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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318112 volte)
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« Risposta #330 inserito:: Dicembre 18, 2011, 04:27:37 pm »

L'ANALISI

Comincia dopodomani la manovra del dragone

di EUGENIO SCALFARI


SIAMO in recessione, lo dicono tutti, le proiezioni dei centri-studi, le Autorità economiche internazionali, i governi, i mercati. Lo dice l'esperienza quotidiana di ciascuno di noi, ricchi e poveri, occupati e disoccupati.
 
Il reddito in Europa non cresce, le esportazioni languono e languono investimenti, consumi, ricostituzione delle scorte. Il rigore è necessario ma altrettanto lo è la crescita.

Il governo promette che entro gennaio varerà provvedimenti importanti di crescita, affidati soprattutto alle liberalizzazioni; in parte sono già stati varati nel decreto approvato dalla Camera l'altro ieri; quelli sulle farmacie, sulle aste delle frequenze televisive, sugli ordini professionali, lo saranno entro un mese. Così si è impegnato a fare l'ex commissario europeo alla concorrenza Mario Monti, che merita d'esser creduto e merita un appoggio senza riserve dai partiti che lo sostengono; ma i risultati d'una più attiva concorrenza cominceranno a manifestarsi non prima d'un anno e saranno a regime tra due o tre.

Che cosa accadrà nel frattempo? Lasceremo che la recessione si trasformi in depressione? "Ah, padron, siam tutti morti" canta Leporello quando appare il Commendatore a fare le sue vendette su Don Giovanni. E questo ha detto Monti alla Camera mentre infuriavano i lazzi della Lega e le scriteriate rampogne di Di Pietro: senza il rigore saremmo già saltati in aria, ma senza un rilancio della crescita con effetti rapidi saremo morti egualmente tra poche settimane.
comincia dopodomani la manovra del dragone.

Questo è il punto sul quale occorre ora concentrarsi. Scrissi la settimana scorsa che ero ottimista e tuttora lo sono. A patto che l'eterogenea maggioranza parlamentare faccia fino in fondo il suo dovere e sostenga il governo collaborando ad affinare i suoi interventi e non invocando elezioni anticipate. Berlusconi prevede elezioni generali a maggio e Bossi borbotta lo stesso vaticinio. Significa che staccheranno la spina a marzo? Nel pieno della stagione di scadenza d'una mole enorme di titoli pubblici e di obbligazioni bancarie in Italia e in tutta Europa? Una strategia di questo genere porterebbe dritti all'uscita dell'Italia dall'euro e c'è perfino qualcuno che pensa d'un ritorno alla lira come ad una panacea perché "la lira si può svalutare". Ma sono matti?

* * *

In Europa c'è una crisi finanziaria e una crisi dell'economia reale. La prima ha il suo nocciolo nel blocco del circuito bancario, la seconda nella caduta della domanda di consumi e di investimenti. L'una influisce sull'altra e i mercati registrano e influiscono a loro volta e questo è il gomitolo che occorre dipanare.

Capita spesso che sia i cosiddetti esperti sia la pubblica opinione non vedano quale sia il filo che serve a dipanare il gomitolo o vedano un filo sbagliato che invece di dipanarlo lo arruffa ancora di più. L'ottimismo di cui ho detto prima mi viene dal fatto che l'unica istituzione europea indipendente, cioè la Banca centrale guidata da Mario Draghi, ha individuato il filo giusto da tirare ed ha già predisposto le misure per effettuare la manovra necessaria. Ne ho scritto più volte nelle scorse settimane, ora ci siamo, quella manovra avrà inizio martedì prossimo 20 dicembre quando le banche dell'eurozona chiederanno alla Bce e alle Banche centrali dei rispettivi Paesi prestiti per cifre illimitate della durata di 36 mesi, eventualmente rinnovabili per quelle banche che avranno corrisposto alle aspettative della Bce, la quale ha messo a disposizione un plafond che può arrivare complessivamente fino al tetto di duemila miliardi.

Le banche dovranno offrire equivalenti garanzie che la Bce ha indicato in tre possibili "collaterali": titoli dei debiti sovrani al loro valore di rating, obbligazioni emesse dalle banche che chiedono i prestiti, crediti cartolarizzati dalle medesime banche nei confronti della loro clientela. Il tasso per questa gigantesca operazione è fissato all'1 per cento.

La Bce si aspetta i seguenti risultati: lo sblocco del credito interbancario, la ripresa in grande stile del credito alle imprese, l'ampia presenza delle banche alle aste dei debiti sovrani in scadenza i cui titoli hanno rendimenti oscillanti - per quanto riguarda l'Italia - tra il 6,50 dei decennali e il 5 per cento dei biennali. Il differenziale a favore delle banche tra il costo del risconto (1 per cento) e il rendimento alle aste è tale che le banche avranno tutto l'interesse ad acquistare quei titoli provocando in tal modo una costante diminuzione dei rendimenti che equivale ad una rivalutazione dei titoli del debito sovrano e ad una diminuzione dello "spread".

Ho già notato domenica scorsa che la maggior parte dei "media" ha quasi sottaciuto le dimensioni e l'importanza di quanto sta per accadere; la Bce dal canto suo ha mantenuto un basso profilo, probabilmente per non attizzare le critiche di quei Paesi che sono ossessionati dall'idea di dover aiutare Paesi "scialacquatori". Ma la Bce con questa manovra sta perfettamente nei limiti del suo statuto: non finanzia gli Stati ma sblocca il "credit-crunch" del sistema bancario europeo e modera l'impennarsi degli "spread". I mercati se ne sono già accorti: le emissioni di titoli a breve scadenza - da sei mesi fino a due anni - hanno già da una settimana rendimenti in diminuzione; i decennali non registrano ancora benefici e la ragione è evidente: scontano i rischi della recessione che i titoli a breve non considerano o considerano meno. I decennali cioè aspettano di vedere quali saranno gli effetti dello sblocco del credito sull'economia reale.

Segnalo un altro obiettivo della manovra di Francoforte: sblocca anche la segmentazione nazionalistica del mercato dei titoli pubblici. Rispetto al 2007 le banche dei paesi del nord-Europa hanno diminuito del 44 per cento i titoli pubblici del sud-Europa che avevano largamente acquistato, stimando che il rischio di averli in portafoglio era divenuto eccessivo.

L'operazione che la Bce metterà in atto tra tre giorni può indurre le banche tedesche, olandesi, austriache, francesi, a tranquillizzarsi per quanto riguarda i titoli italiani e spagnoli che hanno ancora in portafoglio e probabilmente a riprenderne l'acquisto, visto che possono usarli come graditi collaterali per accedere ai prestiti della Bce; un risultato molto importante per "europeizzare" la segmentazione del mercato dei debiti sovrani.

* * *

Lo sblocco del credito e l'eventuale discesa degli "spread" e dei tassi di rendimento costituiscono obiettivi necessari anche se non sufficienti al rilancio della domanda di consumi e di investimenti. Per rendere positivamente influente questo risultato preliminare occorre utilizzare le diseguaglianze come da tempo suggerisce Stiglitz ed altri autorevoli economisti. Utilizzare le disuguaglianze, che sono estremamente aumentate negli ultimi dieci anni in Italia ma anche in Europa e in America, significa tentare di farle diminuire tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud ma anche all'interno delle regioni ricche, non meno diseguali di quelle povere.

Il ministro dello Sviluppo e quello della Coesione territoriale, Passera e Barca, sono gli attori principali di questa strategia che dev'essere messa in campo mobilitando in parte risorse esistenti (lo hanno già fatto sbloccando tre miliardi e mezzo già accantonati ma non utilizzati dal precedente governo e destinati a finanziare infrastrutture in ferrovie, porti, scuole, carceri), ma in gran parte cercandone di nuove. Non si rilancia la crescita a costo zero, salvo le liberalizzazioni che operano a tempo medio-lungo.

Il governo ha avviato la mappatura della "spending review", cioè dei tagli di spesa mirati nei settori dei trasferimenti. Una parte di questi tagli è già contenuta nel decreto e riguarda la sanità. Un'altra fonte, verrà (a tempo medio-lungo) dalla riforma della giurisdizione civile e dall'accorpamento delle strutture giudiziarie inutilmente disseminate sul territorio. Un altro analogo accorpamento riguarda i piccoli Comuni. Ma il grosso concerne l'acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione e la selva dei trasferimenti a sostegno di categorie di imprese, privi di utilità, veri e propri sprechi e regalie elettoralistiche.

Ci sono varie stime su questi possibili tagli di spesa, la più prudente delle quali fissa intorno ai 10-15 miliardi l'ammontare di questi risparmi. In attesa d'una mappatura più attenta e più estesa - che va avviata subito - un taglio limitato agli sprechi più evidenti che frutti nel 2012 la cifra di 10 miliardi sarebbe un passo avanti notevole. Senza dubbio un'altra fonte dovrebbe venire dalla lotta all'evasione che però non si può limitare al tetto del contante spendibile fissato a mille euro. Vincenzo Visco prese provvedimenti molto efficaci a questo proposito e sarebbe oltremodo opportuno che Monti e il suo viceministro del Tesoro, Grilli, lo consultassero e lo imitassero. L'evasione e i tagli alle spese di spreco potrebbero fornire le risorse necessarie a finanziare due obiettivi: il rilancio della domanda e i provvedimenti per rinnovare il welfare con l'occhio ai giovani e ai precari.
I partiti collaborino e sostengano senza se e senza ma perché questo governo non ha alternative.

* * *

Non ha alternative per questa legislatura ma, in quanto governo istituzionale, non ha a mio avviso neppure alternative per il futuro nel senso che, al di là dell'emergenza che lo ha reso necessario, la sua nascita corrisponde ai principi e alla normativa prescritta dalla Costituzione, soverchiata per mezzo secolo dalla partitocrazia.

Questo avevo scritto in precedenti articoli e questo mi è stato rimproverato, con molto garbo, in un articolo di fondo sul Corriere della Sera, di domenica scorsa da Galli della Loggia che vede un errore grave in ciò che avevo scritto sulla natura istituzionale dei governi e sui poteri del Capo dello Stato a questo riguardo.

Della Loggia si è rammaricato che i costituzionalisti non siano finora intervenuti in proposito lasciando il dibattito nelle mani dei giornalisti. Ma ora molti costituzionalisti di notevole prestigio hanno detto la loro: Gustavo Zagrebelsky su questo giornale il giorno stesso in cui della Loggia scriveva la rampogna a me diretta e quindi senza ancora averlo letto; più tardi Capotosti, Onida, De Siervo.

Tutti senza eccezione hanno ritenuto infondati i rilievi mossi dall'editorialista del Corriere nei confronti di Napolitano (e diretti a me che ne sostenevo l'assoluta correttezza costituzionale).

Alcuni di loro tuttavia (e De Siervo in particolare) hanno criticato anche me; la titolarità esclusiva del presidente della Repubblica nella nomina del presidente del Consiglio ignorando i partiti, sarebbe giustificata dall'emergenza ma non lo sarebbe quando si tornasse alla normalità.

Che senso ha questo distinguo? Con tutto il rispetto: nessun senso. Se la procedura di Napolitano è riconosciuta corretta è perché conforme alla Costituzione laddove attribuisce in via esclusiva al capo dello Stato la "nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei ministri".

I partiti, secondo l'articolo 49, "concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Cioè - come spiegano i lavori della Costituente - raccolgono il consenso popolare e determinano l'indirizzo politico attraverso i membri del Parlamento che aderiscono a quei partiti. Il governo deve avere la fiducia del Parlamento per nascere e sussistere; il Capo dello Stato, quando nomina il presidente del Consiglio, dovrà dunque preventivamente esser consapevole che la sua scelta dev'essere soddisfacente per la maggioranza parlamentare e quindi interpellerà i gruppi parlamentari per conoscere quale sia il loro "indirizzo politico" il loro programma di legislatura, ricavandone l'identikit del nuovo "premier".

Lo sceglierà lui e il prescelto gli farà le sue proposte in un rapporto fiduciario che passa tra capo dello Stato  -  presidente del Consiglio-ministri.

Questo percorso esclude le famigerate "delegazioni" dei partiti all'interno del governo e impedisce che la partitocrazia deformi gli stessi partiti e la democrazia parlamentare.

Queste sono le procedure corrette, non lo dico io ma lo dice la Costituzione. Si può obiettare che i partiti di maggioranza definiranno "governo amico" e non "loro governo" quello così formato. E' probabile, ma questo sarebbe un ottimo risultato. I governi hanno una maggioranza di riferimento ma sono indipendenti in quanto istituzione così come la maggioranza parlamentare è autonoma nelle sue determinazioni se non altro perché ha il compito di legiferare ma anche di controllare, insieme all'opposizione, il governo e la pubblica amministrazione.

Governo amico: va benissimo così.

(18 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/18/news/scalfari_manovra-26802457/?ref=HRER1-1
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« Risposta #331 inserito:: Dicembre 24, 2011, 07:22:42 pm »

IL DIALOGO

Il senso della vita nelle parole di Gesù

Eugenio Scalfari e il cardinale Martini ragionano sui nodi che stringono fede ed esistenza terrena.

Due punti di vista partiti da premesse diverse cercano nella giustizia nella carità e nel perdono una prospettiva comune

di EUGENIO SCALFARI


IN FONDO ad un lungo corridoio una porta a vetri si apre su una piccola stanza dove scorre il tempo di Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, biblista, pastore di anime e di coscienze, cardinale di Santa Romana Chiesa. Siede su una poltrona accanto ad una finestra dalla quale si vedono un pezzo di cielo e un cipresso.

Accanto a lui c'è il suo assistente, don Damiano, che è quasi la sua ombra, lo aiuta a muoversi, gli somministra le medicine alle ore stabilite, lo accompagna nei suoi spostamenti ormai rari. Non è frequente che un gesuita diventi cardinale e ancor meno frequente che sia stato alla guida della diocesi più importante d'Europa, ma Martini è un'eccezione per tante cose ed anche per la sua carriera ecclesiastica.

A me è capitato di vedere molto da vicino i gesuiti in una fase particolare della mia vita: avevo vent'anni, era il 1944, Roma era occupata dai nazisti; i giovani di leva e gli ebrei erano ricercati dalle SS, la polizia militare del Reich, ed io trovai rifugio insieme ad un centinaio di altri giovani nella Casa del Sacro Cuore dove i gesuiti gestivano i cosiddetti "esercizi spirituali". Duravano al massimo una settimana, ma nel nostro caso durarono più d'un mese. La Casa era extra-territoriale, con bandiera del Vaticano alla finestra e guardie palatine al portone.
 
Poiché, come ci disse il padre rettore, i gesuiti non dicono bugie, gli esercizi spirituali dovemmo farli in piena regola sebbene tra di noi ci fossero molti ebrei e alcuni non
credenti.

Per me fu una preziosa esperienza anche perché il rettore era padre Lombardi, un prete di notevole personalità e grande finezza intellettuale cui in seguito fu dato il soprannome di "microfono di Dio" per le sue attività che a dire il vero erano più politiche che pastorali.

