesso luogo due giorni prima di lui dal governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, con il quale ha da tempo pessimi rapporti. Non volendo entrare in diretta polemica con lui si è scagliato contro gli economisti e i banchieri.

Nei confronti dei primi l'accusa è di cretinismo: non si avvidero in tempo utile che stava arrivando una crisi di dimensioni planetarie. Quando se ne avvidero - a crisi ormai esplosa - non chiesero scusa alla pubblica opinione e sdottorarono sulle terapie da applicare mentre avrebbero dovuto tacere almeno per due anni prima di riprendere la parola.

Nei confronti dei banchieri la polemica tremontiana è stata ancor più pesante; non li ha tacciati di cretinismo ma di malafede. Nel momento in cui avrebbero dovuto allentare i cordoni della borsa e aiutare imprese e consumatori a superare la stretta, hanno invece bloccato le erogazioni. "Il governo" ha detto il ministro "ha deciso di non aiutare i banchieri ma di stare vicino alle imprese e ai consumatori".

Così Tremonti, il quale si è spesso auto-lodato di aver avvistato per primo ed unico al mondo l'arrivo della "tempesta perfetta" che avrebbe devastato il mondo intero.

Ho più volte scritto che la primazia vantata da Tremonti non è esistita, ma ammettiamo che le sue capacità previsionali si siano manifestate. Tanto più grave, anzi gravissimo è il fatto che la politica economica da lui impostata fin dal giugno 2008 sia stata l'opposto di quanto la tempesta perfetta in arrivo avrebbe richiesto. Sarebbe stato infatti necessario accumulare tutte le risorse disponibili per fronteggiare l'emergenza, per sostenere la domanda interna, per finanziare le imprese e i redditi da lavoro.
Tremonti fece l'esatto contrario. Abolì l'Ici sulle prime case dei proprietari abbienti (sui proprietari meno abbienti l'abolizione di quell'imposta l'aveva già effettuata il governo Prodi). Si accollò l'onere della liquidazione di Alitalia. Versò per ragioni politico-clientelari fondi importanti ad alcuni Comuni e Province che rischiavano di fallire. Dilapidò risorse consistenti per "aiutini" a pioggia.

In cifre: le prime tre operazioni costarono oltre 10 miliardi di euro; la pioggia degli aiutini ebbe come effetto un aumento del 5 per cento della spesa corrente ordinaria per un totale di 35 miliardi. Ho chiesto più volte che il ministro elencasse la destinazione di questo sperpero ma questo governo non risponde alle domande scomode; resta comunque il fatto.

Ne deduco che il ministro preveggente fece una politica opposta a quello che la preveggenza avrebbe dovuto suggerirgli. Se gli economisti sono cretini che dire di chi, avendo diagnosticato correttamente, applicò una terapia sciagurata?

Quanto ai banchieri: il governo Berlusconi-Tremonti si è più volte vantato di avere ottenuto, nei primissimi incontri parigini avvenuti dopo lo scoppio della crisi, interventi di garanzia a sostegno di eventuali "default" bancari. In Italia tali interventi non furono necessari (altrove in Europa ci furono in misura massiccia) perché le nostre banche erano più solide che altrove, situazione riconosciuta ed elogiata dallo stesso ministro quando ancora i suoi rapporti con Draghi erano passabili. Se ci fu un blocco nei crediti interbancari, questo fu dovuto ai dissesti bancari internazionali. Se c'è tuttora scarsa erogazione creditizia ciò si deve al fatto che i banchieri guardano attentamente al merito del credito e debbono farlo.

Tremonti sostiene che i soldi delle banche riguardano le banche mentre quelli del Tesoro riguardano i contribuenti. Ma su un punto sbaglia di grosso: il credito elargito dalle banche è di proprietà dei depositanti che sono quantitativamente addirittura maggiori dei contribuenti.

Concludo dicendo che il nostro ministro dell'Economia ha detto al meeting di Cl un cumulo di sciocchezze assumendo per l'occasione un "look" da profeta biblico che francamente non gli si addice. Ha riscosso molti applausi, ma il pubblico del meeting di Cl applaude convintamente tutti: Tremonti e Draghi, Tony Blair e Bersani, Passera e Tronchetti Provera, il diavolo e l'acqua santa e naturalmente Andreotti. Chi varca quei cancelli si "include" e questo è più che sufficiente per batter le mani. Ecco una questione sulla quale bisognerà ritornare.

* * *

Torniamo ai fatti rilevanti di questi giorni: l'aggressione del "Giornale" all'"Avvenire", il rapporto tra il premier e le gerarchie ecclesiastiche, la querela di Berlusconi contro le domande di Repubblica. Sul nostro giornale sono già intervenuti in molti, da Ezio Mauro a D'Avanzo, a Sofri, a Mancuso, al documento firmato da Cordero, Rodotà e Zagrebelsky sul quale si sta riversando un plebiscito di consensi che mentre scrivo hanno già superato le cinquantamila firme.

Poiché concordo con quanto già stato scritto in proposito mi restano poche osservazioni da aggiungere.
Che Vittorio Feltri sia un giornalista dedito a quello che i francesi chiamano "chantage" o killeraggio che dir si voglia lo sappiamo da un pezzo. Quella è la sua specialità, l'ha praticata in tutti i giornali che ha diretto. Proprio per questa sua caratteristica fui molto sorpreso quando appresi tre anni fa che la pseudofondazione che gestisce un premio intitolato al nome di Mario Pannunzio lo avesse insignito di quella medaglia che in nulla poteva ricordare la personalità del fondatore del "Il Mondo".

I telegiornali e buona parte dei giornali hanno parlato in questi giorni del "giornale di Feltri" omettendo una notizia non secondaria e non sempre presente alla mente dei lettori: il "giornale di Feltri" è il "Giornale" che fu fondato da Indro Montanelli, per molti anni di proprietà di Silvio Berlusconi e poi da lui trasferito prudentemente al suo fratello.

Lo stesso Feltri ha scritto che dopo aver ricevuto la nomina da Paolo Berlusconi si è recato a Palazzo Chigi dove ha avuto un colloquio di un'ora con il presidente del Consiglio. Una visita di cortesia? Di solito un direttore di un giornale appena nominato non va in visita di cortesia dal presidente del Consiglio. Semmai, se proprio sente il bisogno di un atto di riguardo verso le istituzioni, va a presentarsi al Capo dello Stato. E poi un'ora di cortesie è francamente un po' lunga.
Lo stesso Feltri non ha fatto misteri che il colloquio ha toccato molti argomenti e del resto la sua nomina, che ha avuto esecuzione immediata, si inquadra nella strategia che i "berluscones", con l'avvocato Ghedini in testa, hanno battezzato la controffensiva d'autunno.

Cominciata con Minzolini al Tg1 è continuata con l'arrivo di Feltri al "Giornale" e si dovrebbe concludere tra pochi giorni con la normalizzazione di Rete Tre e l'espianto di Fazio, Littizzetto, Gabanelli e Dandini.
La parola espianto è appropriata a questo tipo di strategia: si vuole infatti fare terra bruciata per ogni voce di dissenso. Non solo: si vogliono mettere alla guida del sistema mediatico persone di provata aggressività senza se e senza ma quando la proprietà del mezzo risale direttamente al "compound" berlusconiano, oppure di amichevole neutralità se la proprietà sia di terzi anch'essi amichevolmente neutrali.

Berlusconi avrà certamente illustrato a Feltri la strategia della controffensiva e i bersagli da colpire. Aveva letto l'attacco contro il direttore dell'"Avvenire" prima della sua pubblicazione? Sapeva che sarebbe uscito venerdì? Lo escludo. Feltri è molto geloso della sua autonomia operativa e non è uomo da far leggere i suoi articoli al suo editore. Ma che il direttore di "Avvenire" fosse nel mirino è sicuro. Berlusconi si è dissociato e Feltri ieri ha chiosato che aveva fatto benissimo a dissociarsi da lui. "Glielo avrei suggerito se mi avesse chiesto un parere".

Si dice che la gerarchia vaticana avrebbe sollecitato il suo licenziamento, ma Berlusconi, se anche lo volesse, non lo farà. L'ha fatto con Mentana, ma Mentana non è un giornalista killer. Farlo con Feltri sarebbe assai pericoloso.
Una parola sulle dichiarazioni di dissenso da Feltri fatte ieri da tutti i colonnelli del centrodestra, da Lupi a Gasparri, a Quagliariello, a Rotondi. Berlusconi si è dissociato? I colonnelli si allineano. E' sempre stato così nella casa del Popolo della Libertà. Tremonti, pudicamente, ha parlato d'altro.
E la Perdonanza?

* * *

Come si sa la Perdonanza fu istituita da Celestino V, il solo papa che si sia dimesso nella millenaria storia della Chiesa, come una sorta di pre-Giubileo che fu poi istituzionalizzato dal suo successore Bonifacio VIII.
I potenti dell'epoca avevano molti modi e molti mezzi per farsi perdonare i peccati, ma i poveri ne avevano pochi e le pene erano molto pesanti. La Perdonanza fu una sorta di indulgenza di massa che aveva come condizione la pubblica confessione dei peccati gravi, tra i quali l'omicidio, la bestemmia, l'adulterio, la violazione dei sacramenti. Confessione pubblica e perdono. Una volta l'anno. Di qui partirono poi le indulgenze ed il loro traffico che tre secoli dopo aveva generato una sistematica simonia da cui nacque la scissione di Martin Lutero.

E' difficile immaginare in che modo si sarebbe svolta l'altro ieri la festa della Perdonanza con la presenza del Segretario di Stato vaticano inviato dal Papa in sua vece e con accanto il presidente del Consiglio a cena e nella processione dei "perdonati". Diciamo la verità: il killeraggio di Feltri contro Boffo ha risparmiato al cardinal Bertone una situazione che definire imbarazzante è dir poco anche perché era stata da lui stesso negoziata e voluta.

Dopo l'attacco di Feltri quella situazione era diventata impossibile, ma non facciamoci illusioni: la Chiesa vuole includere tutto ciò che può portar beneficio alle anime dei fedeli e al corpo della Chiesa.

Se Berlusconi si pentisse davvero, confessasse i suoi peccati pubblicamente, si ravvedesse, la Chiesa sarebbe contenta. Ma se lo facesse sarebbe come aver risposto alle 10 domande di Repubblica. Quindi non lo farà.

Nessun beneficio per l'anima sua, ma resta il tema dei benefici per il corpo della Chiesa. Lì c'è molto grasso da dare e il premier è prontissimo a darlo.
In realtà il prezzo sarà pagato dalla democrazia italiana, dalla laicità dello Stato e dai cittadini se il paese non trarrà da tutto quanto è accaduto di vergognoso ed infimo un soprassalto di dignità.

(30 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #155 inserito:: Settembre 03, 2009, 10:23:01 pm »

Calvino a rovescio

di Eugenio Scalfari


Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistenza: sono i requisiti preconizzati dallo scrittore. Ma sono diventati superficialità, pressappochismo, pedanteria, esibizione, trasformismo
 
Sulla 'Stampa' del 23 agosto ho letto un bell'articolo di Antonio Scurati intitolato 'Calvino aveva previsto tutto e sbagliato tutto'. La previsione, al tempo stesso tempestiva ma sbagliata, Scurati la ravvisa nelle 'Lezioni americane' che furono pubblicate nel 1988, tre anni dopo la morte prematura di quel grande scrittore e che sono rapidamente diventate un classico.

Scurati ha ragione e la sua analisi è fine e convincente. Calvino aveva previsto che la letteratura del nuovo secolo e del nuovo millennio sarebbe stata caratterizzata da sei requisiti: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistenza. Questi sei requisiti da lui indicati e da lui stesso utilizzati in molte delle sue opere tra le quali segnalo 'Gli antenati', 'Le città invisibili' e 'Palomar', facevano parte della visione moderna che Calvino aveva non soltanto della letteratura ma anche dell'etica, della politica e della conoscenza. Insomma della vita: quella visione che ha rappresentato la modernità della quale Calvino è stato uno degli ultimi rappresentanti.

