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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318580 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Febbraio 27, 2009, 10:23:48 am »

SPETTACOLI & CULTURA     

Una risposta alla provocazione di Baricco: lo Stato non può imporre una propria linea, ma non può neanche essere privo di un pensiero

L'Ulisse di Dante e i soldi alla cultura

di EUGENIO SCALFARI


 Come sempre sa fare quando prende in mano la penna e si inoltra in un discorso pubblico Alessandro Baricco comincia da lontano, usa la logica, ragiona sulle premesse pianamente, non è mai provocatorio ma didascalico. Pone questioni, sollecita risposte che sono già contenute nelle domande.

A che cosa serve la cultura? E spiega: serve a migliorare l'anima delle persone, a farle riflettere, a renderle più tolleranti verso i diversi da sé, quindi a scoprire il valore della democrazia e della solidarietà, a ricacciare indietro le pulsioni della violenza. Perciò la democrazia, cioè lo Stato democratico, ha un interesse primario a promuovere la cultura, ad allargarne le radici e le fronde.

E poiché il nostro mondo è in preda a un rigurgito di violenza e d'intolleranza, lo Stato democratico è chiamato a intraprendere una necessaria alfabetizzazione incoraggiando la nascita di quella che lui chiama una "intelligenza di massa".

Chi non è d'accordo con questo "incipit"? Io lo sono completamente.

Ma qui terminano le premesse e qui comincia la sua provocazione: per realizzare in un tempo ragionevole i due obiettivi dell'intelligenza di massa e dell'alfabetizzazione occorre concentrare le scarse risorse disponibili sulla scuola e sulla televisione. E qui il mio accordo con lui comincia a vacillare.

La scuola è un grande servizio pubblico cui lo Stato deve provvedere prioritariamente con il proprio bilancio e la scuola privata con risorse proprie nell'ambito di standard di qualità che includono il principio della libertà d'insegnamento. Gli stanziamenti di denaro pubblico destinati alla cultura non riguardano la scuola come non riguardano la giustizia, l'ordine pubblico, la difesa del territorio nazionale, i grandi servizi definiti "indivisibili". A essi si provvede con le imposte che prelevano una quota del reddito dei contribuenti accertato con i vari strumenti a disposizione dell'amministrazione.

Quanto alla televisione, quella di proprietà di gruppi privati si configura come un'impresa con i relativi rischi. Quella di proprietà pubblica viene finanziata con un canone proprio per promuovere gli aspetti culturali a fianco di quelli dell'intrattenimento cui è destinata la pubblicità commerciale. Forse sarebbe opportuno riservare il canone a una sola rete della Tv pubblica, privatizzando le altre o affrancandole dagli obblighi che il pubblico servizio comporta, ma una discussione in proposta esula dall'oggetto di questo articolo e quindi l'accantono.

Incoraggiare gli aspetti culturali dei programmi delle Tv private non mi sembra un'idea praticabile. L'imprenditore televisivo ha un suo interesse ad accreditare le proprie emittenti anche dando spazio alla cultura. Poiché si tratta di imprese di lucro solo all'imprenditore spetta decidere la combinazione ottimale dei vari fattori produttivi. Allo Stato spetta soltanto di fissare regole standard per chi utilizza un bene pubblico come l'etere. Altro non deve e non può fare.

* * *

Poiché le risorse da destinare alla cultura sono scarse - prosegue Baricco - si tratta di formulare una scala di priorità. Chi la deve formulare? Baricco esprime a questo punto una sua personale classifica di priorità avvertendo però correttamente che si tratta di scelte soggettive che hanno semplicemente un valore esemplificativo.

Vediamola comunque questa classifica. Via il teatro di prosa il cui pubblico è limitato a una élite di anziani che prediligono repertori ripetitivi e non più formativi, disertati dai giovani. E via, per le stesse considerazioni, i teatri di opera lirica e di musica concertistica. Via soprattutto le esecuzioni di musica contemporanea, incomprensibili poiché non c'è nulla da comprendere. Se lo scopo è la formazione dell'intelligenza di massa è chiaro che essa non può nascere nei teatri di prosa, di opera lirica e di concerti, inevitabilmente finanziati da denaro pubblico. Bisogna dunque abolire quei finanziamenti consentendo ai privati di sperimentare a proprio rischio forme di impresa culturale che si sostengano da sole con un mix di capitali privati e di sostegno pubblico concesso a chiunque intraprenda progetti culturali.

Portare il melodramma romantico in teatro, magari miscelandolo con l'operetta di Lehar e di Strauss? Mandare in scena un "musical" tratto dall'Inferno dantesco liberamente rimaneggiato? Usare la Bibbia come canovaccio cinematografico facendo intervenire un Gianni Letta accanto ad Abramo e un Andreotti alla guida di un'arca al posto di Noè? Infine raccontare un Giudizio Universale al modo del Benigni del 1998 e farne un "kolossal" hollywoodiano mettendoci dentro anche Maometto e le Vergini promesse dal Corano ai difensori di Allah?

Lo Stato democratico, ci ricorda opportunamente Baricco, non può avere un contenuto etico senza snaturarsi. Quindi non può scegliere tra questi diversi progetti quello che gli piace e quello che gli dispiace. Li deve accettare tutti destinando a tutti il suo aiuto in termini di esenzioni fiscali, facilitazioni immobiliari, libera circolazione nelle sale, accesso alle Tv pubbliche e private.

Il mercato guida e intraprende, il denaro pubblico aiuti tutti senza alcuna discriminazione nei limiti delle risorse disponibili. Questo è il nocciolo della provocazione baricchiana. E poi vinca il migliore, la cultura vincerà con lui, l'intelligenza di massa e l'alfabetizzazione culturale faranno decisivi passi avanti. Perfino il Fedone, con opportune contaminazioni, può esser arrangiato come un "reality" con Socrate e Alcibiade in funzione di "Grandi Fratelli".

* * *

Chi storce il naso di fronte a un sì fatto progetto è a mio avviso un cretino. Chi l'accetta scambiandolo per un'entusiasmante trovata è un poveretto. Forse piacerebbe al ministro Bondi che sta facendo scempio dei Beni culturali, ma questa, caro Alessandro, sarebbe una pessima adesione e sono sicuro che ne convieni. Dal canto mio permettimi qualche osservazione.

1. Non è esatto pensare che i veri acculturati conquistino la tolleranza e l'amore per la democrazia. I capi delle SS, lo Stato maggiore della Wehrmacht e perfino i dirigenti della Gestapo si commuovevano ascoltando la Settima, la Nona e persino i Quartetti di Beethoven, adoravano Mozart e Haydn, assistevano con raccoglimento all'Oro del Reno e al Tristano e Isotta. Poi uscivano da questi bagni dell'anima e andavano a scannare gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali. La cultura è uno degli elementi della civilizzazione, ma ce ne vogliono molti altri per umanizzare l'animale uomo.

2. Lo Stato non deve essere etico ma neppure privo di pensiero. Deve tutelare il patrimonio culturale della società che lo esprime. Quindi l'archeologia. La memoria collettiva. I reperti. I repertori. Deve renderli accessibili. Deve favorire la ricerca storica e quella scientifica. Le risorse culturali debbono avere questa oculata destinazione.

3. Alcune istituzioni pubbliche sono necessarie per realizzare questi obiettivi.

4. I privati debbono avere piena libertà di intraprendere facendo della cultura un mezzo per ottenere un lecito profitto. Siano liberi di farlo a proprio rischio così come si costruiscono automobili, reti televisive, telefoni satellitari e mille altre cose e servizi.

Ho fatto, caro Alessandro, un'esperienza personale interessante: ho costruito insieme a molti altri amici e colleghi imprese giornalistiche culturalmente impegnate e fonti di larghi profitti. Tu hai vissuto in campi diversi dai miei analoghe e positive esperienze. Dunque si può fare. Lo Stato faccia ciò che deve, i privati facciano ciò che sanno e possono. La società usi questi servizi e si autoeduchi uscendo dall'atonia, dal culto delle icone, dalla condizione di folla "che nome non ha".

Noi possiamo soltanto ripetere l'incitamento dell'Ulisse dantesco ai suoi compagni: "Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". Altro non possiamo fare, ma questo sì, possiamo e dobbiamo.


(27 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #121 inserito:: Marzo 01, 2009, 10:31:47 am »

ECONOMIA      IL COMMENTO

La svolta dell'America la crisi dell'Europa


di EUGENIO SCALFARI


SAPPIAMO, ce lo dicono tutti i dati consuntivi e preventivi, che la crisi economica globale è entrata nella fase culminante, articolata in vari livelli e in vari scacchieri geopolitici. I vari livelli riguardano l'insolvenza del sistema bancario internazionale, la caduta mondiale della domanda di beni e servizi (materie prime, beni durevoli, generi di consumo), la restrizione dell'offerta e quindi degli investimenti come ovvia conseguenza della crisi della domanda, la deflazione, l'ingolfo del credito. Si tratta d'una catena ogni anello della quale è intrecciato agli altri e con essi interagisce generando una atmosfera di sfiducia e di aspettative negative che si scaricano sulle Borse e sul drammatico ribasso dei valori quotati. I diversi scacchieri geopolitici presentano aspetti specifici nell'ambito di un quadro generale a fosche tinte.

L'epicentro è ancora (e lo sarà per molto) in Usa e coinvolge le banche, le imprese, la domanda, il reddito, l'occupazione. Il nuovo Presidente ha imboccato decisamente la strada del "deficit spending" in dosi mai verificatesi prima nella storia americana se non nei quattro anni di guerra tra il 1941 e il 1945. L'entità della manovra di bilancio dell'anno in corso ammonta alla cifra da fantascienza di 4 trilioni di dollari, che si ripeterà con una lieve diminuzione nel 2010. Il bilancio federale, già in disavanzo di mille miliardi, arriverà quest'anno a 1750.

Si tratta di cifre fantastiche ma appena sufficienti a puntellare l'industria, il sistema bancario e la domanda dei consumatori. Purtroppo i primi effetti concreti si verificheranno nel secondo trimestre dell'anno, un tempo breve in stagioni di normalità ma drammaticamente lungo nel colmo della "tempesta perfetta" che stiamo attraversando.

Per colmare questa inevitabile sfasatura temporale Obama ha alzato l'asticella degli obiettivi e, oltre a quelli macroeconomici, ha inserito riforme strutturali e una redistribuzione sociale del reddito senza precedenti. E' il caso di dire che si è bruciato gli ormeggi alle spalle affrontando lo scontro con i ceti più ricchi, minoritari nel numero ma maggioritari nel possesso e nel controllo della ricchezza e del potere sociale. Neppure Roosevelt era arrivato a tanto e non parliamo di Kennedy e neppure di Clinton. Questa cui stiamo assistendo è la prima vera svolta a sinistra degli Stati Uniti d'America; l'intera struttura economica, sociale e culturale del paese è infatti sottoposta ad una tensione senza precedenti, i cui effetti non riguardano soltanto i cittadini americani ma coinvolgono inevitabilmente l'Europa e l'Occidente nella sua più larga accezione. "Quando la casa minaccia di crollare - ha detto Obama parlando al Congresso - non ci si può limitare a riverniciare di bianco le pareti ma bisogna ricostruirla dalle fondamenta". Noi siamo tutti partecipi di questa rifondazione che si impone anche all'Europa.

* * *

Separare il nostro vecchio continente dall'epicentro della "tempesta" americana è pura illusione. Se cadessero in bancarotta le grandi banche americane, se chiudessero i battenti le grandi compagnie automobilistiche, se l'insolvenza del sistema Usa uscisse di controllo, l'economia europea sarebbe risucchiata nello stesso turbine. Su questo punto è pericoloso illudersi. Chi pensa che l'Europa stia meglio dell'America, chi farnetica che l'Italia sia più solida degli altri Paesi dell'Unione, non infonde fiducia, al contrario alimenta l'irresponsabilità e l'incertezza. Non capovolge le aspettative ma anzi le peggiora.

L'Europa ha scoperto da pochi giorni un bubbone di dimensioni devastanti insediato al proprio interno: l'insolvenza di tutti i Paesi dell'Est del continente, alcuni già dentro Eurolandia, altri ai confini. Si tratta dei tre Paesi baltici, della Polonia, dell'Ungheria, della Romania, della Bulgaria, della Repubblica Ceca, dell'Ucraina, dei Paesi balcanici: Serbia, Croazia, Albania, Macedonia, ai quali vanno aggiunti la Grecia e l'Irlanda.

Questi paesi sono stati ricostruiti e rimodellati sull'economia di mercato grazie a massicci investimenti privati provenienti dall'Europa occidentale e da finanziamenti altrettanto massicci di banche occidentali. L'Austria ha impegnato in questa direzione gran parte delle sue risorse finanziarie e così la Svezia. Di fatto l'economia di questi due paesi è ormai legata a filo doppio con il destino dell'Est europeo, ma un coinvolgimento importante riguarda anche il sistema bancario tedesco.

Bastano questi cenni per capire che la crisi dell'Est, se non arginata entro le prossime settimane, può avere effetti devastanti sull'intera Unione europea, già fortemente scossa in Spagna, in Irlanda e in Gran Bretagna. E' di ieri la notizia che tre istituzioni finanziarie internazionali hanno stanziato complessivamente 24 miliardi di euro destinati a soccorrere i paesi dell'Est.

C'è da augurarsi che si tratti di risorse immediatamente disponibili perché il cosiddetto effetto annuncio è ormai privo di valore. Ma si tratta comunque d'una cifra assolutamente insufficiente, visto che le dimensioni globali della crisi dell'Est si calcola nell'ordine di 200 miliardi di euro. L'operazione annunciata ieri ne coprirebbe un ottavo, cioè il 12 per cento. Ci vuole dunque uno sforzo ben più consistente, che è inutile chiedere ai singoli paesi. Deve intervenire l'Unione europea e al suo fianco il Fondo monetario internazionale.

I "meeting" tra i capi di governo dell'Unione hanno preso ormai un ritmo settimanale imposto dalle circostanze, ma sarebbe opportuno che da queste consultazioni uscissero decisioni concrete. Finora abbiamo avuto soltanto reiterate quanto inutili dichiarazioni di principio e progetti su nuove regole mondiali relegate in un futuro assai lontano. Parole inutili, progetti privi di attualità. Speriamo che l'incontro di oggi sia all'altezza dei pericoli che incombono.

Queste assai labili speranze hanno un solo modo per diventare concrete: un rifinanziamento massiccio e straordinario dell'Unione europea da parte dei paesi membri. Per avere senso, non meno di 100 miliardi di euro. Ma gran parte dei paesi membri non hanno nemmeno gli occhi per piangere. Quelli che hanno ancora qualche ragionevole capacità sono soltanto due: la Germania e la Francia. Se vorranno compiere questo sforzo assumeranno una nuova responsabilità e potranno reclamare un potere aggiuntivo all'interno dell'Unione, al di là dei trattati e dei regolamenti. Bisogna esser consapevoli di questa situazione, altrimenti continueremo a perderci in una fitta nebbia di chiacchiere e la "tempesta perfetta" europea si aggiungerà a quella americana con effetti di irrimediabile devastazione.

* * *

Poche osservazioni sulla situazione italiana, che registra un progressivo peggioramento a fronte del quale le reazioni del governo sono pressoché inesistenti.

