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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 315668 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 20, 2007, 04:26:05 pm »

IL VETRO SOFFIATO

Traditi dal traduttore
di Eugenio Scalfari


Fino a che punto i testi tradotti sono fedeli agli originali? O sono diversi a tutti gli effetti?  Ho letto con interesse e diletto la 'Bustina di Minerva' che Umberto Eco su questa stessa pagina ha dedicato la settimana scorsa ai traduttori. Un mestiere impervio e un ruolo assai poco gratificante quello di chi è chiamato a tradurre nella propria lingua testi scritti in lingua straniera e per un pubblico diverso dal nostro, con diverso apprendimento e diversa sensibilità. Si va - osserva Eco - verso un'unica lingua predominante, quindi verso una semplificazione del linguaggio resa necessaria in un'economia globale che accresce l'intensità delle comunicazioni e si serve sempre più del supporto tecnico della Rete al posto della parola scritta sulla carta.

Ma accanto a questa semplificazione è proprio l'aumento delle comunicazioni a rendere indispensabile il ruolo del traduttore: la gente continua infatti ad esprimersi nei linguaggi locali, i dialetti entrano anch'essi nell'area della traducibilità, la quale si applica ormai anche alla parola parlata oltreché a quella scritta. Di qui le traduzioni simultanee nei convegni d'ogni genere e tipo. Per districarsi dal rischio d'una Babele entra in scena il traduttore che cessa di essere un'opzione e diventa una necessità.

I traduttori si sono resi conto di questa trasformazione e hanno cominciato a porre con energia le loro rivendicazioni. Il livello medio della loro retribuzione è in aumento e così pure la valorizzazione del loro ruolo: il nome del traduttore, finora indicato quasi sempre in una nota o addirittura del tutto omesso, viene sempre più spesso collocato nella pagina d'apertura del libro o addirittura in copertina e così per gli articoli di giornale che passano la frontiera e per ogni altra operazione di trasferimento da un linguaggio all'altro. Ma resta una domanda: fino a che punto i testi tradotti rispecchiano quelli originali?
O sono invece da considerare diversi a tutti gli effetti? Il traduttore rende un servizio subalterno oppure creativo e autonomo? Fornisce una copia conforme o un originale che meriti a sua volta d'esser tradotto creando un terzo e un quarto originale fino a perdere qualunque corrispondenza con il testo dal quale partì quell'infinita schiera di prototipi?

La domanda è antica e non facilmente risolvibile. Ricordo che quando lessi e studiai per la prima volta 'l'Iliade' in seconda ginnasiale il testo a quell'epoca usato nelle scuole era la traduzione di Vincenzo Monti: "Narrami o musa del Pelide Achille l'ira funesta", con quel che segue. La mia generazione, come quella di mio padre e di mio nonno, studiò su quel testo il poema omerico sebbene fosse noto a tutti che il Monti ignorava il greco e utilizzò come originale il testo latino meritandosi l'insulto letterario di essere "il traduttor dei traduttor d'Omero". Non è che un esempio, ma la letteratura e in particolare la narrativa sono piene di traduzioni di terza o di quarta mano, frequenti in particolare per lingue poco diffuse al di là dei loro confini territoriali. Il russo, per esempio: i grandi romanzi e il grande teatro russo si diffusero nell'Ottocento in Europa per merito delle edizioni francesi dalle quali vennero poi tradotti in tutte le altre lingue del continente.

Questi procedimenti sembrano comunque più accettabili per le opere narrative. Certo lo stile è lo stile e rischia di trasformarsi o addirittura di scomparire nella traduzione, ma resta pur sempre la trama del romanzo a render più prossima la somiglianza con l'originale. È vero anche per la poesia? Molto meno. La poesia, almeno fino ai primi anni del secolo scorso, era vincolata anche a forme metriche costrittive e addirittura al rispetto della rima. Pensate alla 'Commedia' dantesca sulla quale si fondò la costruzione della lingua italiana; pensate a quelle terzine a rima alternata di undici battute per riga, versi che sembrano scolpiti più che scritti, molto più efficaci se affidati ad una voce recitante che ne scandisca la sonorità anziché letti e trasmessi silenziosamente al proprio pensiero.

A me, tutte le volte che mi è accaduto di leggere liriche italiane tradotte in altra lingua da me conosciuta o viceversa, è sembrato di leggere un'opera del tutto diversa. Spesso ridicola o grottesca rispetto all'originale, ma talvolta invece d'una intensità analoga o superiore, comunque lontana e altra.

Valgano come esempio i lirici greci nella traduzione di Quasimodo: altissima poesia italiana ma molto diversa dall'originale e, a mio avviso, d'una qualità e intensità poetica assai maggiore delle liriche del poeta Quasimodo.

Non conosco l'ebraico e tanto meno l'aramaico. So però che le traduzioni di Ceronetti del libro di Giobbe e degli altri testi sapienzali della Bibbia hanno una forza poetica imparagonabile alle altre traduzioni 'ufficiali' accreditate dalle autorità religiose. Non sono in grado di dire quali siano più fedeli ai testi originali, a loro volta passati attraverso infiniti e discordanti codici, ma non ho dubbi sulla qualità estetica e sulla forza poetica di Ceronetti. Il quale fece del suo Giobbe due diverse edizioni, peggiorando - secondo me - nella seconda i versi che aveva mirabilmente reso nella prima. Forse per aderire più fedelmente al testo ebraico a scapito dei requisiti poetici del suo italiano?

Concluderò accennando alle traduzioni simultanee di dibattiti politici o filosofici o culturali ai quali mi è capitato di partecipare. Malgrado la bravura dei traduttori, costretti a seguire in corsa i discorsi dei vari oratori, la corrispondenza tra il parlato originale e quello tradotto è enorme. Se non conosci la lingua altrui e ti metti la cuffia per ascoltarne la traduzione, ti trovi quasi sempre di fronte ad un referto pressoché incomprensibile e inutilizzabile.

Resterà celebre il caso - più volte menzionato - di alcuni discorsi di Aldo Moro in convegni internazionali, durante i quali i traduttori ad un certo punto dichiararono in cuffia che non erano in grado di seguire l'oratore perché non riuscivano a comprendere e quindi a tradurre il significato del suo dire. Questo episodio è diventato il simbolo dell'astrusa difficoltà della politica italiana, delle sue spesso inesplicabili contraddizioni e ossimori, della strutturale mancanza di trasparenza che si esprime con un linguaggio oscuro e quindi non traducibile in lingue animate da pensieri limpidi e non contraddittori.

(05 ottobre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Ottobre 20, 2007, 06:37:40 pm »

IL VETRO SOFFIATO

Quando la posta decide chi vince
di Eugenio Scalfari

Come nel poker anche nel mercato si avvantaggia chi dispone di maggiori capitali da rischiare. Determinando non solo i prezzi ma anche l'allocazione delle risorse e quindi gli investimenti  Dedicherò oggi questa pagina ai giochi d'azzardo; non alle tecniche che li disciplinano ma al loro valore simbolico e metaforico rispetto alla vita e al carattere degli individui. Personalmente non sono un giocatore, amo il rischio purché sia calcolabile e calcolato.

Di giochi ne conosco molti, dalla roulette ai dadi, dagli scacchi al 'trente et quarante', dallo 'chemin de fer' al poker. Se debbo dire quali siano quelli che più rivelano il carattere dei giocatori metterei il poker in cima alla lista, immediatamente seguito dagli scacchi. Sia nell'uno che nell'altro ci vogliono abilità, conoscenza di strategia per stancare e ingannare l'avversario, forte tenuta dei propri nervi e delle proprie reazioni. E, sia nell'uno che nell'altro, capacità di mettere in campo le 'finte'; negli scacchi le finte sono manovre che sembrano mirare ad un certo obiettivo e servono invece a ingannare l'avversario e indurlo a scoprirsi; nel poker si chiamano 'bluff', trappole per far credere di avere in mano una combinazione di carte vincente e mettere in fuga l'avversario.