Dov'è lo sbaglio di questa previsione calviniana? Nel fatto che quei sei requisiti hanno avuto negli ultimi vent'anni un'interpretazione e un'attuazione del tutto diversa ed anzi opposta a quella prevista da Calvino. La leggerezza si è trasformata in superficialità, la rapidità in pressappochismo, l'esattezza in arida pedanteria, la visibilità in esibizione, la molteplicità in trasformismo. E questa è purtroppo la realtà con la quale ci stiamo confrontando. Le parole e i valori indicati da Calvino sono stati letti a rovescio. L'eleganza intellettuale da lui auspicata e rappresentata è diventata trivialità, volgarità, pesantezza.

Come è potuto accadere un capovolgimento così drammatico nello spazio breve di vent'anni? Scurati lascia in sospeso la risposta, forse perché per poterla dare occorre allargare il quadro entro il quale va collocata.

La modernità è stata un'opera ricca di accrescimenti conoscitivi, di novità, di contraddizioni ed è cominciata nientemeno che quattrocento anni fa. Calvino conosceva benissimo quella storia, la sua vita intellettuale e letteraria è stata un viaggio ininterrotto dentro quell'epoca attraverso le idee e gli autori che l'hanno scandita. Ne parlammo insieme infinite volte, da ragazzi sui banchi del liceo e poi negli ultimi anni della sua vita, quando collaborò con noi a 'Repubblica' proprio mentre le 'Lezioni americane' prendevano forma nella sua mente.

Nel suo itinerario intellettuale gli 'Essais' di Montaigne costituirono il punto di partenza di quel percorso e l'Illuminismo la fase di maggiore pienezza. La fase romantica, che pure fa parte integrante della cultura moderna, portò con sé alcuni elementi difformi e distorsivi e alcune laceranti contraddizioni.

Non è questa la sede per recuperare questo tracciato durato quattro secoli che arriva fino a noi in forme già largamente debilitate e con noi, intendo con la generazione alla quale appartengo, s'interrompe.
Si può dire che la modernità entra in crisi con la 'decadence' segnalata da Nietzsche. Dopo di allora la sua storia non è che una lunga e drammatica agonia. Come spesso accade agli agonizzanti, un soprassalto di vitalità si verifica nella seconda metà del Novecento. Poi sopravviene la fine.

Italo Calvino e in altri modi Umberto Eco sono stati in Italia gli ultimi rappresentanti. Forse non si sono accorti che i 'posteri' erano già arrivati tra noi e che la loro 'posterità' era completamente diversa da come noi avevamo immaginato. Ormai non sono più posteri ma contemporanei. Usano ancora, almeno in parte, le nostre stesse parole ma ne stanno rapidamente inventando altre. Ricordate una trasmissione di Celentano di qualche anno fa dove la parola 'rock' fu usata per significare vitalità, rapidità, inventiva, mentre la parola 'lento' stava a significare la pesantezza, la noia, il vecchiume tradizionale? Ebbe successo quell'invenzione lessicale. Probabilmente per Celentano 'rock' avrebbe dovuto essere la traduzione della leggerezza calviniana, ma era un equivoco. Mi azzardo a dire un terribile equivoco. Nella realtà della società contemporanea 'rock' è diventato infatti lo pseudonimo del 'velinismo' e dell'apparenza: non è leggerezza ma futilità.

Caro Scurati, la modernità che Calvino ha amato e rappresentato è ormai dietro di noi. Un'epoca è finita, un'altra è cominciata, ma la comunicazione tra loro è molto difficile. Viviamo un momento di passaggio nel quale le ombre soverchiano la luce. È sempre accaduto così, ma la storia continua e prima o poi da questo passaggio buio e pericoloso si uscirà. Almeno così speriamo.

(28 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #156 inserito:: Settembre 06, 2009, 12:07:45 pm »

IL COMMENTO

Il coltello del solito Mackie Messer


di EUGENIO SCALFARI

L'ATTENZIONE pubblica si è spostata dopo le dimissioni del direttore dell'Avvenire. Ora è tutta sulla Chiesa. Che cosa farà la Chiesa? Ci sono correnti all'interno della Chiesa? Quale Chiesa? Chi comanda veramente nella Chiesa?
Perfino la grande stampa internazionale, a cominciare dal Wall Street Journal, si pone queste domande sia pure con la sufficienza e il distacco che si ha quando si affrontano questioni che non riguardano casa propria, questioni esotiche il cui soffio di vento non riesce neppure a increspare l'erba che cresce nel proprio paese. Ma qui in Italia non è certo così; perciò quelle domande scuotono l'intero establishment nazionale, dato ma non concesso che ci sia un establishment e sia degno del nome in questo paese. Riflettevo oggi sulle dimissioni di Boffo e sulla lettera da lui indirizzata al cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale che ha la proprietà dell'Avvenire. Riflettevo e sfogliavo L'Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano il cui direttore pochi giorni fa ha lanciato un siluro contro il collega dell'Avvenire proprio mentre si trovava sotto il tiro di Vittorio Feltri e di Belpietro.

L'Osservatore Romano è il solo quotidiano che si stampa nello Stato vaticano ed ha naturalmente "l'imprimatur" della Segreteria di Stato. Sotto la testata ci sono due motti: "Unicuique Suum", "Non Praevalebunt". Il primo è di facile comprensione, ma il secondo è oscuro. "Non Praevalebunt": di chi si parla? Chi sono i nemici contro i quali il Vaticano, la Chiesa, i cattolici debbono mobilitarsi?

I cattivi, ovviamente; i seguaci del diavolo. Dunque i peccatori? No, i peccati. Quali peccati? Prioritariamente quelli scritti nelle tavole mosaiche. Chi sono i responsabili dei peccati? Il diavolo naturalmente. E chi li commette? Se si confessa e si pente sarà perdonato. E se non li confessa e non si pente? Sarà giudicato alla fine dei tempi. Ma intanto? La Chiesa può sciogliere o legare secondo il mandato di Cristo all'apostolo Pietro e ai suoi successori. E qui, oggi, in Italia? Vedete, ho anch'io qualche domanda da proporre, ma arrivati al dunque, a quest'ultima domanda non c'è risposta, oppure ce ne sono molte ma contrastanti. Quanto al successore dell'apostolo Pietro attualmente in cattedra, una prassi millenaria gli ha insegnato come destreggiarsi in casi difficili: dica parole ispirate di speranza e di verità rampognando chi non le ascolta, ma poiché tutti le accolgono con compunzione e le condividono, quelle rampogne restano senza destinatario.

Qualcuno nel frattempo cade a terra colpito da fuoco amico? Dispiace. Recitiamo in suo suffragio il "requiescat in pace" e andiamo avanti.
Questo del resto l'ha detto perfino Vittorio Feltri: "Umanamente mi dispiace per Boffo". E l'ha detto, più o meno con le stesse parole, Francesco Cossiga in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera e diretta al cardinal Bagnasco. E l'aveva già detto con largo anticipo il presidente di Mediaset, Confalonieri, in quanto persona "informata dei fatti" in un'intervista a quello stesso giornale pubblicata, vedi caso, insieme all'intervista di Vian, direttore dell'Osservatore Romano.

Mi viene in mente quella canzone che dice: "Son contento di morire ma mi dispiace / mi dispiace di morire ma son contento".
Di queste ipocrisie, per chi ci crede, sono lastricate le vie dell'Inferno.

* * *

In mancanza di altri lumi dobbiamo dunque orientarci da soli. Proviamoci.
La Chiesa cattolica ha una sua gerarchia: il Papa, vescovo di Roma, e i vescovi che con lui condividono il ministero pastorale.
Così fu per secoli, ma ben presto il quadro cambiò quando i fedeli si moltiplicarono, gli interessi temporali si affiancarono alla missione pastorale, la gerarchia iniziale si rivelò insufficiente. Il Papa ebbe bisogno di collaboratori esperti, i vescovi di esser coadiuvati.
A quel punto la gerarchia si specializzò in due diverse direzioni, per altro strettamente intrecciate: la Santa Sede e la Curia per il governo della Chiesa e per i necessari contatti con i governi delle nazioni da un lato, i vescovi e il clero con cura d'anime dall'altro. E poi, altro elemento fondamentale della Chiesa, il popolo di Dio, cioè i fedeli.

La Santa Sede mantiene i rapporti politici. Il clero con cura d'anime predica la salvezza, amministra i sacramenti, scioglie e lega secondo il mandato del Signore. Il Papa, al di sopra di tutti, incoraggia, rampogna e benedice.

* * *

Oggi in Italia.
Il cardinal Bertone, segretario di Stato, gestisce gli interessi della Chiesa nel mondo e in particolare in Italia. Per farlo deve colloquiare con i governi in carica. I giudizi morali se li tiene nell'intimo suo perché i suoi interlocutori sono spesso il fior fiore dei peccatori.

Berlusconi è sicuramente un peccatore, l'ha detto lui stesso. Se la veda con il suo confessore se avrà voglia di confessarsi, o con i tribunali quando i peccati siano diventati reati. Non è compito della Santa Sede.
Ma è compito del clero combattere i peccati. Denunciarli. Avvertire i fedeli affinché a loro volta non cadano in tentazione. Lo fanno. Lo ha fatto la stampa diocesana. L'ha fatto l'Avvenire. Con prudenza ma con chiarezza.

Sfortuna volle che Berlusconi perdesse, come si dice, la tramontana e non volesse più sentirsi criticato.
Il direttore dell'Osservatore Romano si è pubblicamente dato il merito di non aver mai sollevato il tema d'un peccato privato ed ha criticato il collega Boffo per averlo fatto. Strano vanto in verità. E quel "Non Praevalebunt" perché non sopprimerlo dalla testata del giornale? Può essere d'imbarazzo, collega Vian.

Ma Bertone non è il solo a gestire interessi. C'è Bagnasco alla testa dei vescovi. E c'è anche Ruini, vecchio ma non domo. Ci sono i cardinali arcivescovi che governano diocesi a volte grandi e popolose come piccoli Stati. Grandi elettori nei conclavi. Ci sono Università, Ospedali, Scuole cattoliche. Congregazioni. Ci sono gli Ordini religiosi, le Comunità. Un immenso universo sparso su cinque continenti ma il cuore sta a Roma e in Italia.

Questo cuore non prevedeva che il capo del governo italiano perdesse la tramontana. Non prevedeva che avesse imprevisti accessi di rabbia e li manifestasse in continuazione e pubblicamente. Non prevedeva che stesse sbagliando contro i propri interessi. E non prevedeva che armasse la mano del killer di turno.
Perciò la Chiesa nel suo complesso è stata presa alla sprovvista. Il Papa, Bertone, Bagnasco. Alla sprovvista. Forse Ruini, più esperto, aveva capito che uno "tsunami" era in arrivo e forse sperava che tornasse utile ad un progetto in via di prender forma.

* * *

Il progetto ha un nome. Si chiama Grande Centro. Il partito di Casini e Buttiglione più Montezemolo. Oppure di Montezemolo più Casini e Buttiglione. E il Forum delle famiglie, e l'associazione per la vita, e Formigoni sullo sfondo e Vittadini e le Coop bianche, eccetera eccetera.

Questo Grande Centro non sarà mai grandissimo e non potrà mai governare da solo, ma può diventare il pesce pilota e l'esecutore testamentario quando Berlusconi deciderà di farsi da parte (con tutti gli onori e senza alcun onere, beninteso).

L'assetto finale è il grande partito dei moderati con forti venature cattoliche. A Ruini piace. A Bertone piace. Bagnasco? Piacerà anche a lui e poi Bagnasco semmai è un incidente di percorso.
Però la ferita Boffo brucia ancora. Perciò Berlusconi dovrà pagare un prezzo (che a lui non costa nulla): testamento biologico, soldi alle scuole cattoliche, limiti alla pillola-aborto, revisione delle leggi sulla fecondazione assistita, eccetera.