Per fronteggiare alcuni segnali di rischio incombenti e una storica fragilità patrimoniale del sistema bancario italiano, il governo ha mobilitato 12 miliardi, nove dei quali già prenotati da Unicredit, Banca Intesa, Monte Paschi e Ubi. Sono i famosi Tremonti-bond, prestiti a scadenza pluriennale assistiti da obbligazioni con un tasso medio dell'8 per cento a favore del Tesoro che le sottoscriverà. Con una procedura contabile che è arduo spiegare per la sua macchinosità, questi crediti del Tesoro non compariranno nel bilancio dello Stato. Le risorse necessarie saranno chieste al mercato con altrettante emissioni di Bot. Ci sarà uno scarto a favore del Tesoro tra il tasso riconosciuto ai sottoscrittori di Bot e quello pagato dalle banche emittenti dei Tremonti-bond. Insomma il Tesoro ci guadagnerà.

Si dovrebbe dire dunque bravo Tremonti, che in tempi di magra riesce a cavar sugo perfino dalle rape, se non fosse che l'intera operazione (che i media di bandiera hanno esaltato come un miracoloso toccasana) è completamente inutile. Le banche dovrebbero rafforzare il proprio capitale e rilanciare il credito alle piccole-medie imprese. Con i Tremonti-bond aumentano i propri debiti e pagano molto cara questa raccolta. Per di più essa ha una destinazione obbligata: deve esser destinata alle Pim.

Poiché il costo è dell'8 per cento, quale sarà il tasso chiesto alle Pim? Se il Tesoro vuole guadagnare tra il 3 e il 4 per cento in questa operazione, è probabile che le banche spuntino un margine analogo a carico della clientela, cioè impongano un tasso del 12 per cento più gli oneri fiscali. Con questa operazione si sostiene di aver rafforzato il sistema bancario italiano nel quadro della peggiore crisi europea degli ultimi settant'anni? Ci prendete tutti per imbecilli?

Nel frattempo l'Enel, che ha fatto troppi debiti, è costretto a lanciare un aumento di capitale che il Tesoro non sottoscriverà per la quota che ancora possiede. Il mercato ha reagito negativamente. Non era proprio l'Enel il titolo che Berlusconi ha più volte consigliato di comprare, insieme all'Eni, che anch'esso non naviga con la bandiera al vento? Il nostro "premier" non dovrebbe più pronunciar parola perché ogni volta che parla fa danni gravi alla credibilità sua e del paese che rappresenta. Invece la sua loquela esonda e infatti la nostra credibilità all'estero è sotto zero. Basta parlare con uno qualunque degli ambasciatori stranieri accreditati a Roma per averne conferma.

Speriamo che la crisi monetaria e bancaria dell'Est europeo sia arginata. Se così non fosse per far fronte alle sue ripercussioni in Italia ci vorrà ben altro che i Tremonti-bond. In ogni caso noi non siamo in grado di partecipare all'inevitabile rifinanziamento del sistema europeo. Perciò il nostro peso, già assai modesto nell'Unione, diminuirà ancora.

Per fortuna la bandiera nazionale, oltreché dall'Alitalia di Colaninno, continuerà a sventolare per merito del cuoco Michele e del chitarrista Apicella, intrattenitori apprezzati anche dai capi di governo stranieri quando vengono a Roma per vedere il Papa e il Presidente della Repubblica e fare poi sosta un paio d'ore a Palazzo Grazioli per gustare qualche manicaretto di Michele e ascoltare qualche canzone del chitarrista.

La nostra vocazione è la pizza e il mandolino. Ed un attore comico vestito da dittatore. Questo è il copione della commedia all'italiana e questo infatti va in scena anche in tempi di tempesta.

(1 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #122 inserito:: Marzo 08, 2009, 05:18:13 pm »

ECONOMIA      IL COMMENTO

L'Italia nella crisi è un'isola felice

di EUGENIO SCALFARI


L'industria americana dell'auto è moribonda. Le grandi banche americane traballano malgrado robuste iniezioni di liquidità e con loro traballano le grandi assicurazioni pubbliche. Le banche dell'Est europeo agonizzano coinvolgendo le loro finanziatrici austriache, svedesi, tedesche, britanniche. Traballano anche alcuni Stati sovrani dentro e fuori Eurolandia: Lettonia, Ucraina, Grecia, Irlanda, l'emirato di Dubai. Le Borse crollano in tutti i paesi occidentali e in Giappone. Il credito è ingolfato. "I messi di sventura piovon come dal ciel".

In questa generale catastrofe c'è un'isola felice, l'Italia. Banche solide, risparmio privato abbondante, debito pubblico elevato ma sotto controllo, governo lungimirante. "Adelante Pedro, con juicio". Berlusconi è il secondo dopo Dio e Tremonti il suo profeta. Il futuro è terra incognita ma il presente è terra solida.

Negli ultimi giorni, per ricostruire una fiducia latitante, il governo ha sparato una raffica di cifre da mozzare il fiato, una mitragliata di provvedimenti, un esempio inimitabile di prudenza, saggezza, audacia ed esperto coraggio. Gli altri annaspano, Obama compreso, ma noi sappiamo dove andiamo.

Una sola ruota non funziona: una stampa allarmista, una tivù pubblica che critica il governo, un'opposizione blaterante, un sindacato all'insegna del tanto peggio-tanto meglio.

Non fosse per quest'elemento impazzito, l'ingranaggio marcerebbe a meraviglia e il sistema Italia potrebbe ambire legittimamente ad una leadership europea. Mondiale no, anzi non ancora, ma non mettiamo limiti alla divina provvidenza. Domani del resto papa Ratzinger benedirà Roma dal balcone del Campidoglio con a fianco il sindaco Caltagirone. Chiedo scusa, il sindaco Alemanno.

Insomma qui, nel paese-giardino della Chiesa, tutto va nel migliore dei modi.

* * *

Le cifre sono sbalorditive. Vediamole. I miliardi di euro mobilitati erano due mesi fa 140. Dei quali 80 immediatamente disponibili. Di questi la metà si è persa per strada ma 40 sono rimasti in linea ed il loro impiego (triennale) si sta ora discutendo.

Non si è capito bene se si parla di competenza o di cassa. Sembrerebbe piuttosto la prima che non la seconda. La cassa infatti è praticamente vuota: le entrate correnti sono in calo (vistoso), il fabbisogno del Tesoro è in aumento, l'avanzo primario al netto degli interessi sul debito si è dimezzato. Ma queste sono quisquilie, pinzellacchere come scrivevano gli umoristi del "Bertoldo" e del "Marc'Aurelio" settant'anni fa.

Certo c'è anche per noi qualche cattiva notizia. Per esempio il pil del 2008 ha registrato un regresso dell'1 per cento sull'anno precedente. Tremonti non lo sapeva, l'ha letto sui giornali.

Per il 2009 la recessione (si chiama così) sarà maggiore: - 2,6. Qualcuno più pessimista parla di - 3. Qualcun altro più pessimista ancora di - 4. Tocchiamo legno. Pressione fiscale al 43,5. Debito pubblico al 110 per cento sul pil. Ma, ripetiamolo, non è su questi tavoli che si gioca la partita. La Cassa integrazione è aumentata del 550 per cento rispetto all'anno precedente, segno che l'Italia è un vero paese industriale e che la Cassa ha i denari sufficienti a reggere l'ondata di crisi. L'ondata aumenterà nelle prossime settimane? Tranquilli: Tremonti ha già costruito argini robusti per contenere la piena.

* * *

Eccoli dunque, quegli argini. Cominciamo coi Tremonti-bond: dodici miliardi a disposizione del sistema bancario. Costo per le banche tra l'8 e il 9 per cento. Le banche emettono, il Tesoro acquista e ne ricava il 4 per cento di utile. Insomma ci fa un affare. Le banche no. A che cosa servono? A rafforzare il patrimonio. Facendo debito a condizioni onerose. Con l'obbligo di erogare crediti alle piccole e medie imprese. I prefetti vigileranno all'adempimento.

Nel frattempo alcune imprese assicurative e bancarie hanno emesso obbligazioni al 4 e mezzo per cento, coperte in poche ore da un vasto pubblico di sottoscrittori. Per cui non si vede a che cosa servano i Tremonti-bond. Il ministro del Tesoro ha detto che tre grandi banche avevano prenotato i tre quarti della cifra stanziata. Tre giorni dopo Berlusconi lo ha corretto dicendo che solo una banca aveva manifestato interesse e che comunque non era quella la vera linea di resistenza contro la crisi. Chi dice il vero, il premier o il Tesoriere?

Il premier non gradisce i toni spesso drammatizzanti del Tesoriere e lo ha pubblicamente redarguito. Il Tesoriere ha prontamente rettificato. La colpa è dei giornali, non puoi sbagliarti.

La vera linea di resistenza è un'altra: 17,8 miliardi per infrastrutture e questa sì che è una buona notizia. Deliberati dal Cipe, copertura in parte con stanziamenti già previsti in Finanziaria e in parte provenienti dai fondi per le aree sottosviluppate (Fas) in mano alle Regioni. Le quali, per mollare una parte del malloppo, hanno ottenuto che fosse destinato anche agli ammortizzatori per i precari. Così è stato: quattro miliardi ai precari licenziati e il resto a Matteoli, ministro delle Infrastrutture e vicesindaco della fatidica Orbetello.

Però la cifra vera non è quella. Per il 2009, l'anno orribile, le somme stanziate dal Cipe nelle due sedute del 18 dicembre e del 6 marzo ammontano a 12,3 miliardi, ai quali ne vanno aggiunti 2,1 già stanziati nella Finanziaria di settembre. Ma 3,6 miliardi vanno invece sottratti perché destinati a spese correnti (ferrovie e traghetti). La cifra netta non è dunque di 17,6 ma di 10,8 miliardi. Per aprire cantieri. Matteoli dice che saranno aperti entro sei mesi e dunque se ne parlerà ai primi di settembre. Ma c'è cassa? Sembra di no. Sembra che la cassa sia a secco. Per fare cassa di questi tempi c'è un solo modo: emettere Bot. Aumentando lo stock del debito.

Pazienza. Ma i cantieri? A settembre ne apriranno alcuni, quelli più piccoli. Valutazioni attendibili parlano di un 20 per cento della cifra totale, cioè un paio di miliardi. Magari tre se va molto bene. Per il resto se ne parlerà nel 2010. Il ponte di Messina? Non è roba da fare subito. L'autostrada Civitavecchia-Cecina? Se ne parlerà nel 2013. La Salerno-Reggio? Sono vent'anni che si sente questo nome; un bello spirito ha detto: "Se la risento nominare metto mano alla pistola". Volete dargli torto?

* * *

Pare che il premier abbia in mano altri 9 miliardi e Tremonti altri 13. Da dove vengono? I nove sono fondi già stanziati e attribuiti a quattro diversi ministeri, rastrellati ora dai loro bilanci e unificati. I quattro ministri, tra i quali Scajola e Prestigiacomo, hanno strillato come aquile ma poi, come sempre, si sono acquietati.

I 13 miliardi sono della Cassa depositi e prestiti. Verranno destinati a finanziare progetti di privati costruttori. Tra i quali pensiamo ad Alemanno. Mi scuso: volevo dire a Caltagirone. Ma anche a garantire prestiti bancari alle Pmi (Piccole e medie imprese).
Questo governo adora garantire sperando così di fare le nozze con i fichi secchi: debiti di firma, se ci fosse un patatrac dovrebbe sborsare denari sonanti, ma fin quando non ci sarà si fa bella figura senza sborsare un centesimo. Quando si dice creatività!

Per questa ragione Berlusconi rifiuta la proposta di Franceschini per assicurare uno stipendio minimo ai precari che perdono il lavoro. A conti fatti quella proposta costerebbe meno di 5 miliardi ma quelli sì, bisognerebbe sborsarli subito. Quindi non va bene.
Conclusione: gli argini veri non ci sono. Ci sono promesse e garanzie. Se una, una sola di quelle garanzie venisse escussa, il finto argine verrebbe giù tutto insieme. Parole parole parole: Mina di quarant'anni fa. Berlusconi da sempre. L'Italia, un'isola felice. Se non esce il rosso uscirà il nero o viceversa. Se Obama non dovesse farcela sarebbero serissimi guai e per noi peggio di tutti.

Post scriptum. Berlusconi si è quotato per 100 milioni da versare al fondo per la ricostruzione di Gaza che entrerà in funzione quando sarà fondato lo Stato palestinese. I giornali italiani di bandiera hanno dato grande risalto a questa presenza italiana. Mi domando in quale Paese viviamo.

(8 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #123 inserito:: Marzo 13, 2009, 04:05:15 pm »

Eugenio Scalfari,

La penna e il machete



Sul "24 Ore" Berardinelli ha stroncato la "Storia" di Asor Rosa. Ma le sue stroncature, come pure le sue incensature, sono soltanto manifesti politico-ideologici  Non avevo intenzione di recensire l'ultima opera di Alberto Asor Rosa 'Storia europea della letteratura italiana': non sono un critico letterario anche se ho passione per la letteratura; su 'Repubblica' l'opera è stata esaustivamente presentata e discussa da Paolo Mauri. Ho anche ascoltato il dibattito tra Asor Rosa ed Eco, Mauri, De Mauro nella sala di via Ripetta qualche giorno fa. E naturalmente ho letto i tre volumi della 'Storia' di Asor.

Ma mi sono imbattuto (nel supplemento domenicale di '24 Ore' dell'8 marzo) nella recensione di Alfonso Berardinelli ed è quella recensione che mi è venuta voglia di recensire. Si tratta d'una stroncatura in piena regola; come tale è benvenuta in una società letteraria dove la melassa e il giulebbe scorrono a bicchieroni, tutt'al più corretti da qualche goccia di angostura che serve a veicolare modeste invidie e veleni a lento rilascio. Sono del parere che quando si stronca si stronca, senza ipocrisie né riguardi, purché la critica non sia motivata da ragioni che poco o nulla hanno a che fare con il testo, lo stile, i giudizi e il montaggio dell'opera in questione. Si potrà non concordare con quella stroncatura ma bisognerà allora addurre buone ragioni che colgano in fallo lo stroncatore e la sua esibita severità.

Ebbene, la stroncatura di Berardinelli non corrisponde a queste esigenze di un lettore avvertito. Del resto lo scrive lui stesso in un preliminare che occupa un'intera colonna del suo articolo recensorio: ha da tanti anni una profonda antipatia politica verso Asor Rosa, verso le sue ideologie, il suo operaismo 'd'antan', i suoi amici degli anni Sessanta, il suo settarismo e insomma la sua militanza comunista. Non lo sopporta. Non sopporta il suo modo di scrivere 'tardigrado', le sue frasi lunghe e barocche, la sua enfasi, l'impegno politico che trasferisce anche quando scrive di letteratura. E avanti così, a colpi di machete per un'intera colonna.


Questo preliminare è fuori tema. Rende fasullo tutto il seguito del componimento. Al punto che, avendolo letto con crescente disagio, avevo deciso di non continuare. Ma il contenitore era invece di tutto rispetto: il supplemento domenicale del '24 Ore' contiene quasi sempre notizie intriganti e articoli acuti. Perciò sono andato fino in fondo e ne sono uscito con la conferma che la stroncatura di Berardinelli meritasse di essere stroncata.