Ma c'è un altro elemento che influisce fortemente sull'andamento del gioco ed è il tempo di permanenza al tavolo verde. Per spiegare meglio l'importanza del fattore tempo farò l'esempio del 'trente et quarante', che è uno dei più in uso nelle case da gioco ed anche il più gradito ai clienti della casa perché non prevede alcun apparente vantaggio per il 'banco'. Nella roulette c'è lo zero, nel 'trente et quarante' i giocatori e il banco si confrontano alla pari, salvo una sola differenza che è appunto l'elemento tempo: il banco è fisso nelle mani del gestore della casa da gioco il quale, a differenza dei giocatori, non si alza mai dal tavolo della partita. L'orario di gioco dall'apertura alla chiusura del tavolo è stabilito dal gestore il più lungamente possibile, proprio perché nel calcolo delle probabilità la continuità e la durata sono elementi decisivi sull'esito della partita.

L'ultimo ma fondamentale elemento determinante è la 'posta'. Il suo ammontare limita l'accesso alla partita. Quando non è previsto un limite e la posta è lasciata all'arbitrio dei giocatori, se ne avvantaggia chi dispone di maggiori capitali da rischiare al tavolo verde. Un pensionato con la sola risorsa del suo magro reddito si troverebbe molto sfavorito se giocasse a poker con l'erede di un Agnelli o con Marina Berlusconi.
Poi, naturalmente, c'è la fortuna e quella come sappiamo è una dea bendata. Tuttavia, secondo la mia esperienza, la fortuna è assai meno blindata e quindi assai meno casuale di quanto sembri. La fortuna premia chi sa giocare; alla lunga chi vince è il giocatore bravo che abbia tempo e disponga di adeguata ricchezza.

Spesso mi sono chiesto se il mercato, sì, quello dove s'incontrano le persone che vogliono scambiare tra loro una qualsiasi merce, abbia anch'esso alcune caratteristiche che lo facciano assomigliare ad un gioco. La mia risposta è affermativa: il mercato somiglia ad un gioco in numerosi aspetti, il più importante dei quali è la 'posta'. Chi ha più mezzi e più ricchezza accede al mercato molto più facilmente e ampiamente di chi dispone di risorse minori. I soggetti che sono al di sotto della soglia di povertà al mercato non arrivano proprio, ne sono di fatto esclusi. Quando gli economisti ci spiegano le leggi che governano il mercato e il sistema di formazione dei prezzi, usano una frase di scuola che nella maggior parte dei casi passa inosservata. La frase è questa: "Data una certa distribuzione della ricchezza...", etc. etc. Ma che cosa vuol dire quella frase buttata lì come le controindicazioni d'un medicinale stampate in corpo piccolissimo sul foglietto delle avvertenze?

Vuol dire che la distribuzione del reddito e della ricchezza è determinante nel formare il sistema dei prezzi, l'allocazione delle risorse e quindi degli investimenti. In una società con redditi fortemente diseguali i beni e i servizi richiesti sono quelli desiderati dai soggetti presenti sul mercato con maggiori mezzi; se cambiasse la distribuzione dei redditi nel senso d'una maggiore eguaglianza nel potere d'acquisto, l'intero sistema si capovolgerebbe e beni e servizi fino a quel momento poco richiesti e quindi poco offerti potrebbero invece essere domandati massicciamente provocando mutamenti radicali nell'allocazione degli investimenti. Insomma la frase "data una certa distribuzione del reddito" non è da prendere sottogamba, anzi è il centro dell'economia politica la quale, non a caso, abbina quel sostantivo a quell'aggettivo.

(19 ottobre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 21, 2007, 10:51:22 pm »

POLITICA

"Quello che Prodi chiama complottone per far cadere il governo sulla Finanziaria è compravendita di voti.

Secondo il codice penale, voto di scambio"

Quei dieci voti comprati e venduti

di EUGENIO SCALFARI

 
C'È un complottone, come sospetta Prodi, per far cadere il governo sulla Finanziaria? Io non lo chiamerei così. L'immagine del complottone evoca un gruppo di cospiratori animati da un ideale o da un interesse comune, ma nel caso nostro di ideali non ne vedo neppure l'ombra, interessi sì, ma nient'affatto comuni, anzi spesso contrapposti uno all'altro.

No, non lo chiamerei complottone; lo chiamo invece col nome giusto che rispecchia la realtà: si tratta, né più né meno, d'una compravendita di voti che nel lessico della legge penale si chiama "voto di scambio".
Di solito si verifica nelle campagne elettorali, quando un candidato si rivolge a chi dispone di voti clientelari acquistabili; l'acquirente offre una cifra e/o benefici graditi a quella clientela ed ottiene in contropartita tutti i suoi voti. Le mafie hanno sempre agito in questa ottica e così si è creata intorno alle varie famiglie mafiose quella zona grigia che ha permeato o addirittura condizionato il funzionamento delle istituzioni.

Anche le logge massoniche segrete hanno operato in questo modo: tu dai una cosa a me, io do una cosa a te, scambio di voti e di favori. Ma il caso nostro è diverso e viene praticato con minore frequenza; nel caso nostro - cioè, per esser chiari, nel caso di Silvio Berlusconi - non si tratta di voti elettorali in vendita bensì di voti di senatori che si preparano a passare da un partito ad un altro, anzi da uno schieramento ad un altro e, nella fattispecie, dalla maggioranza all'opposizione. Insomma un ribaltone in piena regola. Sì, proprio quell'operazione che tutto il centrodestra con in testa proprio Silvio Berlusconi ha demonizzato come la più diabolica operazione politica che si sia mai vista e contro la quale sono anche stati escogitati appositi deterrenti legislativi, come lo scioglimento automatico delle Camere, nel momento stesso in cui si verificasse in Parlamento un cambiamento di maggioranza.

Naturalmente è del tutto inutile accusare un uomo e una parte politica di incoerenza. Ieri il ribaltone era il diavolo, oggi diventa un obiettivo salvifico. Certo, è un'incoerenza evidente, ma la politica è il mondo dell'ossimoro, se lo scopo è la conquista del potere tutti i mezzi sono buoni e vada a quel paese anche il principio di non contraddizione.

Però è anche vero che c'è ribaltone e ribaltone. Prendiamo quello della Lega del 1994-'95, che determinò la caduta, a pochi mesi di distanza dalla vittoria elettorale, del primo governo Berlusconi e la nascita del governo Dini. In quel caso la Lega, dopo una convivenza agitata con Alleanza nazionale e dopo avere mandato invano segnali di crescente malcontento, decise di uscire dal governo determinandone la caduta.

Fu un ribaltone? Certamente sì. Una compravendita di voti? Certamente no. La Lega aveva obiettivi politici di federalismo molto spinto che cozzavano con il nazionalismo missino del Fini di allora. La mediazione di Berlusconi tra le due opposte sponde a lui alleate non fu efficace e il governo cadde. Nessuno comprò i voti della Lega, Bossi decise di testa sua. Non ci fu nessun "vulnus" costituzionale perché il presidente della Repubblica ha il potere-dovere di verificare se in Parlamento vi sia una maggioranza prima di decretarne lo scioglimento e così correttamente fece Scalfaro. Il governo Dini fu l'esito parlamentare di quella verifica e durò fino al '96, quando le Camere furono sciolte. Tutto legittimo, tutto regolare, tranne che per Berlusconi che gridò sui tetti alla vergogna costituzionale, politica, morale del ribaltone. Fino ad oggi. Ognuno giudichi come gli pare ma, lo ripeto, oggi il caso è completamente diverso anche se un ribaltone sembra alle viste. Perché lo ripeto ancora, questo che sembra profilarsi non è un ribaltone politico ma una compravendita di voti. Cioè un reato penale.