Grandi piccoli e piccolissimi giornali sono d'accordo. Finalmente si tornerà a parlare di problemi seri, alla moda di Tremonti. La libertà di stampa e il controllo dei poteri di garanzia sull'operato del governo non sono un problema serio, non sono una questione preliminare, sono bazzecole.
Casini è cauto. Su Boffo non ha sparso molte lacrime, però non si fida. Alle regionali marcerà in ordine sparso secondo le convenienze ma alcune scelte saranno comunque decisive, per esempio nel Lazio, in Puglia, in Piemonte. Poi si vedrà.
Anche Confalonieri è contento. La colpa è sola di Repubblica, perciò sia castigata. Sembra un uomo di pace, Confalonieri, ma invece è la bocca dentata del Caimano. Secondo lui Repubblica è rea d'aver trasformato un fatto privato in una questione pubblica. Dimentica che l'origine sta in una pubblica dichiarazione di Veronica Lario, portata in tivù da Berlusconi. E dimentica anche che Libero allora diretto da Vittorio Feltri quarantotto ore dopo pubblicò la foto di Veronica a seno nudo e le attribuì il suo autista come amante. Ricordate "L'opera da tre soldi"? "Mackie Messer ha il coltello / ma vedere non lo fa". La memoria di Confalonieri non funziona? Colpa della vecchiaia? O di un innato servilismo?

* * *

Un'ultima domanda: la Lega è cattolica? Ma certo che lo è. Lo è nelle intime fibre. Vuole la famiglia compatta. Di colore bianca. Vuole che si muoia quando arriva la morte e non prima. Non le piacciono gli immigrati, che c'è di male? Neanche "i terroni" e pazienza. Ma qualche soldo, purché restino a casa loro, diamoglielo. E poi Alberto da Giussano non stava dalla parte del Papa?Il resto sono bubbole. I dialetti stanno stretti a Umberto Eco? E chi se ne frega. Fini? Fini chi? Vogliamo almeno tre Regioni nel Nord e viva Berlusconi. Piacerebbe sapere che impressione ne ha avuto il cardinal Bagnasco che li ha incontrati. Bagnasco chi?

(6 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #157 inserito:: Settembre 13, 2009, 12:18:37 pm »

IL COMMENTO

Il declino non si vede ma è già cominciato

di EUGENIO SCALFARI


DOPO il suo intervento dell'altro ieri a Gubbio e quello di ieri a Chianciano dove Casini ha riunito i dirigenti dell'Udc, si fanno previsioni e perfino scommesse sugli obiettivi di Gianfranco Fini nel prossimo futuro. E se lo domanda anche, con qualche preoccupazione, Silvio Berlusconi. Vuole dargli una spallata approfittando d'un momento di oggettiva difficoltà che il premier sta attraversando? Vuole uscire dal partito e fondarne un altro? Vuole prepararsi a prendere il posto di Napolitano quando il mandato del Capo dello Stato scadrà (nel 2013)? Vuole esser pronto a qualunque evenienza e a qualunque emergenza che potrebbe verificarsi nel quadro agitato e anomalo della politica italiana?

Tutto considerato e mettendo in fila gli interventi che si susseguono da tempo, compreso quello di ieri in casa d'un partito d'opposizione, la conclusione logica è questa: Fini si prepara a succedere a Berlusconi quando il premier dovrà cedere il comando per ragioni di calendario. Nel 2013 avrà 77 anni ed avrà governato o comunque occupato la scena politica da diciotto. Dopo quanto è accaduto in questi mesi è esclusa una sua candidatura al Quirinale e neppure il lodo Alfano potrebbe impedire che i processi a suo carico vengano riaperti.

A quel punto - ma in realtà almeno un anno prima - il problema della successione si porrà inevitabilmente e la rosa dei candidati vedrebbe Fini in "pole position". Gli altri sulla carta sono tre: Formigoni, Letta, Tremonti. Ma per valutare le rispettive "chance" occorre tener presente che il successore prescelto dovrà guidare il centrodestra alle elezioni politiche.

Deve dunque essere in grado di sostituire un formidabile comunicatore dotato di capacità seduttive e ipnotiche senza pari. Chi può vantare un carisma che si avvicini a quello del Cavaliere? Basta porre la domanda per scartare tutti e tre i nomi dei "competitors", soprattutto Formigoni e Letta. Tremonti ha l'appoggio della Lega, ma la scelta del leader del Pdl non spetta alla Lega.

Quindi Fini, verso il quale rifluirebbero agevolmente quasi tutti gli ex di Alleanza nazionale una volta sgombrato il campo da Berlusconi.
Aggiungo un'altra considerazione. Qualora un'emergenza istituzionale dovesse prodursi all'improvviso (e la sentenza della Consulta sul lodo Alfano o altre questioni di analogo rilievo potrebbero determinarla anche a breve termine) la candidatura di Fini a sostituire l'attuale premier avrebbe forti probabilità di successo. Un governo Fini poggiato anche sul sostegno dell'Udc e su un'amichevole astensione del centrosinistra potrebbe essere la via d'uscita verso le riforme sempre auspicate ma mai portate in Parlamento, nonché su una normalizzazione della vita democratica dopo gli sconquassi del berlusconismo rampante.

La conclusione dunque è questa: Fini si propone di essere il successore di Berlusconi alla guida d'un partito di destra democratica profondamente diverso dalla gestione "eversiva" e assolutistica del Cavaliere di Arcore. Successore, non delfino. Del resto con Berlusconi i delfini non sono previsti salvo Letta che più che un delfino sarebbe un perfetto luogotenente.

* * *

Ma c'è già ora un declino di Berlusconi nella percezione degli italiani? E' cominciato uno smottamento del consenso? L'insensata guerra contro le gerarchie cattoliche e contro i sentimenti morali dei cattolici ha prodotto crepe importanti? Il killeraggio contro gli avversari, le bravate crescenti del premier, il massimalismo leghista, la disistima internazionale che ormai si è diffusa non solo nella stampa estera ma anche nelle cancellerie europee e americane, hanno aperto falle significative nel consenso berlusconista?
Qualche crepa è visibile. L'ultimo sondaggio Ipsos commissionato da Palazzo Chigi registra un calo di 4 punti collocando il consenso attorno ad uno stentato 50 per cento. Le intenzioni di voto vedono il Pdl attorno al 38 per cento. Il Foglio di ieri ha pubblicato in prima pagina dieci domande (la formula delle dieci domande ha ormai fatto strada) che sollevano altrettanti problemi non risolti dal governo e molto scomodi da risolvere.

Ma il blocco è ancora sostanzialmente intatto. E tuttavia il declino è percepibile e il nervosismo del premier non fa che ingrandirlo. Chi ha visto la versione integrale del suo "show" nell'incontro italo-spagnolo avvenuto nell'isola di Maddalena è rimasto allibito, a cominciare da Zapatero che l'ha commentato ieri pubblicamente con parole che parlano da sole. E chi ha ascoltato il discorso di Fini a Gubbio ha percepito la differenza abissale che separa i due co - fondatori del Pdl. Del resto non è un caso se il neo - ambasciatore Usa a Roma ha cominciato le sue visite di presentazione da Fini anziché dal premier.

L'opinione di tutti gli stranieri che capita di incontrare da qualche mese a questa parte è unanime: "Non ci stupisce più il vostro premier, ma ci stupiscono gli italiani che ancora sopportano di esser rappresentati da un simile personaggio".

La sua debolezza oggettiva si riduce ad una sola parola: ricattabile. Abbiamo un premier ricattabile e ricattato. Quindi debolissimo. E alle sue spalle un partito che vive e vince in virtù del suo carisma personale. Il carisma, come tutti sanno, è un fenomeno di massima fragilità: se s'infrange, tutta la costruzione che su di esso si appoggia crolla.
L'insieme di questi elementi porta alla conclusione che il declino è in corso anche se il carisma regge ancora. Per quanto?

* * *

Queste riflessioni su Fini e su Berlusconi ci portano a considerare la situazione del Partito democratico, quello che nella percezione sia degli avversari sia dei suoi ex sostenitori e sia infine di molti osservatori viene definito un partito fantasma o il partito che non c'è; comunque un relitto che nessuno riuscirà a portare in salvo proprio nel momento in cui il paese avrebbe maggior bisogno d'un partito d'opposizione capace di attirare su di sé il disagio che sia pur lentamente si diffonde e che acquisterebbe peso e velocità dalla presenza di una valida alternativa.
Su questa delicata ma essenziale questione faccio le seguenti considerazioni (come persona informata dei fatti).

1. Conosco bene i tre candidati alla segreteria del Pd e in particolare i due maggiormente favoriti, Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani. Sono due persone perbene.
Nessuno dei due ha scheletri nell'armadio. Si battono con vigore come deve accadere in una sfida politica e come non accadde né nelle primarie che insediarono Prodi alla leadership del centrosinistra sia in quelle che insediarono Veltroni alla guida del Pd. Questa volta sta accadendo, su questioni di visione politica, senza alcun colpo sotto la cintura. Non è quello che i simpatizzanti e gli iscritti al partito volevano?

2. Chiunque dei due vincerà, il compito di costruire un partito riformista in un paese dove il riformismo ha sempre avuto vita stentata non sarà agevole anche se - ne sono convinto - ciascuno di loro ce la metterà tutta.

3. La condizione necessaria affinché questa costruzione avvenga e sia solida non sta nel programma e tantomeno nelle ragioni che hanno condotto forze culturali e politiche con storie diverse a dar vita ad un partito comune. Sia le ragioni che presiedettero alla nascita del Pd sia la sua visione d'una società "riformata" furono elencate, illustrate e unanimemente approvate nell'assemblea del Lingotto che insediò Veltroni alla guida del Pd. Si può aggiornare il programma, ma le linee di fondo di quella visione del bene comune c'è già stata ed è tuttora pienamente valida.

4. In realtà la condizione necessaria affinché la nave di questo partito esca dalla darsena e riprenda orgogliosamente il mare dipende soltanto da chi sente profondamente la necessità d'un partito seriamente riformista, capace di dar voce a tutte le speranze, le attese e i bisogni del centrosinistra italiano, da un socialismo liberale ad un laicismo che possa esser sostenuto con vigore sia da laici non credenti sia da cattolici di discendenza degasperiana; infine dai grandi valori della libertà e dell'eguaglianza che non possono mai esser disgiunti e che vanno vissuti e applicati nel quadro d'una solidarietà sentita come impegno civile.

Se almeno due milioni di elettori esprimessero quest'impegno nelle votazioni alle primarie del prossimo 25 ottobre, credo che il varo della nave democratica segnerebbe la riscossa che molti hanno nel cuore senza sapere in che modo tradurla in atto.
L'atto decisivo è quello: un varo effettuato sulle braccia e sulle spalle di qualche milione di persone.

Sabato prossimo si svolgerà a Roma in piazza del Popolo una manifestazione popolare in difesa della libera stampa. Noi che della libera stampa facciamo parte sappiamo quale importanza abbia quest'appuntamento. Non si identifica con i partiti perché non è una visione di parte ma con la difesa d'un delicatissimo diritto costituzionale che l'attuale governo ha leso e continua a ledere pervicacemente con continue intimidazioni e prevaricazioni che tra poco verranno allo scoperto anche nella Rai. Ci auguriamo che quella piazza sia gremita e faccia sentire la sua presenza e la sua voce.

Il rinascimento della democrazia italiana è affidato agli italiani, agli uomini e alle donne di buona volontà, a chi non teme di impegnarsi in battaglie civili che ci riscattino dall'ipnosi in cui il paese sembra precipitato. Nessun dorma: non è questa la condizione necessaria per riprendere il cammino?

(13 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #158 inserito:: Settembre 13, 2009, 10:04:42 pm »

La caccia al laico

di Eugenio Scalfari


Dove sono i 'laici furiosi' di cui parla Bosetti nel suo libro che intonerebbero il vade retro? Semmai sono i cattolici, al potere da sessant'anni, che dovrebbero farsi più in là  La copertina del libroHo letto con interesse ed anzi con passione il libro di Giancarlo Bosetti dal titolo 'Il fallimento dei laici furiosi' (editore Rizzoli pagg. 198, euro 13) appena uscito nelle librerie, del quale una succosa anticipazione è stata pubblicata sulla 'Repubblica' del 2 settembre. Con passione, perché anche a me non piacciono i laici furiosi, gli anticlericali per partito preso che non riconoscono ed anzi giudicano un segno di 'intelligenza col nemico' il consenso dei laici all'uso del cosiddetto spazio pubblico da parte della Chiesa. Gli anticlericali o laici furiosi che dir si voglia si rifanno alla dottrina liberale e cavourriana dello spazio privato che dovrebbe essere il solo concesso alla religione in uno Stato ideologicamente laico. Questa visione era adeguata allo Stato liberale di due secoli fa.