Non è qui in discussione l'orientamento politico di Asor Rosa. Anche a me è talvolta capitato di dissentirne. Un mio carissimo amico e collega ne dissente del tutto e lo ha scritto più volte. Ma qui l'oggetto è un lavoro letterario ed è su quello che deve esercitarsi il critico. Sarebbe come giudicare Céline per il suo acceso antisemitismo, Ezra Pound per il suo conclamato fascismo e l'autore del 'Tropico del Cancro' per il suo nichilismo.

Non sono fautore della tesi proustiana né di quella crociana della completa autonomia dell'opera letteraria rispetto alla vicenda biografica dell'autore. Credo che sia nel vero Sainte-Beuve quando descrive (e pratica) una critica che tenga conto della personalità dell'autore e del clima culturale del suo tempo per una miglior comprensione d'un romanzo, d'un racconto, d'una poesia e di una 'poetica'. Una miglior comprensione; ma il giudizio deve scaturire comunque dal testo e non dagli elementi che ne facilitano una miglior comprensione. Berardinelli lavora esattamente nel modo opposto, le sue stroncature come pure le sue incensature sono soltanto manifesti politico-ideologici e pertanto di nessun valore letterario.

Trascinato dal vento della contestazione politica si è dunque inoltrato a parlare della 'Storia' di Asor Rosa in quanto tale, collezionando una serie di sviste e di errori che meritano di essere segnalati. Accusa l'autore d'aver trascuratoPasolini, mentre nel terzo volume della 'Storia' l'autore delle 'Ceneri di Gramsci' risulta uno dei personaggi centrali della cultura del Novecento. Lo rimprovera poi di aver idoleggiato Calvino al di là dei suoi 'discutibili' meriti (Calvino è un altro dei bersagli abituali di Berardinelli). Ma di quell'idoleggiamento non c'è traccia nel testo di Asor Rosa; c'è un giudizio critico pertinente che coglie nell'autore degli 'Antenati' i due elementi fondanti della narrativa calviniana: la razionalità illuministica e la fantasia immaginativa. E lo stile, del quale 'Le città invisibili' e le 'Lezioni americane' sono il massimo esempio.

C'è poi, nella recensione non recensoria, un confronto tra la 'Storia' del De Sanctis e quella di Asor. Esempi del genere non dovrebbero mai farsi poiché ogni opera ha una sua individualità che la rende non commensurabile con le altre. Comunque Berardinelli vi si avventura e scrive: "In De Sanctis letteratura e politica tendevano a coincidere, facevano parte di un'unica storia". Esatto, è così: la passione politica e risorgimentale irrompe di continuo nella 'Storia' e nei 'Saggi' del De Sanctis; ma non è proprio questo il rimprovero principale che egli muove contro Asor? A mio avviso nei lavori letterari del De Sanctis la militanza politica è molto più presente che in quelli di Asor e basterebbe a provarlo la partizione che egli adotta per classificare e distinguere due gruppi di scrittori la 'scuola democratica' dove colloca Mazzini, Berchet e tutto l'azionismo risorgimentale e la 'scuola cattolica-moderata' centrata su Manzoni. Ho ancora in mente quella pagina dei 'Saggi' dove, scrivendo di Machiavelli, l'autore interrompe il suo discorso per annunciare che gli giunge in quel momento la notizia che il potere temporale della Chiesa è caduto e si lascia andare ad un vero e proprio empito di giubilante laicismo.

Infine l'ultimo sberleffo: la 'Storia' di Asor si conclude con la citazione dell'ultimo verso dell''Inferno' dantesco, "e quindi uscimmo a riveder le stelle" che Asor giudica il più bello della poesia italiana, mentre per Berardinelli la citazione è un artificio retorico che nasconde il nulla senza riuscirvi. Io ho provato emozione leggendo quelle ultime frasi concluse da quel verso. Sarà pure un artificio retorico, ma la retorica è un elemento stilistico senza il quale gran parte delle opere letterarie neppure esisterebbero. E poi, come in tutte le cose, c'è buona retorica e cattiva retorica. L'articolo di Berardinelli è impastato di cattiva retorica che il supplemento del '24 Ore' francamente non si merita.

(13 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #124 inserito:: Marzo 22, 2009, 11:58:57 am »

IL COMMENTO

La nuova destra che forse non nascerà


di EUGENIO SCALFARI


OGGI Gianfranco Fini darà l'addio al suo partito che si scioglie nel grande mare del Pdl, il Partito del Popolo della Libertà, tre lettere maiuscole sulle quali campeggia il Capo carismatico Silvio Berlusconi, fondatore, presidente e leader intramontabile.
Un addio, quello di Fini, ma anche un arrivederci, almeno nelle sue intenzioni. L'esortazione e anzi il comando alla sua gente è di restare unita, custode di una tradizione, di valori propri e d'una propria identità, d'una propria egemonia che non deve disperdersi - così spera Fini - nel magma indistinto di Forza Italia.

Dovrà costituire anzi un punto di riferimento per più ampie aggregazioni dentro il nuovo partito e fuori di esso, per dare vita ad una nuova destra capace di guidare il paese anche quando il Capo carismatico deciderà di ritirarsi per sazietà o per stanchezza, comunque per l'inevitabile trascorrere del tempo che "va dintorno con le force".

Si tratta d'una proposta di larghe vedute, che non è soltanto politica ma anche istituzionale e culturale. Fini dà molta importanza a fondazioni culturali che avranno il compito di piantare nuovi innesti e nuove radici nelle tradizioni della destra. Il presidente della Camera sovrintenderà a questo lavoro ed ha come riferimenti il conservatorismo del XIX secolo, quello che si oppose al trinomio "libertà, eguaglianza, fraternità" in nome dei principi della tradizione e della terra, cioè della nazione, senza tuttavia rinunciare al filone laico di derivazione illuministica. Perciò Burke ma non De Maistre.

E dunque: lo Stato da riscoprire come depositario di un disegno-paese e di un certo grado di eticità; la Costituzione come quadro di rapporti sociali e custodia di pluralismo; il presidenzialismo che garantirà l'unità contro le spinte centrifughe e l'eguaglianza delle prestazioni pubbliche tra le Regioni e i cittadini che vi risiedono; la separazione dei poteri; l'economia mista dove lo Stato non si limita a formulare le regole e a farle rispettare ma, al bisogno, interviene direttamente come operatore di ultima istanza.

Questa è la piattaforma della nuova destra costituzionale che Fini indica al Pdl e in particolare ai militanti di An nell'atto stesso dello scioglimento di quel partito. Lo seguiranno? Riusciranno a realizzare gli obiettivi che il discorso di oggi ha con chiarezza indicato? Saranno in grado di fertilizzare il corpaccione di Forza Italia e di arruolare per quell'impresa che non gli somiglia affatto anche il "boss dei boss", il Capo carismatico che ha ancora dinanzi a sé un altro decennio di potere?

Per rispondere a queste domande occorre esaminare la natura profonda del berlusconismo, il suo rapporto con la Lega, le tendenze che emergono dalla società italiana, il ruolo di alcuni possibili successori del Capo, l'attrazione del centrismo, le capacità potenziali dell'opposizione riformista. Infine l'esito della crisi che infuria sull'economia mondiale. Nei limiti che lo spazio ci impone cercheremo di analizzare questi vari elementi del problema.

Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo. In fondo si tratta di due regimi; il fascismo durò vent'anni, il berlusconismo ne ha già alle spalle quindici e si avvia a raggiungere la durata del precedente e probabilmente a superarla.
Al di là di alcune somiglianze che indubbiamente ci sono e possono riassumersi nel carisma populista del Capo, essi divergono profondamente su un punto di capitale importanza.

Mussolini e il fascismo volevano costruire un uomo nuovo, ispirato dai valori della forza, dai doveri verso lo Stato, dalla cultura della guerra e della conquista, dagli ideali dell'imperialismo, dal mito della Roma imperiale. La maggior cura la dedicarono all'educazione della gioventù a questi valori e a questa mitologia. I successi che ottennero si rivelarono effimeri non appena si scontrarono con la durezza della realtà.

Il berlusconismo ha invece avuto come obiettivo la decostruzione del rapporto tra l'individuo e la collettività, la decostruzione delle ideologie, l'esaltazione della felicità immediata nell'immediato presente, l'antipolitica, il pragmatismo come solo fondamento delle decisioni individuali, il trasformismo come pratica quotidiana. La corruttela pubblica come peccato veniale.

Berlusconi è un uomo di gomma laddove Mussolini si atteggiava a uomo di ferro. Berlusconi galleggia e padroneggia la democrazia cercando di renderla invertebrata; Mussolini distrusse la democrazia. Mussolini volle lo Stato etico, Berlusconi appoggia il suo potere sull'incompatibilità degli italiani nei confronti dello Stato, salvo adottare lo statalismo quando una società impaurita lo invoca come il protettore di ultima istanza.

Si tratta, come si vede, di differenze profonde anche se il fine è analogo: un Capo carismatico, plebiscitato da un popolo che ha rinunciato ad esser popolo ed ha trasferito in blocco la sua sovranità al Capo.
Di fronte a queste caratteristiche dell'amico-nemico il disegno di Fini ha scarse possibilità di successo. Del resto i suoi "colonnelli" hanno da tempo introitato questa realtà e vi si sono adeguati.

Quando in una recente trasmissione televisiva il ministro Ronchi (che di Fini è il portavoce) parlò di una guida duale del nuovo partito, fu interrotto dal ministro Matteoli (anche lui di An) che rifiutò pubblicamente l'idea stessa di un consolato Berlusconi-Fini affermando che il Capo non poteva che essere uno e c'era già. Resta da vedere fino a che punto la base di An sia rappresentata da Fini o dai suoi ex colonnelli.

Ma per aderire al disegno del presidente della Camera ci vorrebbe un ritorno all'Msi, al fascismo puro e duro che esiste ancora ma non certo sulla linea laica e costituzionale di Fini. In una società di gomma il cemento del potere e del sottopotere è un collante formidabile; quel collante è nelle mani di un Capo proprietario del suo partito nel quale Fini entra da ospite dopo esser stato svestito dei suoi paramenti salvo quelli, abbastanza innocui, di natura istituzionale. L'esperienza di Casini da questo punto di vista è eloquente.

Visto che ho accennato a Casini, aggiungerò che l'attrazione del centro è assai modesta, almeno nello schema originario di ago della bilancia tra due forze contrapposte e di analoga dimensione. Le analoghe dimensioni sono un'ipotesi del passato destinata a non replicarsi per parecchio tempo, sicché contemporaneamente è scomparsa l'ipotesi stessa del centro come ago della bilancia. La strada di Casini a questo punto è segnata ed è quella dell'irrilevanza, dentro o fuori dal Pdl che sia. I contrasti possono alimentare tutt'al più una fronda, ma non possono aspirare né al potere né all'opposizione.

I successori sono di due tipi: il successore scelto dal proprietario quando il momento sarà deciso dal proprietario medesimo. Una scelta "alta" sarebbe Gianni Letta, una scelta servile sarebbe Alfano o (perché no?) una donna. Tutto può accadere nei regimi basati sulla proprietà e sulla gomma.

Oppure il successore emerge per forza propria. Può essere il caso di Formigoni, ma con molte più probabilità quello di Tremonti. La crisi economica favorisce il secondo ed anche il suo rapporto con la Lega. Piace perfino ad una parte della sinistra per il suo colbertismo statalista, ma non piace la scelta valoriale di Dio, Patria, Famiglia. Tremonti comunque aspetta, non precorrerà mai i tempi. Fini si è già esposto, Tremonti no. Per ora si contenta del fatto che il Capo (che non lo ama) abbia bisogno di lui.

Resta l'opposizione riformista che ora sta lottando per la sopravvivenza. Franceschini è una scoperta e qualche risultato l'ha già ottenuto, qualche piccolo passo avanti l'ha fatto, qualche punto di consenso l'ha riguadagnato. L'esame arriverà con le elezioni europee.
Dal punto di vista formale la sopravvivenza consiste nell'asticella da superare. Ragionevolmente sta a metà strada tra il 25 e il 30 per cento. Sotto a quel livello la sopravvivenza oggettivamente non c'è e comincerà l'implosione; ma significherebbe la scomparsa della sinistra riformista e laica dalla scena dopo la scomparsa politica già avvenuta della sinistra radical-massimalista.

Ammettiamo (e speriamolo per la democrazia italiana) che la sopravvivenza sia realizzata con le elezioni europee. Quale può essere il ruolo del Pd, oltre quello di darsi finalmente un'organizzazione ed una struttura? Capace di rieducare una parte consistente della società? Di alfabetizzare politicamente e moralmente quella parte consistente? Di ricostruire il rapporto tra la società e lo Stato, decostruito dal berlusconismo?

Il ruolo della sinistra riformista consiste proprio nelle risposte a queste domande che si riassumono nella riconquista della società alla democrazia partecipata e modernizzata. Nell'esercizio di questo ruolo il riformismo può incontrare il disegno degli ambientalisti, il disegno dei cattolici cristiani, il disegno dei liberali socialisti, il disegno della sinistra democratica ed anche il disegno di una destra repubblicana e costituzionale.

L'obiettivo comune è quello di ristrutturare una società destrutturata e modernizzare le istituzioni. Si può fare ma ci vorrà tempo. Tempo e veduta lunga. Uscire dal presente puntinista ed entrare coraggiosamente nell'avvenire.

(22 marzo 2009)
DA repubblica.it
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« Risposta #125 inserito:: Marzo 29, 2009, 11:17:45 am »

IL COMMENTO

Meno male che Fini c'è

di EUGENIO SCALFARI


Era stato concepito come un congresso-show e così si è svolto, ma sarebbe grave errore interpretarlo solo come un evento mediatico. Il Popolo della libertà ha ancora l'apparenza d'un partito di plastilina, malleabile e manipolabile con facilità, ma ha un'armatura di ferro costituita da interessi largamente diffusi nella società italiana: le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro. A suo modo è un blocco sociale che crede di aver trovato la sua rappresentanza e la sua tutela nel carisma berlusconiano.

Lo show fa parte della rappresentazione, serve a celebrare il Capo che oggi sarà incoronato; ha anche i suoi aspetti impietosi che rivelano lo spirito del luogo. Uno di tali aspetti l'abbiamo colto nell'esibizione dei quattro giovani che hanno parlato in apertura del congresso. Non tanto per i discorsetti che hanno letto quanto per i gesti di commento del Capo seduto in platea. Quando uno di essi l'ha chiamato eroe lui ha alzato il dito pollice in segno di euforica approvazione e di nuovo l'ha alzato quando un altro ha aggiunto che tutto quanto di buono è stato fatto in Italia lo si deve soltanto a lui. Il giorno dopo, durante il discorso di Fini nei suoi passaggi più dissenzienti, la maschera del Capo era del tutto diversa: un sorriso-smorfia gli increspava le labbra e il teleschermo diffondeva quell'immagine di evidente fastidio che le parole del presidente della Camera gli suscitavano.

Intanto la colonna sonora dello show passava dall'inno di Mameli all'inno alla gioia beethoveniano per affidare alla canzone "Meno male che Silvio c'è" la conclusione della sigla musicale.