I gesuiti che conobbi in quell'occasione e che guidavano le "meditazioni", celebravano la messa e le altre funzioni religiose che costellavano la nostra giornata, li osservai con molta attenzione; il rettore, quando ci separammo, mi propose addirittura di iscrivermi all'Università Gregoriana, eravamo entrati in confidenza ed anche in polemica durante una serie di dibattiti su Sant'Agostino e su San Tommaso.

Ricordo queste vicende personali per dire che i gesuiti che conobbi allora non somigliavano in nulla a Carlo Maria Martini. Erano molto accoglienti e amichevoli, ma piuttosto arcaici nel loro modo di considerare la religione; Martini invece è pienamente coinvolto nella modernità di pensiero. Quanto all'intensità della fede, non sta certo a me misurarla; dico solo che la fede di Martini ti fa pensare perché emerge dal suo profondo; quella che si respirava al Sacro Cuore aveva invece un sentore di sacrestia piuttosto sgradevole per chi come me la fede non ce l'ha e neppure sente il bisogno di cercarla.

Vi domanderete allora quale sia la ragione per la quale io frequenti Martini e lui accetti di buon grado questa frequentazione. La mia risposta è che siamo sulla stessa lunghezza d'onda, ci sentiamo in sintonia l'uno con l'altro e il motivo probabilmente è questo: ci poniamo tutti e due le stesse domande: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Sembrano essere diventante un luogo comune queste domande e forse lo sono, ma continuano a costituire la base d'ogni filosofia e d'ogni conoscenza. Le nostre risposte spesso differiscono ma talvolta coincidono e quando questo avviene per me è una festa e spero anche per lui.

Il nostro di oggi è il quarto incontro che ho avuto con lui; è il 6 dicembre, fuori piove, siamo nella casa di riposo della Compagnia di Gesù a Gallarate in un edificio che fu donato alla Compagnia una cinquantina d'anni fa dalla famiglia Bassetti. Gli incontri precedenti sono avvenuti nel 2009 e nel 2010, ma il primo fu un dibattito che avvenne a Roma alla fine degli anni Ottanta a palazzo della Cancelleria, organizzato da don Vincenzo Paglia, della comunità di Sant'Egidio.

Il cardinale è ammalato di Parkinson, è lucidissimo, ma cammina con difficoltà. Da qualche tempo il male gli ha molto affievolito la voce che è diventata quasi un soffio, ma don Damiano ha imparato a leggere dal movimento delle sue labbra le parole senza voce e le traduce per renderle comprensibili.

Il nostro colloquio qui trascritto è stato rivisto dal cardinale: le difficoltà della comunicazione rendevano necessario il suo "imprimatur".

Scalfari Vorrei cominciare il nostro dialogo da un nome e dalla persona che lo portava: Gesù. Per me quella persona è un uomo nato a Betlemme, dove i suoi genitori Giuseppe e Maria che vivevano a Nazareth si trovavano occasionalmente il giorno e la notte del parto. Per lei, eminenza, quel bambino è il figlio di Dio. Sembrerebbe che la differenza tra noi su questo punto sia dunque incolmabile. Eppure è proprio quel nome che ci unisce. Lei lo chiama Gesù Cristo, io lo chiamo Gesù di Nazareth; per lei è Dio che si è incarnato nel Figlio, per me è un uomo che è creduto essere il Figlio e in quella convinzione ha vissuto gli ultimi tre anni della sua vita, gli anni della predicazione e poi della "passione" e del sacrificio. Ma la predicazione è appunto quel tratto della sua vita che ci unisce. Ho pensato molto all'incontro di due persone già avanti negli anni che vengono da educazioni, culture e percorsi di vita così diversi che sono desiderosi di conoscersi sempre più e sempre meglio. Ha un senso tutto questo? Qualche volta penso che lei speri di convertirmi, di farmi trovare la fede. Questo rientrerebbe nei suoi compiti di padre di anime. È questo che lei si propone?

Martini No, non penso di convertirla anche se non possiamo escludere né io né lei che ad un certo punto della sua vita la luce della fede possa illuminarla. Ma questa è un'eventualità che riguarda solo lei. Lei cerca il senso della vita. Lo cerco anch'io. La fede mi dà questo senso, ma non elimina il dubbio. Il dubbio tormenta spesso la mia fede. È un dono, la fede, ma è anche una conquista che si può perdere ogni giorno e ogni giorno si può riconquistare. Il dubbio fa parte della nostra umana condizione, saremmo angeli e non uomini se avessimo fugato per sempre il dubbio. Quelli che non si cimentano con questo rovello hanno una fede poco intensa, la mettono spesso da parte e non ne vivono l'essenza.

La fede intensa non lascia questo spazio grigio e vuoto. La fede intensa è una passione, è gioia, è amore per gli altri ed anche per se stessi, per la propria individualità al servizio del Signore. Il Vangelo dice: ama il tuo prossimo come ami te stesso. Non c'è in questo messaggio la negazione dell'amore anche per sé, l'amore  -  se è vera passione  -  opera in tutte le direzioni, è trasversale, è allo stesso tempo verticale verso Dio e orizzontale verso gli altri. L'amore per gli altri contiene già l'amore verso Dio. Lei ama gli altri?

Scalfari Non sempre, non del tutto. Mentirei se dicessi che amo gli altri con passione come amo alcune persone a me vicine e mentirei se dicessi che l'odio è un sentimento a me ignoto. Detesto l'ingiustizia e odio gli ingiusti. I diversi da me li tollero e in qualche caso li amo pensando che la loro diversità sia ricchezza. Ma gli ingiusti no.
Martini Forse lei ricorderà che sul tema dell'ingiustizia abbiamo molto discusso nel nostro precedente incontro.
Scalfari Lo ricordo benissimo. Io le domandai quali fossero i peccati più gravi e lei mi rispose che la precettistica della Chiesa enumera una serie di peccati numerosa. In realtà  -  mi disse e io l'ho trascritto fedelmente nell'articolo che feci dopo quel nostro incontro  -  il vero peccato del mondo è l'ingiustizia, dal quale gli altri discendono.

Martini Sì, lei ricorda bene, dissi così. Ma forse non approfondimmo abbastanza che cosa intendevo con la parola ingiustizia.

Scalfari Può spiegarlo adesso.

Martini Ebbene l'ingiustizia è la mancanza di amore, la mancanza di perdono, la mancanza di carità e il sentimento di vendetta.

Scalfari Lei mi disse anche che il sacramento della confessione e della penitenza, fondamentale per i cristiani, non è più vissuto e praticato come dovrebbe essere.

Martini La penitenza non è quella di recitare dieci "paternostri" ma scoprire la bellezza della carità e metterla in pratica.

Scalfari Mi ricorda il pentimento dell'Innominato del Manzoni nei Promessi sposi....

Martini La lotta contro l'egoismo è molto lunga.

Scalfari Ne deduco che il Creatore ha creato un mondo ingiusto.

Martini Il Creatore ha donato agli uomini la libertà. Essa può generare la solidarietà verso gli altri, ma anche l'egoismo, la sopraffazione, l'amore verso il potere. Ho letto il suo ultimo libro, lei parla di queste cose.
Scalfari Sì, anch'io penso che l'istinto d'amore pervada la vita delle persone ma abbia diverse dimensioni e direzioni. Lei lo chiama amore, io lo chiamo eros, lei chiama il bene carità ed io lo chiamo sopravvivenza della specie, cioè umanesimo. Mi sembra che con parole diverse diciamo la stessa cosa. Gesù, per quanto capisco, tentò il miracolo di cancellare l'amore per se stessi, ma quel miracolo non riuscì.

Martini Gesù non tentò di cancellare l'amore per se stessi, anzi lo mise come misura per l'amore degli altri.
Scalfari Io penso che la vita sia cominciata da un essere monocellulare e poi sia andata vertiginosamente avanti secondo l'evoluzione naturale. Noi abbiamo una mente riflessiva che ci consente di pensare noi stessi e di vedere le nostre azioni, ma nell'economia dell'Universo siamo un piccolo evento: così è nato il mondo e noi tutti e così scomparirà. A quel punto nessun'altra specie sarà in grado di pensare Dio e Dio morirà se nessun essere vivente sarà in grado di pensarlo. Noi non siamo una regola, noi siamo un caso, una specie creata dalla natura, come credo io, o da un dio trascendente come crede lei. Spinoza dice: Deus sive Natura, oppure anche Natura sive Deus. Lei sa che questa concezione della divinità, così intensa come lei ha, sconfina nell'immanenza? Una scintilla di Divinità sta dunque in tutte le creature viventi ed è appunto la vita.

Martini Lei mi domandò nel nostro precedente incontro che cosa io pensassi dell'affermazione del teologo Hans Küng che sostiene la fede verso la vita come la condizione preliminare e necessaria per arrivare alla fede in Dio. Lo ricorda?

Scalfari Sì, ricordo anche che lei era d'accordo con quell'affermazione.

Martini È vero e lo si vede osservando un bimbo appena nato il quale si affida nelle mani dei genitori totalmente. Anche lei è venuto qui nella fiducia che non avrebbe trovato nessuno con un fucile spianato. Questa è una forma primaria di fede.

Scalfari Chiaro. Lei ha detto in un suo scritto che è un errore affermare che Dio sia cattolico.

Martini Sì, l'ho detto. Dio è il Padre di tutte le genti, quindi apporgli l'aggettivo cattolico è limitante.

Scalfari Ammetterà tuttavia che il monoteismo cristiano è assai diverso da quello ebraico e anche da quello dell'islam. In quelle religioni la Trinità sarebbe considerata eresia inconciliabile con il Dio unico. In quelle religioni il Dio unico è innominabile e non raffigurabile, per i cristiani invece ha il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed è stato dipinto e scolpito per millenni. La storia dell'arte occidentale è in gran parte la storia di Dio, del Figlio, della madre del Figlio, dei Santi. Si può dire che il cristianesimo è una religione monoteista? Oppure storicamente è una religione ellenistica?

Martini La Trinità è Dio-comunione. Il Figlio è la Persona con cui il Padre si manifesta agli uomini. Forse il modello "ontologico" con cui si è pensata la Trinità fino ad oggi dovrebbe cedere il passo al modello "relazionale" che aiuterebbe meglio anche il dialogo orizzontale. Quanto ai Santi, non sono solo intermediari tra noi e Dio ma anche testimoni del bene e forse la Chiesa ne ha canonizzati troppi.

Scalfari Dunque quando la nostra specie scomparirà e quando il giudizio universale sarà avvenuto il Figlio non avrà più ragion d'essere e lo Spirito santo neppure.

Martini Non esattamente, il Figlio sarà la beatitudine delle anime che vivranno nella luce.
Scalfari Senza memoria del sé terrestre che hanno abbandonato?
Martini Noi uomini non siamo in grado di sapere queste cose, di conoscere l'aldilà. Sappiamo però che Paolo dice che la Carità non avrà mai fine. Quindi supponiamo che riconosceremo ciò che abbiamo vissuto nell'amore.
Scalfari Dio è il padre di tutte le genti, ma la Chiesa ha fatto del Dio cattolico anche una bandiera d'identità, di guerra e di stragi.
Martini Quando ha fatto questo ha sbagliato. La Chiesa, come tutte le istituzioni terrene, contiene il bene ed il male ma è depositaria di una fede e di una carità molto grandi. Anche Pietro rinnegò.
Scalfari Forse è troppo istituzione.
Martini Forse è troppo istituzione.
Scalfari Forse è troppo dogmatica.
Martini Direi in un altro modo: l'aspetto collegiale della Chiesa è stato troppo trascurato. Secondo me questo punto andrebbe profondamente rivisto.

La conversazione dura ormai da oltre un'ora. Guardo don Damiano in modo interrogativo e lui mi fa di sì con la testa. Dico al cardinale che è arrivata l'ora di congedarmi. "Ma le faccio un'ultima domanda: che cosa pensa dei fatti politici italiani di questi ultimi mesi? La Chiesa, dopo un silenzio troppo lungo, mescolato con alleanze oltremodo discutibili, ha infine chiesto con il cardinale Bagnasco che venisse ripulito il fango che ha imbrattato l'etica pubblica. È d'accordo con questa posizione?".

Martini Sono d'accordo. In Italia esiste una cattolicità avvertita e consapevole e ci sono anticorpi preziosi che alla fine si manifestano contribuendo a recuperare il bene anche nella sfera dove si amministra il potere.

Mi alzo. Anche lui si alza aiutato da don Damiano. Ci abbracciamo. Lui mormora qualcosa e don Damiano traduce: "Ha detto che prega spesso per lei". Io rivolgendomi a lui gli dico: "Io la penso molto spesso, è il mio modo di pregare". Lui si avvicina al mio orecchio e con un filo di voce dice: "Prego per lei, e anch'io la penso spesso", sorride e mi stringe la mano. Forse voleva dire che pensare l'altro è più che pregare. Io almeno ho capito così.
 

(24 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/12/24/news/scalfari_martini_ges-27141465/?ref=HREC1-10
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« Risposta #332 inserito:: Dicembre 27, 2011, 07:02:02 pm »

Come il soggetto plasma l'oggetto

di Eugenio Scalfari

La stessa casa può diventare tutt'altra cosa quando ad abitarla è una persona diversa. Perché chi ci vive dà ad essa la sua impronta. È così che siamo di volta in volta contenitore e contenuto. Come insegnano i filosofi

(15 dicembre 2011)

La discussione sull'oggetto e sul soggetto, il loro contrastato rapporto, i fatti e l'interpretazione dei fatti, ha illuminato per millenni la filosofia, anzi è stato ed è la filosofia se con questa parola d'origine greca si vuole dire l'amore per la conoscenza.

Tanto più accesa è diventata la discussione quando la modernità ha messo l'io in primo piano identificandolo con la soggettività. La modernità, a partire da Giordano Bruno e da Montaigne ha scardinato l'oggettività fino al punto di negarla. Kant, teorizzando la "cosa in sé" e la sua incomunicabilità, ha isolato i soggetti l'uno dall'altro; altrettanto aveva teorizzato Leibniz recuperando la comunicazione delle monadi attraverso la trascendenza del Creatore; Nietzsche aveva distrutto ogni architettura sostituendo ai fatti una rete infinita di interpretazioni.
Queste considerazioni mi sono venute in mente pensando al rapporto che ciascuno di noi ha con gli oggetti che lo circondano, con le case che li contengono e contengono anche noi. Pensate fino a che punto ciascuno di noi si affeziona alla casa in cui vive e in quelle nelle quali ha vissuto nel corso della vita, alle altre persone che insieme con lui hanno abitato in quella casa, gli animali domestici che vi hanno fatto compagnia, i quadri alle pareti, i tappeti stesi sul pavimento, la vista che si gode dalle finestre e dai balconi, i libri che riempiono gli scaffali e che segnano il percorso della vostra mente e della vostra fantasia.

C'è uno strano rapporto tra noi e le nostre case perché è vero che noi siamo fisicamente loro ospiti, ma ne siamo anche i padroni e siamo noi che a nostro piacimento le riempiamo di altri ospiti che con noi convivono, siamo noi ad arredarne le stanze. Se cambia il padrone cambia anche la casa pur restando la stessa nelle strutture portanti e nella sua architettura.