Le Costituzioni vigenti nei paesi evoluti dell'Occidente configurano oggi regimi liberal-democratici, nei quali tutte le opinioni e tutte le dottrine hanno diritto di esprimersi, di dar vita ad associazioni, partiti, sindacati, gruppi di interessi, movimenti, consentendo a tutti - e in prima linea alle istituzioni religiose - di manifestarsi pubblicamente. La religione dunque non è più soltanto un fatto privato, anche se riguarda principalmente le coscienze individuali, ma è anche un fatto pubblico e come tale va trattato e regolato.

Pensavo dunque di trovare nel libro di Bosetti, amico che stimo da molto tempo, conferma di questi miei pensieri e nuove ragioni per sostenerli. Mi sono invece imbattuto in una per me sgradevole sorpresa: il laico moderato e nient'affatto anticlericale che ritenevo di essere non mi somiglia affatto; nelle pagine di Bosetti mi si attaglia di più il ritratto del laico furioso. Probabilmente c'è un equivoco alla base di questa mia sorpresa e poiché la questione è grossa sarà bene chiarirlo.

Scrive l'autore che "nel corpo a corpo con la Chiesa è uscito dal campo visivo il fatto che le religioni nello Stato liberale non sono solo tollerabili ma benvenute e forse necessarie. Comunque inevitabili, e inseparabili dalla generalità degli esseri umani". E qui c'è un primo punto da chiarire: religioni benvenute, d'accordo; inseparabili dalla generalità degli esseri umani, molto meno d'accordo. Il processo della modernità va da almeno tre secoli di pari passo con la secolarizzazione delle società occidentali. Perfino in Italia, che in questo processo non è certo stata all'avanguardia, i cattolici rappresentano all'incirca il 40 per cento della popolazione adulta. Il resto non pratica la religione, non frequenta le chiese e i sacramenti, tanto meno gli oratori, né milita per altre religioni se non con striminzite minoranze. Diciamo che è indifferente; diciamo che il tema non interessa.

Non entro nel merito, almeno per ora. Non dico cioè che la secolarizzazione è un gran male oppure un gran bene. Ma constato il fatto e deduco che è sbagliato pensare che la generalità delle persone non può vivere senza religione. Io, per fare un esempio, sono un non credente e non avverto alcuna angoscia per questo.
Più oltre Bosetti scrive: "I laici non hanno una cultura dell'accoglienza dei credenti nella scena pubblica e nella vita politica. Se lo facessero vincerebbero più battaglie di quanto ne abbiano perse con i loro avversari clericali contro i loro dogmi non negoziabili e la loro prepotenza curiale".

Che la prepotenza curiale e l'arrogante pretesa di voler tradurre i dogmi non negoziabili in prescrizioni legislative siano un dato di realtà è purtroppo pura verità. Ma attribuirne la causa ad una mancata politica dell'accoglienza, francamente mi sembra una spiegazione di pura fantasia. Non mi sembra proprio che ai cancelli dello spazio pubblico ci siano burbere sentinelle laiciste che impediscano l'entrata alle religioni. Semmai ci sono alcuni partiti in Italia, a cominciare dallaLega, che fanno di tutto (e ci riescono) per impedire ad altre religioni di avere uno spazio pubblico. Manca, questo sì, una politica di accoglienza verso gli immigrati regolari che comincia proprio dagli ostacoli frapposti alla dignitosa pratica dei loro culti, in particolare del culto musulmano.

E qui si pone un terzo problema che mi pare Bosetti trascuri. Egli ha ragione di dire che la presenza delle religioni nello spazio pubblico è la dimostrazione più evidente dell'esistenza del pluralismo. È così. Ma lo è quando le religioni presenti sono numerose e quando (mi permetto di aggiungere) è anche numerosa e attiva l'opinione dei non credenti. Ma non è questo il caso italiano dove la religione cattolica è la sola in campo, la sola a potere esprimere, motivare, pretendere, spesso imporre quei famosi dogmi trasferiti in norme legislative, in assenza di dibattito religioso. Ci sono i cattolici e c'è una vasta marea di indifferenti. E basta. Dov'è la non accoglienza? C'è bisogno di accoglienza nei confronti d'un ospite ma è difficile se non impossibile accogliere il padrone di casa.

Infine scrive Bosetti: "Gli affannati guerrieri laici rivolgono ai credenti tutti i giorni un unico messaggio: 'Vade retro'. È giunto invece il momento di affermare un convinto 'vieni avanti'".

Caro Giancarlo, permettimi di dirti che sono rimasto sbalordito nel leggere queste righe. A parte il fatto che non vedo moltitudini di guerrieri laici che intonano il 'vade retro' e che, quand'anche ce ne fosse qualcuno e avesse una qualche visibile tribuna, spetterebbe anche a lui il diritto di esprimersi liberamente. Ma, ripeto, questi rombanti guerrieri non sono un dato di realtà. Tutto al più qualche eccentrico che sale su un panchetto ed arringa il vuoto.

Quanto al 'vieni avanti' da rivolgere ai cattolici, ripeto ciò che ho già detto: dal 1947 in poi sono già entrati ed hanno occupato tutte le stanze della casa che dovrebbe essere comune. Noi, semmai, ci siamo ridotti nei ripostigli e nelle soffitte. Non spetta dunque a noi laici invitarli a farsi ancora più avanti. Governano ininterrottamente da sessant'anni questo paese. Noi dai nostri ripostigli di laici non furiosi, ma neanche desiderosi di intonare il 'Confiteor', avremmo il diritto di dir loro: fatevi più in là. Spero che tu sia d'accordo con quanto qui ho scritto anche se qualche timore che l'accordo non ci sia, leggendoti mi è venuto.

(10 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


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« Risposta #159 inserito:: Ottobre 04, 2009, 07:35:53 pm »

Non era una folla ma era un popolo

di EUGENIO SCALFARI


QUESTO articolo è dedicato al tema del testamento biologico, che tornerà tra breve di stretta attualità e sul quale è da tempo in corso un ampio dibattito che coinvolge diverse concezioni del bene comune.
Sento tuttavia la necessità prima d'affrontare quel tema, di esprimere il mio pensiero sulla manifestazione che si è svolta ieri pomeriggio in Piazza del Popolo a Roma in nome della libertà d'informazione. Ne torno in questo momento e ne sono dunque mentre scrivo ancora caldi i sentimenti e le emozioni che essa ha suscitato.

Sul senso politico e soprattutto costituzionale di quell'imponente raduno di persone, di associazioni, di sindacati e di forze politiche, ha scritto ieri Ezio Mauro. La gente è andata in piazza per difendere la prima delle libertà, preliminare rispetto a tutte le altre, struttura portante della democrazia. Questo sentimento accomuna i cittadini al di là e al di sopra di tutte le differenze di parte e ieri infatti si è andati in piazza in nome della Costituzione repubblicana.
Non era una folla, era un popolo che gremiva fino all'inverosimile non solo la piazza ma l'adiacente piazzale Flaminio, le balconate e le terrazze del Pincio, la via di Ripetta, la via del Corso fino a piazza Augusto, la via del Babuino. Addensati come non mi era capitato mai di vedere in situazioni consimili.
Dico che non era una folla ma un popolo perché non erano lì per ascoltare e osannare un leader, un capo carismatico alle cui parole e al cui fascino avrebbero agganciato le loro pulsioni, i loro sogni, le loro attese.

Erano lì in nome di convinzioni maturate da tempo, d'una visione propria e condivisa del bene comune, del rifiuto della demagogia. Erano lì per solidarizzare con due giornali attaccati dal potere politico e con le poche trasmissioni televisive che non sono al guinzaglio del potere. Ed erano lì per testimoniare l'essenza democratica delle donne e degli uomini di buona volontà, di chi ricorda il passato e vuole costruire il futuro.

Tra le tante strette di mano e di abbracci dati e ricevuti, l'incoraggiamento che tutti ci hanno rivolto è stato di resistere, continuare, non mollare. M'è venuto in mente che "non mollare" fu il motto adottato sotto il fascismo da Ernesto Rossi e dai promotori di "Giustizia e Libertà". Le battaglie civili che si combattono oggi sono molto diverse da quelle di allora, ma il senso è il medesimo: in un'epoca appiattita e priva di ideali, occorre risvegliare un paese cloroformizzato, disinformato, indifferente e ricondurlo all'impegno civile.

Questo intendeva dirci il popolo di quella piazza. Non erano loro ad ascoltare noi, ma noi a sentirceli vicini e far nostre le loro indicazioni: resistete, continuate, non mollate. E noi, per il fatto stesso di fare correttamente il nostro mestiere, resisteremo, continueremo, non molleremo.

* * *

Il testamento biologico non è ancora calendarizzato nei lavori della Camera dei Deputati ma lo sarà tra breve. Il Senato l'ha già approvato in una versione che piace al centrodestra ed è invece ritenuta fondamentalista dal centrosinistra. I due opposti schieramenti non sono comunque compatti. Da molte parti si vorrebbe un rinvio di decantazione ma è improbabile che si ottenga poiché per il "premier" è preziosa merce di scambio con la Chiesa per riacquistare una credibilità, anzi una legittimità politica da parte della gerarchia ecclesiastica.

Le posizioni in campo si possono ridurre alle seguenti:
1. Un testamento redatto e firmato dall'interessato subito dopo l'approvazione della legge e periodicamente aggiornato, nel quale l'interessato disponga a piacimento del suo corpo quando si trovi in uno stadio terminale a causa d'una malattia giudicata dal medico incurabile. L'interessato designa anche l'esecutore testamentario chiamato a far valere la sua volontà in caso di sua incoscienza e quindi impossibilità di esprimersi. Il documento così redatto deve essere depositato presso un notaio. Dalle disposizioni del testatore è comunque esclusa per legge la somministrazione di nutrimento che non fa quindi parte della terapia.

2. Il ministro della Sanità propone in alternativa il ritiro della legge e lo stralcio per quanto riguarda la somministrazione dei nutrimenti. Lo stralcio dovrebbe stabilire secondo il ministro che il nutrimento deve essere in ogni caso somministrato fino a quando la morte non avvenga.

3. La legge di cui al punto 1 dovrebbe essere emendata e includere anche la somministrazione nella disponibilità del testatore.

4. Non si faccia nessuna legge lasciando all'interessato di decidere direttamente in accordo con i suoi familiari e con il suo medico di fiducia. Ma saranno comunque necessarie garanzie per i medici che eseguono la volontà del malato di interrompere terapia e nutrimento. In questo contesto si potranno anche inserire norme contro l'eutanasia e contro l'accanimento terapeutico.

Queste sono le quattro posizioni che si confronteranno alla Camera e al Senato se, come sembra probabile, la legge sarà modificata e quindi rinviata a Palazzo Madama per una seconda lettura.

La posizione numero 1 è appoggiata dalla maggior parte del centrodestra cui in questa occasione si aggiungeranno i voti dell'Udc. Quella numero 2 ne costituisce una variante. Quella numero 3 raccoglie la maggioranza del centrosinistra e probabilmente anche dei "liberali" di centrodestra. La numero 4 ne rappresenta una variante che tende a limitare al massimo l'intervento della politica in una questione eminentemente privata.

* * *

Decisioni su temi di questa complessità, che riguardano la concezione della vita e le modalità operative che implicano inevitabilmente l'intervento dei medici, non possono essere adottate senza un contributo determinante dell'opinione pubblica, non foss'altro per la ragione che resta possibile il ricorso ad un referendum abrogativo da parte di chi non fosse soddisfatto della normativa decisa nelle aule parlamentari.