Un'altra osservazione, per restare ancora sullo show: nella grande platea predominavano le bionde e nelle primissime file i giovani e le giovani di bell'aspetto perché al Capo piacevano così e così è stato fatto. Alcune (attendibili) malelingue dicono che per esaurire in modo conveniente i 56 posti a sedere di ogni fila, gli organizzatori siano anche ricorsi ad appositi centri di ricerca di figuranti e comparse, ma forse non è vero.
Ci sarebbe molto altro materiale per irridere, ma sarebbe inadatto a commentare un congresso serio e importante; perciò cambiamo registro.

La prima conclusione da trarre contrasta con quanto dicono alcuni attendibili sondaggi circa la durata del nuovo partito quando il suo leader non sarà più Silvio Berlusconi. Quei sondaggi dicono a forte maggioranza che il partito si dissolverà, non sopravviverà al suo fondatore. Ma a noi sembra sbagliato. La fusione con Alleanza nazionale non gli porta idee diverse con le quali confrontarsi, ma gli porta una prospettiva di durata che va oltre la sua leadership. Questo sì, è il plusvalore che Forza Italia, se fosse rimasta sola, non aveva. An è meno liquida di Forza Italia, perciò ha maggior resistenza al trascorrere del tempo e questo è il valore aggiunto di questa fusione.

Perciò, quale che sarà il leader che verrà dopo Berlusconi, il partito nato oggi ci sarà ancora per lunghi anni e non sarà facile smontare il blocco sociale che intorno ad esso si è coagulato. In altri tempi l'abbiamo creduto ma oggi crederlo ancora sarebbe profondamente sbagliato. La sinistra si dovrà confrontare a lungo e seriamente con questa realtà a cominciare da subito se ci riuscirà.

La parola popolo è stata quella più pronunciata nei vari interventi congressuali e soprattutto nel discorso di apertura del premier. Il quale ha fatto di quella parola il pilastro della sua concezione politica e istituzionale. Il popolo sovrano esprime il leader. Nel caso nostro è piuttosto il leader che ha costruito politicamente quel popolo, questo merito (o demerito) gli va onestamente riconosciuto.
Tra il popolo e il leader non ci sono intermediari e se ci sono vanno spazzati via o conservati come semplici simboli senza funzioni.
Il popolo si esprime plebiscitando il leader e votando per il suo partito e instaura in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, la legittima dittatura della maggioranza che è lo strumento tecnico per trasformare in norme giuridiche e atti di governo le decisioni del Capo.

Nel suo discorso di apertura Berlusconi ha fatto un elenco dei valori comuni a tutto il Popolo della libertà. Il primo valore è, ovviamente, la libertà stessa. Il secondo la modernizzazione. Il terzo la meritocrazia. Il quarto l'identità nazionale a formare la quale entrano in gioco il mito della romanità, i Comuni e le Repubbliche marinare del medioevo, il Rinascimento, il Risorgimento, De Gasperi e ovviamente la Chiesa, Craxi e infine lui, il nuovo eroe (scusate se torno ad usare questa parola ma essa fa parte integrante della sostanza della concezione politica berlusconiana).
In quel lungo discorso di 90 minuti manca del tutto una menzione. Si parla di libertà, si parla di democrazia, si parla di Costituzione, si parla di giustizia sociale, ma non una menzione e neppure il concetto della divisione dei poteri. Cioè di stato di diritto. Cioè di controllo. I poteri di controllo politico del Parlamento. I poteri di controllo costituzionale del Capo dello Stato e della Corte. I poteri di controllo di legalità della magistratura.
Neppure un cenno alla natura indipendente di tali poteri. Si parla invece diffusamente del potere sovraordinato del leader scelto dal popolo di fronte al quale tutti gli altri debbono essere subordinati, rotelle d'un ingranaggio, o debbono scomparire perché inutilmente lenti, frenanti, ostacolanti, incompatibili con la cultura del fare.

Il fare non è un obbligo, è inerente alla vita di ciascuno, il fare costituisce il senso stesso della vita. Una vita inerte è una non vita. Non è dunque una cultura, quella del fare, ma un fattore biologico come il respiro, il movimento, il desiderio, la speranza. Insomma il senso.
Oppure il fare è una nevrosi, un'egolatria, un'ipertrofia dell'io, che per realizzarsi deve sopra-fare: fare intorno il deserto, sbarazzarsi dei corpi intermedi, di ogni opposizione, di ogni stato di diritto, di ogni organo di controllo. Perciò l'aspirazione e l'evocazione d'un consenso che superi il 50 per cento degli elettori.
Le monarchie di diritto divino, quelle dell'"ancien régime", erano collegate al popolo senza intermediari, in lotta perenne contro i Parlamenti e contro i nobili. Lo Stato faceva tutt'uno col patrimonio del Principe, che riuniva in sé il potere di fare le leggi e di eseguirle oppure di ignorarle a suo piacimento. Le monarchie costituzionali (lo dice la parola stessa) furono tali perché soggette alla Costituzione. Perché la magistratura conquistò l'indipendenza. E i Parlamenti divennero i destinatari delle scelte del popolo sovrano.
Tutto questo per dire che la concezione politica di Silvio Berlusconi fa a pugni con l'obiettivo della rivoluzione liberale da lui indicato come il fine principale del Popolo della libertà.

Ma ci sono altre ragioni per le quali quella rivoluzione non si farà e non s'è mai fatta: gran parte degli interessi agglomerati e rappresentati dal centrodestra sono contrari ad essa così come gli sono contrari gran parte degli interessi rappresentati dalla sinistra. Perciò i tentativi di rivoluzione liberale in questo paese sono sempre falliti. Per il conservatorismo innato nella destra e nella sinistra. Li ha sostenuti soltanto il riformismo nei brevissimi periodi in cui ha governato: nel quindicennio giolittiano del primo Novecento, nella fase riformatrice di De Gasperi-Vanoni, nelle regioni centro-settentrionali guidate dall'egemonia socialdemocratica del Partito comunista e nel triennio prodiano del 1996-'98 abbattuto dalla sinistra.
C'è ancora una pepita di riformismo nel Partito democratico che stenta tuttavia a farne un valore condiviso dai suoi aderenti. Sarà una lotta lunga e dura.
Quella di Berlusconi è più facile perché fa appello ad una costante psicologica degli italiani: l'antipolitica. In nessun paese dell'Occidente l'antipolitica è un sentimento così diffuso e questa è una delle cause che ha ridotto la politica ad un livello poco meno che abietto; è un corpo separato e quindi aggredito e aggredibile da tutte le disfunzioni e da tutti gli inquinamenti.

Nel secondo giorno il congresso del Popolo della libertà ha cambiato faccia con il discorso congressuale di Gianfranco Fini. Non sembri una sviolinatura al "compagno" Fini, premio di consolazione ai disagi della sinistra, ma è invece un'analisi oggettiva d'un intervento degno di un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d'un uomo di Stato.
Gran parte di quel discorso Fini l'aveva già pronunciata al congresso di scioglimento del suo partito pochi giorni fa, ma averlo ripetuto al congresso del nuovo partito in presenza del suo re incoronato e del suo pubblico devoto e osannante è un atto di coraggio che non si può sottovalutare.
All'inizio ha dovuto bruciare qualche grano d'incenso alla lungimiranza di Silvio, alla perseveranza e alle capacità di Silvio, alla sua lealtà e qualche altro grano di assenzio nei confronti della sinistra, della sua incapacità riformatrice e del suo sguardo perennemente rivolto al passato. (Ma Fini ha voluto dimenticare che vengono dalla cultura della sinistra alcune regole di mercato come la creazione della Consob e dell'Autorità antitrust, l'obbligo di trasparenza delle società quotate in Borsa, la legge sull'Offerta pubblica di acquisto-Opa e infine la massima delle riforme della storia italiana, l'abbandono della lira e l'adozione dell'euro. Non sono fatti che smentiscono le sue affermazioni, onorevole Fini?).

Ma poi è cominciata la parte vera del discorso ed è allora che il volto del Capo si è impietrito nel sorriso-smorfia e la variazione somatica è apparsa anche evidente sui volti dei suoi ex colonnelli di An.
Fini ha detto che il nuovo partito dev'essere pluralista. Che su Berlusconi, capo indiscusso, incombe però il compito di garantire quel pluralismo. Che è necessario intraprendere una riforma costituzionale per instaurare una democrazia governante. Ha insistito tre volte su questo binomio e la terza volta l'ha scandito perché entrasse nella memoria degli ascoltatori. E ne ha spiegato il senso: maggior potere al governo e al premier per governare con la rapidità richiesta dai tempi; ma anche maggiori poteri di controllo democratico al Parlamento. Se non è governante la democrazia affonda, se non è democratica si trasforma in autocrazia. Le due parole stanno insieme o affondano insieme.
Ha parlato del principio di legalità (che Berlusconi non aveva neppure nominato) come dire dello stato di diritto. Ha auspicato che il Partito democratico si riconsolidi ricordando che esso è portatore di valori necessari ad una democrazia compiuta. Ha descritto come sarà l'Italia tra dieci anni, pluri-etnica, pluri-religiosa, pluri-culturale, e quindi la necessità di prepararsi a questi eventi soprattutto nella scuola, nelle norme di integrazione e nel rispetto dei diritti ai quali debbono corrispondere i doveri sia dei cittadini che degli immigrati. Ha ricordato il diritto di esser curati anche per gli immigrati clandestini.

Il finale a sorpresa l'ha introdotto con una citazione latina: "In cauda venenum". E poi: "La legge che avete votato al Senato sul testamento biologico è una cattiva legge, lede i diritti di libertà. So di essere in minoranza su questa questione e sul mio concetto di laicità dello Stato, ma mi auguro che ci ripensiate".
Così ha concluso. Se avesse un Apicella, forse gli scriverebbe una canzone e la intitolerebbe "Meno male che Fini c'è" ma forse lui invece di alzare il pollice, gliela strapperebbe in faccia. O almeno così si spera.

(29 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #126 inserito:: Aprile 06, 2009, 11:58:49 am »

L'ingiustizia ha sconvolto il benessere del mondo

di EUGENIO SCALFARI



IL tema che desidero oggi proporre ai nostri lettori è quello della disuguaglianza, già autorevolmente segnalato da Carlo Azeglio Ciampi nei suoi recenti interventi.

Esso si aggancia in modo evidente alla discussione aperta da Ezio Mauro sulla rottura del patto sociale tra capitale e lavoro ed è di stringente attualità. Ha costituito il motivo di fondo e ha dato il tono al G20 di Londra ed ha riecheggiato nella manifestazione di massa di ieri al Circo Massimo di Roma organizzata dalla Cgil.

E' un tema che supera tutti gli steccati politici ed etici. Lo si ritrova perfino nelle parole del cardinal Martini ("Conversazioni notturne a Gerusalemme") quando si chiedeva quale sia il vero e intollerabile peccato del mondo: la diseguaglianza, dice il cardinale, mettendo in seconda fila tutti gli altri peccati che la religione imputa agli uomini. La diseguaglianza ostacola o blocca del tutto il funzionamento della democrazia, divide il mondo degli esclusi da quello dei privilegiati, impedisce il consenso e la condivisione della crescita sostenibile.

I potenti del mondo, in tutti i loro incontri sempre più frequenti di fronte ad una crisi che ha già smantellato tutte le certezze, hanno sempre sacrificato qualche grano di incenso a quel tema, ma non sono mai andati più in là. Salvo, forse, nel vertice di Londra, per esclusivo merito di Barack Obama nella sua prima apparizione in un consesso planetario.

Il vertice di Londra è stato importante, al di là delle decisioni volte ad arginare la crisi, proprio perché per la prima volta il principio della giustizia sociale vi ha fatto la sua comparsa concreta. Non tanto come principio etico predicato ma mai praticato, quanto come imprenscindibile elemento d'un nuovo tipo di crescita, sostenibile se condiviso, accettabile se democratico, cioè approvato anche dagli esclusi, dai deboli, dai poveri, dai disperati.

Soltanto se questa condizione sarà realizzata la crescita potrà riprendere su nuove basi; soltanto se un patto sociale mondiale sarà stipulato la crisi avrà uno sbocco verso il futuro. Altrimenti il mondo vecchio riaffaccerà il suo muso sulle rovine senza che nulla sia cambiato in un pianeta impoverito e imbarbarito, teatro di altre possibili crisi, di altri crolli, di altre macerie.

* * *

Si è molto discusso sul principio dell'eguaglianza e sui modi di tradurlo in pratica; sulle sorgenti di pensiero che l'hanno alimentato, sul deposito di valori che l'hanno mantenuto in vita nonostante le ferite e i solchi profondi che gli sono stati inferti dalla realtà. E la prima vivida sorgente è storicamente apparsa nel messaggio evangelico che promise all'umanità la fine di ogni discriminazione tra i liberi e gli schiavi, tra i poveri e i ricchi, tra i deboli e i potenti.

"E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli". Era il principio dell'amore che faceva la sua prima stupefacente irruzione nel mondo antico sconvolgendo equilibri arcaici, istituzioni, volontà di potenza radicate e fino ad allora invincibili.

Ma quel principio così fortemente innovativo ed anzi rivoluzionario conteneva un tarlo vorace dentro di sé: la religione rinviava la promessa all'avvento di un altro mondo ultra-terreno, alla comparsa d'un futuro messianico alla fine dei secoli, quando la bestia trionfante sarebbe stata uccisa e con essa il fluire ingiusto della storia.

Occorre arrivare alla modernità, diciotto secoli dopo il lascito evangelico, per veder realizzata la prima, minima ma necessaria realizzazione di quel principio: la conquista dell'eguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge. Indipendentemente dalle differenze di sesso, di etnia, di censo, di istruzione.

Era ancora molto poco, non risolveva altre terribili diseguaglianze, non impediva che le leggi fossero ingiuste, ma rappresentava comunque un passo preliminare e necessario perché abbinato agli altri essenziali principi della libertà e della fraternità. Fu il trittico della modernità, la cui realizzazione vide paradossalmente le Chiese alleate con i privilegi anziché con i movimenti riformatori.

Su quel trittico si fondarono i valori dell'Occidente. Il fatto che essi siano stati largamente traditi testimonia la durezza della storia e delle sue dinamiche e rende tanto più necessario procedere oltre perché è di tutta evidenza che la conquista della legalità è monca se altre condizioni di eguaglianza non si realizzano.

* * *

Fermo restando il nesso tra giustizia e libertà, è ormai maturo il tempo per procedere verso l'eguaglianza delle condizioni di partenza tra i ceti, le etnie, i generi, gli individui. Condizione che necessariamente comporta una profonda redistribuzione dei redditi e della ricchezza tra paesi opulenti, paesi emergenti, paesi poveri e all'interno d'ogni nazione tra sacche di arretratezza e sacche di privilegio.

Siamo tutti ben consapevoli che i principi viaggiano insieme agli interessi e si ridurrebbero a pure velleità utopiche se questo nesso intrinseco non fosse solido e durevole. La novità della situazione attuale consiste nel fatto che quel nesso tra principi e interessi risulta quanto mai necessario. Non ci sarà crescita senza redistribuzione del reddito e della ricchezza. Il nocciolo dell'attuale recessione mondiale, il rischio incombente che possa trasformarsi da recessione in depressione, lo spettro dei 25 milioni di disoccupati che incombe come un cataclisma sull'economia dei paesi del primo mondo, risiede nel crollo della domanda globale. Se non c'è domanda crolla il commercio internazionale, crollano gli investimenti, si blocca il credito, cade il reddito delle nazioni, delle famiglie, delle persone.