* * *

Vediamo più da vicino questa compravendita. Con i comportamenti e le dichiarazioni di Berlusconi e le ghiotte indiscrezioni di un altro singolare personaggio "informato dei fatti", Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica e senatore a vita. Berlusconi, nel corso d'una colazione riservata con il presidente emerito, gli comunica che "l'operazione" è ormai conclusa, che i senatori d'accordo con lui sono già una decina; su richiesta dell'interlocutore gli mostra la lista. Cossiga la legge, commenta con un "lo sapevo già" (e figurarsi se avrebbe dimostrato sorpresa) esce e passa la notizia alle agenzie. Alcuni dei "comprati" hanno confermato con lo schiaffo della mano, un paio hanno addirittura firmato un accordo scritto (si dice).
Berlusconi offre posti. Posti da ministro, posti da sottosegretario, presidenze di enti pubblici che ingolosirebbero perfino un anoressico, e anche denaro. Denaro finalizzato a sostenere campagne elettorali, spese politiche, apertura di sedi, assunzione di personale. Insomma denaro.

I venditori sono gelosi l'uno dell'altro. I posti appetitosi non sono moltissimi e ciascuno teme che un altro gli sia preferito. Ma anche dentro "all'inner club" berlusconiano scoppiano gelosie. Formigoni si preoccupa, Scajola si preoccupa e si preoccupa anche Dell'Utri, già molto allarmato dalla stella nascente di Michela Vittoria Brambilla. Ognuno corre ai ripari come può. Alla fine, tre o quattro giorni fa, il "puzzle" berlusconiano si realizza. Il compratore fissa la data: prima metà di novembre. E dichiara: "Non sono stato io a contattarli, sono stati loro a venire da me, io ho solo cercato di trovargli un posto adatto". Appunto, voto di scambio, compravendita.

* * *

Resta da vedere se il "puzzle" sia stato veramente compiuto o se almeno in parte sia ancora in dubbio; se darlo per fatto sia reale o faccia parte della guerra dei nervi. Personalmente penso che sia compiuto. Stando alle sue più recenti dichiarazioni così pensa anche Prodi ed anche Mastella. Certo è che la maggioranza si sfarina ogni giorno che passa. Quasi mille emendamenti presentati dal centrosinistra alla Finanziaria, metà dei quali da parlamentari ulivisti, anzi ormai democratici. La sinistra radicale in piazza a chiedere di più sul piano sociale, al di là del referendum sindacale. Non è contro il governo? E allora contro chi? Contro il Partito democratico? Contro Padoa- Schioppa? Contro la Ragioneria dello Stato? Chi sono quei mascalzoni che lesinano il pane ai lavoratori? Quali che siano quei nomi, la piazza di sinistra non fa sconti alla Finanziaria di Prodi e di Padoa-Schioppa, vuole molto di più.

Ieri è accaduto un fatto strano: per la prima volta dopo un anno e mezzo il "Corriere della Sera" ha pubblicato un articolo di fondo nel quale il vicedirettore del giornale, Dario Di Vico, elogia Prodi, elogia la sinistra radicale, elogia il "feeling" tra Prodi e Rifondazione.
Di Vico è un bravo collega e ovviamente ha scritto ciò che pensano lui e il suo direttore. Solo che da un anno e mezzo in qua ha scritto esattamente il contrario infinite volte. Io aborro la dietrologia, ma non la logica. Se si verifica un mutamento così improvviso e così totale una causa ci dev'essere, questa non è stagione da colpi di sole.

La logica mi dice che le cause possono essere due: 1. Placare lo scontento notorio e reso pubblico di Bazoli nei confronti del "Corriere" di cui Banca Intesa è azionista. 2. Valorizzare l'asse Prodi-Bertinotti per tagliar fuori Veltroni nel momento in cui il neo-leader del Pd è entrato in campo balzando in testa nei sondaggi d'opinione. E nell'imminenza di una possibile crisi di governo e delle consultazioni per risolverla in qualche modo. In proposito le intenzioni del Pd veltroniano avrebbero un peso notevole sui colloqui del capo dello Stato. Può condizionarle un articolo di giornale? Pro o contro elezioni immediate? Berlusconi è pro. Veltroni parlerà quando sarà consultato, ovviamente d'accordo con Prodi. Ma Prodi?

* * *

Prodi finora ha detto e ripetuto che se cade il suo governo non c'è che andare alle urne. Meglio ancora se alle urne ci si va con l'attuale governo in carica per far svolgere le elezioni. Probabilmente la posizione di Prodi è un deterrente per evitare la crisi. Ma se non fosse un deterrente sarebbe a mio avviso un grave errore. Le elezioni a primavera con questa legge elettorale darebbero partita vinta al centrodestra che ancora una volta si presenterebbe compatto dietro Berlusconi, tutti per uno uno per tutti.

Veltroni dovrebbe fare un miracolo. E forse potrebbe anche farlo, il Pd potrebbe arrivare al 40 per cento, ma dovrebbe presentarsi da solo e questo, con l'attuale legge elettorale e il premio di coalizione è manifestamente impossibile. Per contrastare il Berlusconi "ter" e i suoi alleati bisogna andarci con lo stesso schieramento di centrosinistra attuale, ma con la frana dell'area centrista. Una frana di scarso peso elettorale ma di forte peso politico perché arginerebbe quel deflusso di voti moderati verso il Partito democratico sul quale punta Veltroni. Senza quel deflusso ed anzi con un sia pur modesto deflusso di segno contrario, la vittoria del centrodestra è scontata, non c'è miracolo che possa evitarla, checché ne pensino Ferrero e Diliberto.

Questi sono i dati del problema. Noi, vecchi liberaldemocratici, rischiamo di morire sotto Berlusconi. E' vero che abbiamo altre risorse e altri interessi da coltivare per il tempo spero lungo che ci resta, ma per l'amore che portiamo a questo Paese vederlo sottoposto ad un ulteriore degrado morale ci riempie di tristezza.

Qualcuno mi rimprovera il mio pessimismo, ma io non sono pessimista; cerco di vedere la realtà e la realtà non è né buona né cattiva se non per come ciascuno di noi la vive. Questa realtà io personalmente la vivo male. Non mi piace. Non mi ci sento. Ma non è affatto detto che altri non ci si troveranno bene. "Goodbye and farewell".

(21 ottobre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 28, 2007, 03:54:33 pm »

POLITICA

Il nuovo partito che rompe con il '900

EUGENIO SCALFARI


FACEVA senso assistere ieri all'assemblea costituente del Partito democratico avendo ancora negli occhi l'aula del Senato riunita per dodici ore di seguito e scossa da un piccolo ma continuo maremoto di voti e controvoti. Faceva senso la nascita d'un partito fondato da 3 milioni e mezzo di persone - fatto mai accaduto nella storia europea - rispetto alle pervicaci rissosità di partiti-mosca che stanno devastando la maggioranza parlamentare e che, tutti insieme (sono poco meno d'una dozzina) rappresentano il 5 per cento dei consensi elettorali.

All'assemblea costituente di Milano (quasi metà dei suoi delegati erano donne) aleggiava una richiesta di unità, onestà, competenza, innovazione. Si è parlato di passato e di presente ma soprattutto di futuro. Prodi e Veltroni, in concordia tra loro, hanno confermato che con la legge elettorale vigente è impossibile andare a votare; riecheggiando le parole e il giudizio più volte ripetuto dal Capo dello Stato hanno detto che votare con la "legge-porcata" di Calderoli sarebbe una beffa per gli elettori e renderebbe per la seconda volta il Paese ingovernabile.

In Senato si votava il decreto fiscale ma i pensieri dei guastatori erano altrove. Vedevano quel voto come l'occasione per regolare i conti tra loro e nello stesso tempo lavorare "al corpo" Prodi e lo stesso Partito democratico la cui nascita è vista come minaccia all'esistenza dei micro-partiti e dei loro grotteschi apparati.