Il pubblico dibattito è dunque oltremodo necessario, soprattutto per informare i cittadini della sostanza della questione e delle sue implicazioni rispetto ad una complessiva visione del bene comune. Si confrontano in un dibattito di questa natura posizioni diversamente ispirate ed anche specifiche deontologie, la prima delle quali si può definire "ippocratica" e riguarda l'intera classe medica, deontologicamente vincolata al cosiddetto giuramento di Ippocrate che pone la medicina al servizio della preservazione della vita. Può un medico contravvenire a quel giuramento per dare esecuzione alla volontà di un malato?

La questione non è di poco conto ed infatti è ampiamente utilizzata da quanti si oppongono alla tesi dell'interruzione delle terapie nel caso di malattie incurabili giunte allo stadio terminale.

La constatazione dell'incurabilità e dello stadio terminale è di pertinenza dell'équipe medica che segue l'ammalato in questione. I medici dunque non vengono espropriati del loro ruolo essenziale, anzi esso ne risulta ulteriormente rafforzato come è giusto che sia.
Il giuramento di Ippocrate può dunque essere razionalmente superato sulla base di tre considerazioni.

La prima riguarda il progresso delle tecnologie curative che hanno fortemente modificato il momento della morte, non più identificato nella cessazione del battito cardiaco ma nella morte cerebrale. Questa nuova concezione del momento della morte, sulla quale si basa la tecnica degli espianti e trapianti di organi ancora vivi, conferisce alla tesi ippocratica una flessibilità ed una relatività prima sconosciuta, che fanno appello alla coscienza responsabile del medico e al rapporto tra il giuramento di Ippocrate e il caso specifico di quel malato.

La seconda considerazione riguarda l'accanimento terapeutico il cui divieto è ormai universalmente accettato.

La terza riguarda la cura del dolore, anch'essa accettata da tutti, comprese le varie chiese cristiane.
Ma accanto e al di sopra della tesi ippocratica che ha natura essenzialmente deontologica, si staglia la concezione religiosa che assegna non già alla libera volontà individuale ma soltanto a Dio la potestà sulla vita e sulla morte delle sue creature. Qui sta il nocciolo dell'intera questione. Come si supera l'obiezione del "pro vita"? E le obiezioni di coscienza che da questa tesi derivano?

* * *

Va detto innanzitutto che l'obiezione "pro vita" motivata da un'autonoma decisione individuale e/o dal richiamo religioso alla potestà non discutibile del Creatore, ha pieno diritto di essere sostenuta nello spazio pubblico dove tutte le opinioni hanno diritto di esprimersi cimentandosi con opposti modi di pensare e di comportarsi. Del resto il testamento non è obbligatorio, si muore anche senza di esso. Parlo qui del testamento civile, in assenza del quale l'eredità viene assegnata "ope legis" secondo le normative del codice.

In caso di testamento biologico però, l'assenza di esso crea non pochi problemi che tuttavia vengono superati dall'esistenza d'un parente di strettissimo grado di parentela: coniuge, figlio, genitore. Oltre questa cerchia non si può andare. Su questa base del resto la Corte di Cassazione decise il caso Englaro riconoscendo al padre il potere decisionale in rappresentanza della figlia Eluana. Infine, in mancanza di parenti di strettissimo grado, il magistrato può nominare un curatore a tutela del malato incurabile e terminale.

Ma torniamo all'obiezione religiosa e dal canto nostra obiettiamo: la tesi "pro vita" ha pieno diritto d'essere pubblicamente e fortemente sostenuta ma essa non può essere imposta a chi non la condivide; lo Stato democratico non può far propria la tesi "pro vita" (intesa nel senso di impedire le libere decisioni individuali che comprendano la cessazione delle terapie e della nutrizione) senza con ciò trasformarsi in uno Stato etico, portatore di concezioni etiche e religiose, che rappresenterebbero una deformazione non solo autoritaria ma totalitaria in aperto contrasto con lo spirito e con la lettera della Costituzione repubblicana.

Queste del resto furono le motivazioni che portarono alla legislazione sul divorzio, sull'aborto, sulla procreazione medicalmente assistita: istituti che non impongono nulla a nessuno limitandosi a riconoscere diritti, anzi facoltà per chi voglia avvalersene e soltanto per lui.

Neppure la Chiesa, comunque, è monolitica su temi di questa delicatezza e complessità. Recentemente il cardinal Martini si è espresso con molta chiarezza sul significato profondo del "pro vita" cattolico e dal suo punto di vista va sostenuto e affermato mettendolo tuttavia in rapporto con la dignità della persona. Due valori che vanno entrambi rispettati e dei quali, in certe circostanze, il secondo può addirittura prevalere sul primo come del resto attesta la considerazione in cui il martirologio è ricordato e venerato dalla Chiesa. La dignità del martire è connessa alla testimonianza della sua fede e per essa una persona sana si immola anziché abiurare. La persona ammalata chiede di affrettare una ormai inevitabile morte per rispetto verso l'opera del Creatore. Non è in tutte e due i casi un problema di dignità?

Il testamento biologico rientra tra quei grandi temi morali e culturali che possono rafforzare la tempra democratica d'un paese. Avvilirlo in uno scambio lobbistico sarebbe quanto di peggio possa accadere. È purtroppo vero che al peggio ci stiamo abituando, ma questo è appunto il pericolo che sta correndo la democrazia ed anche la religione. Il popolo di Dio dovrebbe preoccuparsene quanto noi e più ancora di noi.

(4 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #160 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:10:39 am »

Tremonti peggio di Brunetta

di Eugenio Scalfari

Il ministro dell'Economia cita la filosofia di Hegel ma la applica malissimo.

Con danni molto gravi alla nazione e allo Stato
 

Ha fatto molto scalpore l'arringa (chiamiamola così) pronunciata dal ministro Brunetta dinanzi ai villeggianti di Cortina d'Ampezzo che svagano i loro pomeriggi incontrando i talenti politici nazionali nel meraviglioso anfiteatro disegnato dalle rocce del Cristallo, delle Tofane e del Faloria. Effettivamente il ministro della Funzione pubblica ci ha dato dentro con un lessico che ci ricorda il leggendario Ventennio del "me ne frego". Ha mandato a "morire ammazzata" la sinistra cattiva, ha lanciato una veemente accusa contro "l'élite di merda dei ricchi golpisti" e insieme con essa "il gruppo editoriale golpista di merda" del quale abbiamo l'onore e l'onere di far parte. Mentre parlava misurava il palco a lunghe falcate (si fa per dire), spesso interrotto dalle ovazioni di un pubblico che si beava di quanto ascoltava. Sembrava, a quanto hanno riferito alcuni colleghi presenti per dovere professionale, che la parola merda avesse un effetto euforizzante sugli astanti e il Brunetta ha fatto quanto poteva per mandarli a casa felici.

Ho notato tuttavia, scorrendo i giornali dell'indomani, che alcuni colleghi critici del ministro della Funzione l'hanno confrontato con l'eleganza e lo stile forbito del suo collega Tremonti. Non c'entrava niente Tremonti con lo show ampezzano, ma alcuni l'hanno tirato in mezzo quasi a voler dimostrare che nel governo del Cavaliere non tutti i gatti sono bigi e se c'è chi con la merda si diletta c'è anche chi offre cibi sofisticati e più graditi al palato.

Basta. Mi stavo quasi appisolando alla lettura delle gesta ampezzane del Brunetta ma il cuore mi è volato verso lo scrittoio di Quintino Sella dietro al quale siede da alcuni anni Giulio Tremonti.
Con il ministro dell'Economia ho qualche questione aperta, lo riconosco; sicché c'è il rischio (ne avverto i lettori) che io non sia nei suoi confronti così obiettivo come dovrei. Non cesso di porgli questioni alle quali da molti mesi si rifiuta di rispondere. Pazienza, vivremo lo stesso.

Ma per convincermi che Tremonti è un ministro buono, di maggiore statura del suo collega della Funzione, mi sono procurato la lunga intervista da lui data al 'Corriere della Sera' del 15 settembre, ampiamente decantata dal giornalismo italiano di buona osservanza. Ebbene, cari lettori, vi consiglio di leggerla. La potrete trovare facilmente nell'archivio elettronico di quel giornale ed anche del nostro. Vi assicuro che ne vale la pena.

L'intervistatore, che è il bravissimo Aldo Cazzullo, esordisce con una domanda aguzza: "Nel Palazzo si parla di complotto e d'una nuova maggioranza. Lei che ne pensa?". Come parlar di corda in casa dell'impiccato, ma il Tremonti non si scompone. Risponde parlando della caverna di Platone. L'argomento è tosto. La caverna di Platone è uno dei 'topos' della filosofia greca e ha dato luogo ad un ampio ventaglio di interpretazioni, ma il Tremonti va giù di piatto: "In quella caverna gli uomini non vedono la realtà ma le ombre della realtà proiettate sulle pareti". E continua: "C'è una drammatica asimmetria tra la realtà del Paese e del governo e la rappresentazione che se ne fa".

Ben detto, perdinci. È esattamente quello che dico anch'io e i miei colleghi di giornali cattivi. Anzi dei giornali farabutti. Tremonti è dunque d'accordo con noi? Che miracolo è questo? Mi sono stropicciato gli occhi ma poi ho capito: il ministro usa il nostro stesso metodo logico ma arriva ad opposte conclusioni.
Speravo comunque che il Tremonti spiegasse la situazione economica. In fondo da lui è questo che ci si aspetta e che vorrebbe anche l'intervistatore che gli ha posto un'altra domanda altrettanto aguzza che la precedente: "Crisi: siamo nella fase della paura o della speranza?". Risposta: "Siamo nella fase della prudenza". Non è magnifico? Chi si sentirebbe di contraddirlo?

Ma prima, con l'elegante destrezza logica che lo distingue, aveva chiamato in causa anche Hegel sempre a proposito della falsa conoscenza della caverna platonica. "A volte si confonde l'essere - quello che è - con il dover essere, quello che si immagina debba essere - o con il voler essere, cioè quello che per proprio conto o per tornaconto si vorrebbe che fosse".

Appunto, esimio ministro dell'Economia. A parte il fatto che da lei non ci aspettavamo approfondimenti filosofici ma risposte sull'andamento delle grandezze economiche e della politica che lei sta attuando, resta acclarato che lei sta imponendo da anni il suo voler essere all'essere, cioè a quello che è.

Esempi. Non ci ha ancora detto perché abolì l'Ici all'inizio della legislatura. Non ci ha detto perché e come ha aumentato la spesa ordinaria corrente di 4,9 punti, equivalente a 45 miliardi di euro. Non ci ha detto perché, pur non avendo modificato le aliquote dell'Irpef, la pressione fiscale sia al suo massimo storico nonostante gli impegni del suo governo a diminuirla. Non ci ha ancora detto quali provvedimenti intende proporre per uscire dalla crisi. Non ci ha ancora detto perché, dopo essersi impegnato a non depenalizzare ulteriormente il reato di falso in bilancio e a non consentire l'impunibilità penale degli evasori, ha fatto presentare nelle ultime ore precedenti l'entrata in vigore dello scudo fiscale un emendamento che non consente ai magistrati inquirenti di utilizzare le prove dei reati commessi per la creazione del capitale evaso. Lei ha trasformato, unico tra tutti i ministri europei dell'Economia, lo scudo fiscale in un condono tombale ma si ostina contro ogni comparazione ed ogni evidenza a sostenere il contrario.

La filosofia di Hegel lei la conosce bene ma la applica malissimo. Ne concludo che lei reca alla nazione e allo Stato danni molto più gravi del suo collega Brunetta. Che è tutto dire.

(25 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #161 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:19:32 pm »

L'EDITORIALE

Il caimano si prepara per l'ultima spallata

di EUGENIO SCALFARI


A ME sembra che Silvio Berlusconi sia sottovalutato dai suoi avversari e mal compreso nella logica con la quale persegue i suoi obiettivi. Vengono messi in risalto i suoi errori, le sue gaffe il suo parlarsi addosso e li si attribuiscono ad un prevalere della sua pancia (per dire dei suoi istinti) su una debole razionalità.
Ebbene non è così. Lo conosco da trent'anni e nei primi dieci ho avuto con lui una frequentazione intensa e alquanto agitata.