Il rilancio della domanda passa inevitabilmente per il suo finanziamento, finanziamento di massa per rilanciare la domanda di massa. La necessità della redistribuzione è dunque la condizione primaria per il rilancio della crescita, per alimentare la quale il valore d'uso dei beni e dei servizi deve affiancarsi al valore di scambio e magari sopravanzarlo.

Il valore d'uso non esclude il profitto ma ne contiene gli eccessi poiché introduce una specifica domanda di beni e di servizi pubblici: l'etere, l'acqua, l'energia ed anche, diciamolo, la giustizia.

Questa è la crescita condivisa, sostenibile e durevole, che procede e si rafforza insieme alla democrazia e senza di essa non sussiste.

(5 aprile 2009)

dal forum di forumista.net
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« Risposta #127 inserito:: Aprile 08, 2009, 10:02:29 am »

Eugenio Scalfari,


Quel decalogo senza eredi


Gianfranco Fini ha lasciato un testamento a futura memoria. Ma le facce di La Russa, Matteoli, Gasparri, Alemanno, D'Urso dicevano sì con le labbra e no con gli occhi.

A Gianfranco Fini non piace la parola 'sdoganamento', l'ha detto e l'ha ripetuto nel suo discorso di addio di domenica scorsa all'assemblea di scioglimento del partito da lui fondato che confluisce insieme a Forza Italia nel nuovo partito del Popolo della libertà. Non gli piace quella parola che gli ricorda lo sdoganamento effettuato da Berlusconi nei suoi confronti quando disse nel 1993, in occasione delle elezioni che contrapposero il segretario del Msi a Francesco Rutelli per la carica di sindaco di Roma. "Se votassi a Roma - disse allora il Cavaliere - non voterei per Rutelli ma per lui". Fini ha commentato, quindici anni dopo, che si sdoganano le merci ma non le idee. Ha ragione. E poi Berlusconi è il meno adatto a rilasciare biglietti d'ingresso nella democrazia italiana.

Bisogna leggerlo bene questo discorso del presidente della Camera al suo partito che da domenica scorsa non c'è più. È un testamento a futura memoria. Al di là d'una rivendicazione di coerenza che fa parte della retorica politica, esso delinea un futuro che è l'opposto dei programmi della Lega e di Forza Italia. L'opposto di quanto pensa e fa Berlusconi. Ecco infatti i passaggi fondamentali di quel discorso testamentario.

1. Occorre costruire una nuova Italia adatta a soddisfare i bisogni del paese che ci sarà tra dieci anni e non pensare con la mentalità di ieri e di oggi.

2. La nuova Italia del 2020 sarà multietnica e multireligiosa. Di conseguenza si dovrà costruire una cultura e uno Stato che tengano conto di questa inevitabile evoluzione.

3. Bisogna colloquiare con l'Islam.

4. Il nuovo partito non può nascere all'insegna del pensiero unico e tantomeno del culto della personalità del leader.

5. La modernizzazione istituzionale comporta il presidenzialismo ma contemporaneamente un deciso rafforzamento dell'autonomia del Parlamento e dei suoi poteri di controllo sull'Esecutivo.

6. Il principio che sta alla base della società è la dignità della persona. Esso deve valere per tutti i cittadini e per tutti i residenti, indipendentemente dal colore della pelle e dalla religione che professano.

7. Chiesa e Stato sono separati tra loro e agiscono in aree distinte. Libertà religiosa e laicità dello Stato e delle istituzioni sono due facce della stessa medaglia tanto più in una società che sarà multireligiosa.

8. La dignità della persona va rispettata e tutelata anche per gli immigrati clandestini.

9. Le leggi non possono imporre alle persone obblighi derivanti da un credo religioso. Creano doveri ai quali corrispondono diritti.

10. La crisi economica attuale può avere un'uscita autoritaria oppure un'uscita liberal democratica. La scelta degli italiani deve essere in favore della seconda soluzione e non della prima.

Questo è il decalogo che Fini lascia ai suoi eredi. Ma gli eredi lo accetteranno? E saranno in grado di rispettarlo?

Gli eredi erano tutti sul palco di quella sala gremita. Le loro facce, i loro sguardi, le loro posture erano impietosamente riprese dai teleschermi mentre Fini parlava. Bisogna averle viste e guardate con attenzione quelle facce, La Russa, Matteoli, Gasparri, D'Urso, Alemanno e tutti gli altri che facevano corona. Facce che dicevano sì con le labbra e no con gli occhi, facce che pensavano al domani con intenzioni diametralmente opposte a quelle che il loro ex capo snocciolava davanti al microfono.

Quando Fini ha detto che anche An ha in certi momenti anteposto il potere e il sottopotere ai principi del buon governo e della democrazia, quelle facce si sono impietrite. Quando ha parlato dell'immigrazione come un fatto inevitabile e dell'integrazione come una necessità, gli sguardi si sono incupiti. Quando ha ricordato che i poteri di controllo e di garanzia delle minoranze debbono essere la prima cura del Parlamento, si sono distratti e hanno guardato nel vuoto.

Gli eredi sono già dentro una realtà che con Fini non ha nulla a che fare. Perciò il documento testamentario del presidente della Camera resterà senza eredi. È un messaggio chiuso in una bottiglia e lanciato in mare. Si perderà tra le onde. Ma semmai qualcuno troverà quella bottiglia e leggerà quel messaggio sicuramente sarà qualcuno che in quella sala non c'era.

Spesso la storia fa di questi scherzi e per questo va avanti per forza propria indipendentemente dai disegni individuali. Oppure si blocca e diventa schiava delle furbizie degli omuncoli e della cupidigia dei rubagalline.

Quanto a Berlusconi, per questa settimana elogerà Fini e poi archivierà la pratica fino al prossimo scontro tra il premier e il presidente della Camera. È l'eterno ritorno d'una vicenda ormai risaputa che può sempre riservare qualche sorpresa.

(26 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #128 inserito:: Aprile 10, 2009, 10:50:02 am »

Eugenio Scalfari.


Il politico da bar sport


Il Capo vuol stare al riparo dal biasimo che oggi incombe sulla politica. Deve essere 'uno di noi' e allora scherza, motteggia, racconta barzellette.

Ne abbiamo visti tanti ma ci ricadiamo sempre 

Sabato scorso, 4 aprile, ho partecipato ad un dibattito a Torino nel quadro delle celebrazioni einaudiane in memoria di Giulio Einaudi nel decennale della sua scomparsa. Erano con me Abraham Joshua e il priore della Comunità di Bose, Enzo Bianchi e il tema che ci era stato assegnato aveva per titolo 'Domani'. Si trattava di delineare - ciascuno dal proprio punto di vista - la possibile fisionomia delle società d'Occidente come emergeranno dopo la crisi che le sta scuotendo dalle fondamenta.

Non starò a resocontare l'andamento del dibattito, è già stato fatto da alcuni giornali. Ma voglio soffermarmi su un punto, toccato dal priore di Bose, un monaco che svolge da vent'anni un suo discorso cristiano assai diverso da quello della Chiesa e per questo molto intrigante per chi guarda da laico non credente con molto rispetto al sentimento religioso quando è intenso, autentico e libero da ogni fondamentalismo.

Il tratto che più mi ha colpito nelle parole di don Enzo è stata la sua attenzione alla 'communitas' e alla 'polis'. Se non si ha nella mente e nel cuore la visione della 'polis', della città terrena dove trovano attuazione i principi della solidarietà, della condivisione, dell'etica e del bene comune, il sentimento religioso si restringe a un fatto privato, di grande importanza per la salvezza dell'anima, ma mutilato dal sentimento di fraternità e d'amore per gli altri che sta al primo posto nella predicazione evangelica.

La cura della 'polis' è un elemento fondamentale della vita cristiana senza il quale la religione diventerebbe impensabile: questo crede e predica il priore di Bose nella sua Comunità e dovunque gli capiti di parlare.

Dal canto mio osservo che la parola 'polis' fornisce il suo etimo alla parola 'politica' che altro non è - o almeno altro non dovrebbe essere nel senso etimologico e alto - che il governo della città per il bene dei cittadini e con la loro partecipazione.

La 'polis' ateniese e greca integrava a tal punto i cittadini nella comunità politica da ridurre al minimo l'importanza della loro vita privata individuale. La famiglia in quanto istituzione aveva pochissimo rilievo nella società greca e quindi non serviva da contrappeso privato alla dimensione pubblica.

Ricordo queste lontane origini della nostra civiltà occidentale in una fase in cui la parola 'politica' e l'aggettivo 'politico' sono diventati poco meno che un'ingiuria che non colpisce soltanto comportamenti disdicevoli di alcuni uomini politici ma la loro totalità. Il politico è disdicevole per definizione; per sfuggire a quello stigma che attira biasimo pregiudiziale e non contempla eccezioni, occorre dunque che il politico si faccia, proprio lui, il banditore dei sentimenti antipolitici prevalenti, con conseguenze paradossali sulle istituzioni.

Il politico banditore dell'antipolitica si dedica infatti, per acquistare e mantenere il suo carisma, a svalutare le istituzioni rappresentative della politica, a sbeffeggiarle anche mentre le sta usando, a proporne l'azzeramento o comunque un contenuto radicalmente diverso nel senso della personalizzazione su se stesso.

La società, ormai polverizzata e ridotta a folla indistinta, plaude a chi la espropria progressivamente dei suoi diritti e della sua partecipazione alle scelte politiche. La sola partecipazione possibile in queste condizioni è quella di rispondere, quando interrogati, a un sì o un no a domande che l'antipolitico propone retoricamente e che contengono già la risposta.

Ma tutto ciò non sarebbe ancora sufficiente a mantenere il Capo al riparo dal biasimo che incombe sulla politica. Egli infatti governa e perciò stesso deve occuparsi del bene collettivo ma deve contemporaneamente e a tutti i costi sfuggire alla tagliola di essere assimilato ai 'politici'. Dovrà dunque metter tutta la sua cura nel linguaggio che usa, nel gesto che lo accompagna, nell'abbigliamento, nei modi di pensare e di esprimersi. Dev'essere insomma 'uno di noi'. Deve collocarsi con l'immaginazione in un immenso 'bar dello sport' dove si scherza, si motteggia, si discute di tutto, si raccontano barzellette salaci, si semplifica.

Il politico antipolitico riesce a mantenere questo livello se la sua natura glielo consente, cioè se il suo carattere è conforme a quella tipologia. Voglio dire che unire insieme l'ipertrofia del proprio io e la dimensione antipolitica sono due facce della stessa medaglia: ci si nasce e non ci si diventa.

Noi italiani abbiamo conosciuto molti casi del genere nel corso della nostra storia; dovremmo perciò esser vaccinati e immunizzati contro il loro ripetersi ma purtroppo non è così. Ci ricadiamo con frequenza per ragioni che sconfinano dal giudizio politico all'antropologia. Questa è la nostra endemica malattia dalla quale non siamo ancora riusciti a liberarci.

(09 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #129 inserito:: Aprile 12, 2009, 11:01:50 am »

IL COMMENTO

Ma oltre l'emergenza incombe il futuro


di EUGENIO SCALFARI

 
LACRIME lacrime lacrime. Composte, represse, trattenute, a volte singhiozzanti, a volte silenziose in lunga riga sulle guance da occhi che fissano il vuoto. Ma ora, in questa Pasqua dolente, non è più tempo di lacrime che non siano strettamente private. Ora è tempo di decisioni rapide e sagge e di pubbliche assunzioni di responsabilità.

Siamo un paese capace di mobilitarsi e di dare il meglio di sé nell'emergenza, sedendosi poi su se stesso nei tempi lunghi. Accade addirittura che lo sguardo lungo verso il futuro si addica di più alle famiglie che al potere pubblico e alle istituzioni. Dovrebbe avvenire il contrario ma non è così, non in Italia.

Prendete il piano casa voluto dal governo. Al principio fu una proposta avventurosa di Berlusconi per rilanciare l'industria delle costruzioni: il 20 per cento di cubatura in più concessa a tutti i proprietari di case, in città, nei centri storici, nelle campagne. Le sovrintendenze costrette al silenzio-assenso con trenta giorni di tempo per opporsi. I privati autorizzati a iniziare i lavori con la semplice autocertificazione firmata dal professionista incaricato di dirigere i lavori. E sgravi fiscali per tutti.

Poi le Regioni bloccarono il progetto, lo ridimensionarono escludendo le città e le aree vincolate al rispetto paesaggistico, introdussero vincoli speciali per le zone a rischio sismico.

Adesso, dopo il terremoto d'Abruzzo, quel piano è da buttare. L'emergenza ha riproposto il problema delle scuole fatiscenti (San Giuliano di Puglia insegni) e dei rischi naturali. Non siamo soltanto la terra ballerina dei terremoti, ma anche la terra dei torrenti e dei fiumi senza argini, secchi d'estate e devastanti d'inverno; la terra dei vulcani non spenti; la terra delle montagne franose; lo "sfasciume pendulo" che incombe sulle sottostanti marine.

Un piano casa deve dunque includere la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici, la messa in sicurezza di tutte le costruzioni nelle aree di rischio sismico seguendo le priorità già indicate nelle mappe del 1996; la ricostruzione degli edifici abbattuti e lesionati dal terremoto in Abruzzo. Infine la costruzione di case nuove nei limiti indicati dal mercato per abitazioni dignitosamente economiche. E criteri di rigorose demolizioni per le abitazioni e gli edifici industriali eretti lungo i fiumi, i torrenti e i vulcani a rischio di esondazione e di eruzione.

C'è un lavoro enorme da fare, che non riguarda il bravissimo Bertolaso che di lavori ne fa già troppi, non riguarda l'emergenza di poche settimane e di pochi mesi, ma un arco di anni e impegni di bilancio di grandi dimensioni. Riguarda il tempo lungo che le nostre classi dirigenti non hanno mai preso in considerazione, assorbito soltanto dal fare con ritorni politici ed elettorali immediati, lasciando che le antiche piaghe geofisiche del "Bel Paese" imputridissero e incancrenissero, provocando emergenza dopo emergenza, strage dopo strage e lutti e rovine e lacrime.

* * *

Ricordiamole quelle catastrofi avvenute che hanno costellato la storia nazionale nel dopoguerra (senza scordare il terremoto-maremoto che distrusse Messina e lo Stretto ai primi del secolo scorso provocando una strage di proporzioni inusitate).

Il primo fu l'alluvione del Polesine. Poi l'immensa e paurosa ondata del Vajont. Il terremoto del Belice. L'esondazione dell'Arno che sommerse Firenze mentre un'acqua alta eccezionale sommergeva Venezia. Poi il terremoto dell'Irpinia. Quello del Friuli. La catastrofe in Valtellina. L'esondazione della Dora e degli affluenti del Po. Il terremoto in Umbria e nelle Marche. L'ondata di fango che devastò la valle del Sarno. Ed ora l'Abruzzo.

Sessant'anni di rovine, lutti, tendopoli, roulotte, prefabbricati, cucine da campo, Forze dell'ordine e Forze armate mobilitate, pompieri e vigili, ordinanze, editti, processi, mafie e camorre all'opera per trarre vantaggi.