Gran parte dei "media" l'altro ieri hanno titolato sulla sconfitta parlamentare del governo, messo in minoranza per sette volte dal voto variamente congiunto dell'opposizione e dei senatori "nomadi" o "apolidi" che dir si voglia. Almeno in apparenza avevano ragione di aprire con quella notizia.

Avrebbero tuttavia dovuto valutare che l'esito parlamentare della giornata non era quello. Il decreto fiscale è stato convertito in legge senza alcuna variante rispetto al testo governativo, dopo 350 votazioni in 12 ore che l'hanno interamente confermato. Le sette votazioni incriminate sono avvenute su emendamenti marginali presentati durante il dibattito in commissione e approdati in aula, su cinque dei quali il governo si era rimesso all'assemblea per la loro irrilevanza. Nel voto finale sulla conversione in legge la maggioranza ha vinto con i soliti due voti di scarto.

Sono pochissimi e a rischio continuo di incidenti di percorso, ma questi sono appunto gli effetti nefasti della legge - porcata approvata nello scorcio della precedente legislatura dalla maggioranza di allora, ivi compresa l'Udc di Casini che oggi giustamente reclama una legge diversa.

Faccia almeno le sue scuse agli elettori l'Udc di Casini e dichiari d'aver sbagliato e di essersi pentita. Invece no, si dichiara vittima della legge che ha voluto e si dice pronta a votarne un'altra migliore ma solo se prima Prodi si sia dimesso. Dove stia la coerenza non si capisce, ma sono tante le cose di Casini che non si capiscono.

* * *

Sul voto in Senato di giovedì scorso si è per l'ennesima volta innestata la polemica contro i senatori a vita e in particolare contro l'ultranovantenne Levi-Montalcini, bersaglio di insulti definiti giustamente indegni dal Presidente della Repubblica. Indegni perché scagliati contro una donna, contro una scienziata insignita di altissime onorificenze al merito e contro un membro del Senato che ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri componenti di quel ramo del Parlamento.

Credo che la migliore definizione di questo problema inventato dal centrodestra l'abbia data Oscar Luigi Scalfaro nell'intervista di ieri al nostro giornale: il voto dei senatori a vita non appartiene ad alcuno schieramento ma agli interessi generali del Paese e alla salvaguardia della Costituzione. Sta dunque a ciascuno di loro giudicare quali siano i temi che richiedono la loro presenza in aula e determinano il loro voto.

Ha perfettamente ragione Scalfaro. I senatori a vita Andreotti, Colombo, Levi-Montalcini ritengono evidentemente che l'approvazione della Finanziaria e dei suoi collegati sia un esito conforme all'interesse generale e per questo partecipano a sedute snervanti. Penso che così debbano fare anche gli ex Presidenti della Repubblica che siedono a vita in Senato a meno di eccezionali motivi di impedimento.

Dovrebbero farlo anche per solidarizzare con la senatrice Levi-Montalcini; affiancarla nel voto è la maniera più efficace per manifestarle solidarietà. Mi auguro perciò che non deluderanno le nostre attese; dopo tutto è in gioco una legge fondamentale per l'economia del Paese; la sua caduta produrrebbe danni assai gravi all'economia italiana e al credito di cui per fortuna ancora godiamo in Europa e nel mondo.

* * *

Il discorso di Veltroni all'assemblea del Pd ha, mi sembra, ha soddisfatto pienamente le aspettative di milioni di cittadini che hanno votato per lui e per il nuovo partito e per i tanti altri milioni che guardano con fiduciosa attesa alla sua crescita nella realtà sociale e politica. Ha ribadito il programma già toccato al Lingotto di Torino quando accettò la candidatura; ha riaffermato che il Pd si muoverà nel segno dell'innovazione e della discontinuità; infine ha ricevuto da Prodi e dall'assemblea il mandato di negoziare con tutte le altre forze politiche una nuova legge elettorale che ci liberi dalla situazione attuale.

Ma è evidente che d'ora in avanti le posizioni del Pd e di Walter Veltroni avranno un peso determinante sulle decisioni del governo, sulle delicate questioni dell'economia, della fiscalità, della giustizia, delle liberalizzazioni, dell'istruzione. Nonché sulle questioni eticamente sensibili, come oggi si definiscono quelle che coinvolgono anche il rapporto tutt'altro che facile tra lo Stato e la Chiesa.

Certo Veltroni non deciderà da solo; avrà una squadra e avrà addosso gli occhi di quei tre milioni e mezzo di cittadini che hanno votato Pd per poter partecipare alle decisioni.

Qui viene acconcio parlare della discontinuità evocata dal nuovo segretario. Che cosa voleva dire Veltroni con quella parola? Discontinuità rispetto a chi e a che cosa? Veltroni l'ha chiarito ma giova ripeterlo perché si tratta di un punto essenziale. Discontinuità del Pd rispetto all'organizzazione dei partiti di massa del Novecento: la Dc, il Pci, il Psi e i partiti piccoli e piccolissimi che con questi tre maggiori hanno convissuto intrecciando con essi le loro vicende.

I partiti del Novecento erano costruiti sul territorio, avevano una struttura gerarchica piramidale, le correnti proliferavano e si finanziavano autonomamente assumendo forme di sotto-partiti veri e propri sia pure nell'ambito d'un contenitore comune. Questa è stata la storia della partitocrazia, della cosiddetta costituzione materiale con la quale i partiti soffocarono lo spirito e la lettera della Costituzione repubblicana degradando e occupando le istituzioni, nessuna esclusa, a cominciare dalla massima carica dello Stato. Gran parte delle cause che portarono alla fine di quel sistema fu proprio la degenerazione partitocratica, i finanziamenti illeciti, la corruzione elevata a metodo accettato e legalizzato.

La Seconda Repubblica nacque per ricostruire l'effettiva rappresentatività dei partiti e il loro nesso tra la società e le istituzioni, ma ha mancato questo obiettivo.

Gli errori sono stati tanti e vanno equamente ripartiti, ma l'errore di fondo è stato per l'appunto la persistenza della vecchia forma-partito gerarchica, burocratica, correntizia.

Questo è dunque il punto sensibile sul quale Veltroni ha deciso di operare una sorta di rivoluzione riservando ai tre milioni e mezzo di cittadini-fondatori del Pd un ruolo di decisiva partecipazione attraverso la scelta dei dirigenti regionali e di tutte le candidature ad incarichi pubblici nazionali, regionali, locali. Accanto ad essi una rete di "volontari della politica" cioè di militanti dedicati all'organizzazione esecutiva e all'attivazione di associazioni tematiche per l'approfondimento degli argomenti e la proposta di nuove idee e iniziative.

Se come sembra questa sarà la forma-partito dei democratici è lecito prevedere che anche altre forze politiche saranno indotte a farla propria creando una generale e benefica innovazione nella società politica italiana e probabilmente europea.

* * *

Debbo, per finire, dedicare l'attenzione che merita al discorso pronunciato venerdì dal Governatore della Banca d'Italia all'Università di Torino; un discorso sull'economia italiana pieno di dati e di riflessioni.
I resoconti giornalistici e i primi commenti si sono concentrati su alcuni punti salienti di quel discorso: crescita frenata e insufficiente dei consumi negli ultimi quindici anni; salari ai lavoratori dipendenti troppo bassi rispetto ai livelli salariali di Francia, Germania, Gran Bretagna; troppa bassa produttività; disparità salariali tra vecchi e giovani; troppo lunga permanenza dei figli nelle case paterne; cattiva istruzione nelle scuole superiori; necessità di investire nel "capitale umano"; età pensionabile troppo bassa; maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

Su alcuni di questi punti c'è stata una convergenza molto ampia, su altri i sindacati hanno eccepito. Montezemolo ha plaudito su tutto, compreso il punto sui bassi salari e sui loro effetti negativi nella crescita del Paese.