A me è capitato qualche volta di aver ceduto la casa a persone amiche ed esserci tornato in visita dopo qualche tempo avendone un'impressione di estraneità: la casa non era più la stessa, quasi non la riconoscevo. Ma nella mia memoria restava intatta e mi riportava alle persone che con me vi avevano abitato, al cane che si accucciava ai miei piedi davanti al camino acceso (i nuovi padroni quel camino l'avevano eliminato), alla mia scrivania colma di carte, alla parete coperta di scaffali pieni di libri fino al soffitto e alla scala che correva su un regolo di ferro per consultare gli scaffali più alti. Al suo posto ora i miei amici avevano messo un arazzo molto bello di manifattura cinese che trasformava l'intera stanza.

Ricordo queste sensazioni per dire che nella mia memoria la casa non era quella. Nella mia memoria viveva un'altra casa legata alla mia storia e alle persone che ancora vivono con me o sono scomparse ma tornano a me insieme a quelle stanze, a quegli oggetti, a quegli odori che mi par di sentire quando il pensiero me li ripropone.
Vedete come è complesso il rapporto tra l'oggetto e il soggetto. La casa in quanto edificio esiste (finché esiste) e sarebbe insensato negarlo; ma in questa visione e ricordo non è lei che mi contiene, sono io che la contengo, la costruisco e la ri-costruisco, come ieri la vissi e come oggi la rivivo e non è affatto sicuro che la mia ricostruzione sia fedele a quella che allora era la realtà. La vita scorre e cambia cose e persone, fatti e memoria dei fatti, oggetti e soggetti e noi siamo di volta in volta un soggetto che agisce e un oggetto che da altri è agito, un contenitore e un contenuto.

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« Risposta #333 inserito:: Dicembre 27, 2011, 07:35:41 pm »

LA MEMORIA

Caro amico Giorgio Bocca una vita insieme alla tua fantasia

di EUGENIO SCALFARI


È STATA l'ultima volta che l'ho visto, era il 6 dicembre scorso, le 11 del mattino e lui stava seduto alla sua scrivania, pallidissimo, il volto scavato con le ossa della fronte, degli zigomi e delle mascelle coperte dalla pelle e gli occhi fissi davanti a sé che guardavano il vuoto. Gli chiesi se avesse dolore in qualche parte del corpo, rispose "No, nessun dolore". "Questo è un buon segno  -  gli dissi mentendo  -  ma come ti senti?", mi guardava senza alcuna espressione, poi la bocca accennò un sorriso. La risposta fu "non ci sono". La moglie Silvia si era seduta accanto a lui, gli carezzò lievemente la guancia e quasi per cambiar discorso disse: "Per pranzo gli ho preparato la luganiga, gli piacciono quelle salsicce cotte nel vino". "Ma le può mangiare?", "Le assaggia".

Gli domandai se leggeva i giornali. Rispose: "Non c'è niente da leggere". Insistei: "La politica ti interessa sempre?". Rispose: "Non c'è politica". Poi fu lui a chiedermi: "Tu come fai a scrivere ancora?". Risposi che il mestiere, se lo hai imparato fin da ragazzo, è lui che ti porta sulle spalle e tu vai avanti senza fatica. Lui commentò "per me il mestiere non c'è più, se n'è andato prima di me ma l'attesa ormai sarà breve". Poi si voltò verso Silvia e lei mi disse che era stanco. Mi alzai, andai verso di lui e ci baciammo. "Tornerò presto". "Non mi troverai, non venire, sarebbe inutile".

Sono uscito con una grande tristezza in cuore. Ora l'amica del destino è arrivata all'appuntamento e ha portato via la sua spoglia ma l'anima se n'era già andata e lui me l'aveva detto: non ci sono più. Per quanto mi riguarda continuerà a vivere finché vivrò. La memoria serve anche a questo: tiene vive le persone che ci sono state compagne di vita, di pensiero, di progetti e con le quali abbiamo discusso, litigato, gioito, sperato.

* * *

Giorgio è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande scrittore. Non era un letterato ma uno scrittore sì, dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti. Passava da un tempo ad un altro e da un luogo ad un altro luogo senza separarli neppure con un "a capo", neppure con un punto, al massimo una virgola. La fantasia fa di questi miracoli e lui, sotto la maschera del contadino e del provinciale, sentiva e raccontava l'avventura delle persone, poi all'improvviso alzava gli occhi verso il cielo e descriveva le stelle come intermezzo e poi tornava a raccontare la storia d'un bandito o d'un corruttore, d'un mondo dove i leoni avevano lasciato il posto alle volpi e alle faine.

Io gli ho voluto molto bene. Lui non so, era burbero nei modi e anche chiuso in sé quanto io ero aperto. "Tu vuoi sedurre la gente  -  mi diceva  -  e capisco che questo è il tuo mestiere". Un giorno mi disse che ero un cinico. Un altro giorno che la mia presenza gli dava sicurezza. Era insicuro e timido, Giorgio Bocca, ma puro come il diamante. A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così e basta leggere le prime pagine del "Provinciale"  -  forse il più bello dei suoi libri  -  per capirlo.

* * *

Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio ha pubblicato in libri e giornali, dall'Europeo al Giorno, e poi su Repubblica, è difficile scegliere.
Da noi venne fin dal primo giorno della fondazione e c'è rimasto fino a ieri, è durato 36 anni questo sodalizio. È incredibile la sua scrittura. Per la professione che faccio ho letto migliaia di articoli e le firme di chi vi scriveva sono state tra le più pregiate. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, il suo stile, ognuno la sua visione della vita e del Paese. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, si innamorava dei personaggi, li faceva rivivere e vivere sulla pagina.

Tra i tanti luoghi che ha visto il Sud è stato una passione. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alla mafia e alle "'ndrine", violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Crotone, Agrigento, Locri e Ulisse, il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d'occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud che invece era quello dell'Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.
Quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero e di Odisseo che naviga tra l'isola di Circe e quella di Calipso. Ma poi lasciava all'improvviso quel mondo di fantasia, s'arrampicava per i sentieri dell'Aspromonte e raccontava i mafiosi, le donne matriarcali, i pastori, la cosca di Mommo Piromalli e infine i bronzi di Riace, apollinei nelle loro posture guerriere.

Ho riletto, proprio dopo il nostro ultimo incontro di Milano, alcune delle sue inchieste tra le quali quelle che intitolammo "Aspra Calabria", scritta oltre vent'anni fa. L'inizio è sbalorditivo. È in Calabria e deve raccontare per i nostri lettori che cosa è l'Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti. E invece comincia così: "Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all'hotel Metropole, in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano "tournedos" alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le "crepes" alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti, con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiami neri".

Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l'Aspromonte e descrive l'hotel Metropole e le gabbie dei vietcong. Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: "Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride e posso vedere di qui l'Aspromonte" e continua "in questi boschi c'è un uomo, il giovane Celadon, che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla buca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale".

E da lettore ormai sei avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo di uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece stai leggendo il "reportage" d'un giornalista che s'è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro, poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella memoria e rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai. Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndangheta, camorra sono sempre là da un secolo e mezzo. Solo che oggi da Platì e dagli altri borghi-rifugio gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kosovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume degli affari supera i 200 miliardi l'anno. Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulla montagna o scontano il carcere duro e continuano a mandare ordini, a comandare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo, mentre i figli e i nipoti parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fondazioni nei Caraibi, nel Liechtenstein, a Zurigo e a Miami.

Dopo due anni da quella sua inchiesta arrivò un altro tsunami, sembrava un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell'Utri, Previti, il partito dell'amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillettes e le escort.
I Piromalli e i Macrì sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca "money money money", un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria "meno male che Silvio c'è". Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà un mistero gaudioso. Così è stato e finalmente quella cricca ha fatto le valigie, cacciata dagli italiani di buona volontà ma anche da una tempesta che minaccia di travolgere un Paese impreparato ad affrontarla.

Giorgio Bocca s'è battuto per tutti questi anni affinché l'Italia si rialzasse dal letamaio ed ha anche visto il finale di quella drammatica farsa. Poi se n'è andato anche lui che si considerava un anti-italiano perché detestava l'Italia che aveva sotto gli occhi.

Io ti ricorderò sempre, caro amico e compagno, tu la tua guerra partigiana non hai cessato mai di combatterla e ora hai il diritto di riposare in pace.

(27 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/27/news/l_amicizia_di_una_vita-27248451/?ref=HRER3-1
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« Risposta #334 inserito:: Gennaio 07, 2012, 11:14:48 am »

Opinione

Quel gran genio dell'Umberto

di Eugenio Scalfari

Eco compie ottant'anni. Quando scrive di semiologia è imbattibile. E i suoi romanzi sono esempi di sapiente ricerca, fantasia e presa narrativa. Gli manca solo la poesia. Ma per i 90 chissà...

(03 gennaio 2012)

Umberto Eco compie ottant'anni. Li porta benissimo, di corpo e di mente. E' un po' ingrassato e si è tagliato la barba, ma la sua mobilità - fisica e creativa - con gli anni è aumentata invece di diminuire. Schizza di continuo in tutte le direzioni del mappamondo. Interviene a convegni culturali, insegna con "lectio magistralis" in decine di Università, vince premi, scrive libri, prolusioni, romanzi, firma manifesti politici, acquista "aldine" cinquecentesche, trattati rari di alchimia e di negromanzia, le storie dei Templari e dei Rosacroce, gioca col computer ogni giorno. I generi letterari li ha frequentati tutti, gli manca solo la poesia e non escluderei che quando festeggerà i suoi novant'anni anche ballate, sonetti e versi liberi svincolati dalla metrica saranno entrati nel suo repertorio. La "Bustina" della scorsa settimana sui versi di Montale prelude a una nuova vocazione? Sarebbe una novità clamorosa alla quale mi piacerebbe assistere.

Lo conosco dai primi anni Sessanta e da allora ha sempre collaborato ai giornali del nostro gruppo, all'"Espresso" e poi anche a "Repubblica". Quando, per il troppo lavoro che portava avanti, decise che la sua "Bustina di Minerva" diventasse quindicinale anziché settimanale, toccò a me condividere la sua quindicina e da allora ci alterniamo su questa pagina.

Ci siamo voluti bene e frequentati per molti anni quando eravamo giovani. Da vecchi la frequentazione è diminuita, abitiamo in città diverse e lui fa il giro del mondo una volta al mese o giù di lì. Politicamente la pensiamo allo stesso modo. La semiologia è un suo dominio e io mi guardo bene dall'entrarci sebbene sia una scienza della comunicazione che professionalmente mi riguarda. La scrittura invece è materia di tutti e due. E bene, è sulla sua scrittura che voglio intrattenervi nel giorno del suo compleanno.

Quando scrive della sua materia è imbattibile, prosa asciutta e chiarissima, non priva di qualche ironia; spesso sconfina nella filosofia che è un'altra delle sue passioni, ma lo sconfinamento è pertinente perché la semiologia è la scienza dei segni e del linguaggio e il linguaggio ha un rapporto strettissimo col pensiero, con la logica e con l'estetica.

A un certo punto della sua vita decise di cimentarsi col romanzo. Nessuno se lo aspettava, nemmeno lui. Ha poi raccontato che "Il nome della rosa" nacque per puro caso: stava facendo ricerche filologiche su alcuni codici antichi, la ricerca lo portò in un convento benedettino dove gli raccontarono alcune leggende che partivano dalla religione e finivano nel giallo. Se ne appassionò e ne venne fuori uno dei libri più venduti al mondo, con edizioni in tutte le lingue e in tutti i continenti, un film di successo e l'ingresso di quel titolo tra i classici.

Da lì partì una collana narrativa dove la sua fantasia si sbrigliò creando personaggi fuori dall'ordinario, collocati in luoghi improbabili e animati da desideri inconsueti. Al centro di questo percorso c'è la regina Luana e i fumetti della sua e della nostra infanzia; il prodotto finale è stato "Il cimitero di Praga", un giallo in piena regola dove si intrecciano molte storie e si muovono personaggi protagonisti di doppie e triple vite. Si direbbe una ricerca dell'ubiquità e dell'onnipresenza, che conduce al confronto col mistero e con la morte.

La struttura narrativa di tutti i suoi romanzi ha il suo punto di riferimento nel "Bouvard et Pécuchet" flaubertiano: mentre racconta le sue storie l'attenzione dell'autore è tutta rivolta all'analisi del meccanismo romanzesco, la trama è un pretesto che serve ad accompagnare i lettori dentro un ingranaggio continuamente montato e rismontato sotto i loro occhi senza allentare la presa narrativa e il giallo che ne è l'ingrediente principale. Da questo punto di vista "Il cimitero di Praga" rappresenta il culmine di questa sapiente ricerca.

Una volta scrissi a Umberto tutto il bene che pensavo dell'opera sua di scrittore e di scienziato con una riserva: nei suoi romanzi non trovavo poesia. Forse la mia riserva era ingiusta: in alcune pagine della "Rosa" di poesia ce n'è molta. Lui si arrabbiò e mi dette del crociano tardivo. Io a mia volte risposi piccato. Poi tutto finì con reciproche scuse e ininterrotta amicizia. Festeggiamo i tuoi ottant'anni, caro Umberto. Avendo sorpassato quell'età da parecchi anni posso assicurarti che sei ancora giovane ed hai molta strada da fare e molte pagine da farci leggere che accresceranno i nostri saperi e stimoleranno i nostri pensieri.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quel-gran-genio-dellumberto/2170205/18
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« Risposta #335 inserito:: Gennaio 08, 2012, 10:27:35 am »


IL COMMENTO

L'Italia guida la battaglia salva-Europa

di EUGENIO SCALFARI

Abbiamo più volte osservato che Mario Monti non è un tecnico ma un uomo politico di grande livello, attento alle relazioni con la società civile, con le organizzazioni sindacali e con le forze politiche. Ma sta rivelando un'insolita capacità nella politica estera, applicata principalmente ai temi che riguardano l'economia e agli strumenti finanziari che ne costituiscono la leva; ma non soltanto.

La politica estera di Monti mira più in alto. L'obiettivo finale, se riuscirà nel suo intento, si propone di rafforzare un potere federale europeo che, pur mantenendo in vita i governi nazionali, ne restringa la sovranità e modifichi la distribuzione dei poteri all'interno delle istituzioni europee, accrescendo quelli del Parlamento di Strasburgo, della Commissione di Bruxelles e della Banca centrale.

Questo disegno appare ormai chiaro e passa per l'attenzione che il nostro "premier" sta dedicando alle alleanze politiche all'interno dell'Unione con gli altri Paesi dell'eurozona ma anche al di fuori di essa a cominciare dalla Gran Bretagna. Questa rete diplomatica non ha come finalità quella di stringere e di costringere la Germania a piegarsi - obiettivo impensabile - ma di rassicurarla e convincerla che un'Europa forte coincide con una Germania forte, economicamente e politicamente.

Questo è il motivo del prezzo che l'Italia ha salatamente pagato nelle scorse settimane con la legge "salva Italia" di marca rigorista.

Era necessaria per salvare il nostro Paese dal baratro, ma anche per procurarsi un biglietto d'ingresso al vertice dell'Europa. Quella legge potrebbe a buon diritto chiamarsi "salva Europa" poiché il peso del nostro Paese nel concerto dei 27 Stati dell'Unione non è mai stato così determinante come oggi, specie se abbinato alle capacità di Monti, politiche ed economiche, che non hanno riscontro negli altri leader europei.