E lacrime lacrime lacrime. Di emergenza in emergenza. Ma tra l'una e l'altra liberi tutti. Liberi di costruire sul bordo dei fiumi e dei vulcani. Liberi di impastare il cemento con la sabbia del mare. Liberi di lesinare sulle armature di ferro. Liberi di scempiare il paesaggio. Liberi di violare i piani regolatori. Un popolo di eroi, di navigatori e di abusivi. Sempre condonati. Spesso incitati ad abusare. Come accade quando il fare diventa un fine a se stesso e sgomita per farsi largo, egoismo che lotta con altri egoismi.

Sono queste le invasioni barbariche del nostro tempo, in testa alle quali ha cavalcato e cavalca gran parte della classe dirigente di ieri e di oggi. Anche di domani?

* * *

Il terremoto d'Abruzzo, pur col suo carico terribile di vittime, ha registrato un numero di morti e di feriti minore di quelli che l'hanno preceduto. Ma con alcune particolarità che aggravano molto le incognite della ricostruzione.

La principale di queste particolarità riguarda l'Università, una delle più antiche d'Italia, concentrata sulla facoltà di Ingegneria, frequentata complessivamente da trentamila studenti molti dei quali provenienti da paesi e luoghi lontani. È improbabile che questi studenti "foranei" tornino a L'Aquila anche quando la città sarà stata ricostruita. I rischi sono troppi. Ma lo smantellamento del polo universitario sarebbe (sarà) un'altra catastrofe nella catastrofe della città. La popolazione universitaria produce infatti un indotto di traffico e di servizi che è il vero motore propulsivo dell'economia cittadina.

Un discorso analogo, anche se in misura più ridotta, vale per le scuole elementari e secondarie, anch'esse a rischio di spopolamento e intanto di lunga interruzione. Bisognerà organizzare un anno scolastico d'emergenza cercando in tutti i modi di preservare l'unità delle classi e dei loro insegnanti.

La terza questione riguarda i modi della ricostruzione e innanzitutto la scelta del luogo: una nuova città lontana dall'attuale insediamento oppure ricostruire negli stessi luoghi e nelle stesse forme architettoniche badando ovviamente ad una rigorosa vigilanza sulla progettazione tecnica e sulla qualità dei materiali?

La maggior parte degli esperti propende per questa seconda soluzione ma c'è ancora discordanza. Forse dovrebbero essere gli abitanti a decidere.

Quale che sia la scelta occorre far presto: il clima in Abruzzo è rigido, ad ottobre l'inverno è già cominciato. Trascorrerlo sotto le tende è impensabile, tanto più che abbondano le persone anziane. Ma è impensabile anche disperderli e non si tratta soltanto del capoluogo: il sisma ancora parzialmente in corso ha sconvolto gran parte dell'Abruzzo, sicché è un'intera regione con caratteristiche alpine che si accinge a passare un inverno assai disagiato.

Da questo punto di vista l'emergenza è massima e la sua durata non sarà certo minore dei diciotto mesi. Una regione intera. Non è pensabile che ci si affidi all'improvvisazione: governo e protezione civile dovranno presentare un piano ed una tempistica attuativa al Parlamento e indicando insieme con essa l'ammontare dei fondi necessari e la loro copertura.

La Cassa depositi e prestiti potrà fornire un appoggio che in parte rientra nelle sue competenze istituzionali. Si tratta tuttavia di investimenti infrastrutturali (ospedale, palazzi di città, scuole e Università) che riguardano istituzioni e pubblici servizi in capo alla Regione, ai Comuni e allo Stato. Per la Cassa si tratta comunque di prestiti che dovranno esser rimborsati e che richiedono quindi copertura.

Con i tempi che corrono questa partita è molto difficoltosa. Se non ci fosse di mezzo l'orgoglio di Berlusconi, il provvedimento più logico riguarderebbe la reintroduzione dell'Ici sulle prime case che frutterebbe all'Erario un maggior gettito di 3 o 4 miliardi. Ad essi si potrebbe aggiungere un "eccezionale" inasprimento dell'Irpef del 2 per cento per i redditi superiori a 120mila euro annui, il cui maggior gettito, stimato dai tecnici del Partito democratico che ha formulato la proposta, darebbe 2 miliardi. Sarebbe un'imposta di scopo motivata dal terremoto e quindi percepibile ed accettabile dai contribuenti chiamati a farvi fronte.

Infine l'accorpamento del referendum alle elezioni europee del 7 giugno, con un risparmio di 400 milioni.

Si tratta complessivamente di risorse che ammontano a circa 6 miliardi, per far fronte ad una ricostruzione "una tantum". È chiaro che ben altre cifre sono quelle che riguardano la messa in sicurezza delle scuole e delle costruzioni in zone a rischio di catastrofi naturali.

* * *

È stata notata da gran parte dell'opinione pubblica e sottolineata da giornali e televisioni la diversità di comportamento tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio di fronte al terremoto d'Abruzzo. Più composto e riservato Napolitano, più emotivamente impegnato nel dirigere e nel fare Berlusconi. Commossi ambedue e più volte presenti sui luoghi del disastro, Napolitano con appena un tremito della voce subito represso, Berlusconi con lacrime sincere e copiose. Infine il Capo dello Stato ha chiamato in causa le responsabilità di quanti hanno male progettato e male eseguito opere che - se le regole fossero state osservate - avrebbero dovuto reggere all'impatto del sisma ed ha stimolato la magistratura ad accertare eventuali reati.

Si potrebbe dire con una punta di ottimismo che i due maggiori rappresentanti delle nostre istituzioni hanno caratteri e culture molto diversi ma complementari che, presi nel loro insieme, danno luogo ad un tandem bene assortito.

Purtroppo questa punta di ottimismo è troppo... ottimistica. Il fare del presidente del Consiglio - l'abbiamo già detto in precedenza - si limita ad una veduta corta e si esaurisce nell'immediato, insegue ritorni politici ed elettorali a scadenza breve, è intriso di emotività e di populismo. La sua sincerità non è sufficiente a dar vita a processi produttivi di lunga lena e di scarsa redditività ai fini del consenso e della popolarità.

Quanto al presidente della Repubblica, non è suo compito proporre programmi politici né Napolitano è persona che voglia eludere le sue competenze istituzionali. Ha grande rispetto per i poteri del governo e per quelli del Parlamento. Incoraggia nei modi appropriati alla sua carica il guardare lungo, a darsi carico del futuro, insomma a guidare il paese come spetta ad una classe dirigente consapevole delle sue responsabilità. Più di questo non può fare, anche se è prezioso che lo stia facendo con tenacia e fermezza.

Il resto spetta a tutti gli altri settori che formano la classe dirigente: i rappresentanti degli imprenditori, i sindacati dei lavoratori, i partiti, gli ordini professionali, la magistratura, le Regioni e gli Enti locali. Ma spetta soprattutto ai cittadini.

I cittadini (l'ho già scritto in altre occasioni ma voglio qui ripeterlo) sembrano ormai presi da sentimenti di indifferenza e apatia che non sono consoni alla temperie che stiamo attraversando. Sono delusi ed hanno buone ragioni per esserlo, ma la delusione non ha alcuna logica connessione con l'apatia, specie quando una parte non piccola di essa riguarda anche il modo come abbiamo esercitato il nostro ruolo di cittadini e di popolo, come abbiamo vissuto il nostro diritto di cittadinanza.

È illusorio pensare che la classe dirigente possa esser migliore del popolo che la esprime. C'è un rapporto stretto tra questi due elementi di una democrazia funzionante e governante, tra la cittadinanza e la dirigenza. Se entrambe sono parte d'un circolo virtuoso si migliorano a vicenda, ma se entrambe fanno parte d'un circolo perverso, a vicenda si imbarbariscono.

In questa Pasqua dolorosa sia questo un pensiero sul quale impegnarsi e sul quale tutte le persone di buona volontà sappiano guardarsi negli occhi e stringersi la mano.

(12 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #130 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:42:07 pm »

IL COMMENTO

Chi canta fuori dal coro è comunista

di EUGENIO SCALFARI


Non si può non cominciare con le nomine alla Rai. Gli altri giornali minimizzano con l'aria di dire che si è sempre fatto così: la Rai è proprietà del governo e quindi è il governo che ha il potere di decidere trasmettendo le sue indicazioni all'obbediente maggioranza del Consiglio d'amministrazione.

E' vero, sostanzialmente è sempre stato così ma con qualche differenza di non poco conto. La prima differenza è questa: nessun governo, tranne quelli guidati da Silvio Berlusconi, ha mai avuto a sua disposizione le televisioni commerciali, cioè l'altra metà del cielo televisivo. Il fatto che l'attuale presidente del Consiglio abbia a sua completa mercé la propria azienda televisiva privata e l'intera azienda pubblica (salvo la riserva indiana di Raitre finché durerà) configura quindi una situazione che non ha riscontro in nessuna democrazia del mondo. Non so se sia vero che le nomine siano state decise l'altra sera nella riunione di tre ore nell'abitazione romana del premier. E' certo comunque che i nomi proposti dal direttore generale Masi saranno ratificati senza fiatare dal Cda della Rai di mercoledì prossimo e saranno tutti "famigli" di Berlusconi, provenienti dalle sue televisioni private o dai suoi giornali o pescati tra le giovani speranze già inserite nell'accogliente acquario dell'azienda pubblica, collaudati custodi del credo berlusconiano nel circuito mediatico.

Non ci sarà purtroppo una sola persona che abbia mai mostrato un barlume d'indipendenza, un soprassalto di dignità professionale, un dubbio sull'assoluta verità predicata dal Capo.

Questo è lo scandalo, questa è la vergogna, alla quale quel poco di cosiddetta indipendenza che ancora esiste nella stampa italiana si sta ormai adattando per assuefazione esprimendo tutt'al più qualche sommesso brontolio subito seguito da rimbrotti all'opposizione, colpevole di ideologismo e di conservatorismo.

Il quadro è desolante. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il controllo dei "media" non serve soltanto a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l'antropologia d'una nazione. Ed è questa trasformazione che ha imbarbarito la nostra società, l'ha de-costruita, de-politicizzata, frantumata, resa sensibile soltanto a precarie emozioni e insensibile alla logica e alla razionalità.

Chi non è d'accordo è comunista. E firme di intellettuali o sedicenti tali accreditano questo scempio culturale e questa menzogna.

Dedicherò dunque al predetto scempio il seguito del mio ragionamento.

* * *

Quindici anni fa partecipai alla presentazione di un libro di Achille Occhetto al circolo della stampa estera a Roma, in quell'occasione il corrispondente di un giornale tedesco mi domandò che fine avrebbero fatto i comunisti dopo che il Pci aveva buttato alle ortiche il suo nome e la sua ideologia.

Risposi che i comunisti dovevano morire e così i loro figli e nipoti fino alla settima generazione. Solo quando fossero tutti fisicamente estinti sarebbe cessata la polemica nei loro confronti. Infatti è quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo e poiché siamo ancora lontani dalla settima generazione l'anatema contro di loro continua e continuerà per un bel pezzo. Non è soltanto il tema prediletto dal nostro premier e dai Bonaiuti di turno, è anche diventato il piatto forte di molti belli ingegni transumanti che all'ombra del revisionismo sono passati dall'anticomunismo di "Lotta continua" e di "Potere operaio" all'anticomunismo di destra. Per loro ormai i comunisti sono diventati un'ossessione, ne vedono la presenza ovunque, alimentano i loro incubi e le loro farneticazioni e ai comunisti attribuiscono tutti i mali antichi, recenti, attuali e futuri che affliggono la politica italiana.

I comunisti. Il Partito comunista italiano. La sinistra italiana. Sono ancora tra noi. Non sono affatto scomparsi. Non sono estinti. Non sono stati rinnegati. Finché questo lavacro definitivo non sarà compiuto l'Italia sarà in pericolo e con essa anche la democrazia.
Ne ha fatto le spese l'ultimo libro di Aldo Schiavone il quale ha risposto al mitragliamento di cui era bersaglio con un articolo su "Repubblica" di qualche giorno fa. Con pungente ironia Schiavone domandava ai suoi interlocutori: che cosa volete che faccia? Debbo suicidarmi? Vi contentereste invece se promovessi un salmodiante corteo di pentiti che percorrano le strade d'Italia autoflagellandosi e invocando perdono per il peccato d'essere stati nel Pci?

La risposta non è ancora arrivata ma sarà sicuramente quella da me anticipata nel 1994, all'alba della stella berlusconiana: dovete morire fino alla settima generazione. Caro Aldo Schiavone, non c'è altra espiazione che basti a cancellare il vostro peccato mortale.

* * *

Tra le persone che mi onorano della loro amicizia c'è Alfredo Reichlin. Abbiamo più o meno la stessa età, ci conosciamo e stimiamo da mezzo secolo sebbene i nostri percorsi culturali siano stati assai diversi. Lui entrò nel Pci ai tempi della Resistenza, io sono di cultura liberale e tale sono rimasto anche se dopo la morte di Ugo La Malfa ho sempre votato per il Pci, poi per i Ds e infine per il Partito democratico che è il più conforme alle mie idee liberal-democratiche.

Reichlin ha scritto qualche anno fa un libro insieme a Miriam Mafai e a Vittorio Foa, che ha avuto molto successo ed è stato portato in teatro da Luca Ronconi. La domanda che quel libro si poneva era appunto perché un democratico è potuto diventare comunista e che cosa faranno i comunisti dopo che il comunismo è scomparso dalla scena politica del mondo.

Tra le risposte ce n'è una di Reichlin che riassumo così: il Pci ha certamente commesso molti errori, ha condiviso un'ideologia sbagliata, ha perfino coperto alcuni crimini, ma non è una realtà discesa sull'Italia come un meteorite. La domanda da porsi è dunque questa: perché la società italiana ha reso possibile la nascita d'un partito come il Pci, al quale si sono iscritti o per il quale hanno votato operai e borghesi, artigiani e contadini, marxisti e liberali, atei e credenti? Che al suo culmine ha quantitativamente raggiunto i voti della Democrazia Cristiana? Che Aldo Moro ha associato negli anni di piombo al governo del paese?

Questa domanda meriterebbe un'analisi seria. Almeno altrettanto seria quanto l'altra domanda speculare: perché la società italiana attuale ha reso possibile la nascita del berlusconismo e gli ha dato uno strapotere che somiglia sempre più ad un regime?

Con una differenza tra le due domande: ragionare sul Partito comunista sta diventando col passare degli anni materia per gli storici; ragionare sul berlusconismo è un tema maledettamente attuale e riguarda la politica e non ancora la storia.

* * *

Si dice che ormai non c'è più differenza tra destra e sinistra. Si inventano nuove classificazioni, per esempio quella tra progressisti, moderati, conservatori. Discorsi inutili e abbastanza noiosi. Scolastici. Lontani dalla realtà.

Il tema di oggi è il rapporto tra i grandi ideali della modernità: libertà eguaglianza fraternità. L'ho già scritto altre volte: l'età moderna è nata da questo trittico di principi e ha dato segnali di decadenza tutte le volte che quel trittico si è indebolito nelle coscienze e nella politica.

Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra.

Bisogna tradurlo in atti politici. Bisogna cambiare l'antropologia del Paese. Bisogna superare l'indifferenza e l'apatia. Bisogna resistere per costruire il futuro.