Una sola osservazione sull'importante adesione di Montezemolo al Draghi-pensiero: il presidente della Fiat poteva risparmiarsi di portare come esempio ai governi la vittoria della Ferrari. Anche Berlusconi si avvale spesso delle Coppe vinte dal Milan come strumento di pressione politica. Speravamo che Luca Montezemolo fosse consapevole che usare lo sport come asset politico è populismo allo stato puro.

Ma torniamo al Draghi-pensiero. Ci sono molti altri elementi e cifre che il Governatore ha offerto alla riflessione pubblica. Per esempio: il reddito dei giovani è migliore di quello dell'età di mezzo (33-55 anni); tuttavia i salari d'ingresso italiani sono nettamente più bassi degli altri Paesi europei presi come riferimento; gran parte dell'aumento della produttività, peraltro insufficiente, è stata assorbita dai profitti anziché dai salari.

Ma il punto più importante riguarda la precarietà. Draghi punta ad una maggiore flessibilità del lavoro ma aggiunge che la precarietà è la causa principale della insufficiente crescita dei consumi. Sì alla flessibilità dunque, ma no alla precarietà: sembra il ricalco del programma di Prodi, anche se Draghi non l'ha detto.

Infine: dove trovare le risorse per rendere praticabile il Draghi-pensiero? Il Governatore esclude ovviamente ulteriori aumenti della tassazione e raccomanda un taglio radicale della spesa, ma in un altro punto del suo discorso afferma che un'altra delle cause che frenano la domanda interna deriva dal timore di tagli di spesa che diminuiscano i servizi fondamentali e l'occupazione. Allora dove bisogna tagliare? Se le tante esortazioni fossero anche confortate da indicazioni concrete di terapia ciò sarebbe utile alla discussione che, fatta in questo modo, finisce per somigliare a invocazioni a Padre Pio e a miracolosi santi consimili.

Post scriptum. Sono stato ieri al funerale di Pietro Scoppola svoltosi nella chiesa di Cristo Re a Roma in viale Mazzini. C'erano almeno mille persone, intente e commosse. Officiava il cardinal Silvestrini insieme a tutto il capitolo della parrocchia.

Non entravo in quella chiesa da settant'anni; la frequentai da bambino e mentre assistevo alla messa funebre e pensavo all'amico scomparso sono anche riandato a quegli anni così lontani della mia infanzia devota.

La folla assiepata nei banchi e nelle navate rappresentava un campione autentico di cattolici ferventi, animati dalla fede e da un impegno civile ammirevole. Lo dico perché conosco molti di loro e so di quell'impegno e di quella fede responsabile e non bigotta.

Si sono tutti comunicati. L'intera folla presente ha preso l'eucaristia. Più d'uno si è avvicinato a me per dirmi che preferiscono frequentare i non credenti sinceri piuttosto che i falsi cattolici.

Il cardinale ha parlato benissimo e così pure, con brevi parole, il parroco della chiesa. Figli e nipoti del morto si sono avvicendati con letture e pensieri appropriati e commossi.

Ho avuto la sensazione di stare con persone perbene, moralmente, intellettualmente e professionalmente perbene. Da non credente mi ci sono trovato a mio agio. Mi hanno dato fiducia nel futuro. Per questo rinnovo il mio ringraziamento alla memoria di Pietro Scoppola, sicuro che i cattolici presenti in quella chiesa e i tanti simili a loro proseguano l'opera sua.

(28 ottobre 2007)

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« Risposta #19 inserito:: Novembre 03, 2007, 08:12:25 am »

IL VETRO SOFFIATO

Il non senso del poeta impegnato

di Eugenio Scalfari


Ritorna la polemica sugli scrittori e gli artisti 'organici' o comunque schierati. Basata su una serie di equivoci in parte voluti in parte inconsapevoli  Eungenio ScalfariEnnesima polemica sugli scrittori e sugli artisti politicamente impegnati, sugli intellettuali 'organici' e comunque schierati. Rappresentano una fase di crisi e mettono la parola fine al libero pensiero, alla libera creatività, alla forma che dovrebbe esser sovrana indiscussa di ogni opera di poesia e che invece viene soverchiata da contenuti ideologici e propagandistici?

Questa discussione è ripetitiva. Da una parte e dall'altra si sfoderano sempre gli stessi argomenti, si va avanti per un po' su giornali e riviste, si pubblica qualche saggio sul tema e poi ciascuno dei partecipanti al dibattito rinfodera la spada, nessuno ha convinto nessuno a modificare o addirittura a rinunciare ai propri argomenti e tutto finisce lì, salvo riprendere il tema alla prossima puntata.

Vorrei esortare gli abituali duellanti a cessare una volta per tutte di rimettere in scena lo stesso copione: è frusto e non interessa. Vedo però che la coazione a ripetere è irresistibile. Penso che in gran parte ciò sia dovuto all'uso improprio delle parole e delle definizioni. Insomma, secondo me, la coazione a ripetere deriva da una serie di equivoci lessicali, in parte voluti e in parte inconsapevoli. Chiariti quegli equivoci e ridato alle parole il loro significato proprio, credo che il dibattito avrebbe fine per 'mancanza di oggetto'.

Quando il contenuto si sovrappone alla forma il risultato è, dal punto di vista estetico, lo zero assoluto, ma la stessa cosa avviene quando la forma riproduce la forma. In questi casi, come quando si propugna l'arte per l'arte, si scrive sull'acqua e niente più.

Un'altra parola da mettere sotto esame è la definizione di 'intellettuale'. Che cosa vuol dire? Vuol dire produrre opere affidate all'intelletto, esclusivamente o prevalentemente.

Un docente è senza dubbio un intellettuale e così un avvocato, un giudice, un medico, un filosofo, un architetto, uno studente. Ed anche un giornalista. Un dirigente d'azienda. Un uomo politico. Sono tutte persone che lavorano prevalentemente con l'intelletto e quindi meritano l'appellativo di intellettuale.


Non è questo però il senso semantico con cui viene usato quel sostantivo. Esso vuole designare una persona specializzata nel prevedere gli effetti di certe cause. Esamina una situazione e indica i comportamenti necessari a modificarla nel modo voluto. Insomma è un consigliere. Può mettere questa sua capacità a frutto senza necessità di schierarsi, può dar consigli a Prodi come a Berlusconi. Un capitano di ventura che sta sul mercato.

Ma può anche schierarsi. Se ha delle sue proprie convinzioni offrirà i suoi servizi non a chi paga meglio, ma a chi è più vicino ai suoi ideali politici, sociali, culturali.

Un'altra parola da mettere a fuoco è 'artista'. Si può schierare politicamente senza tradire la sua vocazione? Credo che nessuno possa impedire ad un artista di avere opinioni proprie da cittadino. Può alimentare con quelle opinioni anche la sua creatività artistica? Sicuramente sì e faccio un esempio: l'importanza della 'committenza' nella pittura, nell'architettura e nella musica. Ci furono, soprattutto nel Quattrocento e nel Cinquecento, committenze religiose e committenze laiche, committenze domenicane e francescane. Per fermarci a queste due, dalle committenze domenicane nacque il gotico fiorito, da quelle francescane il giottismo e tutto quello che ne derivò. Potrei moltiplicare gli esempi all'infinito, ma concludo su questo punto dicendo che l'artista crea opere esteticamente valide tutte le volte che dà forma artistica ad un soggetto, non importa se sia la nascita di Venere o l'annunciazione a Maria vergine. Tutto può essere artisticamente trasfigurato. Se la trasfigurazione non ha luogo l'opera giace inerte, aborto senza vita.

Impegno o disimpegno sono dunque parole senza senso se applicate ad artisti, a poeti, a compositori, a romanzieri e in genere alla letteratura. Poesia e letteratura vivono, come ci ha ricordato Claudio Magris in un suo recente e bellissimo articolo sul 'Corriere della sera': "Come la rosa che non ha perché e fiorisce perché fiorisce".