La durezza rigorista della Merkel aveva l'obiettivo di rassicurare l'opinione pubblica tedesca che la Germania non avrebbe pagato il conto dei Paesi spendaccioni. Ci è riuscita recuperando una popolarità che supera il 60 per cento, preziosa in una fase di elezioni regionali che culminerà nel 2013 nelle elezioni politiche generali.

Ma la Cancelliera non ignora che il rigore dei bilanci è parola vana se non è abbinato a politiche di crescita in tutta l'Unione, poiché da quella politica dipendono le esportazioni tedesche, gli investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro che ne sono il corollario.

In alcune riunioni informali ma informalmente rese note la Merkel ha più d'una volta manifestato la sua consapevolezza di queste realtà e ne è tanto più convinta a causa del rischioso intreccio che mette in pericolo alcune banche tedesche imbottite di titoli tossici. Ma ha trovato in Sarkozy un partner inutilmente impulsivo e anche lui condizionato dalle imminenti elezioni presidenziali.

La scommessa di Monti consiste nella necessità di un terzo protagonista che non ha condizionamenti pre-elettorali e per di più superiore ai due partner per le sue specifiche competenze, a patto che l'appoggio parlamentare delle forze politiche italiane, delle organizzazioni sindacali e della pubblica opinione sia il più compatto possibile. La sua autorevolezza si fonda sulla fiducia degli italiani e sulla distanza dall'appuntamento elettorale. Un anno scarso perché con l'inizio del semestre bianco (gennaio 2013) anche qui da noi la campagna elettorale avrà inizio e le prerogative del Quirinale saranno affievolite. Ecco perché Monti deve agire con la massima velocità ed ecco perché, se gli italiani saranno consapevoli della posta in gioco, il loro appoggio non può essergli lesinato.

* * *
La settimana che si chiude oggi è stata purtroppo funestata da alcuni fatti non prevedibili ed altri al di fuori dal controllo del nostro governo: l'Sos del "premier" greco per un rischio di default del debito che sembrava superato ma è tornato a manifestarsi con virulenza (anche per una improvvisa diminuzione delle entrate tributarie che desta il fondato sospetto d'uno sciopero dei contribuenti e d'un consapevole lassismo del governo); l'incidente (chiamiamolo così) ungherese, il crollo della sua moneta e del suo debito sovrano; la prolungata attesa delle banche europee e italiane ad utilizzare la massiccia iniezione di liquidità della Bce; le perdite in Borsa registrate dal titolo Unicredit in occasione dell'aumento di capitale da sette miliardi imposto dall'autorità bancaria europea (Eba).

L'andamento borsistico di Unicredit denuncia una situazione cui bisognerebbe porre rapido rimedio: le grandi banche italiane dipendono dal controllo delle Fondazioni che sono strutturalmente inadatte ad adempiere a questo delicatissimo compito. Occorre sostituirle al più presto riportandole alle loro attività statutarie e affidando la proprietà di banche ad un azionariato più idoneo.

Per quanto riguarda l'attendismo del sistema bancario italiano dopo l'operazione di liquidità della Bce, ne parleremo tra poco. Quanto agli incidenti greco e ungherese, si tratta di fatti che chiamano in causa l'Europa con pressante insistenza e vanno dunque affrontati nei modi che abbiamo già indicato.

* * *
L'attendismo delle banche era prevedibile e previsto. Durerà ancora per qualche settimana ma dovrebbe cessare o attenuarsi fortemente con l'inizio delle aste di titoli dei debiti sovrani in scadenza. Tra febbraio e marzo scadranno in Europa 500 miliardi di titoli pubblici dei quali 150 riguardano il nostro debito.

Le ragioni dell'attendismo delle nostre banche sono le seguenti:
1. Si è verificato negli ultimi mesi una sensibile diminuzione sia dei depositi sia delle richieste di prestiti.
2. Le sofferenze di crediti non esigibili sono sostanzialmente aumentate fino a rappresentare il 9 per cento dei bilanci.
3. Molte banche europee sono oberate da titoli scadenti o addirittura tossici. Non essendovi un prestatore di ultima istanza questa situazione blocca la reciproca fiducia tra gli istituti di credito europei e li incita a vendere sul mercato i titoli di debiti sovrani ritenuti rischiosi.
4. Malgrado queste difficoltà le banche, ma anche i fondi d'investimento e i risparmiatori, hanno effettuato rilevanti acquisti di titoli pubblici a breve termine. In particolare il rendimento dei nostri Bot a tre mesi è diminuito, tra il 9 novembre e il 5 gennaio, del 70 per cento passando dal 6,60 all'1,95 per cento; per i Bot a sei mesi la diminuzione è stata del 68 per cento passando dall'8,30 al 2,66; per i Bot a dodici mesi diminuzione del 62 per cento (da 9,47 a 3,61); per i Btp a due anni diminuzione del 30 per cento (da 7,26 a 5,09). La diminuzione del Btp quinquennale è stata più bassa: 12 per cento. I decennali sono sostanzialmente stabili attorno al 7 per cento.

Va aggiunto a chiarimento che l'alto rendimento dei decennali è virtuale; ridiventerà attuale con le prossime aste di febbraio. A questo proposito sarebbe opportuno che il Tesoro, anziché portare in asta Btp decennali, abbreviasse i termini di scadenza a un anno o al massimo due. Li collocherebbe a rendimenti molto più bassi superando un appuntamento molto impegnativo senza incidere sulla durata media del nostro debito pubblico che è attualmente di sette anni.

Sarebbe altrettanto opportuno che il Tesoro azzerasse il fabbisogno dello Stato. L'operazione ha un costo di 15 miliardi e non presenta particolari difficoltà.

* * *
La Bce la sua parte l'ha fatta con l'operazione di prestito triennale di 500 miliardi all'1 per cento di tasso. Il 19 febbraio riaprirà lo sportello a richieste di prestiti triennali per importi illimitati. Non porrà condizioni alle banche per quanto riguarda l'utilizzo di quei fondi, ma è facile prevedere una discreta "moral suasion" per erogazioni alla clientela e partecipazione attiva alle aste del Tesoro. Si tratta per di più di operazioni profittevoli anche se il Tesoro abbreviasse le scadenze dei nuovi titoli.

Non credo che nella strategia di Monti ci sia la richiesta di equiparare la Bce alle altre Banche centrali. Se il nostro premier vuole rassicurare la Merkel questa non sarebbe, almeno per ora, la richiesta giusta. Ma in un futuro più lontano, diciamo nel 2015, potrebbe divenire praticabile e bene ha fatto il ministro Passera a metterla in calendario.
Quello che Monti vuole oggi portare a casa con la riunione del Consiglio europeo del 30 gennaio, è il dimezzamento della quota di debito da diminuire per i Paesi che superano il 60 per cento nel rapporto debito-Pil e il defalco degli investimenti strutturali dal calcolo del deficit rispetto al Pil. Sarebbero due passi nella giusta direzione per quanto riguarda la crescita. Messi insieme al contenimento dei rendimenti consentirebbero un quadro di maggiore tranquillità e l'avvio immediato di iniziative per la creazione di posti di lavoro e nuovi meccanismi di ammortizzatori sociali.
Insomma una politica di rilancio a piccoli passi ma con perseverante continuità, purché vi sia l'appoggio degli italiani ed in particolare delle parti sociali.

Da questo punto di vista la Camusso e la Fornero hanno grandi responsabilità. Innovare profondamente il contratto di lavoro tenendo fermo l'articolo 18: questa è la scommessa. Non è impossibile, soprattutto se sapranno guardare la luna e non il dito che la indica.

Post scriptum. Voglio qui inviare i nostri sentiti auguri al professor Befera, presidente dell'Agenzia delle entrate. Non badi alle minacce e agli insulti che le vengono lanciati. Le prime confidiamo siano soltanto sciagurate esibizioni di teste balorde, i secondi, se vengono da personaggi tipo Santanché, sono titoli onorifici.

(08 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/08/news/l_italia_guida_la_battaglia_salva-europa-27751404/?ref=HRER1-1
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« Risposta #336 inserito:: Gennaio 15, 2012, 06:25:38 pm »

   
IL COMMENTO

Quelle verità scomode e le comode bugie

di EUGENIO SCALFARI

All'indomani del cosiddetto "tsunami" provocato dall'agenzia di rating Standard&Poor's ci sono alcuni fatti certi dai quali bisogna partire. Sono i seguenti:

1. Lo "tsunami" non c'è stato. Le Borse hanno registrato modesti ribassi, Piazza Affari ha perso l'1 per cento, le altre Borse europee hanno oscillato intorno al mezzo per cento di perdita, l'Austria, colpita anch'essa dal "downgrade", ha addirittura chiuso in rialzo.

2. Standard&Poor's ha declassato nove paesi su diciassette, cioè ha attaccato non un paese specifico ma l'intera economia europea e quindi, indirettamente, anche la Germania che senza l'Europa vivrebbe malissimo. Si è trattato dunque d'un giudizio politico più che economico.

3. Per quanto riguarda l'Italia questo attacco ha avuto come effetto quello di rafforzare il governo Monti, tanto più che la stessa Standard&Poor's ha apprezzato la politica di Monti nel momento stesso in cui declassava di due punti il nostro debito sovrano mandandolo in serie B.

4. I rendimenti dei nostri Bot e dei nostri Btp alle aste di giovedì e di venerdì sono stati ottimi per i Bot e buoni per Btp triennali.

5. La Bce ha confermato che il valore dei "collaterali" che le banche danno in garanzia dei prestiti loro accordati dalla Banca centrale non subiranno alcun mutamento; la Bce cioè non terrà in nessun conto i giudizi negativi dell'agenzia di rating. Le notizie che davano per certo un peggioramento del valore dei collaterali erano dunque sbagliate o false.

Le aste italiane di giovedì e venerdì hanno comunque confermato che la fiducia nel nostro debito sta tornando e dai Bot si sta gradualmente allargando anche sui Btp ed infatti, confrontando i tassi spuntati alle aste di gennaio con quelli delle aste di novembre si hanno i seguenti risultati: Bot a sei mesi dal 6,5 al 3,2; Bot a dodici mesi dal 5,9 al 3,2; Btp a tre anni da 7,9 a 4,8; Btp a dieci anni da 5,7 a 4,9.

È possibile che nella seduta di domani alcuni di questi tassi peggiorino sul mercato secondario che però, per quanto riguarda gli oneri del Tesoro, non hanno alcuna ripercussione. Per quanto riguarda l'Italia, se ne riparlerà soltanto alle aste di febbraio e marzo che avranno dimensioni imponenti. Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un'operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità.

La prima conclusione che questi dati suggeriscono nel loro complesso è dunque abbastanza rassicurante. I risparmiatori e le banche hanno ricominciato a investire in titoli italiani di breve scadenza ma anche in Btp di scadenza media. Auspichiamo che questo processo si estenda tenendo presente che il 19 febbraio la Bce aprirà un secondo sportello alle banche europee per prestiti triennali di ammontare illimitato al tasso dell'1 per cento e con collaterali a valore invariato. Si tratta di fatto di uno schiaffo sulla faccia dei dirigenti di Standard&Poor's.

* * *

Il presidente Napolitano ha indirizzato due messaggi pubblici all'Europa con due principali destinatari: la Merkel e Sarkozy, che saranno a Roma nei prossimi giorni. Un messaggio, il giorno precedente al downgrade di Standard&Poor's, puntava sulla necessità di un governo economico europeo e in particolare dei diciassette paesi dell'Eurozona; il secondo auspicava un ruolo non solo economico ma politico dell'Unione, esteso dunque non solo all'economia ma all'immigrazione, alla giustizia, agli investimenti intraeuropei e a una diversa configurazione della governance.

La Francia continua ad essere riottosa alla cessione di sovranità dagli Stati nazionali all'Unione; la Germania lo è altrettanto, ma ambedue cominciano a rendersi conto dell'urgenza di un nuovo trattato e della necessità di ridurre al minimo i poteri di veto dei singoli Stati. Sullo sfondo ci dovrebbe essere l'istituzione degli eurobond e i poteri di intervento diretto della Bce anche sui debiti sovrani.
Le dichiarazione della Merkel di ieri non dicono granché su questi obiettivi di sfondo ma finalmente puntano anche sulla necessità della crescita oltreché del rigore. Ma soprattutto vogliono sottoporre le agenzie di rating a una disciplina giuridica che vada al di là di un semplice codice etico peraltro inesistente, almeno finora.

Non c'è dubbio che l'esigenza di disciplinare le agenzie di rating con regole oggettive sia a questo punto una necessità senza tuttavia negare ad esse la libertà di esprimere documentati giudizi. L'attenzione va posta soprattutto su quell'aggettivo: documentati. Ma lo spazio pubblico europeo non può esser negato a nessuno. Se le agenzie di rating passano da giudizi strettamente economici a giudizi prevalentemente politici come è avvenuto l'altro ieri, le regole non valgono più ma in compenso l'oggettività del giudizio economico diminuisce di altrettanto.
Se l'onorevole Di Pietro e il senatore Bossi reclamano elezioni a primavera nessuno può né deve metter loro il bavaglio ma ogni persona sensata e consapevole del fatto che durante tutto l'anno ci saranno in Europa 1200 miliardi di titoli pubblici in scadenza non può che giudicarli demagoghi pericolosi o personaggi fuori di testa. Analogo giudizio daranno i mercati se le agenzie di rating attaccheranno l'esistenza d'una moneta e le politiche di un intero continente anziché dimostrare la fragilità dei suoi "fondamentali".
Da questo punto di vista la Merkel è sulla buona strada quando dice  -  come ha dichiarato ieri  -  che il Fondo di intervento sui debiti sovrani opererà comunque, anche se non otterrà la tripla A dalle agenzie di rating e Draghi ha fatto benissimo a mantenere inalterato il valore dei collaterali di garanzia ai prestiti della Bce anche se composti da titoli di debiti svalutati da quelle agenzie.

* * *

Abbiamo già osservato che il downgrade di Standard&Poor's ha rafforzato la statura di Monti e del suo governo. Soprattutto gli ha dato ottime carte da giocare nei prossimi incontri trilaterali e alla riunione del vertice europeo di fine gennaio. Ma ha rafforzato il governo anche di fronte alle forze politiche e a quelle sociali.
Il programma di liberalizzazioni sarà varato tra pochissimi giorni. Ha già il pieno favore del Pd e del Terzo Polo. Il Pdl manifesta alcune incertezze e le maschera dietro la distinzione tra poteri forti da liberalizzare e poteri deboli (leggi tassisti ed altri) da risparmiare o postergare. La risposta di Monti è ineccepibile: le liberalizzazioni riguarderanno tutte le categorie, poteri forti e poteri diffusi. Tutti nello stesso decreto.
Osservo dal canto mio che i tassisti sono un potere diffuso ma non un potere debole. Come lo sono i camionisti. Come lo sono gli allevatori di mucche inadempienti alle regole comunitarie. Chiamarli poteri deboli è un errore lessicale e alquanto demagogico. Ci sono certamente alcuni punti sostenuti da queste categorie che vanno risolti con equità a cominciare da quello che riguarda le vecchie licenze dei tassisti. Per il resto, il trasporto urbano è un pubblico servizio e va regolato a vantaggio dei consumatori, altrimenti che servizio pubblico sarebbe?
Farmacie, notai, ordini professionali, vanno tutti ripensati alla luce del concetto di tutela della concorrenza. Così sembra formulato il decreto che sta per essere emesso. Gli ordini non vanno aboliti ma debbono avere un solo e fondamentale obiettivo: essere i custodi del canone etico e deontologico degli associati. Gli ordini non sono un sindacato, perciò non possono occuparsi di tariffe e di altre questioni economiche. Debbono occuparsi dell'etica e lo debbono fare nell'interesse della società civile per la quale l'esistenza degli ordini deve essere una garanzia di professionalità dei loro aderenti.