(19 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #131 inserito:: Aprile 25, 2009, 10:08:06 am »

Eugenio Scalfari


Lezione dimenticata


È quella di Roosevelt. Ecco perché la crisi di oggi rischia di aumentare le diseguaglianze  Franklin D. RooseveltRovistando tra vecchi libri in polverosi scaffali ne ho trovato l'altro giorno uno che più attuale non si può. Si intitola 'La rivoluzione di Roosevelt', l'autore è Mario Einaudi figlio di Luigi, che fu il primo presidente della nostra Repubblica, e fratello di Giulio, fondatore della casa editrice che porta il suo nome. Il libro fu scritto nel 1959, esattamente mezzo secolo fa. L'autore visse per molti anni negli Stati Uniti e quindi si giovò di un'esperienza diretta delle istituzioni politiche ed economiche americane. L'attualità del libro deriva dal fatto che ora il mondo sta attraversando una crisi che presenta molte analogie con quella del 1929 e con la rivoluzione rooseveltiana che ebbe inizio nel 1933, mentre la crisi era diventata mondiale e aveva raggiunto il suo culmine.

La trasformazione economica e istituzionale intrapresa da Roosevelt impiegò sei anni per generare tutti i suoi effetti e produsse un mutamento storico non solo nella società americana ma anche in quella europea che durò fino agli anni Ottanta dello scorso secolo. Poi cominciò il declino di quel modello fino allo scoppio della crisi che stiamo ora vivendo. Penso che la casa editrice dovrebbe ristamparlo, il libro di Mario Einaudi: la sua lettura è utilissima e meriterebbe di diventare un 'best seller' della saggistica. Quando uscì cinquant'anni fa l'avevo letto come un'opera storica; l'ho riletto in questi giorni scoprendone i pregi d'un breviario politico ad altissimo livello. È troppo sperare che i politici di governo e quelli d'opposizione gli dedichino attenzione? Ne trarrebbero grande profitto con notevoli vantaggi per il paese.

Per dar conto della sua essenza citerò intanto una frase che non è di Mario Einaudi ma di Alexis de Tocqueville, grande studioso all'epoca sua della civiltà americana e dei principi che reggono una democrazia liberale. Mario Einaudi la citò a pagina 313 del suo libro in un capitolo interamente dedicato allo scrittore francese. Eccola.

"È vero che intorno ad ogni uomo è segnato un cerchio fatale che egli non può oltrepassare; ma entro il vasto ambito di quel cerchio egli è potente e libero e come è per l'uomo così è per le comunità. Le nazioni del nostro tempo non possono impedire che gli uomini diventino eguali, ma dipende da esse se il principio dell'eguaglianza debba condurli alla schiavitù o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria". Tocqueville amava la democrazia ma era soprattutto un liberale e guardava ai rivolgimenti politici privilegiando i pericoli che un eccesso di egualitarismo poteva arrecare alla libertà individuale. Raramente nell'opera sua si trova l'analisi dei pericoli speculari che un eccesso di liberismo avrebbe potuto scatenare sull'eguaglianza dei singoli e dei gruppi sociali.

La crisi del 1929 fu il tossico frutto degli eccessi di liberismo e lo stesso giudizio si può dare ed è stato già dato per quanto riguarda la crisi attuale. La risposta della rivoluzione rooseveltiana a questo problema, raccontata da Mario Einaudi, sta appunto nell'equilibrio che essa riuscì a stabilire tra i due principi di eguaglianza e di libertà che se non stanno insieme insieme periscono.

Purtroppo la crisi attualmente in corso sta registrando contemporaneamente due malanni: le diseguaglianze hanno raggiunto un livello-record; nel frattempo le istituzioni democratiche e i principi liberali sono anch'essi in declino, nuovi dispotismi stanno radicandosi senza che le nazioni (per usare il lessico di Tocqueville) reagiscano con sufficiente energia. Sembrerebbe che si stia intraprendendo la pessima strada dell'imbarbarimento sociale e culturale con il contemporaneo abbandono dei due principi di eguaglianza e di libertà.

Soprattutto di eguaglianza e qui bisogna approfondire l'analisi. Quando un anno fa scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei 'subprime' immobiliari e il blocco del credito bancario che ne derivò, sembrò che le diseguaglianze economiche tendessero ad attenuarsi sia pure in presenza d'un impoverimento generale delle società opulente dell'Occidente. Il ribasso delle Borse, dei prezzi, dell'attività produttiva e dei profitti colpiva infatti soprattutto i ceti più abbienti in una misura inversamente proporzionale al reddito. Si trattava in buona parte di un impoverimento virtuale, almeno per quanto riguardava il crollo delle Borse: il valore dei patrimoni veniva falcidiato sulla carta ma le perdite non si verificavano se gli 'asset' restavano custoditi nei portafogli e non venduti sul mercato.

Oggi dopo un anno di interventi di sostegno e di politiche anticicliche, il crollo delle Borse sembra attenuato; è in corso addirittura un movimento di parziale recupero e quindi di ricostituzione (anch'essa virtuale) dei patrimoni.

Nel frattempo tuttavia la crisi inizialmente finanziaria si è estesa all'economia reale, la domanda di beni e servizi è in caduta, i ceti che vivono di lavoro sono sottoposti ad un pesante e non virtuale impoverimento.

Il bilancio, ad un anno dall'inizio di quella che è stata chiamata la tempesta perfetta è dunque questo: il liberismo sfrenato è stato arginato con numerosi e incisivi interventi pubblici nel funzionamento dei sistemi bancari e imprenditoriali; la libertà di questi sistemi è diminuita anche se ciò è avvenuto all'insegna dell'estemporaneità e della precarietà, senza cioè che ancora sia stato varato un sistema di regole chiare e stabili. Nel frattempo le diseguaglianze reali tendono ad aumentare rispetto ai livelli già altissimi esistenti prima della crisi. Aggiungo che non vi sono segnali in Europa (ma qualcuno per fortuna in America sì) che si voglia intervenire in direzione di un migliore equilibrio tra i redditi bassi e quelli opulenti. Né a livello interno né a livello internazionale.

Roosevelt aveva orientato la sua politica nella giusta direzione. Gli effetti si videro subito dopo la guerra: dagli anni Cinquanta agli Ottanta l'Occidente visse nel suo complesso un abbondante trentennio di stabilità economica, benessere diffuso, piena occupazione e democrazia funzionante, con un elevato tasso di libertà ed un accettabile livello di eguaglianza.

Poi il sistema si è squilibrato pesantemente. Si può dire che la rivoluzione rooseveltiana è stata aggirata dall'economia globale. La preoccupazione attuale è che al possibile e auspicabile superamento della crisi finanziaria non corrisponda un miglioramento delle diseguaglianze economiche e sociali. È utile avvertire che se così andranno le cose il pericolo di nuove crisi sistemiche persisterà, insieme all'indebolimento della democrazia e al crescere della rabbia sociale.

(24 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #132 inserito:: Aprile 26, 2009, 05:15:31 pm »

IL COMMENTO

La patria e il nuovo padre padrone

di EUGENIO SCALFARI


IERI 25 aprile, giorno di festa per la liberazione d'Italia dai nazifascisti e per la Resistenza che ha reso possibile la rinascita della democrazia nel nostro paese, è caduto il muro che aveva fin qui impedito a quella ricorrenza di diventare una data condivisa da tutti gli italiani. Il merito di questo risultato spetta a Silvio Berlusconi, al discorso da lui tenuto ad Onna ed anche - diciamolo - a Dario Franceschini segretario del Pd, che con il suo pressante invito ha incitato il premier a render possibile un evento così importante.

Berlusconi aveva dinanzi a sé tre alternative: ignorare l'invito di Franceschini; accoglierlo per marcare a modo suo la celebrazione equiparando la Resistenza con coloro che si erano schierati a fianco del regime fascista di Salò, uniti entrambi dall'amor di patria; dare atto che Liberazione e Resistenza sono stati un tutto unico dal quale è nata la nostra Costituzione repubblicana, fermo restando il rispetto per tutti i caduti, anche di coloro che in buona fede scelsero la parte sbagliata.

Con il suo discorso di Onna Berlusconi ha scelto questa terza soluzione ed è quindi doveroso dargliene atto. Si potrebbe (e non mancherebbero gli argomenti) fare un'analisi dei moventi che l'hanno spinto a imboccare quella strada, ma sarebbe riduttivo. I fatti del resto hanno un loro linguaggio che esprime la realtà e la realtà è questa.

Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo "fare" e quelli che l'avversano.

Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai liberali (anche se l'ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte).

La fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene.

Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione?

* * *

Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su "Repubblica" ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà dal quale sarebbe sbagliato prescindere.

Ci sono vari modi di affrontare questa deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel "rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra il leader e il 'suò popolo, marginalizzare tutte le altre forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle autorità di garanzia come inutili impacci.
Un Capo che sceglie e decide per tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti".

Ebbene la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più incombente la costruzione, già da tempo avviata, d'una nuova costituzione materiale all'ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile.

Un'operazione del genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese.

La costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un'autorità di second'ordine, esercitò un'influenza determinante sulla magistratura inquirente e giudicante, costruì l'impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e manomessa.

La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente.

Non sono più i partiti a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare, gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie.

La svolta di ieri ha rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti - l'abbiamo già detto - verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde sessant'anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario.

Se l'asse portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri, l'essenza della costituzione materiale berlusconiana è nell'unificazione dei poteri in una sola mano. Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in consuetudine.

Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e l'ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di petto. L'ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce e Luigi Einaudi. La "fantasia al potere" - che tanto piace a Berlusconi e ai suoi mentori - non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine della modernità occidentale.

Se volessimo raffigurare le due versioni contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate.

* * *

C'è un freschissimo esempio della "fantasia al potere" o meglio della "follia positiva" stando all'autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall'isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell'Aquila. Un colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all'insaputa dello stesso governo da lui presieduto.

Le motivazioni di questo "coup de théâtre" sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza del "meeting" tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che l'avrebbero ospitato alla Maddalena.

È sufficiente un sommario esame per capire che si tratta di motivazioni infondate.

Le spese per realizzare il G8 alla Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande albergo a cinque stelle costruito nell'isola sarda resterà come una delle tante cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione di uno degli arcipelaghi più belli d'Europa. Il risparmio sulle spese navali rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l'Aquila.

I potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero.

Portare il caso Abruzzo all'attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C'è l'intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo caso tra tanti.

La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede all'Aquila, l'hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si domanda adesso perché fu scelta quella località.

Forse Bertolaso ha troppe cose da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell'immondizia, la progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue spalle ma sulle strutture della Protezione civile.
Che non stia nascendo, sotto la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso? Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione civile. Li curano i ministri dell'Interno, i Servizi di sicurezza, le forze della sicurezza pubblica. Che c'entra la Protezione civile? I pompieri che ne costituiscono l'ossatura?

Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi, che lo vede lavorare nella sua scuola, "lavora notte e giorno, non dorme, è una fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo".

Forse se si concentrasse su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle.

No, neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno farne a meno.


(26 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #133 inserito:: Maggio 03, 2009, 12:05:39 pm »

19/4/2009


Chi canta fuori dal coro è comunista


di Eugenio Scalfari - da La Repubblica


Non si può non cominciare con le nomine alla Rai. Gli altri giornali minimizzano con l'aria di dire che si è sempre fatto così: la Rai è proprietà del governo e quindi è il governo che ha il potere di decidere trasmettendo le sue indicazioni all'obbediente maggioranza del Consiglio d'amministrazione.

E' vero, sostanzialmente è sempre stato così ma con qualche differenza di non poco conto. La prima differenza è questa: nessun governo, tranne quelli guidati da Silvio Berlusconi, ha mai avuto a sua disposizione le televisioni commerciali, cioè l'altra metà del cielo televisivo. Il fatto che l'attuale presidente del Consiglio abbia a sua completa mercé la propria azienda televisiva privata e l'intera azienda pubblica (salvo la riserva indiana di Raitre finché durerà) configura quindi una situazione che non ha riscontro in nessuna democrazia del mondo.

Non so se sia vero che le nomine siano state decise l'altra sera nella riunione di tre ore nell'abitazione romana del premier. E' certo comunque che i nomi proposti dal direttore generale Masi saranno ratificati senza fiatare dal Cda della Rai di mercoledì prossimo e saranno tutti "famigli" di Berlusconi, provenienti dalle sue televisioni private o dai suoi giornali o pescati tra le giovani speranze già inserite nell'accogliente acquario dell'azienda pubblica, collaudati custodi del credo berlusconiano nel circuito mediatico.

Non ci sarà purtroppo una sola persona che abbia mai mostrato un barlume d'indipendenza, un soprassalto di dignità professionale, un dubbio sull'assoluta verità predicata dal Capo. Questo è lo scandalo, questa è la vergogna, alla quale quel poco di cosiddetta indipendenza che ancora esiste nella stampa italiana si sta ormai adattando per assuefazione esprimendo tutt'al più qualche sommesso brontolio subito seguito da rimbrotti all'opposizione, colpevole di ideologismo e di conservatorismo.

Il quadro è desolante. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il controllo dei "media" non serve soltanto a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l'antropologia d'una nazione. Ed è questa trasformazione che ha imbarbarito la nostra società, l'ha de-costruita, de-politicizzata, frantumata, resa sensibile soltanto a precarie emozioni e insensibile alla logica e alla razionalità.

Chi non è d'accordo è comunista. E firme di intellettuali o sedicenti tali accreditano questo scempio culturale e questa menzogna. Dedicherò dunque al predetto scempio il seguito del mio ragionamento.


* * *


Quindici anni fa partecipai alla presentazione di un libro di Achille Occhetto al circolo della stampa estera a Roma, in quell'occasione il corrispondente di un giornale tedesco mi domandò che fine avrebbero fatto i comunisti dopo che il Pci aveva buttato alle ortiche il suo nome e la sua ideologia.

Risposi che i comunisti dovevano morire e così i loro figli e nipoti fino alla settima generazione. Solo quando fossero tutti fisicamente estinti sarebbe cessata la polemica nei loro confronti. Infatti è quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo e poiché siamo ancora lontani dalla settima generazione l'anatema contro di loro continua e continuerà per un bel pezzo. Non è soltanto il tema prediletto dal nostro premier e dai Bonaiuti di turno, è anche diventato il piatto forte di molti belli ingegni transumanti che all'ombra del revisionismo sono passati dall'anticomunismo di "Lotta continua" e di "Potere operaio" all'anticomunismo di destra. Per loro ormai i comunisti sono diventati un'ossessione, ne vedono la presenza ovunque, alimentano i loro incubi e le loro farneticazioni e ai comunisti attribuiscono tutti i mali antichi, recenti, attuali e futuri che affliggono la politica italiana.

I comunisti. Il Partito comunista italiano. La sinistra italiana. Sono ancora tra noi. Non sono affatto scomparsi. Non sono estinti. Non sono stati rinnegati. Finché questo lavacro definitivo non sarà compiuto l'Italia sarà in pericolo e con essa anche la democrazia. Ne ha fatto le spese l'ultimo libro di Aldo Schiavone il quale ha risposto al mitragliamento di cui era bersaglio con un articolo su "Repubblica" di qualche giorno fa. Con pungente ironia Schiavone domandava ai suoi interlocutori: che cosa volete che faccia? Debbo suicidarmi? Vi contentereste invece se promovessi un salmodiante corteo di pentiti che percorrano le strade d'Italia autoflagellandosi e invocando perdono per il peccato d'essere stati nel Pci?