Più oltre Magris conclude con appassionata lucidità il tema che qui ho cercato di svolgere e con il suo pensiero anch'io concludo: "Se mettersi al servizio d'una causa diventa passione, potenza fantastica che identifica quella causa con la vita, allora anche l'impegno può diventare poesia, estro, libertà immaginosa. È questo l'impegno morale e di conseguenza l'impegno politico della letteratura, che non predica bensì mostra".

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 07, 2007, 11:28:49 am »

CRONACA

Il socialista solitario

di EUGENIO SCALFARI


NON parlerò di come e quando l'ho conosciuto, di come e quando io lavorai per lui e lui lavorò per me qui, sulle pagine di "Repubblica" che per alcuni anni fu la sua casa giornalistica. La morte di un amico porta sempre un pezzetto di noi sottoterra insieme con lui, sicché è inevitabile personalizzare il compianto.

Cercherò di resistere a questa tentazione. Enzo Biagi ha avuto centinaia di migliaia di lettori dei suoi articoli e dei suoi libri e milioni di telespettatori delle sue apparizioni televisive.

Dunque di amici, le persone che condividevano le sue parole, i suoi pensieri, il suo stile. Uno stile asciutto, intessuto di proverbi, di citazioni, di luoghi comuni elevati a dignità letteraria. Uno stile corroborato da fatti precisi e circostanziati che di solito si concludevano con un giudizio tagliente e definitivo.

Non è mai stato fautore della regola che vuole i fatti separati dalle opinioni; per lui valeva una regola diversa: mai un'opinione senza un fatto e viceversa, poiché sono le due facce della stessa medaglia e quindi vanno insieme.

Questa massima non ha significato faziosità e spirito di parte; la sua ricerca di imparzialità era un'ossessione per lui e lo sanno bene i suoi collaboratori che lo aiutarono a raccogliere il materiale per quella rubrica televisiva che gli valse la scomunica berlusconiana e l'estromissione dalla Rai. Si può essere imparziali e neutrali oppure imparzialmente partecipi.

Biagi non fu mai la prima cosa, fu sempre la seconda.

Nonostante la moltitudine di amici lettori e telespettatori, Enzo è stato un solitario. Non so se per scontrosità o innata timidezza o per superbo orgoglio di sé. Propendo per la timidezza e per un pizzico di diffidenza verso l'umana natura. Questo mostro sacro del nostro giornalismo non si è mai trovato a suo agio in veste direttoriale. Quando ha diretto "il Resto del Carlino" e il telegiornale Rai ai tempi del monopolio televisivo, l'ha fatto con sicura professionalità ma facendo forza alla sua natura. Infatti furono tutte brevi le sue esperienze direzionali e cessarono più per suo desiderio che per decisioni editoriali. La sua vocazione era quella del cavaliere solitario e l'ha realizzata per più di mezzo secolo come grande cronista, grande intervistatore, grande commentatore. I suoi libri erano lo sviluppo del suo giornalismo e furono seguiti in massa dai suoi abituali lettori.

Aveva alcuni punti di riferimento molto chiari e direi elementari nella loro semplicità. Era di idee socialiste, d'un socialismo all'antica, quello che riscaldava i cuori dei lavoratori agli inizi del Novecento, la solidarietà delle leghe cooperative, delle Case del popolo, delle associazioni di mutuo soccorso nella Bassa Padana e nelle Romagne.

Quello era il socialismo che gli piaceva e che ha continuato fino all'ultimo a ricordare nelle sue pagine: il socialismo di Treves e di Turati, il socialismo di Pietro Nenni, delle scuole serali e delle università popolari.

Tutta roba che ormai non c'è più e di cui è stato l'ultimo cantore.

Biagi non era e non si riteneva un intellettuale. Ha voluto essere un giornalista, punto e basta. Non a caso il suo esempio preferito e da lui spesso citato era Giulio de Benedetti, direttore per dieci anni della "Gazzetta del Popolo" negli anni Venti e della "Stampa" dal 1948 fino al '68.

Erano fatti della stessa pasta, perciò si capirono e si piacquero a prima vista.

I suoi affetti profondi sono stati la famiglia e la professione. Un giorno senza scrivere era per Enzo una penitenza. Scrisse anche nei giorni di malattia e di interventi chirurgici e quando usciva dalla narcosi già aveva in mente la sua rubrica e come avrebbe ricominciato a raccontare.

Non so che cosa scriveranno sulla sua tomba ma penso che cosa avrebbe voluto lui: Enzo Biagi, giornalista.

Riposa in pace, caro amico.

(7 novembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 09, 2007, 05:52:12 pm »

IL VETRO SOFFIATO

Il non senso del poeta impegnato
di Eugenio Scalfari


Ritorna la polemica sugli scrittori e gli artisti 'organici' o comunque schierati. Basata su una serie di equivoci in parte voluti in parte inconsapevoli  Eungenio ScalfariEnnesima polemica sugli scrittori e sugli artisti politicamente impegnati, sugli intellettuali 'organici' e comunque schierati. Rappresentano una fase di crisi e mettono la parola fine al libero pensiero, alla libera creatività, alla forma che dovrebbe esser sovrana indiscussa di ogni opera di poesia e che invece viene soverchiata da contenuti ideologici e propagandistici?

Questa discussione è ripetitiva. Da una parte e dall'altra si sfoderano sempre gli stessi argomenti, si va avanti per un po' su giornali e riviste, si pubblica qualche saggio sul tema e poi ciascuno dei partecipanti al dibattito rinfodera la spada, nessuno ha convinto nessuno a modificare o addirittura a rinunciare ai propri argomenti e tutto finisce lì, salvo riprendere il tema alla prossima puntata.

Vorrei esortare gli abituali duellanti a cessare una volta per tutte di rimettere in scena lo stesso copione: è frusto e non interessa. Vedo però che la coazione a ripetere è irresistibile. Penso che in gran parte ciò sia dovuto all'uso improprio delle parole e delle definizioni. Insomma, secondo me, la coazione a ripetere deriva da una serie di equivoci lessicali, in parte voluti e in parte inconsapevoli. Chiariti quegli equivoci e ridato alle parole il loro significato proprio, credo che il dibattito avrebbe fine per 'mancanza di oggetto'.

Quando il contenuto si sovrappone alla forma il risultato è, dal punto di vista estetico, lo zero assoluto, ma la stessa cosa avviene quando la forma riproduce la forma. In questi casi, come quando si propugna l'arte per l'arte, si scrive sull'acqua e niente più.

Un'altra parola da mettere sotto esame è la definizione di 'intellettuale'. Che cosa vuol dire? Vuol dire produrre opere affidate all'intelletto, esclusivamente o prevalentemente.

Un docente è senza dubbio un intellettuale e così un avvocato, un giudice, un medico, un filosofo, un architetto, uno studente. Ed anche un giornalista. Un dirigente d'azienda. Un uomo politico. Sono tutte persone che lavorano prevalentemente con l'intelletto e quindi meritano l'appellativo di intellettuale.


Non è questo però il senso semantico con cui viene usato quel sostantivo. Esso vuole designare una persona specializzata nel prevedere gli effetti di certe cause. Esamina una situazione e indica i comportamenti necessari a modificarla nel modo voluto. Insomma è un consigliere. Può mettere questa sua capacità a frutto senza necessità di schierarsi, può dar consigli a Prodi come a Berlusconi. Un capitano di ventura che sta sul mercato.

Ma può anche schierarsi. Se ha delle sue proprie convinzioni offrirà i suoi servizi non a chi paga meglio, ma a chi è più vicino ai suoi ideali politici, sociali, culturali.