Non era ancora un uomo politico ma alla politica era già intimamente legato; sia la fase dell'immobiliarista sia quella successiva dell'impresario televisivo erano intrecciate e condizionate dai suoi rapporti politici. Imparò presto a muoversi come un pesce nell'acqua. Poi l'esperienza politica diretta ha perfezionato un innato talento. Perciò - lo ripeto - non è affatto uno sprovveduto in preda ad istinti irragionevoli, salvo quelli sessisti. In quel campo gli istinti lo dominano e l'hanno spinto a commettere errori inauditi; ma in tutto il resto no.

Conosce il suo carattere e lo usa. Conosce la sua tendenza alla megalomania e all'egolatria e la usa. Usa perfino le sue gaffe. L'insieme di queste movenze costituiscono una miscela formidabile di populismo, demagogismo, culto della personalità. In altri Paesi un decimo se non addirittura un centesimo di ciò che dice e che fa avrebbero provocato la sua messa fuori gioco. In altri Paesi il suo mostruoso conflitto di interessi avrebbe impedito il suo ingresso nell'agone politico; non esiste infatti in nessun Paese del mondo un capo di governo proprietario di metà del sistema mediatico e contemporaneamente possessore dell'altra metà.

Ma in Italia questo è possibile. Attenti però: non è un incidente di percorso. La vocazione degli italiani ad innamorarsi di personaggi come Berlusconi fa parte della storia patria. Per fortuna non è la sola vocazione; convive con caratteristiche differenti e anche opposte. Ma quell'innamoramento verso il demagogo è una costante che spesso è diventata dominante e alla fine ha precipitato il Paese nel peggio. Non è ancora avvenuto, ma siamo già abbastanza avanti nella strada che può portarci ad una catastrofe.

* * *

Da questo punto di vista le due sentenze emesse nei giorni scorsi rispettivamente dal Tribunale di Milano sul lodo Mondadori e dalla Corte costituzionale sulla legge Alfano hanno prodotto un'accelerazione che Berlusconi considera provvidenziale per l'attuazione dei suoi piani. L'ira iniziale che l'ha invaso - che viene dalla sua pancia - è stata rapidamente razionalizzata.

L'attacco contro la Corte, contro la magistratura, contro il Csm, contro il Presidente della Repubblica, è proseguito a mente fredda. Non è più ira, è strategia pensata e messa in atto, la spallata finale che dovrà portare l'Italia istituzionale e costituzionale a cambiare volto radicalmente: da repubblica parlamentare a repubblica autoritaria dove tutti gli organi di garanzia siano cancellati o ridotti ad esanimi fantasmi e dove conti soltanto il plebiscito popolare incitato dagli appelli continui alle pulsioni populiste che covano nella pancia di molti. Questo spiega l'allarme esploso nell'opinione pubblica internazionale.

Lo stupore e anche lo sberleffo che nei mesi scorsi si è manifestato sui giornali di tutto l'Occidente al di qua e al di là dell'Atlantico è diventato negli ultimi quattro giorni una preoccupazione generale e l'Italia è diventata il malato di una malattia infettiva.

In altre circostanze questa reazione avrebbe indotto ad un sussulto di prudenza, ma sta invece accadendo l'opposto; il populismo contiene infatti un'abbondante dose di vittimismo che lo rafforza e lo indirizza verso forme di autarchia psicologica delle quali la Lega è da tempo il più esplicito rappresentante e che trovano nel berlusconismo un importante amplificatore.
Le due sentenze sono impeccabili dal punto di vista tecnico - giuridico.

Quella del Tribunale civile di Milano non fa che confermare quanto contenuto nella sentenza di condanna di Cesare Previti per corruzione di magistrati e di Berlusconi per la stessa ragione con il reato però caduto in prescrizione. Agli effetti penali ma non civili. La quantificazione del danno è secondaria.

La sentenza della Corte che definisce incostituzionale la legge Alfano ha come caposaldo l'articolo 3 della Costituzione che stabilisce la parità dei cittadini di fronte alla legge. Questo è il punto di fondo; l'altro elemento invalidante, e cioè la necessità di procedere con legge costituzionale anziché con legge ordinaria, è secondario perché deriva necessariamente dal primo elemento.

Chi accusa la Corte di incoerenza sostiene una tesi priva di senso; anche nella sentenza del 2004 sul cosiddetto lodo Schifani la Corte aveva infatti eccepito la violazione dell'articolo 3. E quindi, se l'articolo 3 risulta violato fin dal 2004, ne segue ineccepibilmente che per ristabilire l'equilibrio costituzionale bisogna procedere con legge costituzionale e non con legge ordinaria. Dov'è l'incoerenza? La legge Alfano aveva ripristinato l'adempimento all'articolo 3 o il suo emendamento? No.

È quindi perfettamente coerente che, di fronte ad un nuovo ricorso, la Corte lo giudicasse ammissibile. Gli avvocati del premier che proclamano l'incoerenza mentono sapendo di mentire. E i media che non chiariscono un punto così fondamentale ai loro ascoltatori e lettori, sorvolano anzi tacciono del tutto su un punto di capitale importanza e danno adito ad una macroscopica disinformazione.

* * *

A questo proposito viene acconcio citare l'articolo uscito ieri sul "Corriere della Sera" e firmato dal suo direttore. L'ho letto e ne sono rimasto colpito e profondamente rattristato. Sono amico di Ferruccio De Bortoli anche se spesso in questi ultimi mesi ho dissentito dalla sua linea giornalistica. Ma in casa propria ciascuno decide liberamente a quale lampione e con quale corda impiccarsi.

L'articolo di ieri va però assai al di là del prevedibile.
Poiché Berlusconi il giorno prima aveva rimproverato il "Corriere della Sera" d'essere diventato di sinistra, il direttore di quel giornale manifesta il suo stupore e il suo dolore. Cita tutti gli articoli recenti da lui pubblicati che hanno sostenuto il governo e le sue ragioni; rivendica di non aver mai partecipato a campagne di stampa faziose, condotte da gruppi editoriali che vogliono pregiudizialmente mettere il governo in difficoltà con argomenti risibili; ricorda di aver approvato la politica economica e sociale del governo, la sua efficienza operativa, la sua politica estera; ammette di averlo criticato solo quando è stato troppo duro con la Corte costituzionale e con il Capo dello Stato; auspica una tregua generale tra le istituzioni; riconosce al presidente del Consiglio l'attenuante di essere perseguitato in modo inconsueto dalla magistratura. Infine ribadisce la natura liberale che storicamente il giornale da lui diretto ha sempre seguito e nello stesso numero pubblica un'intervista a piena pagina con Marina Berlusconi, con splendida foto nella quale la figlia del leader rivaleggia con una Ava Gardner bionda anziché mora, che in quel contesto assume inevitabilmente una funzione riparatoria per qualche birichinata di troppo.

Mi procura sincero dolore un giornale liberale ridotto a pietire un riconoscimento al merito dal peggior governo degli ultimi centocinquanta anni di storia patria, Mussolini escluso. E ridotto ad attaccare noi di "Repubblica", faziosi e farabutti per definizione, per marcare la propria differenza.

Noi siamo liberali, caro Ferruccio. Liberali veri. Non abbiamo pregiudizi, ma vediamo sintomi ed effetti d'una deriva che minaccia le sorti del Paese.
Vediamo anche la totale inefficienza di questo governo che non ha attuata nessuna delle promesse e degli impegni assunti con il suo elettorato salvo quelli che recano giovamento personale al premier e ai suoi accoliti.

Voglio qui ricordare un non dimenticabile articolo di Barbara Spinelli pubblicato dalla "Stampa" di qualche settimana fa, che forse De Bortoli non ha letto. Mi permetto di consigliargliene la lettura. I giornali ricevono molte querele e molte citazioni per danni, ricordava la Spinelli. Fa parte della rischiosa professione giornalistica e degli errori che talvolta vengono compiuti.

Ma quando è il potere politico e addirittura il capo del governo a tradurli in giudizio perché hanno osato porgli domande scomode, quando questo avviene - ha scritto la Spinelli - i giornali che sono in fisiologica concorrenza tra loro fanno blocco comune e quelle stesse domande le pongono essi stessi, le fanno proprie per togliere ogni alibi ad un potere che dà prova di non sopportare il controllo della pubblica opinione. La stampa italiana - concludeva - non ha fatto questo, mancando così ad uno dei suoi doveri.

Si può non esser d'accordo con il codice morale e deontologico della Spinelli (peraltro seguito da tutta la stampa occidentale) e non mettere in pratica le sue esortazioni. Ma addirittura accusare noi d'una nefasta faziosità rivendicando a proprio favore titoli di merito verso il governo, questo è un doppio salto mortale che da te e dal tuo giornale francamente non mi aspettavo. A tal punto è dunque arrivato il potere di intimidazione che il governo esercita sulla libera stampa?

Ricordo, a titolo di rievocazione storica, che Luigi Albertini incoraggiò il movimento fascista dal 1919 al 1922; gli assegnava il compito di mettere ordine nel Paese purché, dopo averlo adempiuto, se ne ritornasse a casa con un benservito. Ma nel 1923 Mussolini abolì la libertà di stampa e instaurò il regime a partito unico, le cui premesse c'erano tutte fin dal sorgere del movimento fascista. A quel punto Albertini capì e cominciò una campagna d'opposizione senza sconti, tra le più robuste dell'epoca. Purtroppo perfettamente inutile perché il peggio era già accaduto, il regime dittatoriale era ormai solidamente insediato e l'ex direttore del "Corriere della Sera" se ne andò a consolarsi a Torrimpietra.

Ad Indro Montanelli è accaduto altrettanto, ma lui almeno se n'è accorto prima. Difese per vent'anni dalle colonne del "Giornale" le ragioni del Berlusconi imprenditore d'assalto. Si accorse nel 1994 di quale pasta fosse fatto il suo editore e lo lasciò con una drammatica rottura. Ma era tardi anche per lui. Se c'è un aldilà, la sua pena sarà quella di vedere Vittorio Feltri alla guida del giornale da lui fondato. Al "Corriere della Sera" quest'esperienza d'un giornalista di razza al quale dedicano un santino al giorno dovrebbero farla propria per capire qual è il gusto e il valore della libertà liberale.

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« Risposta #162 inserito:: Ottobre 13, 2009, 09:23:46 am »

IL COMMENTO

Il coraggio della stampa

di EUGENIO SCALFARI


Ho letto con doverosa attenzione la duplice risposta che Ferruccio de Bortoli ha dato al mio articolo di domenica scorsa per la parte che lo riguardava. Purtroppo è la risposta tipica di chi, non volendo confrontarsi con il tema in discussione, lo sposta su un altro obiettivo. Nel caso specifico sull'oggettività dei giornali o la loro faziosità. Aggiungo che ieri il Tg1 è anch'esso intervenuto a suo modo e a supporto di un resoconto di genere minzoliniano ha intervistato Belpietro e Antonio Polito i quali non hanno trovato di meglio che dichiarare la loro non appartenenza al mio partito e la loro solidarietà con il direttore del Corriere della Sera.

Questi due colleghi fanno da tempo parte organica del club di Bruno Vespa ed è evidente che prendano da me tutte le distanze possibili. Quanto a quello che viene definito "il mio partito", la locuzione significa "le mie idee" che chiunque è liberissimo di non condividere. Ma se questa non condivisione diventa un fatto politico, bisogna domandarsene il perché e con ciò torniamo a de Bortoli.

Il tema della discussione da me aperta è quello di esaminare se la stampa italiana si stia rendendo conto della deriva in avanzato corso verso un regime autoritario, nella direzione voluta dal capo del governo. Una deriva che implica una concentrazione di potere nelle mani del presidente del Consiglio e un contemporaneo indebolimento o addirittura cancellazione degli organi di controllo e di garanzia ancora esistenti: magistratura inquirente e giudicante, autorità che sovrintendono a importanti settori a cominciare da quella "Antitrust", poteri di controllo del Parlamento, Corte costituzionale, presidente della Repubblica, stampa e emittenti radio-televisive.