La risposta non è ancora arrivata ma sarà sicuramente quella da me anticipata nel 1994, all'alba della stella berlusconiana: dovete morire fino alla settima generazione. Caro Aldo Schiavone, non c'è altra espiazione che basti a cancellare il vostro peccato mortale.


* * *


Tra le persone che mi onorano della loro amicizia c'è Alfredo Reichlin. Abbiamo più o meno la stessa età, ci conosciamo e stimiamo da mezzo secolo sebbene i nostri percorsi culturali siano stati assai diversi. Lui entrò nel Pci ai tempi della Resistenza, io sono di cultura liberale e tale sono rimasto anche se dopo la morte di Ugo La Malfa ho sempre votato per il Pci, poi per i Ds e infine per il Partito democratico che è il più conforme alle mie idee liberal-democratiche.

Reichlin ha scritto qualche anno fa un libro insieme a Miriam Mafai e a Vittorio Foa, che ha avuto molto successo ed è stato portato in teatro da Luca Ronconi. La domanda che quel libro si poneva era appunto perché un democratico è potuto diventare comunista e che cosa faranno i comunisti dopo che il comunismo è scomparso dalla scena politica del mondo.

Tra le risposte ce n'è una di Reichlin che riassumo così: il Pci ha certamente commesso molti errori, ha condiviso un'ideologia sbagliata, ha perfino coperto alcuni crimini, ma non è una realtà discesa sull'Italia come un meteorite. La domanda da porsi è dunque questa: perché la società italiana ha reso possibile la nascita d'un partito come il Pci, al quale si sono iscritti o per il quale hanno votato operai e borghesi, artigiani e contadini, marxisti e liberali, atei e credenti? Che al suo culmine ha quantitativamente raggiunto i voti della Democrazia Cristiana? Che Aldo Moro ha associato negli anni di piombo al governo del paese?

Questa domanda meriterebbe un'analisi seria. Almeno altrettanto seria quanto l'altra domanda speculare: perché la società italiana attuale ha reso possibile la nascita del berlusconismo e gli ha dato uno strapotere che somiglia sempre più ad un regime? Con una differenza tra le due domande: ragionare sul Partito comunista sta diventando col passare degli anni materia per gli storici; ragionare sul berlusconismo è un tema maledettamente attuale e riguarda la politica e non ancora la storia.


* * *


Si dice che ormai non c'è più differenza tra destra e sinistra. Si inventano nuove classificazioni, per esempio quella tra progressisti, moderati, conservatori. Discorsi inutili e abbastanza noiosi. Scolastici. Lontani dalla realtà.

Il tema di oggi è il rapporto tra i grandi ideali della modernità: libertà eguaglianza fraternità. L'ho già scritto altre volte: l'età moderna è nata da questo trittico di principi e ha dato segnali di decadenza tutte le volte che quel trittico si è indebolito nelle coscienze e nella politica.

Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra. Bisogna tradurlo in atti politici. Bisogna cambiare l'antropologia del Paese. Bisogna superare l'indifferenza e l'apatia. Bisogna resistere per costruire il futuro.
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« Risposta #134 inserito:: Maggio 04, 2009, 04:57:26 pm »

ECONOMIA      IL COMMENTO

Marchionne, missione impossibile
 
di EUGENIO SCALFARI



QUANDO il 30 aprile è arrivato l'annuncio dalla viva voce di Barack Obama che l'operazione Fiat-Chrysler era stata definitivamente decisa, mi è venuto in mente Gianni Agnelli.

Come avrebbe reagito l'Avvocato di fronte a quella scelta? Di fronte all'internazionalizzazione della sua Fiat? Perché di questo in sostanza si tratta e non di Torino che conquista Detroit, come molti semplicisticamente hanno pensato.
Di fronte alla crisi di domanda che ha investito l'industria automobilistica mondiale il numero dei protagonisti dovrà necessariamente diminuire; pochi campioni resteranno in campo, i punti di forza saranno quelli dell'innovazione tecnologica e delle economie di scala, la nazionalità cederà il posto alla multinazionalità, la competizione avrà come campo di gara l'intero pianeta.
 
Ho conosciuto Gianni Agnelli nel 1963, quarantasei anni fa. Lui allora era alla guida della Riv, la società produttrice dei cuscinetti a sfera lasciatagli in eredità dal nonno, e capo riconosciuto della famiglia che controllava la Fiat con il 35 per cento delle azioni ordinarie. Ma alla testa della compagnia automobilistica c'era Vittorio Valletta e il vero capo era lui.

Poi la situazione cambiò: nel '67 Valletta lasciò l'incarico e Gianni Agnelli prese il posto che gli spettava. Immaginare la sua reazione ai fatti di oggi può essere utile per capire la strategia di suo nipote, John Elkann.

Ebbene, la strategia è la stessa che Gianni aveva già preventivato e parzialmente sperimentato: internazionalizzare la Fiat, stipulare alleanze con gli americani, scambiare tecnologie e pacchetti azionari.
Magari rinunciando al controllo della casa torinese ma restando azionisti forti in un circuito più vasto.
Nel 2009 John Elkann è pronto (l'ha detto lui stesso) a seguire una linea analoga. Le condizioni tuttavia sono molto diverse rispetto a quelle di allora.

* * *

L'accordo Fiat-Chrysler è stato reso possibile dalla complementarità tra le due case automobilistiche. Gli italiani offrono tecnologie, gli americani i circuiti di vendita indispensabili per entrare nel mercato automobilistico degli Stati Uniti. I motori delle utilitarie italiane potranno essere montati a Detroit entro due anni; se fossero stati prodotti in Usa ce ne sarebbero voluti quattro. L'accorciamento dei tempi e il risparmio dell'operazione ottenuto con l'accordo dei sindacati consentiranno di praticare prezzi di vendita nettamente più bassi. La Chrysler sarà ristrutturata su una piattaforma che prevede una produzione annua di due milioni di auto. Sommate a quelle della Fiat si arriva ad un totale di quattro milioni. I circuiti distributivi di Chrysler consentiranno l'ingresso dell'Alfa Romeo nell'alta gamma del mercato americano. Il gruppo di Torino avrà il 20 per cento del capitale Chrysler senza versamento di denaro e potrà arrivare al 35 se gli obiettivi previsti saranno raggiunti entro il 2011. Il 55 per cento del capitale sarà attribuito al sindacato americano; il 10 alle banche creditrici.

Ricapitolo questi elementi dell'accordo che sono già noti. Essi contengono delle innovazioni importanti rispetto alla struttura precedente ed è su di esse che deve essere ora concentrata la nostra attenzione.

* * *

Anzitutto lo scambio di tecnologie. Il mercato Usa si troverà per la prima volta di fronte ad un'offerta di auto di piccola e media cilindrata, con motori studiati per diminuire il consumo di carburante, l'inquinamento, e per snellire l'imponente volume di traffico specialmente nei grandi centri urbani.
La minore velocità del nuovo parco macchine non sarà un problema per gli utenti: i limiti di velocità sono perfettamente compatibili con il modello utilitario Fiat, laddove le auto prodotte finora a Detroit lasciavano in gran parte inutilizzata la loro potenziale capacità. Questo profondo mutamento strutturale consente inoltre al governo americano di erogare i fondi previsti dalla recente legge voluta da Obama e approvata dal Congresso per sostenere produzioni non inquinanti e per stimolare ristrutturazioni economiche che rimettano in sesto il bilancio della società. La Casa Bianca ha puntato tutte le sue carte su Marchionne, convinta che soltanto lui e la Fiat possano condurre a buon esito nel tempo stabilito un'operazione di questa complessità.

Denaro pubblico Usa contro management e tecnologie italiane: questo è lo scambio, profittevole per tutte le parti interessate. La novità sta nel fatto che Obama non ha mai dato peso al tema della nazionalità, ha badato soltanto alla sostanza dell'operazione e alla sua riuscita. Da questo punto di vista vale la pena di sottolineare la differenza di fondo rispetto al comportamento adottato dal governo italiano nel caso Alitalia. Lì la nascita d'una compagnia "tricolore" è stata l'obiettivo principale perseguito dal nostro governo che ha subordinato ad esso ogni altra questione con le conseguenze che già si vedono nella scarsa efficienza del servizio, nella limitata estensione del bacino di utenza e nella diseconomia del sistema aeroportuale a cominciare da Malpensa.

Un'altra novità di estrema importanza, anch'essa ignota finora al capitalismo americano, è data dall'ingresso dei sindacati nella "governance" dell'azienda: la maggioranza assoluta del capitale azionario (ma non del consiglio d'amministrazione) compensata da una decurtazione e congelamento salariale per quattro anni e dalla rinuncia al rimborso degli accantonamenti sanitari di pertinenza dei fondi pensione, bruciati nel dissesto aziendale. Sacrifici durissimi che il sindacato ha offerto per salvaguardare i posti di lavoro di fronte alla caduta verticale della domanda.

Ora il punto è di vedere quale sia la reazione del mercato americano di fronte ad un mutamento così drastico nell'offerta del prodotto, fino a che punto i risparmi nel consumo, nell'inquinamento e nei prezzi riusciranno a rilanciare la domanda di auto di minore ingombro e di più bassa velocità. Questo è il vero rischio dell'operazione, che Marchionne e la Fiat hanno deciso di correre. Avremo entro due anni la risposta a questa sfida.

* * *

Ammettiamo (e vivamente speriamo) che la sfida sia vincente. Essa tuttavia non basta a creare un gruppo automobilistico di dimensioni globali: quattro milioni di auto prodotte e vendute annualmente, con ricavi di minor rilievo rispetto a quelli che si ottenevano con auto di ben maggiore cilindrata, non sono una quantità economica sufficiente. Marchionne ritiene (e tutti gli esperti concordano con lui) che la dimensione ottimale si raggiunga con sei milioni di unità prodotte e vendute.

Per realizzare quell'obiettivo il tempo disponibile è di pochi mesi, anzi di poche settimane. Infatti l'ad di Fiat ha già ufficialmente aperto le trattative con la Opel e con la General Motors e sarà nei prossimi giorni a Berlino.
Se la trattativa con Chrysler era difficile, questa con Opel e General Motors è al limite dell'impossibile ed ecco perché:

1. Opel non è complementare a Fiat, i suoi modelli sono molto simili a quelli torinesi e analoghe sono le tecnologie impiegate. Un accordo comporterebbe quindi una ristrutturazione che metterebbe in gioco posti di lavoro sia in Germania sia in Italia.

2. Per questa ragione governo e sindacati tedeschi sono decisamente contrari ad un accordo con Torino.

3. Fiat non è il solo pretendente per Opel. Si scontrerà con un gruppo canadese che ha già messo sul tavolo della General Motors cinque miliardi di dollari mentre la Fiat non abbonda in liquidità.

4. I sindacati italiani, che nel caso Chrysler sono stati amichevoli spettatori, sono anch'essi contrari nel caso Opel come i loro colleghi tedeschi e per le medesime ragioni.

5. Dopo le necessarie ristrutturazioni la Opel avrebbe capacità produttive non superiori ad un milione di auto da offrire sul mercato. Saremmo dunque vicini alla dimensione globale su cui punta Marchionne ma non avremmo ancora fatto centro.

Tuttavia i mercati hanno un grado abbastanza elevato di elasticità. I prodotti Opel come quelli Fiat possono sperare in un'espansione dei mercati dell'Est europeo e della Russia, nonché del Medio ed Estremo Oriente. Inoltre la General Motors è robustamente presente sul mercato brasiliano e sembra disposta a cedere anche quella sua partecipazione.

Infine c'è - ancora inesplorata - un'ipotesi francese nell'immaginario dell'ad Fiat: il gruppo Citroen-Peugeot-Michelin. Si dice che il vero gioco prediletto da Marchionne non sia il poker ma invece lo scopone scientifico.
Se è vero, quello è il gioco più appropriato a risolvere una partita così complessa e delicata.

* * *

Si tratta, come è evidente, di un gioco a incastro che si svolgerà nel mercato mondiale. Gli azionisti della Fiat sono in grado di sostenere uno sforzo di queste dimensioni?

La famiglia Agnelli dispone di riserve importanti ma largamente insufficienti. Terrà il banco finché potrà ma non fino in fondo, anche perché un campione mondiale di quelle proporzioni non può avere un azionista di controllo costruito sul modello familiare. Né si può pensare ai modelli cosiddetti "a cascata" con lunghe catene societarie, lentezza di decisioni, scarsa trasparenza, titoli appartenenti a varie categorie azionarie e obbligazionarie. La crisi attualmente in corso ha già relegato queste strutture finanziarie tra le anticaglie perseguendo una semplificazione sempre più accentuata.

Forze fresche saranno dunque necessarie. Il mercato innanzitutto, cioè i risparmiatori disposti all'acquisto di titoli internazionali, quotati su vari mercati. Ma questo braccio di leva si renderà disponibile soltanto quando i mercati dei prodotti e quelli dei titoli si saranno ripresi dalla caduta attuale. È chimerico pensare che la ripresa possa avvenire tra pochi mesi. Ci vorranno almeno tre anni. Anche se il peggio è passato (come Berlusconi e Tremonti sostengono ad ogni angolo di strada) il meglio tarderà a venire, avremo una risalita lenta, una lunga pianura da percorrere, un percorso accidentato sul quale sarà difficile galoppare.
Quindi sono necessari sostegni intermedi, sistemi bancari saldi e disposti ad impegnarsi, investitori istituzionali, fondi sovrani esclusi.

Il sistema che si configura somiglia più ad una rete che ad un'azienda tradizionale organizzata orizzontalmente come estensione ma verticalmente come comando. Il nuovo modello sarà orizzontale sia nell'estensione sia nel comando, ma è chiaro che per quanto riguarda il comando la sua estensione sarà limitata. Una rete guidata da un'aristocrazia, non chiusa ma aperta ad accessi laterali e dal basso.
Personalmente credo che il modello sarà più o meno di questo tipo. La Fiat sta aprendo la strada ma dovrà essere imitata da altre aziende di analoghe caratteristiche, potenzialmente adatte ad imboccare la medesima via ma ancora ferme a schemi tradizionali. In Italia penso a Telecom, a Fininvest e a Generali-Mediobanca. Altro francamente non c'è.
Bisognerebbe fare rete e sistema anche nel settore delle piccole aziende. C'è molto da lavorare sia al Nord sia al Centro-Sud per raggruppare i piccoli razionalizzandone l'accesso al credito, la commercializzazione consorziata dei prodotti, i depositi e gli acquisti comuni delle materie prime e dei semilavorati.

Nel frattempo bisognerà rifinanziare la domanda. Questo è il tema stringente dell'immediato. Non solo per ragioni di equità sociale ma per rimettere in moto l'economia.
Finanziare la domanda, modificare la distribuzione del reddito. Mi scuso se batto e ribatto su questi temi da molto tempo, ma parlare con i sordi comporta l'obbligo di ripetersi e di alzare ogni volta il tono della voce sperando che anche i sordi riescano a percepire qualche suono e qualche parola.

(3 maggio 2009)

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