Un'altra parola da mettere a fuoco è 'artista'. Si può schierare politicamente senza tradire la sua vocazione? Credo che nessuno possa impedire ad un artista di avere opinioni proprie da cittadino. Può alimentare con quelle opinioni anche la sua creatività artistica? Sicuramente sì e faccio un esempio: l'importanza della 'committenza' nella pittura, nell'architettura e nella musica. Ci furono, soprattutto nel Quattrocento e nel Cinquecento, committenze religiose e committenze laiche, committenze domenicane e francescane. Per fermarci a queste due, dalle committenze domenicane nacque il gotico fiorito, da quelle francescane il giottismo e tutto quello che ne derivò. Potrei moltiplicare gli esempi all'infinito, ma concludo su questo punto dicendo che l'artista crea opere esteticamente valide tutte le volte che dà forma artistica ad un soggetto, non importa se sia la nascita di Venere o l'annunciazione a Maria vergine. Tutto può essere artisticamente trasfigurato. Se la trasfigurazione non ha luogo l'opera giace inerte, aborto senza vita.

Impegno o disimpegno sono dunque parole senza senso se applicate ad artisti, a poeti, a compositori, a romanzieri e in genere alla letteratura. Poesia e letteratura vivono, come ci ha ricordato Claudio Magris in un suo recente e bellissimo articolo sul 'Corriere della sera': "Come la rosa che non ha perché e fiorisce perché fiorisce".

Più oltre Magris conclude con appassionata lucidità il tema che qui ho cercato di svolgere e con il suo pensiero anch'io concludo: "Se mettersi al servizio d'una causa diventa passione, potenza fantastica che identifica quella causa con la vita, allora anche l'impegno può diventare poesia, estro, libertà immaginosa. È questo l'impegno morale e di conseguenza l'impegno politico della letteratura, che non predica bensì mostra".

(02 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 18, 2007, 06:28:59 pm »

POLITICA

Il passo doppio Prodi-Veltroni

di EUGENIO SCALFARI


GIOVEDI' 15 novembre, alle ore 22.30 il quadro elettronico nell'aula del Senato ha registrato l'approvazione della legge finanziaria (senza voto di fiducia) con una maggioranza di quattro voti. Venerdì 16 novembre Walter Veltroni ha presieduto una riunione alla quale erano stati invitati i rappresentanti di tutti i partiti per discutere le riforme istituzionali e una nuova legge elettorale.

Gli invitati c'erano tutti. I rappresentanti di Forza Italia hanno opposto il solito "niet" all'apertura del dialogo. Fini, Casini e Maroni per la Lega, si sono dichiarati disponibili.

Prodi dal canto suo, nell'intervista rilasciata ieri a Ezio Mauro, ha sponsorizzato l'iniziativa di Veltroni ed ha lanciato un appello al paese e a tutte le forze politiche, nessuna esclusa, per collaborare alla fase delle grandi riforme che ora, dopo il varo della Finanziaria, è finalmente possibile aprire.

Chi dava il governo per morto dovrà ancora una volta ricredersi. Chi critica, impropriamente, il voto dei senatori a vita e lo sottrae dal risultato numerico, arriva tuttavia alla conclusione che la maggioranza, sia pure con un solo voto, è ancora lì mentre l'opposizione, subito dopo la sconfitta parlamentare, si è spaccata in due: da una parte Berlusconi e Storace, dall'altra - pronti al negoziato - An, Udc, Lega.

Questo è dunque lo stato dei fatti. Il negoziato sulle riforme andrà avanti speditamente con un'alta probabilità di successo. Ai nastri di partenza i pilastri sui quali si cercherà di costruire una buona legge elettorale sono condivisi da tutte le principali forze politiche: il principio della proporzionalità che evita le "ammucchiate" non omogenee tra forze politiche di diversa e spesso opposta identità culturale; il principio della governabilità; il rifiuto del premio di maggioranza; il principio d'un rafforzamento dei partiti di maggior dimensione numerica implicito sia nel modello tedesco sia in quello francese, in quello britannico e in quello spagnolo.
il doppio passo prodi-veltroni

Maggiori poteri al primo ministro e poteri di controllo più penetranti al Parlamento. Senato federale.
Questa è la piattaforma condivisa. Ora bisognerà chiarire qualche punto controverso e passare dai principi alle norme, operazione non facile ma nient'affatto impossibile.

Se non vi saranno incidenti di percorso il lavoro potrebbe compiersi entro luglio o entro ottobre al più tardi.

Comunque in tempo per le elezioni europee del 2009, alle quali potrebbero essere abbinate quelle politiche.
Ma c'è l'incognita Dini e - al seguito - l'incognita Bordon. Vorranno impedire con i loro cinque voti che questa strategia si compia? E potranno farlo?

* * *

Voci maliziose quanto anonime sussurrano di un vero e proprio contratto che sarebbe stato stipulato tra Dini e Berlusconi. Personalmente non ci credo. Non per ragioni di tempra morale che, per quanto riguarda il secondo, sarebbe rischioso invocare, ma per quanto riguarda Dini per ragioni di convenienza. Vendersi l'anima? Essere schiavo per tutta la vita? Non è credibile. Convenienza politica allora? Ma quale?

Elezioni nel 2008 non ci saranno. Se il governo entrasse in crisi nei prossimi mesi ce ne sarà un altro "di scopo": per attuare le riforme istituzionali e una nuova legge elettorale. Sarebbe sostenuto dal Partito democratico ed anche da Fini Casini e dalla Lega.

Se la crisi fosse provocata da Dini evidentemente non potrebbe esser lui a presiederlo né ad insediarsi in un ministero importante. Dovrebbe dunque aspettare le elezioni future quando saranno. Campa cavallo. E con un futuro quanto mai incerto. Non si vede alcuna convenienza in questa strategia.

Dini ha in mente, se la crisi comunque ci fosse, di ricavarsi uno spazio politico radunando i liberl-moderati.

Non sono moltissimi i liberal-moderati e sono già sotto varie bandiere: Casini, Tabacci, Mastella. Anche Rutelli.

Anche una parte dei Popolari. Fuori ruolo anche Pezzotta.

Ma sono divisi e difficilmente accorpabili. Ciascuno segue un proprio vessillo e un proprio leader. Nessun leader di questi raggruppamenti cederebbe il suo posto a Dini.

La sua sola convenienza è restare dov'è acquistando più spazio e più peso, se potrà.

Può darsi che questa analisi sia sbagliata. Può darsi che Dini faccia un colpo di testa. Francamente non mi pare il tipo ma non si può escluderlo. Staremo a vedere e non ci sarà molto da aspettare perché per votare a marzo-aprile quel colpo di testa bisognerà farlo non oltre febbraio.

* * *

Restiamo tuttavia ancora per qualche riga al tema del mercato politico così vivacemente sollevato nella sua dichiarazione di voto al Senato dal capogruppo dei Democratici, Anna Finocchiaro.

A dibattito già chiuso domandò la parola il senatore De Gregorio, presidente della Commissione Difesa, eletto nelle liste di Di Pietro e trasmigrato dopo breve tempo allo schieramento di centrodestra.

Il presidente Marini gli chiese quale fosse il tema sul quale voleva intervenire. Rispose che voleva controbattere le parole "infamanti" della Finocchiaro. Nei due minuti che gli furono concessi riempì di insulti la senatrice affermando che quanto a lui aveva la coscienza a posto, a prova di bomba. Tutti capirono che si trattava di una autodifesa anche se la Finocchiaro non aveva fatto alcun nome.

Perché dunque l'intervento di De Gregorio? Parecchi giornali hanno pubblicato qualche tempo fa una notizia desunta dall'analisi dei bilanci dei partiti depositati in Parlamento. È risultato che una cospicua somma fu versata da Forza Italia ad un'associazione-partito fondata da Di Gregorio. Il versamento seguì di poco il piccolo ribaltone personale del medesimo. La notizia è stata pubblicata da "24 Ore" e poi da "Repubblica" e dal "Corriere della Sera". Bisognerebbe approfondirla.
Forse è soltanto la punta di un "iceberg".

* * *

Abbiamo già segnalato la stretta sequenza tra l'approvazione della Finanziaria e l'iniziativa di Veltroni di aprire il confronto su riforme e legge elettorale tra tutte le forze politiche. Questa iniziativa apre la stagione del nuovo partito e del suo segretario. Il fatto nuovo è questo: il Partito democratico ha dettato per la prima volta l'agenda politica dei prossimi mesi. Prima ancora di farsi le ossa l'iniziativa è ora nelle sue mani.