A nostro avviso una notevole parte della stampa e delle emittenti radio-televisive non sta informando i cittadini della gravità di quanto accade sotto i nostri occhi, smorza volutamente il significato dei fatti e dei comportamenti adottando il metodo così bene illustrato nei "Promessi sposi" laddove il Manzoni racconta il colloquio tra il Conte-zio e il padre generale dei Cappuccini al quale si chiedeva di trasferire in altra sede il combattivo fra Cristoforo che difendeva i poveri Renzo e Lucia dalle soperchierie di don Rodrigo. "Sopire, troncare, padre reverendo; troncare, sopire". Così diceva il Conte-zio e così fu costretto a fare il generale dei Cappuccini. La conseguenza fu l'intimazione a don Abbondio di non eseguire quel matrimonio, il rapimento di Lucia, la fuga di Renzo. Non ci fosse stato il pentimento dell'Innominato e poi la peste, quel matrimonio non si sarebbe mai fatto.
Spesso la grande letteratura serve a capire i fatti quotidiani molto di più dell'acume di chi scrive sui giornali dove i don Abbondio abbondano. Sicché bastò un editto del premier a far buttare fuori dalla tivù Biagi e Santoro ed un altro più recente a far dimettere Giulio Anselmi dalla Stampa e Paolo Mieli dal Corriere della Sera.

Io mi guardo bene dall'augurarmi che de Bortoli condivida le nostre idee e capisco anche che - come scriveva il Manzoni - "il coraggio chi non ce l'ha non se lo può dare".
Ma da qui a sottacere il significato della deriva italiana, morale, politica, economica, sbandierando come titoli di merito verso il governo gli articoli scritti in suo favore, quelli scritti a suo tempo contro il governo Prodi, infine la definizione di Repubblica come un gruppo editoriale nemico del premier e degli interessi del Paese, ebbene questo è un modo volutamente rassegnato di praticare una professione che ha come primo principio deontologico quello di controllare il potere ad ogni passo e in ogni istante.

I giornali non sono partiti ma sentinelle a guardia del pubblico interesse, che dovrebbero rimandarsi l'un l'altro la parola d'ordine e la risposta: "All'erta sentinella", "All'erta all'erta sto". Ebbene, era questa la risposta che speravo d'avere dal direttore del Corriere della Sera. Non l'ho avuta e me ne dispiaccio assai, non per me ma per lui.

De Bortoli sostiene che Repubblica non l'ha mai difeso quand'era sotto attacco da parte del potere politico. Hai una memoria debole, caro Ferruccio.
E perciò cercherò di aiutarti a ricordare citando un mio articolo dell'8 giugno del 2003, poche settimane dopo le tue dimissioni dal Corriere della Sera.

"Misteriose dimissioni, è il meno che si possa dire, perché il protagonista della vicenda le ha blindate con la motivazione delle "ragioni private", con la stanchezza d'una funzione esercitata per oltre sei anni e resa più difficile dalle frequenti pressioni del potere politico, del resto effettuate alla luce del sole. Ma resta un problema: come mai un governo di centrodestra che si dichiara in ogni occasione corifeo dei valori liberal-democratici, mette sotto accusa e attacca come traditore di quei valori un giornale che ha fatto del "terzismo", dell'equidistanza tra le parti politiche in conflitto, della tecnica pesata col bilancino d'un colpo al cerchio e uno alla botte, la sua divisa e la sua funzione?".

Quella mia domanda di allora è rimasta senza risposta ma è ancor più attuale oggi. De Bortoli dirige per la seconda volta il Corriere della Sera dopo l'esperienza conclusa nel 2003. Quell'esperienza è evidentemente ben viva nella sua memoria; adesso conosce meglio i limiti entro i quali può muoversi e li rispetta con maggiore attenzione. Perciò si preoccupa e si addolora se il premier, non contento della sua prudenza, lo avverte che dev'esser più attento e più docile.

Del resto, sempre in tema di direzione del Corriere della Sera, il nostro vicedirettore Massimo Giannini scrisse il 3 dicembre del 2008 un articolo di fondo intitolato "L'editto albanese", quando durante una visita di Stato a Tirana, Berlusconi disse che Giulio Anselmi e Paolo Mieli "dovevano cambiare mestiere". Scrisse Giannini: "Dietro quelle parole del Cavaliere c'è una visione totalitaria della democrazia che tra un editto e l'altro sta ormai precipitando in un'autocrazia".

La cosa singolare è che tutta la stampa internazionale, quella progressista e anche quella conservatrice, considera il nostro premier come un personaggio che ha ormai sorpassato ogni limite accettabile. Dopo i suoi attacchi alla Corte costituzionale e al capo dello Stato lo descrive come un pericolo per tutti, portatore di un virus infettivo il cui solo contatto è rischioso. Leggete il Newsweek di questa settimana che è l'esempio più recente di questa preoccupazione.

Io vorrei, noi vorremmo, che la stampa italiana non fosse meno lucida e meno coraggiosa di quella internazionale. Mi sembra purtroppo un vano desiderio.

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« Risposta #163 inserito:: Ottobre 16, 2009, 11:24:27 pm »

La grande slavina

di Eugenio Scalfari


Dalla tragedia di Messina alla faziosità esibita del direttore del Tg1.

Dalle parole in libertà di Di Pietro alle assenze dei deputati dell'opposizione.

Una sequenza di eventi allarmanti
 

Molte cose in questa settimana, eventi grandi e piccoli, comportamenti oggettivamente virtuosi ed altri oggettivamente condannevoli (uso l'avverbio 'oggettivamente' per rispettare la norma che condanna il peccato ma non il peccatore). Non potendo analizzare il vasto campo di tanti accadimenti, adotterò l'antico metodo della spigolatura.

Il ministro dello Stato sociale, che mette continuamente bocca in faccende che non lo riguardano, ha detto che la manifestazione del 3 ottobre in piazza del Popolo a Roma dedicata alla libertà d'informazione è stata un flop. Ad essa hanno partecipato trecentomila persone. Tutta l'area dal ponte sul Tevere che proviene da piazza della Libertà fino a piazza Augusto Imperatore era gremita all'inverosimile. Non so quali siano i metri di giudizio del ministro Sacconi. Se questo è un flop vuol dire che si aspettava tre o quattro milioni di persone. Cercheremo di far meglio la prossima volta.

Giovedì primo ottobre sono andati in onda 'Annozero' alle ore 21.10 e 'Porta a porta' alle 23.20. La prima, condotta da Santoro, ha registrato un ascolto di 7 milioni di persone, la seconda condotta da Vespa poco meno di 2 milioni. In quel pomeriggio Berlusconi ricevette il direttore di 'Libero', Belpietro, che è poi intervenuto ad entrambe le trasmissioni. E Bruno Vespa. Quest'ultimo ha precisato in una lettera a 'Repubblica' d'essere andato a parlare con il premier del suo nuovo libro. L'ha scritto e noi gli crediamo, ma questo non modifica in nulla il fatto che una trasmissione della Rai ha preso di petto un'altra trasmissione della medesima azienda.

Sarebbe certamente un esempio di pluralismo se Santoro da un lato e Vespa dall'altro avessero ispirato le rispettive trasmissioni sul medesimo oggetto con modalità diverse l'uno dall'altro; ma non è soltanto questo che è avvenuto. Vespa, attraverso i suoi ospiti Belpietro, La Russa e Romani ha attaccato con aperta polemica la trasmissione 'Annozero' ed ha stentoreamente ripetuto per tre volte che "gli intolleranti sono di sinistra". Può senz'altro dirlo, è un'opinione come un'altra, ma con questo modo di condurre ha ormai definitivamente certificato che anche la Rai ha il suo Emilio Fede. Noi lo sapevamo da un pezzo, adesso è palese per tutti.

Minzolini. Che dire del direttore del Tg1? Del suo editoriale del 3 ottobre sulla manifestazione appena conclusa a Piazza del Popolo? Di fronte a Minzolini, Bruno Vespa somiglia al re Salomone quanto a imparzialità di giudizio; fa finta di essere imparziale e qualcuno ci casca anche. Minzolini no, non fa finta. Minzolini è fazioso, ne è consapevole e vuole farlo sapere. Non potendo esserlo fino in fondo nel suo Tg1 se non con lo strumento assai usato delle omissioni, interviene personalmente manipolando la realtà di quanto è accaduto. La sera del 3 ottobre il direttore del Tg1 si è volontariamente collocato non solo più a destra di Vespa ma dello stesso Emilio Fede sopra ricordato. Qui non si tratta di giornali di proprietà privata ma del servizio pubblico. Quanto può continuare una situazione di questo genere?

Antonio Di Pietro ha pesantemente attaccato il presidente della Repubblica sostenendo che aver promulgato la legge sullo scudo fiscale è stato un atto "oggettivamente vile". Tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione si sono schierate a difesa del Presidente manifestandogli piena solidarietà. Il Quirinale ha detto che le accuse di Di Pietro sono "al di là di ogni commento". Non si poteva dir meglio.

Napolitano, rispondendo alle domande di alcuni cittadini sull'argomento in questione, ha spiegato che la legge sullo scudo fiscale non contiene a suo avviso evidenti elementi di incostituzionalità. Così stando le cose il presidente della Repubblica non ha il potere di bloccare la legge. Cade quindi totalmente l'accusa di Di Pietro, motivata soltanto dal suo populismo e dalla sua affannosa ricerca di visibilità.

Il Presidente, nel corso delle sue spiegazioni, ha aggiunto che la Costituzione gli assegna il potere di rinviare una legge alle Camere in seconda lettura, ma prevede anche che la sua firma di promulgazione diventi obbligatoria quando il Parlamento gli rinvia per la seconda volta la legge, anche se identica a quella approvata e poi rinviata. Quindi il potere di rinvio è di fatto inutile. Così Napolitano.

Su quest'ultimo punto mi permetto un'osservazione. Se ci fossero evidenti elementi di incostituzionalità il potere di rinvio può e anzi deve essere esercitato. Potrà provocare il ravvedimento delle Camere e comunque eserciterà un peso non indifferente sulla pubblica opinione. Conoscendo Giorgio Napolitano siamo sicuri che in caso di palese incostituzionalità, egli userebbe tutti i poteri di cui dispone e il rinvio al Parlamento tra questi.

Ventinove deputati d'opposizione (22 appartenenti al Pd) non erano presenti al voto conclusivo sullo scudo fiscale. Il provvedimento è passato con soli 20 voti di maggioranza perché al centrodestra le assenze erano più d'una sessantina.

Le assenze tra le file dell'opposizione hanno provocato grandissimo sconcerto nell'opinione pubblica. Gli organi del Pd e dell'Udc si sono impegnati ad applicare dure sanzioni contro gli assenti. Certo gli ammalati sono fuori questione se le ragioni d'impossibilità saranno adeguatamente certificate. Gli altri assenti non ci pare che meritino scusanti, neppure quelli che erano lontani da Roma e potevano agevolmente rientrare.

Metto per ultimo l'evento più grave della settimana: il nubifragio e le frane a Messina, i morti, i dispersi, le rovine. Si è trattato, come tutti i giornali hanno scritto, di una catastrofe annunciata perché i fenomeni franosi in quella zona si erano già ripetutamente verificati da oltre un anno. Faccio dunque una domanda a Bertolaso, sottosegretario e capo della Protezione civile: non spetta anche a lui, anzi a lui soprattutto, il compito di prevenire i disastri quando essi sono già stati avvistati? Era certamente al corrente della situazione a Messina, che cosa ha fatto per prevenire il disastro? Mi aspetto una risposta in mancanza della quale dovrei dedurre che il vezzo di non rispondere alle domande della stampa è ormai diventato generale nel governo di cui anche Bertolaso fa parte.

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #164 inserito:: Ottobre 18, 2009, 05:22:53 pm »

L'EDITORIALE

Alle primarie il pugno del partito che non c'è

di EUGENIO SCALFARI


OGGI ci occuperemo del Partito democratico. Finora in questi articoli domenicali il tema è stato volutamente trascurato, ma ora è diventato di stringente attualità: domenica prossima, 25 ottobre, ci saranno le primarie che decideranno chi sarà il segretario nazionale del Pd, un evento importante non solo per quel partito ma per l'intera opposizione e anche per il sano funzionamento della democrazia italiana.