* * *

Il referendum è stato respinto dalla Corte costituzionale. Era previsto e prevedibile. Una democrazia parlamentare non può restare priva di una legge elettorale neppure per un minuto. Il nostro istituto referendario è abrogativo e non propositivo. I referendum elettorali andrebbero dunque esclusi come lo sono quelli relativi ai trattati internazionali e alle leggi di imposta. Questa disposizione non fu messa in costituzione affinché fosse possibile anche un referendum elettorale quando si limiti ad abrogare qualche parola o qualche comma da una legge elettiva esistente trasformandola in una nuova legge attraverso l'istituto referendario. Nel nostro caso però il secondo quesito effettuava sulla legge esistente un'operazione chirurgica di tale complessità da non configurare una nuova legge attuabile e per questo è stato respinto come il primo quesito che si limitava alla richiesta di un'abrogazione pura e semplice.

Si può criticare nel merito la sentenza ma non si può accusare la Corte d'essere diventata un organo politico e fazioso, per di più alle dipendenze del Capo dello Stato. Da questo punto di vista personaggi come Di Pietro e alcuni editorialisti qualunquisti meritano d'esser considerati demagoghi e politicamente scorretti. Hanno evidentemente un disperato bisogno di "audience" e quindi di avere sempre e comunque un nemico sul quale sparare. Prima avevano Berlusconi, adesso Monti e Napolitano. Ed anche il Partito democratico. Usano un fucile a due canne con il quale dirigono i colpi su un duplice obiettivo nella speranza di mantenere e magari di estendere il consenso di un'opinione pubblica dominata dall'emotività e dall'incostanza.
La parola "casta" è così entrata nel lessico qualunquista ed è stata largamente applicata anche per quanto ha riguardato la votazione della Camera sul caso Cosentino. Quella votazione, come hanno detto giustamente Bersani e Casini, è stata una sorta di suicidio parlamentare. Ma chi ha compiuto quel suicidio e ha lavorato per ottenere quel voto? Il Pdl e la Lega di Bossi (non quella di Maroni). Pd e Terzo Polo hanno votato in massa per l'arresto di Cosentino (285 voti su 295). Dov'è dunque il voto di casta? Perché blaterano contro la politica invece di individuare i comportamenti dei singoli parlamentari e dei singoli partiti? Questo è l'opposto della ricerca della verità e come tale va condannato.

Noi siamo favorevoli alle verità scomode ma contrari alle comode bugie. Trentasei anni di storia di questo giornale (l'anniversario era ieri) lo dimostrano ampiamente.


Post scriptum. Anche se ci hanno messo una pezza a colore nelle ultime ore, la spaccatura tra la Lega di Bossi e quella di Maroni è il fatto di maggiore importanza nella politica dei partiti. È un movimento democratico quello in cui il segretario impedisce con una pubblica deliberazione ad un esponente storico di quel partito di intervenire nel dibattito congressuale? Sembra la Corea del Nord. Ed hanno l'ardire di ridurre il grande Nord italiano alla loro miserabile Padania?

(15 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #337 inserito:: Gennaio 19, 2012, 05:03:34 pm »

Come si declina la parola libertà

di Eugenio Scalfari

Liberale, liberal, liberista, libertario: ogni definizione si adatta a modi di pensare molto diversi tra loro.

E i personaggi che ne sono simbolo lo dimostrano. Pertanto non bisogna fare confusione

(16 gennaio 2012)

Nel vocabolario politico italiano ci sono quattro parole apparentemente sinonime ma che sinonime non sono affatto e che generano frequenti confusioni: liberale, "liberal", liberista, libertario. La seconda nel lessico anglosassone coincide con la parola italiana liberale la quale però designa principalmente i moderati nel senso conservatore del termine mentre il "liberal" anglosassone indica piuttosto un liberale progressista, riformista o, se volete, un liberale di sinistra.

Il liberista designa invece un seguace della libertà di mercato e ha quindi un contenuto prevalentemente economico. Infine libertario ha un significato trasgressivo; il libertarismo è un'ideologia che esalta la trasgressione provocatoria come atto fondativo di nuovi diritti civili ancora non riconosciuti dalla società e quindi privi di tutela giuridica ma meritevoli di ottenerla al più presto.

Ciascuna di queste quattro parole fu fatta propria da personalità rilevanti nella storia delle idee nell'Italia del Novecento. Vale la pena di nominarli per renderne ancora più chiari i significati.

Benedetto Croce fu nella storia delle idee il liberale per eccellenza, pose la libertà al centro della storia del mondo, principio animatore di ogni evoluzione, forza attiva e insopprimibile la cui assenza provocherebbe una regressione della nostra specie al livello animalesco dal quale l'"homo sapiens" emerse nelle nebbie della preistoria.

Luigi Einaudi personificò il liberista accentuando l'aspetto economico che Croce aveva trascurato e teorizzando che i due termini non sopportano d'essere dissociati: un liberale non liberista secondo Einaudi non poteva essere neppure concepito. Purtroppo sono invece storicamente esistiti molti liberisti non liberali. Einaudi ne era perfettamente consapevole tant'è che pose rimedio a quell'aspetto del suo liberismo qualificandolo con il corollario della eguaglianza dei punti di partenza e con una imposta successoria che avocasse allo Stato una parte del patrimonio ereditario. In sostanza l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge veniva, nel sistema di pensiero einaudiano, affiancata dall'eguaglianza dei cittadini di fronte al mercato.

I "liberal" nella storia politica del Novecento furono impersonati da quel gruppo di intellettuali che dettero vita al movimento Giustizia e Libertà e alla sua variante di "liberal-socialisti". Ricordiamo i fratelli Rosselli, Guido Calogero, Omodeo, Ugo La Malfa, il gruppo del "Mondo" di Mario Pannunzio e di Nicolò Carandini e - prima ancora - Salvemini, Giustino Fortunato e De Viti De Marco.

Quanto ai libertari, il nome più adatto a rappresentarli nella politica recente è stato quello di Marco Pannella e del Partito radicale. Ma nuovi esempi di massa si ravvisano ora nei movimenti rivoluzionari in corso in Medio Oriente e nei Paesi del Maghreb, negli "indignados" europei e in "Occupy Wall Street" americani. Un precedente novecentesco fu quello dei "Figli dei fiori" e il movimento studentesco del Sessantotto.

Lo spunto per chiarire quelle quattro parole mi è venuto qualche giorno fa leggendo su "Repubblica" un articolo di Alessandro De Nicola del quale conosco i pregevoli studi sul tema del liberalismo e della democrazia, applicati all'attualità della situazione politica italiana. Con tutta la buona volontà, non ho capito a quale delle definizioni qui esaminate possa ascriversi De Nicola. Certamente non è un libertario. Non direi che sia un "liberal". Sicuramente è un liberista ma non mi sembra che segua l'Einaudi della politica sociale. Croce era un liberale storicista e quindi continuamente in divenire.

Forse De Nicola è un liberista fondamentalista, ma possono stare insieme quei due termini? Mi farebbe piacere che De Nicola si definisse da sé, sarebbe un utile contributo a questa discussione.

 
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« Risposta #338 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:10:13 am »

IL COMMENTO

I nostri benefici imprigionati nella rete delle lobby

di EUGENIO SCALFARI


Il decreto "salva Italia", ormai diventato legge, suscitò molte critiche, soprattutto a causa della riforma delle pensioni che creava sofferenza ma aboliva anche diseguaglianze notevoli tra quanti godevano ancora del privilegio del sistema retributivo e quanti (i più giovani) erano già passati al sistema contributivo.
Ma l'opposizione alla grandinata di tasse, necessaria per evitare lo sfascio dei conti pubblici, non è paragonabile all'ondata di recriminazioni, contestazioni, scioperi, blocchi stradali, riserve da parte delle forze politiche (del Pdl soprattutto), manifestazioni di "indignati". Scioperano i tassisti, i camionisti, i pescatori siciliani, i farmacisti, i benzinai, gli avvocati; in Sicilia la protesta ha paralizzato l'isola intera ed ha inalberato addirittura la bandiera separatista della Trinacria. Solo adesso si intravede qualche segnale di resipiscenza.

Era prevedibile, il nostro è il Paese corporativo per eccellenza, tutti i tentativi di introdurre qualche modesta liberalizzazione sono puntualmente falliti contro la muraglia delle lobbies. Ma questa volta è diverso, non a caso Monti è stato per anni commissario alla concorrenza nella Commissione di Bruxelles, dove ha ingaggiato memorabili battaglie contro il potere monopolistico di alcune potenti multinazionali.
Il decreto varato l'altro ieri ha uno spessore politico che va molto al di là dei singoli provvedimenti, configura una politica economica che ha come obiettivo la crescita dell'economia, della produttività,
dell'iniziativa individuale e lo smantellamento delle clientele lobbistiche. Un programma di lunga lena di cui il decreto rappresenta solo il primo passo al quale altri seguiranno come lo stesso Monti ha preannunciato.

I beneficiari saranno i consumatori, le famiglie, i giovani e la crescita nel suo complesso perché gli effetti della concorrenza premiano il merito e accrescono la competitività del sistema. Ma le resistenze saranno fortissime.

La modernizzazione di un paese appesantito da mali antichi e dall'incombenza di poteri forti - concentrati o diffusi che siano - è impresa necessaria ma difficilissima.
Se i partiti fossero forti e moderni sarebbe spettato a loro realizzare un obiettivo così ambizioso. Invece è toccato a un governo strano, come lo ha battezzato lo stesso Monti, che ha il vantaggio di non doversi cimentare con le elezioni politiche e l'handicap d'essere appoggiato da una maggioranza parlamentare altrettanto strana, tenuta insieme dall'emergenza e dall'attiva presenza del presidente della Repubblica che sta esercitando un ruolo essenziale pur restando rigorosamente nell'ambito delle prerogative che la Costituzione gli riconosce.

Se si dovesse definire con una parola la natura di questo governo, la più sbagliata sarebbe quella finora più usata di governo tecnico. Non significa nulla l'etichetta di tecnico. Questo è un governo riformista e innovatore e proprio per questo più vicino al centro e al centrosinistra, sebbene sia il centro sia il centrosinistra siano riformisti e innovatori solo parzialmente. Quanto al centrodestra, avrebbe voluto esserlo a parole, ma non lo è stato affatto perché il populismo ha soffocato e stravolto il liberismo liberale che fu all'inizio la sua bandiera.

La crisi dei partiti ha fatto il resto. Per avviare un percorso nuovo essi hanno poco tempo a disposizione: undici mesi, perché a gennaio 2013 comincerà la campagna elettorale ed anche il semestre bianco che limita i poteri d'iniziativa del Quirinale.
Undici mesi, nel corso dei quali dovrebbero dar prova d'una rinnovata capacità d'azione varando una nuova legge elettorale e le riforme istituzionali che riguardano il nuovo ruolo del Senato e la diminuzione del numero dei parlamentari. Riusciranno ad adempiere questi compiti?

* * *

Giorgio Napolitano ha incontrato nei giorni scorsi i loro rappresentanti nel tentativo di mobilitarli su questo programma riformatore che è di loro stretta competenza ma, a quanto risulta, sia la riforma del Senato sia lo snellimento del numero dei parlamentari trovano ostacoli pressoché insormontabili.
Maggiori spiragli si sono manifestati per quanto riguarda la riforma della legge elettorale, anche se non sarà facile comporre le divergenze esistenti tra il centro che punta al sistema proporzionale e i due partiti maggiori che preferiscono mantenere il criterio maggioritario.
Il compromesso si potrebbe trovare sulla linea del sistema elettorale tedesco: una soglia del 5 per cento per evitare la frammentazione dei partiti e un doppio sistema di voto affidato per una parte a collegi uninominali e per un'altra parte a liste con sistema proporzionale. L'ideale sarebbe accrescere la quota riservata ai collegi uninominali rispetto alle liste votate col criterio proporzionale. Forse su questo progetto si potrà trovare l'accordo e sarebbe un passo avanti, ma del tutto insufficiente a riannodare il rapporto tra i partiti e il consenso popolare.

Questo rapporto è ormai del tutto inesistente perché i partiti hanno perso da molti anni il loro ruolo di indirizzo e di visione del bene comune da usare come raccordo tra il popolo e le istituzioni. Il nodo da sciogliere è quello che presuppone però il ritiro dei partiti dalle istituzioni. Fu il più importante obiettivo di Enrico Berlinguer quello di porre fine all'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti e il ritorno alla lettera della Costituzione per quanto riguarda la formazione dei governi e la scelta del presidente del Consiglio che la nostra Carta riserva al capo dello Stato.
Ma recuperare il ruolo proprio dei partiti non basta perché le istituzioni sono anche occupate da un'oligarchia annidata nel Consiglio di Stato. Esso accoppia una preziosa funzione giurisdizionale con l'improvvida prassi di fornire ai governi lo stuolo dei capi di gabinetto e dei dirigenti degli uffici legali ministeriali, realizzando in tal modo un gigantesco conflitto di interessi dove i controllori appartengono allo stesso organismo dei controllati col risultato di un gretto conservatorismo e di molteplici benefici clientelari. Neppure l'attuale governo è sfuggito a questa malformazione nella sfera dei sottosegretari e dei capi di gabinetto, mentre ha evitato l'occupazione da parte dei partiti.

Queste sono le vere innovazioni all'insegna del buon governo. Quello di Monti, per come è stato nominato dal capo dello Stato, sta dando dimostrazione di una nuova qualità che dovrà essere preservata anche in futuro e dalla quale deriva un rafforzamento dell'autonomia del Parlamento rispetto ad un potere esecutivo di carattere istituzionale. Preservare ed anzi rafforzare la separazione dei poteri: questo è l'obiettivo da perseguire ed è da esso che deriva anche il recupero di dignità dei partiti e il loro insostituibile ruolo. L'antipolitica e il qualunquismo dilagante si combattono soltanto così.

* * *

Nel frattempo e nonostante il brutale declassamento che l'agenzia di rating Standard & Poor's ha effettuato all'intera Eurolandia, i mercati sono orientati da qualche giorno in positivo: le Borse sono in rialzo, i titoli bancari anche, lo spread rispetto ai Bund della Germania è in calo e così pure i rendimenti, soprattutto quelli dei titoli pubblici a breve e media durata.
Questi andamenti favorevoli hanno coinciso con i messaggi negativi delle agenzie di rating, con le previsioni sull'aggravarsi del ciclo e con il persistere della politica rigorista del governo tedesco. Come si spiega questa contraddizione tra le previsioni pessimistiche di alcuni dati e il comportamento ottimistico dei mercati?
Vari elementi hanno contribuito al capovolgimento delle aspettative. Elenchiamone alcuni: il miglioramento della domanda interna e la creazione di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti, la fondata previsione d'un accordo sul debito greco tra il governo di Atene e le banche europee interessate, la straordinaria "performance" del governo Monti e soprattutto la politica monetaria della Bce.

Erano state fatte molte riserve critiche sugli interventi di Draghi in materia di liquidità. Si era ironizzato sul quel bazooka dei prestiti triennali di volume illimitato al tasso dell'1 per cento, che si era trasformato (così sembrava) in un boomerang, visto che le banche europee avevano prelevato 500 miliardi dallo sportello della Bce e li avevano quasi tutti ridepositati nella stessa Bce.
Bazooka potenziale, boomerang effettivo, questo era il giudizio. Abbiamo più volte affrontato questo tema spiegandone le caratteristiche e l'ovvia gradualità della messa in atto. Ora se ne cominciano a vedere i risultati: la Bce ha accresciuto i suoi interventi sui mercati "secondari" dei titoli pubblici, le banche hanno ricominciato a frequentare le aste dei debiti sovrani, si sta rianimando il flusso del mercato interbancario, si sta anche rianimando il flusso dei prestiti alla clientela sebbene la richiesta di tali prestiti sia ancora piuttosto esile a causa della stagnante domanda interna.

Le prime vere somme sull'esito di questa operazione le avremo dalle prossime aste europee di febbraio e marzo. Al secondo sportello che la Bce aprirà in febbraio per i prestiti triennali, le prenotazioni delle banche europee sono raddoppiate rispetto a quelle dello scorso dicembre. Questo è il modo con cui la Bce sta perseguendo il risultato di garantire indirettamente i debiti sovrani europei e questa è anche la ragione per cui Monti non insiste - per ora - sul ruolo della Banca centrale e sulla creazione degli eurobond. La Germania sa che l'approdo dovrà esser questo ma per ora lo esclude perché la Merkel non vuole mettersi in rotta con la sua opinione pubblica in vista delle elezioni politiche. Monti sta al gioco. L'uno e l'altra fanno affidamento sul bazooka di Draghi.

* * *

C'è un'ultima questione della quale è bene far memoria al nostro governo. Abbiamo già detto dello spessore politico delle liberalizzazioni, ma il loro effetto sull'economia si avrà dopo un certo tempo. Il rilancio della domanda interna e la creazione di nuovi posti di lavoro sono però obiettivi che richiedono interventi immediati.
Un primo effetto si è già avuto per merito dei ministri Passera e Barca: lo smobilizzo di 5,5 miliardi per la realizzazione di opere pubbliche, dalla linea C della metropolitana di Roma alla ferrovia Napoli-Bari-Lecce-Taranto, a quella Salerno-Reggio Calabria, a quella Potenza-Foggia. Oltre a questi lavori sono stati stanziati 680 milioni contro le frane di fango e 550 per l'edilizia scolastica.
Ottime iniziative, ma insufficienti. Ci vuole ora con la massima urgenza una robusta esenzione fiscale a favore dei redditi medio-bassi, destinando a copertura le somme che saranno ricavate dalla spending review che dovrebbe esser pronta a marzo.
Nella settimana che inizia domani si aprirà il negoziato sul lavoro, il nuovo contratto di apprendistato e la nuova scala di ammortizzatori sociali. L'articolo 18 per ora resterà come è.
Berlusconi l'altro ieri ha detto che questo governo non ha dato alcun frutto e che forse gli italiani stanno pensando di richiamare lui in servizio. Era una battuta, lo si è capito dal tono scherzoso, ma i giornali di famiglia, e non soltanto loro, l'hanno presa sul serio. Peccato, perché come battuta fa ridere ma se non lo fosse stimolerebbe serie riflessioni sullo stato mentale del suo autore.

(22 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #339 inserito:: Gennaio 29, 2012, 11:52:34 pm »

L'EDITORIALE

Una lettera per la Camusso che viene da lontano

EUGENIO SCALFARI

Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l'obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea.

La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d'una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.
I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti.  Sono sciocchezze perché in un'economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall'altra.
Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell'occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l'assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.

Alla base di tutto però c'è il problema dello sviluppo. Se l'economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio "particulare" in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un'alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell'avviare un'intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.

Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.

* * *
Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l'ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d'una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse.
 
Lama parlava in quell'intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.
Quella stessa Federazione fu poi l'elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei "servizi deviati" che facevano capo a Gladio e alla P2.

Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l'altra politica.
Chiedevano, e nell'intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.

Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell'82 e nell'84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell'84 la Federazione si ruppe. D'altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l'urto delle nuove tecnologie produttive e dell'economia globalizzata e finanziarizzata.

Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo   -   già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani   -   di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall'emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d'interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi. L'emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l'interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell'intervista sopracitata) che anteponga l'interesse generale del Paese al "particulare" delle singole categorie.

Perciò l'intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d'interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune.

Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli elementi strutturali dell'economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. "No taxation without representation", questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d'una società come la nostra dove l'85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell'Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati.

I principali interessati al rinnovamento del Paese  -  ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato  -  sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l'interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l'equità impedisca la macelleria sociale.

* * *
La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l'agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l'avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l'Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l'Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch'essi inesistenti dell'immensa platea dei migranti. Ecco perché l'agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall'emergenza e dalla necessità di farvi fronte.

Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell'economia italiana. Dipende dall'Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo.

La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d'un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.
Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l'avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l'ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.
 

(29 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #340 inserito:: Gennaio 30, 2012, 04:10:08 pm »

ADDIO A OSCAR LUIGI SCALFARO

Il galantuomo e il cavaliere

di EUGENIO SCALFARI

Il galantuomo e il cavaliere Oscar Luigi Scalfaro (lapresse)
NON ERA un uomo delle istituzioni ma un uomo politico prestato alle istituzioni. In questo tratto della sua biografia Oscar Luigi Scalfaro somigliava più a Napolitano che a Ciampi.

Anche Napolitano infatti è stato per molti anni un uomo di partito, un dirigente politico, ma nella seconda parte della sua vita emerse una vocazione che fino ad allora era rimasta sopita e le istituzioni, sia a Roma sia a Bruxelles, diventarono per lui una condizione molto importante. Forse fu il suo modo di superare l'esperienza comunista senza tuttavia rinnegarla.

Scalfaro non aveva nulla da superare se non un episodio di intemperanza che per molti anni lo perseguitò: il preteso schiaffo che aveva dato ad una giovane signora incontrata in un ristorante e abbigliata in modo troppo audace, che aveva scandalizzato il cattolico magistrato (allora era quella la sua professione). Nel suo racconto non ci fu nessuno schiaffo ma un diverbio sì. Quando molti anni dopo ne parlammo insieme, lui ancora si rimproverava d'essere andato oltre la giusta misura.

La nostra amicizia cominciò in occasione d'un dibattito parlamentare sul tema del Concordato. Avvenne nei primi mesi del 1971, eravamo tutti e due deputati (ma lui da molto più tempo) e partecipammo a quel dibattito che la presidenza della Camera aveva indetto in vista d'una riforma dei Patti Lateranensi stipulati nel 1929 in epoca fascista.

Scalfaro indicò nel suo intervento le linee della possibile riforma; seguirono altri discorsi e poi venne il mio turno. Alla
fine del mio intervento ci fu un solo applauso: era lui, il cattolico per eccellenza, che applaudiva un discorso anticoncordatario. La mia tesi era infatti l'abolizione di quel trattato e la rigorosa applicazione del principio cavouriano della libera Chiesa in libero Stato.

Scalfaro s'era alzato dal suo seggio e veniva verso di me battendo ancora le mani. Gli andai incontro e mi spiegò che se avessi fatto un discorso anticlericale l'avrebbe aspramente criticato; avevo invece sostenuto che la Chiesa doveva esser libera di diffondere i suoi principi nello spazio pubblico che la democrazia riserva a tutti.

"Lo Stato democratico è laico" mi disse "e può decidere di accordarsi con la Chiesa su alcune modalità di comune convenienza oppure distinguere nettamente le rispettive sfere di competenza garantendo la libertà religiosa. Oggi noi due abbiamo rappresentato con chiarezza queste alternative e questo è il compito del Parlamento".

Ho citato questo lontano episodio perché mi dette la misura del rapporto che un cattolico politicamente impegnato deve avere con la religione. Quando Scalfaro diventò presidente della Repubblica ebbe naturalmente rapporti frequenti con il Papa e furono cordiali e rispettosi da ambo le parti.

Ma i suoi furono più rispettosi che cordiali perché tanto più viveva la sua intima religiosità tanto più sentiva di dover rappresentare anche nella forma e nel cerimoniale lo Stato laico del quale era il più alto rappresentante. L'ho sempre ammirato per questo.

* * * *

Il tratto saliente della sua biografia politica riguarda tuttavia il suo rapporto dialettico con Silvio Berlusconi. Scalfaro fu eletto al Quirinale nel 1992 e fu sostituito da Ciampi nel '99. Attraversò dunque tutta la stagione di "Mani pulite", il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica e il debutto politico di Berlusconi e di Forza Italia. Tenne a battesimo il suo primo governo che durò pochi mesi. Poi venne la rottura con la Lega, il governo Dini con caratteristiche istituzionali, infine il governo Prodi e il rilancio del centrosinistra. Il suo settennato arrivò al termine in coincidenza con il governo D'Alema.

Nei cinque anni di convivenza con il populismo berlusconiano rifulsero le capacità politiche di Scalfaro e insieme la piena consapevolezza dei limiti che la Costituzione poneva al suo ruolo. Rispettò quei limiti con estremo rigore ma con lo stesso rigore difese ed esercitò le sue prerogative.

Quando Berlusconi dovette dimettersi perché sfiduciato dalla Lega, il partito di Forza Italia chiese lo scioglimento delle Camere. Scalfaro obiettò che non poteva richiamare alle urne gli italiani senza aver prima verificato se esistesse una soluzione alternativa. Ci fu un'accesa contestazione su questo punto ma il Quirinale non cedette. Fece tuttavia un gesto di cortesia e anche di saggezza politica: chiese a Berlusconi di designare lui il nome del suo successore, chiarendo al tempo stesso che si sarebbe trattato d'un governo istituzionale necessario per decantare la situazione e poi tornare a interpellare il popolo sovrano.

Fu Berlusconi a indicare Dini che era stato fino ad allora il suo ministro del Tesoro. Dini accettò e formò un governo che non aveva una maggioranza precostituita ma aveva alle spalle il Quirinale e funzionò benissimo alimentando però un'antipatia non solo politica ma anche personale di Berlusconi nei confronti del presidente della Repubblica.

Va ricordato che Scalfaro si tenne sempre nei limiti delle sue prerogative e reagì alle contumelie che gli venivano scagliate contro solo quando esse divennero una vera e propria aggressione alla vita privata sua e della sua famiglia, tirando in ballo anche la magistratura.

Ricordo anche che fu lui, d'accordo con l'allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, a chiamare Ciampi e nominarlo capo del governo. Era il 1993; qualcosa di molto simile è avvenuto diciannove anni dopo quando nel novembre scorso Napolitano ha nominato Monti a Palazzo Chigi.

Infine un ultimo ricordo privato. Nel 1996, pochi mesi dopo le mie dimissioni dalla direzione di Repubblica, Scalfaro mi nominò Cavaliere di Gran Croce. Ci fu una piccola cerimonia nella Sala della Vetrata al Quirinale e io gli dissi scherzando che con quella onorificenza diventavano cugini poiché era quello il cerimoniale dei Cavalieri dell'Annunziata ai tempi della monarchia.

Mi rispose: "Ma noi cugini lo siamo già. Ho fatto delle ricerche in proposito perché i miei genitori erano di origini calabresi. Scalfaro e Scalfari provengono da un unico ceppo. Siamo cugini in trentesimo grado". Ci abbracciammo ridendo e da allora la nostra amicizia è diventata ancora più stretta.

L'Italia saluterà oggi a Santa Maria in Trastevere uno dei grandi servitori dello Stato. Anch'io ci sarò a dolermi della sua scomparsa e ad onorare la sua memoria.

(30 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #341 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:29:14 pm »

IL DIBATTITO

Se il sindacato intonasse la marsigliese

di EUGENIO SCALFARI


MI ASPETTAVO una risposta di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, al mio articolo di domenica che si apriva con una lunga citazione da un'intervista che Luciano Lama ci dette nel gennaio del 1978. Me l'aspettavo e la ringrazio vivamente di avercela inviata. Avevo anche deciso che non l'avrei commentata poiché speravo che  -  pure ribadendo i punti di vista del sindacato da far valere al tavolo del negoziato con il governo  -  avrebbe dimostrato d'aver capito quale sia la situazione attuale nella quale si trova l'economia dell'Italia, dell'Europa e di tutto l'Occidente
 
L'intervista con Lama da me citata poteva essere di grande insegnamento: un dirigente sindacale metteva l'interesse generale al di sopra del pur legittimo "particulare" e faceva diventare il sindacato un protagonista attraverso una politica di sacrifici che andavano dalla licenziabilità alla moderazione sindacale, alla riduzione della cassa integrazione, con la principale finalità di far diminuire la disoccupazione e aprire l'occupazione alle nuove leve giovanili.

Purtroppo non ho trovato, nella risposta della Camusso, l'intelligenza politica che in altre recenti circostanze aveva dimostrato.

È possibile che la sua rigidità su tutti i piani della discussione sia una tattica negoziale, ma temo di no. La Camusso sa che il governo tenterà di arrivare a un accordo, ma se la controparte sindacale dicesse no su tutti i punti, andrà avanti comunque perché la riforma del mercato del lavoro è un tassello essenziale del mosaico che il governo sta componendo.

Ogni tattica negoziale è quindi inutile, il tempo a disposizione è limitato, la crisi e la recessione sono ancora tutt'altro che domate. Non di tattica sindacalese c'è bisogno, ma di strategia politica e realistica. Perciò risponderò alla lettera del segretario della Cgil; servirà almeno a chiarire alcuni aspetti del problema che mi sembra siano sfuggiti alla sua attenzione. La Camusso sostiene che l'elemento dominante della crisi sta nell'occupazione precaria e nella disoccupazione.

Che il precariato sia un fenomeno deprecabile che va affrontato con energia e priorità è una verità ammessa da tutti. Il governo Prodi del 2007 lo poneva al primo posto del suo programma, anche se non riuscì a ottenere alcun risultato: era un governo con due voti di maggioranza e poteva far ben poco. Ma il governo Prodi del 1996, che aveva ben altra forza politica, fu quello che introdusse la flessibilità del lavoro con i provvedimenti caldeggiati dal ministro Treu.

Dunque il precariato è un male, la flessibilità un bene in un'economia aperta e globalizzata. Il Lama del '78 già lo diceva a chiare lettere, era uno dei punti essenziali dell'intervista da me citata.