Il tema è complesso, perciò bisognerà esaminarlo nei suoi vari aspetti. Comincerò da Veltroni, insediato alla segreteria nell'autunno del 2007, pochi mesi prima delle elezioni che portarono alla vittoria di Berlusconi.
L'altro ieri in un "talk show" dell'emittente La7 qualcuno dei presenti in studio ha detto che Veltroni e D'Alema non soltanto sono politicamente irresponsabili, ma anche "due cretini". Proprio così: cretini.

C'è sempre una prima volta e questa è infatti la prima volta che un epiteto del genere è stato affibbiato ad un uomo politico. Non era mai stato usato. Se ne dicono tante sui politici, anche più sanguinose di questa, ma cretino non si era mai sentito in un salotto televisivo. Ma ormai gran parte dei salotti televisivi sono diventati dei "saloon" dove tutti i clienti portano le pistole nella fondina e il coltello nascosto nel risvolto degli stivali. Così va il mondo.

Nella campagna elettorale del 2008 il partito di Forza Italia arrivò al 37,5 per cento; il Pd guidato da Veltroni ottenne il 33,5 e tutti, fuori e dentro di esso, decretarono una solenne sconfitta. Invece non era stata una sconfitta: una formazione politica riformista con alle spalle pochi mesi di vita era arrivata a superare i risultati del Pci che, dalla segreteria di Natta in poi, non era mai riuscito ad andare oltre il 30 per cento. Senza dire che i riformisti italiani di ispirazione liberal-socialista in cent'anni di storia prima monarchica e poi repubblicana non sono mai usciti da un ruolo di pura testimonianza.
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Non era dunque una sconfitta ma un punto di partenza più che rispettabile. Non fu vissuta così e questo è stato un grosso errore del quale non fu responsabile quel cretino di Veltroni.
Oggi i sondaggi sulle intenzioni di voto danno il Pd al 30 per cento. Non è molto ma è qualcosa se si pensa che un mese fa la più antica socialdemocrazia europea, l'Spd tedesca, ha ottenuto meno del 23 per cento; i socialisti francesi sono a pezzi; il Labour inglese è in piena tempesta e neanche Zapatero se la passa molto bene. Sembra un paradosso, ma un partito del quale tutti dicono che non esiste più o che è allo sbando, risulta quantitativamente il più forte della sinistra europea. Non è certo consolante per i rapporti di forza nel Parlamento di Strasburgo, ma è un dato di fatto dal quale dobbiamo partire.

* * *

Un altro dato di fatto ancora più significativo emerge dalla votazione di pochi giorni fa per il congresso del Pd. Sulla base dello statuto di quel partito hanno votato i soli iscritti che rivoteranno insieme agli elettori alle primarie del 25 ottobre. I votanti sono stati 450.000 pari al 60 per cento degli iscritti. Mi domando quali sono stati i congressi di grandi partiti in Italia negli ultimi dieci anni e quale di essi - se ce ne sono stati - è riuscito a mandare poco meno di mezzo milione di persone al voto.

Un partito che non esiste? Un partito di sfiduciati, di ipercritici, di indifferenti, senza dibattito interno, senza passione, senza speranze, come viene descritto da giornaloni e da giornaletti? Lascio ai lettori la risposta.
È vero però che lo statuto è molto contraddittorio e inutilmente complicato. Chi l'ha redatto e chi lo ha approvato voleva evidentemente accontentare tutti con l'inevitabile conseguenza d'aver prodotto una procedura inadeguata e confusa. Alcuni volevano sottolineare che gli iscritti debbono contare decisamente di più dei simpatizzanti; di qui una prima fase riservata al voto degli iscritti.

Una fase tuttavia puramente registrativa poiché la decisione è riservata alle primarie dove iscritti ed elettori voteranno insieme. Pierluigi Bersani è risultato in testa nel voto degli iscritti ma ora è di nuovo in gioco nel voto delle primarie. Che senso ha una procedura così sconclusionata? Credo che, una volta conclusasi questa partita, i nuovi organismi dirigenti che usciranno dal voto delle primarie dovranno rimetterci le mani e renderla più adeguata alle esigenze della chiarezza e della logica.

Come se non bastasse, lo statuto ha anche stabilito che le primarie eleggeranno il segretario soltanto se uno dei tre candidati in lizza otterrà il 50 più uno dei voti espressi. Qualora ciò non avvenisse avrà luogo una terza fase dinanzi all'Assemblea nazionale eletta anch'essa il 25 ottobre. In questa terza fase i candidati rimasti in lizza saranno i primi due votati alle primarie. Il terzo sarà escluso dalla gara ma in realtà sarà il più forte dei tre perché i suoi rappresentanti nell'Assemblea, appoggiando uno dei due candidati in lizza, lo porteranno alla vittoria, naturalmente ponendo le loro condizioni di programma e di potere.
Le regole sono queste e vanno rispettate, ma sono a dir poco scriteriate perché di fatto danno il massimo potere al terzo arrivato. La conseguenza sarebbe quella di produrre un sentimento di frustrazione in tutti gli elettori delle primarie che vedrebbero capovolte le loro indicazioni.

Per evitare un cul di sacco così traumatico ho avanzato giorni fa una proposta. Io non sono un iscritto al Pd e mai mi iscriverò perché faccio un altro mestiere incompatibile con una tessera di partito. Ma parteciperò alle primarie perché sono un elettore e voterò per quel partito. Ho dunque proposto un accordo politico tra i tre candidati: si impegnino anticipatamente e pubblicamente, se nessuno di loro raggiungerà la maggioranza assoluta, a far affluire i propri voti in assemblea su quello dei candidati che ha ottenuto alle primarie la maggioranza relativa.

In tal caso il voto delle primarie sarà rispettato, le regole dello statuto anche e - altro risultato non disprezzabile - il segretario nazionale sarà eletto dall'Assemblea all'unanimità. La mia proposta, forse proprio perché veniva da persona esterna al partito, ha avuto successo: l'impegno è stato preso sia da Bersani che da Franceschini. Esso darà maggior sicurezza e maggiore impulso a tutti quelli che si dispongono a votare il 25 ottobre.

* * *

Fin qui abbiamo trattato questioni di procedura. Importanti, perché senza procedure corrette non si ottengono risultati corretti. Ma ora dobbiamo esaminare il merito, cioè le proposte dei vari candidati, quelle che li uniscono e quelle che li dividono. Chi voterà alle primarie lo farà sulle proposte e sulla loro credibilità.
A me non pare che ci siano differenze per quanto riguarda la struttura del partito. Per lungo tempo si è discusso tra un partito cosiddetto liquido, cioè affidato soltanto ai simpatizzanti e quindi alla pubblica opinione, oppure un partito strutturalmente insediato sul territorio.

Questa questione mi sembra ormai superata. L'accordo è generale sul fatto che il partito deve essere presente e vivace sul territorio con larghe autonomie della struttura locale, ma entro linee-guida valide per tutti ed elaborate dagli organi centrali. Del resto questa disputa è già stata superata dai fatti: i 450.000 iscritti che sono andati a votare e che ci torneranno per le primarie sono la più evidente dimostrazione che le strutture sul territorio ci sono già; potranno essere utilmente rafforzate e dotate di adeguate funzioni, ma esistono e operano. Non era facile metterle in piedi in così breve tempo. Questo piccolo miracolo è stato compiuto e va riconosciuto a tutti quelli che l'hanno reso possibile.

Sgombrato il campo da questa questione ne restano altre di grande importanza che sono le seguenti: il rapporto tra l'opposizione e la maggioranza berlusconiana e leghista; il rapporto con le altre opposizioni, cioè la politica delle alleanze; il tema della laicità dello Stato; il tema dell'immigrazione e dell'integrazione; la politica economica; la politica della giustizia; la politica della scuola. Infine - ma soprattutto - il tema della libertà di stampa e quello dei grandi valori dai quali nasce la visione del paese e della società che vedremo nel futuro dell'Italia e dell'Europa di cui siamo parte integrante.

* * *

Si tratta d'una massa di problemi che dovranno essere risolti non solo dal Pd ma da un'elaborazione culturale cui debbono collaborare fondazioni, circoli, associazioni che condividano i valori e creino le condizioni culturali per farli crescere nella società. Un partito democratico deve aiutare questa evoluzione affinché il lavoro di semina e di raccolta sia ampio e proficuo. Veltroni - quel cretino a cui abbiamo già accennato - sostiene che è importante vincere ma ancor più importante è cambiare l'Italia risvegliandola dall'ipnosi in cui una parte del paese è caduta e ricondurla a riflettere e operare pensando al futuro e non accucciandosi su un presente precario e appiattito. Personalmente condivido.

Sulla politica economica mi sembra che l'accordo sia generale: nell'immediato occorre riversare le risorse disponibili sui lavoratori dipendenti e sulle piccole e piccolissime imprese e partite Iva. Sul medio periodo è necessaria una grande riforma fiscale e un allungamento dell'età di lavoro che tenga conto dell'allungamento della vita.

C'è accordo generale sul clima e sulle energie alternative e pulite. C'è accordo generale sulla riforma della giustizia, della sicurezza e dell'integrazione. La scuola è un campo da studiare. Esiste già un'ampia ricerca in materia ma ancora non è stata messa in discussione e bisognerà che si faccia al più presto.
Anche sulla laicità e sulle politiche della bioetica l'accordo sembra esserci almeno su un punto fondamentale: la Chiesa ha diritto di usare lo spazio pubblico per esporre le sue ragioni. Non ha invece diritto d'imporre il suo punto di vista nella politica, dove le prerogative dello Stato e del Parlamento sono esclusive e dato anche che i parlamentari cattolici hanno rivendicato la loro autonomia. Penso al cattolico adulto Romano Prodi e penso anche al documento che Franceschini diffuse anni fa raccogliendo su di esso sessanta firme di parlamentari cattolici che rivendicavano la loro autonomia rispetto alle gerarchie ecclesiastiche in materia di decisioni politiche e parlamentari.

C'è qualche dissenso sulla politica delle alleanze, ma francamente mi sembra più di parole che di sostanza. Se il Pd sarà forte le alleanze si faranno intorno a lui; se sarà debole non potrà svolgere la funzione di pilastro centrale delle opposizioni e non potrà raccogliere nuovi consensi sia a sinistra sia al centro. Penso che nessuno dei candidati preferisca un partito debole ad uno robusto e audace.

* * *

Una parola conclusiva sui valori, che include anche il rapporto con il berlusconismo.
I valori d'un partito democratico non possono che esser quelli della libertà, dell'eguaglianza e della solidarietà. L'esperienza storica di oltre due secoli ci ha ampiamente insegnato che la libertà senza eguaglianza è fonte di privilegi intollerabili; l'eguaglianza senza libertà è fonte di dittature e totalitarismi; la solidarietà senza gli altri due diventa assistenzialismo ed elemosina. La democrazia che scaturisce da questi valori è quella descritta e tradotta in norme e in giurisprudenza dalla nostra Costituzione.

La Costituzione può essere rivista e modernizzata, ma non può essere cambiata. Lo impediscono l'articolo 1, l'articolo 3, l'articolo 138 e l'articolo 139. Berlusconi non vuole rivedere la Costituzione, vuole cambiarla. Vuole sostituire la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto con una democrazia autoritaria senza organi di controllo e di garanzia ma interamente basata su sistemi di voto plebiscitari. L'intimidazione dei "media" è un elemento indispensabile di questa strategia che ha come obiettivo finale un'immagine del paese riflessa da uno specchio taroccato al servizio del potere.
Si tratta di concezioni antitetiche a quelle d'un partito democratico e questo è un dato preliminare che non consente né mollezza né scorciatoie di furbizia compromissoria.

Da questo punto di vista noi ci auguriamo che alle primarie del 25 ottobre vada una massa di popolo consapevole del suo ruolo e della sua responsabilità. Non centinaia di migliaia ma milioni di elettori. Perfino quelli che non condividono le tesi riformiste del Pd ma non si rassegnano all'Italia così com'è: votino magari scheda bianca ma vadano. Quei seggi del 25 ottobre saranno anche una prova di forza di tutta l'opposizione e un buon principio per un paese risvegliato.

© Riproduzione riservata (18 ottobre 2009)
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