Il precariato non si sconfigge abolendo la flessibilità perché la flessibilità, se è ben strutturata attraverso una riforma dei contratti, rappresenta l'alternativa al precariato. La Camusso dovrebbe saperlo e aprirsi a questo discorso, non arroccarsi.

Ma se è vero che il precariato è un male (ed è certamente vero) non è invece vero che il precariato sia la causa della crisi. Qui la Camusso sbaglia radicalmente. Il precariato e la disoccupazione sono gli effetti della crisi insieme alla recessione e alla "stagflation", ma le cause sono del tutto diverse.

Le cause sono l'esplosione del debito, la finanziarizzazione dell'economia. L'emergere di nuovi attori nell'economia mondiale e la legge dei vasi comunicanti che la globalizzazione ha reso effettiva.

Dice la Camusso che il mondo attuale è molto cambiato rispetto a quello di Lama. L'ho detto anch'io domenica scorsa e del resto è ovvio che sia cambiato, ma in che modo è cambiato? Nella divisione internazionale del lavoro, nell'inesistenza dei diritti sindacali nei Paesi nostri concorrenti, nell'inesistenza dei diritti di cittadinanza in quegli stessi Paesi, nella povertà di milioni e milioni di persone nell'Africa centrale e settentrionale, decisi ad affrontare la morte pur di sbarcare sulle sponde mediterranee dell'Europa opulenta.

I lavoratori e le imprese europee (e italiane) debbono fronteggiare le esportazioni cinesi, coreane, indonesiane, prodotte a costi molto più bassi dei nostri e non si tratta più di pigiamini di seta o di chincaglieria di varia amenità, ma di alte tecnologie dove l'invenzione si accoppia con bassissimi costi della manodopera. Come si impedisce in un'economia aperta una concorrenza di questa natura? Con i dazi? La Camusso pensa di blindare l'Europa (e l'Italia) con una impenetrabile cinta di protezionismo? E come pensa che quei Paesi reagirebbero se non rispondendo in egual modo alle nostre esportazioni? Come pensa di fermare la de-localizzazione delle imprese italiane che hanno convenienza a portare all'estero interi settori delle loro lavorazioni? L'esempio di Marchionne non insegna nulla? Vuole la Camusso generalizzare al sistema Italia la politica ideologico-sindacale della Fiom?

Difendere i diritti sindacali è sacrosanto, dare battaglia per i diritti di rappresentanza anche ai sindacati che non hanno firmato i contratti è più che giusto, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà è una sciagura.
Quanto al debito, è un dato di fatto che i suoi nodi vengano inevitabilmente al pettine dopo una o due generazioni ed è quanto sta accadendo. La recessione - come il precariato - non è causa della crisi ma effetto. Se la fiducia scompare non è colpa della speculazione. La speculazione, gentile Susanna, gioca indifferentemente al rialzo come al ribasso. Se scompare la fiducia gioca al ribasso e finché la fiducia non torna il ribasso ha la meglio.

Il ribasso ha come effetto un costo del debito insostenibile. Lei, cara Camusso, sostiene che i lavoratori hanno già dato. E le famiglie che hanno investito in titoli del debito pubblico italiano come pensa che stiano? Il 17 per cento di quel debito pubblico è posseduto da privati cittadini italiani, il 40 per cento da banche italiane. Lei pensa che con queste cifre si possa scherzare?

Nel 1978, quando Lama proponeva ai lavoratori una politica di austerità e sacrifici, la situazione era certamente diversa; allora la Cina e le "tigri asiatiche" erano ancora addormentate. L'economia italiana non aveva problemi di questa portata. Eppure Lama riteneva che solo con una politica di sacrifici la classe operaia poteva aspirare alla guida morale e politica della società italiana.

Oggi si tratta di salvare il salvabile e di far valere il principio dei vasi comunicanti anche all'interno della nostra società.

Concordo pienamente con Lei, cara Camusso, sulla necessità di combattere le disuguaglianze. Questo nostro giornale ha fatto di questo tema uno dei punti essenziali del nostro discorso con la pubblica opinione. Libertà ed eguaglianza.

Con cautela. La libertà ha bisogno di regole, l'eguaglianza significa aprire al merito a pari condizioni di partenza.
Questa è la società aperta, con un fisco che redistribuisca il benessere con equità. Ma produrre benessere oggi è più difficile di prima e la libertà è l'altro principio fondamentale affinché il benessere sia prodotto.

Personalmente non mi sono mai commosso quando sentivo cantare Bandiera rossa, ma quando ascoltavo la Marsigliese, allora sì, sentivo qualcosa che si agitava nel mio animo.

Fu l'inno che celebrava i tre grandi principi dell'Europa moderna: libertà, eguaglianza, fraternità. Se il sindacato dei lavoratori li facesse propri, potrebbe ancora ridiventare (lo fu per molti anni) il protagonista della nuova modernità sapendo però che non si tratta d'un protagonismo indolore.

Lei parla d'una dose massiccia di intervento pubblico in economia. Ci vuole sicuramente l'intervento pubblico ma non è mai a costo zero. Bisogna che ci siano risorse. Bisogna che ci siano anche per una nuova ed efficiente architettura degli ammortizzatori sociali. La lotta all'evasione può dare risorse e può far diminuire la pressione fiscale. Le altre risorse possono derivare dalla lotta agli sprechi e ai privilegi.

Questo governo è impegnato al raggiungimento di questi obiettivi. La riforma del mercato del lavoro fa parte di questa strategia e non può esser fatta se non col vostro aiuto che, a mio modo di vedere, può esser dato con l'intento di farvi carico dell'interesse generale entro il quale la coesione sociale e il rispetto dei diritti dei lavoratori sono legittimi obiettivi.

"No taxation without representation" ma "no representation without taxation". Non è una metafora ma la realtà e scacciare dalla porta la realtà è impossibile perché rientrerà inevitabilmente dalla finestra. Luciano Lama questo l'aveva capito.


(31 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #342 inserito:: Febbraio 04, 2012, 11:52:37 am »

Opinione

Il tempo coincide con la vita

di Eugenio Scalfari

La fisica e la filosofia si interrogano sulla possibilità di viaggiare nel passato e nel futuro.

Ma sono i fatti a scandire l'esistenza: si rinnovano di continuo e di continuo muoiono

(26 gennaio 2012)

Quando si parla di un viaggio va da sé che esso avviene nello spazio. Ma si può viaggiare anche nel tempo? Cioè andare su e giù dal presente al futuro e dal presente al passato? Con l'immaginazione e con la memoria sì, questo è possibile ed è possibile anche con i sogni, quando la mente esce dai suoi parametri abituali e dalle dimensioni entro le quali si svolge il pensiero e vagola su praterie prive di sentieri e di punti d'orientamento.
Nei sogni non esiste l'impossibile, non esiste la connessione tra causa ed effetto, non esiste la forza di gravitazione, sicché muoversi nel futuro e nel passato come se questi movimenti fossero reali è una delle caratteristiche dello stato sognante. O della follia.

Muoversi invece nel futuro con l'immaginazione e nel passato con la memoria fa parte delle nostre facoltà naturali. Il futuro si può progettare e dentro certi limiti prevedere; il passato si può rievocare con un'avvertenza tuttavia: sia i progetti futuribili sia le rievocazioni del passato presuppongono la nostra condizione radicata nel presente. Guardiamo il futuro con i nostri occhi di oggi e gli occhi di oggi rievocano il passato; ciascuna mente pensante immagina e rievoca a suo modo ed è dunque il presente a plasmare i fatti avvenuti e quelli che avverranno a misura delle proprie aspettative.

La filosofia, da Nietzsche in poi, ha elaborato il percorso conoscitivo sulla base delle interpretazioni. La scienza ha seguito una strada diversa fondata sulla matematica, che ha trovato la sua teorizzazione un secolo fa nella relatività di Albert Einstein e un arricchimento ulteriore nella meccanica quantistica.
Ho pensato di dedicare la pagina che state leggendo a questi brevi cenni al viaggio nel tempo perché il tema è ridiventato attuale a causa delle ricerche più recenti sulle particelle elementari, sulle stringhe, sulla cosmologia dei buchi neri, sull'entropia e sulle scoperte - ancora allo stato di ipotesi - di una particella capace di viaggiare a una velocità maggiore di quella della luce. Se quest'ultima ipotesi venisse provata il viaggio dei corpi sull'asse del tempo diventerebbe matematicamente possibile, sconvolgendo radicalmente l'architettura della fisica teorica e, alla lunga, le sue applicazioni pratiche.

La fisica teorica confina - e spesso sconfina - con la filosofia e proprio per questo mi ha affascinato fin dalla prima giovinezza. Ma per quanto riguarda il tempo mi sono formato una convinzione molto diversa dalle ipotesi scientifiche delle quali ho fatto cenno. Il tempo è una dimensione essenziale per la nostra mente insieme allo spazio; a queste due dimensioni Einstein ne aggiunse una terza che chiamò spazio-tempo dandone anche una figurazione ottica: affermò che lo spazio-tempo è ricurvo e quindi circolare in tutte e due le dimensioni che lo compongono. Il mondo spazio-temporale, cioè il mondo tridimensionale, ritorna su se stesso e per questa ragione nello spazio-tempo si può viaggiare visto che la fine del percorso coincide con il suo principio. Nietzsche chiamò questo processo l'eterno ritorno. La sua non era una tesi scientifica e neppure filosofica poiché non riuscì a darne una compiuta spiegazione concettuale. Era un'intuizione che definisco artistica, come molte manifestazioni del pensiero nietzschiano. A volte l'arte è lo strumento più penetrante per comprendere o avvicinarsi alla natura dell'Essere.

Ma dicevo dello spazio-tempo. Io credo che siano i fatti a scandirne il movimento. I fatti accadono nello spazio e il tempo scorre attraverso i fatti, gli eventi, ciò che l'Essere getta nell'esistenza. Il tempo scorre dentro l'esistente, il presente è l'attimo istantaneo del futuro che transita sprofondando nel passato. Quando il futuro diventa per un istante attuale e poi si dilegua le schegge dell'essere esistenti nascono e muoiono.

Per ciascuna di quelle schegge il tempo cessa di esistere quando quella scheggia cessa di esistere diventando passato e vivendo soltanto nella memoria altrui finché vi sarà memoria. Voglio dire che il tempo è una dimensione connessa con la vita e non si può dare senza la vita. Ho scritto "connessa" ma avrei forse meglio detto "identificata". La vita e lo spazio-tempo sono elementi che rispecchiano l'esistente, si rinnovano di continuo e di continuo muoiono.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-tempo-coincide-con-la-vita/2172785/18
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« Risposta #343 inserito:: Febbraio 05, 2012, 03:46:36 pm »

L'EDITORIALE

Articolo 18, l'ossessione di governo e sindacati

di EUGENIO SCALFARI

COME in molti temevamo, l'articolo 18 è diventato un'ossessione ideologica sia per il governo sia per i sindacati. Il governo ne fa una condizione preliminare per la riforma del mercato del lavoro: se non si abolisce o almeno non si riscrive togliendo di mezzo l'ipotesi del reintegro dei licenziati, non si potrà migliorare la flessibilità in entrata e in uscita dei posti di lavoro e non si potrà combattere efficacemente il precariato.

I sindacati dal canto loro lo considerano la sola vera protezione dell'occupazione esistente nelle piccole aziende, che sono l'enorme maggioranza dell'economia italiana e quindi si oppongono a qualunque ritocco di quella norma.

Sbagliano sia il governo sia i sindacati. L'articolo 18 non serve infatti a impedire i licenziamenti discriminatori che i giudici possono in ogni caso bloccare ove ne accertino l'esistenza. Ma non impedisce affatto un miglioramento sostanziale della flessibilità e una riforma positiva del mercato del lavoro.

Sembrava fino a pochi giorni fa che Monti e Fornero avessero deciso di accantonare il tema e di procedere allo snellimento dei contratti di lavoro e di normative di contrasto del precariato. Ma ora si sono di nuovo impigliati in questa questione motivando che l'Europa e il mercato chiedono l'abolizione di quella norma. I mercati in realtà dell'articolo 18 se ne fregano, fino a un anno fa lo "spread" oscillava tra i 100 e i 150 punti nonostante che l'articolo 18 fosse in vigore.

Quanto all'Europa (e alla Germania) quella
norma non ha niente a che vedere con il rigore e non è certo essenziale per la crescita per la quale semmai siamo noi in credito sia con l'Europa sia con la Germania.

Monti ha detto - nell'intervista data venerdì al nostro giornale - che i governi precedenti al suo "hanno avuto troppo buon cuore nei confronti degli italiani". Ancora una volta si è espresso in modo improprio come ha fatto riguardo al posto fisso "monotono". Il buon cuore dei precedenti governi sarebbe la causa dell'immenso debito pubblico accumulato negli anni Ottanta e mai affrontato con serietà per ottenerne la diminuzione. È esatto, salvo la notevole riduzione ottenuta da Ciampi e da Prodi che però fu rapidamente dissipata da Berlusconi e Tremonti. Ma l'immenso debito non si può attribuire al buon cuore, bensì alla preferenza di quei governi di scaricare sulle future generazioni l'onere d'un bilancio in pareggio da ottenere attraverso il fisco.

Meglio indebitarsi che tagliare la spesa o far pagare le imposte. Questo non è buon cuore ma furba demagogia.
L'articolo 18 dunque non deriva dal buon cuore di nessuno.

Fu introdotto nello statuto dei lavoratori per tutelare i dipendenti delle piccole imprese dove il sindacato interno non esiste. In tempi duri se ne può discutere purché non diventi un'ossessione né per gli uni né per gli altri.

                                                                  * * *

Il vero tema che riguarda il lavoro è la creazione di nuova occupazione. Per realizzare questo risultato occorre che vi sia un rilancio della domanda interna ed estera.

Quest'ultima dipende dall'andamento dell'economia internazionale e quindi è fuori dal nostro controllo, ma il rilancio di quella interna dipende dalla politica economica e fiscale del governo, dalle imprese e dai sindacati.
Gli ultimi due - sindacati e imprese - possono anzi debbono darsi carico del problema della produttività e della competitività. Il governo dal canto suo deve trovare le risorse per accrescere il potere d'acquisto dei consumatori, senza di che le imprese non sono indotte a investire. Non si investe se i prodotti restano in magazzino.
Il governo ha poi un altro strumento per creare nuovi posti di lavoro: lanciare un piano sostanzioso di lavori pubblici. Esiste una mole enorme di lavori pubblici non solo utili ma necessari: l'edilizia scolastica, l'edilizia carceraria, la modernizzazione delle strutture portuali, quella della rete ferroviaria, gli argini fangosi dei fiumi e dei torrenti, lo "sfasciume pendulo" delle montagne.

Anche qui il problema è quello delle risorse. A costo zero fu il mantra di Tremonti e si è visto dove ci ha portato: all'immobilismo più disastroso.

                                                                 * * *

Ci sono quattro modi per procurare risorse:
1. Tagliare la spesa pubblica dai suoi sprechi dovuti a disorganizzazione e a benefici clientelari.
2. Recuperare i miliardi evasi.
3. Alienare la parte più facilmente vendibile del patrimonio pubblico.
4. Imporre una tassa ai ricchi e sgravare le imposte ai redditi bassi e alle imprese lasciando così invariata la pressione fiscale.

Potenzialmente le cifre in discussione sono molto ingenti, ma per fermare la recessione e volgere in positivo il "trend" dell'economia reale occorre che la loro disponibilità sia utilizzata entro i prossimi mesi e allora le dimensioni si riducono molto. Dall'evasione è realistico aspettarsi quest'anno 15-20 miliardi, altrettanti dalla spending review e altrettanti ancora dalla vendita di beni pubblici.

Dall'utilizzazione immediata e senza alcuna nuova imposta ci si può dunque aspettare 50-60 miliardi.
L'imposta patrimoniale, se riservata alle fasce più elevate di ricchezza, non darebbe un gettito significativo.
Estenderla a fasce più basse è possibile se si tratta d'una patrimoniale ordinaria con aliquota non superiore all'1 per cento, visto che, almeno in parte, il ripristino dell'Ici contiene già un prelievo "progressivo".

Sessanta miliardi utilizzabili costituiscono comunque una massa di manovra non trascurabile. Le condizioni per rilanciare la crescita dunque ci sono, tanto più se alle poste sopra indicate si aggiungano gli introiti derivanti dalla riforma pensionistica e dalle liberalizzazioni, che dovrebbero fornire alcuni effetti già nel 2013.
L'operazione della liquidità attuata dalla Bce sta già producendo i primi benefici e altri ne verranno dal secondo sportello che Draghi ha predisposto per il prossimo febbraio. Si tratta d'un meccanismo di cui beneficiano sia le imprese sia i rendimenti dei titoli di Stato con conseguenze notevoli sull'andamento dell'economia reale e sulle aspettative dei mercati.

                                                                * * *

L'ottimismo è dunque motivato sempre che il governo possa continuare il suo lavoro fino al termine della legislatura.

Personalmente credo che questo avverrà, l'ipotesi che il Pdl venga meno all'impegno assunto non mi sembra realistica.

Esiste tuttavia un problema politico che riguarda i partiti e la loro innegabile crisi. Questo problema ha due aspetti: la legge elettorale e la natura stessa dei partiti che non potrà più essere quella che abbiamo fin qui conosciuto.

I partiti, di fatto, non esistono più. Esistono soltanto sparuti gruppi dirigenti e autoreferenti, che hanno perso ogni contatto col territorio e con gli elettori; una sovrastruttura che conserva un potere parlamentare, circondato però da una generale e crescente disistima che alimenta pericolosi fenomeni di antipolitica, mentre i compiti che si prospettano nella futura legislatura saranno non meno impegnativi di quelli che il governo Monti si è addossato.

Per riguadagnare il terreno che la politica ha perduto a causa dei partiti, diventati gusci vuoti e agenzie di collocamento delle proprie clientele, è dunque necessaria una profonda riflessione autocritica che purtroppo non è neppure cominciata né a destra né a sinistra. Non la sta facendo il Pdl e neppure il Pd. Il centro è più al riparo da quella crisi perché beneficia del fatto di essere un'opzione tra due debolezze ed in più beneficia anche d'una evidente attenzione da parte della Chiesa.

Ma il centro, da solo, cesserebbe di esistere; non a caso ha assunto il nome di Terzo polo che ne presuppone l'esistenza di altri due.

La destra dovrebbe rinascere dalle ceneri del berlusconismo, impresa quanto mai difficile fino a quando il Pdl non imploderà. Prima o poi quell'implosione avverrà perché è scritta nella natura di quel partito, un'accozzaglia di tribù tenute insieme dal populismo del vecchio padre-padrone, ormai finito in una rovina. Ci sarà ben poco di utilizzabile in quella rovina.

Resta il Partito democratico e la sinistra. Bersani, dopo le recenti amministrative e i referendum, ebbe una giusta intuizione: mettere il partito al servizio dei movimenti congeniali con la visione riformista del Pd e chiamarli a manifestare la loro vitalità in occasione delle primarie.

Nel frattempo fare del partito il luogo di dibattito e approfondimento dei temi di fondo: una visione dell'Italia e dell'Europa del futuro, un processo costituente da realizzare nella prossima legislatura, l'avvio della terza Repubblica ridando alla politica la forza propulsiva che ha da tempo e in larga misura smarrito.
Dopo questo governo nulla sarà più come prima. I partiti non si illudano di ricondurre la politica alla partitocrazia della prima Repubblica; si uscirà dal presente guardando al futuro e non tentando di recuperare un passato ormai sepolto per sempre.

Purtroppo questa tentazione esiste e se non sarà debellata porterà altre sciagure. Sta agli uomini di buona volontà far sì che questo non accada.

 
(05 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/05/news/articolo_18_l_ossessione_di_governo_e_sindacati-29360284/?ref=HREC1-22
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« Risposta #344 inserito:: Febbraio 12, 2012, 06:32:41 pm »

L'EDITORIALE

Il paradosso di Atene e le due sedie dell'Europa

di EUGENIO SCALFARI


Ci sono due temi di stringente attualità ai quali voglio oggi dedicare queste mie riflessioni: il probabile fallimento greco e le sue ripercussioni sull'Europa; i partiti e la democrazia italiana dopo Monti (e dopo Napolitano). Al centro di questa tenaglia c'è il paese Italia con i suoi vizi (molti) le sue virtù (poche) le sue contraddizioni (infinite).

Comincio dal primo: il fallimento greco e la sua uscita dall'euro è ritenuto pressoché inevitabile entro il prossimo marzo o al più tardi nel prossimo autunno. La società di quel paese ha dichiarato guerra al governo che ha tentato di attuare il piano di austerità impostogli dall'"Europa tedesca". Inutilmente. L'aumento del debito in rapporto al Pil è alle stelle (180 per cento) e altrettanto alle stelle i rendimenti del debito sovrano che il sistema bancario internazionale giudica ormai carta straccia tanto da accettarne (malvolentieri) una liquidazione solo con uno sconto del 70 per cento.

La situazione si è dunque avvitata e non si avvistano alternative valide, se ne può soltanto prolungare l'agonia.
La cancelliera Merkel ha detto due giorni fa che il fallimento della Grecia avrà rischi incalcolabili sull'Unione. Voce dal sen fuggita, si potrebbe dire, poiché proviene dalla stessa persona che si è finora tenacemente opposta ad adottare la sola misura che poteva mettere al sicuro la Grecia dal trauma e con essa il Portogallo che la segue a ruota e l'Irlanda, per non parlare della Romania e della
Bulgaria: la creazione degli Eurobond e la sostituzione dell'Eurozona nella titolarità dei debiti sovrani dei 17 paesi che ne fanno parte. Una soluzione di questo genere significava la nascita dello Stato federale europeo, almeno per quanto riguarda i paesi che hanno adottato la moneta comune. Ma né la Germania né la Francia sono ancora disposti a questo passo. Il loro obiettivo resta quello d'una Confederazione rafforzata da alcune parziali cessioni di sovranità dagli Stati nazionali: una via di mezzo che significa di fatto sedersi tra due sedie, cioè col sedere per terra.

* * *
Francamente non so valutare se l'economia greca, una volta che sia uscita dall'euro e tornata alla dracma, riuscirà a sopravvivere e perfino a riprendersi. Probabilmente sì, una svalutazione "selvaggia" della dracma, un sostanzioso slancio del turismo, la vendita di alcuni formidabili asset culturali migliorerebbero la situazione patrimoniale. Potrà bastare? Oppure precipiterà il paese in una vera e propria guerra civile e nella sua frantumazione politica e geografica? Le previsioni sono quanto mai azzardate su temi di questa natura.
Meno azzardate sono le previsioni su quanto potrebbe accadere agli altri membri dell'Eurozona, rimasti in 16 o magari in 14 se anche Portogallo e Irlanda arrivassero al "default". Abbiamo già ricordato che la Merkel parla di danni incalcolabili per il resto dell'Eurozona e anzi di tutta l'Unione. Certo non sarebbe una passeggiata amena gestire una crisi di quella natura, non tanto per le dimensioni dei debiti sovrani in questione quanto per il fatto che alcune grandi banche, soprattutto tedesche e francesi, ne possiedono una notevole quantità nei loro portafogli. A loro volta le obbligazioni di quelle banche tedesche e francesi sono in ampia quantità possedute da banche importanti in tutto il mondo.

Insomma, il fallimento di due o tre paesi dell'Eurozona avrebbe ripercussioni molto serie sul sistema bancario internazionale obbligando gli Stati nazionali a nazionalizzare totalmente o parzialmente una parte notevole dei rispettivi sistemi bancari. Con quali strumenti? Stampando moneta attraverso le rispettive Banche centrali: Federal Reserve, Bce, Banca d'Inghilterra, Banca nazionale svizzera e probabilmente anche le Banche centrali della Cina, India, Giappone, Russia.

Gli effetti generali d'un salvataggio bancario di queste dimensioni in tempi di recessione già in corso, ne prolungherebbe la durata producendo al tempo stesso inflazione. Si chiama "stagflation" che è quanto di peggio possa capitare specialmente in Europa e in Usa. Forse la Merkel è questo che aveva in mente. Per farvi fronte l'Europa ha due strade (che sono state indicate nell'articolo del direttore del "Times" che il nostro giornale ha pubblicato venerdì scorso): marciare dritti verso la costituzione d'un vero e proprio Stato federale europeo oppure ritrarsi in una Confederazione europea di libero scambio senza più moneta unica. Due scenari densi d'incognite.

Personalmente continuo ad essere moderatamente ottimista. Credo cioè che l'eventuale crisi bancaria non sarebbe di dimensioni ingestibili; credo che - Grecia a parte - non ci sarebbero altri "default" e credo anche che il fallimento della Grecia produrrebbe un'accelerazione verso un'Europa federale. Credo infine che dal male possa venire un bene e che l'Italia, se Monti potrà proseguire nel suo programma di modernizzazione dello Stato e della società, possa contribuire al bene dell'Europa e al proprio. Probabilmente questi risultati avranno bisogno d'un tempo più ampio che vada oltre la scadenza elettorale del 2013 e questo mi porta ad esaminare il secondo tema di queste riflessioni: la democrazia italiana del dopo-Monti.

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Pensare come alcuni politici italiani ancora pensano, che dopo le elezioni del 2013 tutto torni al "heri dicebamus" è pura follia. La seconda Repubblica è ormai smantellata, la prima è stata sepolta vent'anni fa e non potrà essere resuscitata perché dal 1992 ad oggi l'intera struttura del paese è cambiata e ripristinare la sovrastruttura politica e culturale di allora è manifestamente impossibile. Ci vogliono mutamenti costituzionali e istituzionali, ci vuole una nuova legge elettorale consona, ci vuole soprattutto la rinascita dei partiti che attualmente vivono in uno stato larvale. I partiti come li prevede la Costituzione debbono essere strumenti di elaborazione politica e culturale, portatori d'una visione del bene comune e capaci di raccogliere il consenso degli elettori, cioè la rappresentanza parlamentare, che tuttavia dev'essere anche aperta all'accesso di movimenti e singole persone espressione diretta della società civile.

La legge elettorale costituisce lo strumento che consente la rappresentanza e assicura al tempo stesso la governabilità. Si debbono dunque riformare i partiti anche attraverso l'istituzione delle primarie; si debbono adottare come base elettorale i collegi uninominali, si deve abolire il premio e sostituirlo con un'adeguata soglia di sbarramento per evitare soverchie frantumazioni e improprie alleanze pre-elettorali. Infine si deve impedire che i partiti restino quel che sono e cioè conventicole e consorterie di varia e non sempre esaltante natura.

Le Camere esprimeranno maggioranze e opposizioni. Le maggioranze esprimeranno al Capo dello Stato i valori e gli indirizzi ricevuti dal corpo elettorale ed eserciteranno il doveroso controllo sull'operato del governo. Le opposizioni a loro volta prospetteranno una visione alternativa del bene comune partecipando a pieno titolo al controllo sull'operato del governo e della pubblica amministrazione.

Il finanziamento dei partiti e dei gruppi parlamentari dovrà essere fin d'ora disciplinato in forma idonea; l'argomento fu posto al numero uno del decalogo con il quale il Partito democratico si presentò alle elezioni del 2008 sotto la guida di Veltroni, ma non fu mai concretamente affrontato così come non è stata mai adottata la norma costituzionale che impone una struttura democratica all'interno dei partiti e dei sindacati affidandone la verifica ad autorità terze. Varrebbe la pena che argomenti come questi fossero posti all'ordine del giorno delle forze politiche e sindacali.

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Il presidente della Repubblica ha i poteri che la Costituzione gli affida e questi poteri culminano nella nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei ministri. Evidentemente il Quirinale si deve porre il problema che il suo candidato ottenga la fiducia del Parlamento, ma è al Quirinale che spetta la scelta per compier la quale non è prevista alcuna procedura di preventiva consultazione. La nomina di Monti insegni.
Fu dettata dall'emergenza? Non soltanto. Pur tenendone conto, il presidente Napolitano avrebbe avuto largo campo di scelta perché c'erano almeno altri tre nomi che potevano soddisfare quell'esigenza. Napolitano scelse direttamene e in perfetta aderenza al dettato costituzionale. Questa è dunque la corretta e la più che opportuna procedura e penso che debba essere uno dei pilastri portanti della terza Repubblica.
I contatti tra le forze politiche su questo complesso di questioni è già in corso. Fare previsioni sugli esiti è un'ardua impresa, ma è auspicabile che esse tengano ben presenti le esigenze che qui abbiamo indicato e che emanano dal mutamento dei tempi e delle strutture politiche, sociali, economiche e culturali. Altrimenti saranno costruiti castelli di sabbia, preda dei venti e privi di futuro.

Post scriptum. Alcuni deputati che fanno parte della segreteria del Partito democratico sembrano decisi a presentare ai loro organi dirigenti la proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del partito socialista europeo. Ciascuno pensa e fa quel che "il core mi ditta dentro e va significando" ma il senso di questa proposta mi sfugge.

Sono tra gli elettori del Pd ed ho partecipato alle primarie fin dai tempi dell'Ulivo di Prodi e poi del Pd come certificano le liste stilate nei gazebo dove il voto delle primarie veniva raccolto insieme ai dati anagrafici dei votanti. Credo sia il solo partito italiano che adotta le primarie e me ne rallegro, ma non credo che avrei votato per un partito socialdemocratico che oggi a me sembra del tutto anomalo nel panorama italiano. Se la proposta passasse penso che sarebbe un favore per il partito dell'Udc, un genere di favore che non può essere ricambiato.
Il Pd è nato appena quattro anni fa come partito riformista e innovativo ed ha avuto il voto anche di molti liberali di sinistra ed ex azionisti come anch'io sono. Quando si presentò alle elezioni ebbe il 34 per cento dei voti: mai i riformisti italiani, durante la monarchia e poi durante la repubblica, erano arrivati ad un terzo del corpo elettorale. Era lo stesso livello raggiunto dal Pci di Berlinguer, di cui però il Pd non era la continuazione.

Sarei molto lieto di conoscere in proposito l'opinione del segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Tanto per sapere, come elettore del partito da lui guidato.

(12 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

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