Intanto si sono insediati o stanno per esserlo alcuni suoi organi nell'ambito della Costituente: una segreteria provvisoria, una direzione provvisoria, la commissione per lo statuto, la commissione per il programma.

In particolare l'indicazione dei valori e delle strategie per tradurre quei valori in atti politici.

Il dibattito attorno a questi temi parte da una domanda: qual è il fondamento del nuovo partito? L'unione di due culture, quella socialista e quella cattolico-democratica?

Oppure qualche cosa di più e di più complesso? Elementi di liberalismo? Elementi di liberismo economico? È un partito che guarda a sinistra o che guarda piuttosto al centro?

Liberale di sinistra? Reincarnazione post-moderna del Partito d'azione?

Questo dibattito merita di esser seguito con attenzione. Mi permetto di dire la mia opinione di testimone interessato.

Io penso che il fondamento del Pd sia quello di avere come punti di riferimento le opportunità positive offerte dal processo di globalizzazione mondiale, i pericoli che esso comporta, i diritti che suscita e i doveri che si accompagnano ad ogni diritto, la necessità di garantire a tutti l'efficienza dei servizi pubblici indivisibili, a cominciare dalla scuola, e poi dalla sanità dall'assistenza dalla formazione dalla ricerca dalla giustizia rapida dall'inserimento dei giovani. Una pubblica amministrazione efficiente e snella. Ammortizzatori sociali adeguati.

Sicurezza. Meno Stato e più società. Mercato libero da monopoli e corporazioni. Manutenzione attenta della libera concorrenza.

Sono parole? Tante, troppe volte ripetute e scarsamente e spesso raramente attuate. Ebbene, il nuovo partito dev'essere il cane da slitta e da guardia di quelle parole, del loro autentico significato, della loro duratura attuazione. Cane da slitta per portare avanti il carico e da guardia per custodirlo. Per concludere con un'immagine direi che dovrebbe essere un partito che viene da sinistra e guarda in avanti.

Ho letto pochi giorni fa sul "Corriere della Sera" un articolo di Pietro Ichino su una politica economica di sinistra liberale. Con le sue tesi concordo pienamente. Ho letto le tante pagine di Gustavo Zagrebelsky sulla democrazia e la laicità ed anche con lui concordo. E con Claudio Magris quando scrive di analoghe questioni e parla delle loro interazioni con la letteratura. Ho letto le riflessioni del professor Toniolo sulla politica economica necessaria nell'Italia e nell'Europa di oggi. Infine Ilvo Diamanti e le sue analisi sui giovani e la politica.

Ricordo ancora i convegni degli "amici del Mondo" che fornirono all'allora nascente centrosinistra la base culturale della sua politica. È un buon esempio da tener presente. Gli autori che qui ho citato a titolo di esemplificazione confermano l'esistenza di un deposito culturale ed etico-politico di prim'ordine con cui il nuovo partito dovrebbe attingere e che darebbe agli italiani maggior sicurezza e fiducia nel futuro.

* * *

Credo doveroso che l'opinione pubblica esprima gratitudine - al di là delle convinzioni politiche - a quei senatori a vita che si sono sobbarcati ad una scelta di campo non per sostenere un governo ma per assicurare al paese quel minimo di stabilità possibile nelle condizioni esistenti, evitando rischiosissime avventure. Spesso sono stati ricoperti di insulti che hanno affrontato con dignitosa sopportazione.

Nel loro comportamento non c'è e non ci poteva essere alcun tornaconto e alcun calcolo personale né retropensieri di sorta né capricciose meschinità da soddisfare ma soltanto il diritto-dovere di salvaguardare le istituzioni e il tessuto connettivo della nostra società.

Ne faccio i nomi: Andreotti, Ciampi, Colombo, Levi Montalcini, Scalfaro. Ad essi il nostro rispettoso saluto e augurio di buona vita.

(18 novembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 25, 2007, 11:41:51 am »

POLITICA

IL COMMENTO

La miscela esplosiva che incendia il cavaliere

di EUGENIO SCALFARI


L'ACCUSA che da sempre e ora più che mai viene lanciata contro Silvio Berlusconi è di essere populista.

Non dico che non corrisponda a verità, ma dico che è soltanto una parte della verità anche perché c'è populismo e populismo. Mazzini - in ben altro modo - era un populista. Anche Garibaldi. Anche Bakunin. Ma a nessuno verrebbe in mente di paragonare Berlusconi a queste figure del passato.

Per meglio definire il signore di Arcore è preferibile rifarsi a due grandi poeti romaneschi, Belli e Trilussa. Il primo, nel sonetto sull'"Editto" esordisce: "Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo / sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto". L'altro, ne "L'incontro de li sovrani" pone una domanda e dà una risposta del re: "E er popolo? Se gratta. E er resto? Va da sé".

Il populismo del re (o del demagogo aspirante dittatore, affetto da bulimia del potere) è cosa del tutto diversa dal populismo del rivoluzionario. Berlusconi appartiene a questa categoria. Vellica gli istinti peggiori che ci sono in tutti gli esseri umani. Impastando insieme illusorie promesse, munificenza, bugie elette a sistema, tentazioni corruttrici, potere mediatico. Una miscela esplosiva, capace di manipolare e modificare in peggio l'antropologia d'un intero paese. Ottant'anni fa Mussolini fece altrettanto; non a caso il suo giornale, affidato alla direzione di suo fratello Arnaldo, fu chiamato "Il popolo d'Italia". Il popolo?: "Se gratta e guarda la fregata che sul mare scintilla" scrisse Trilussa. E purtroppo di quel suo grattarsi non pare abbia conservato sufficiente memoria.

Quest'atteggiamento del "boss" spiega tante cose, a cominciare da quel suo "vibrare" davanti alla platea radunata da Storace che lo accolse con le braccia levate nel saluto romano scandendo il "duce duce" d'infausta memoria.

La sua operazione politica del nuovo partito è da questo punto di vista perfetta: lo sottrae ad una cocente sconfitta, realizza i bagni di folla di cui ha perenne bisogno come dell'aria che respira, aggancia la sua demagogia e il suo populismo alla destra fascista e alle sue pulsioni; infine scatena la sua vendetta contro i "traditori" che lui (sono parole sue) "ha tirato fuori dalle fogne e nelle fogne li rimanderà".
Ineccepibile, non c'è che dire.

* * *

Veltroni lo incontrerà venerdì dopo aver visto domani Fini, poi Casini e per ultimi, lunedì 3 dicembre, quelli della Lega. Tema: una nuova legge elettorale, ma anche modifiche istituzionali e costituzionali, riforme dei regolamenti parlamentari, Senato federale.
Berlusconi ha posto una condizione: la trattativa dovrà riguardare soltanto la legge elettorale, votata la quale la legislatura si chiude e il popolo è chiamato al voto che dovrà avvenire entro la primavera del 2008. Veltroni ha già risposto che questa condizione è inaccettabile, abbinare il negoziato alla caduta del governo Prodi non è nelle sue intenzioni oltre ad essere un accordo di natura anticostituzionale, quindi nessuna elezione politica fino a quando il governo sarà legittimamente in carica.

Con queste premesse i due si incontreranno. Berlusconi punta ad una legge proporzionale (alla tedesca) come del resto vorrebbe anche Casini; Veltroni preferisce un proporzionale corretto in senso maggioritario, come vorrebbe anche Fini.
Come finirà? Penso che Berlusconi accetterà di negoziare abbandonando la pregiudiziale della caduta del governo Prodi. Negoziato lungo. Tanto - pensa lui - Prodi cadrà egualmente, pugnalato da Bruto, cioè da Lamberto Dini. Questione di giorni.

* * *

Però, a pensarci bene, mandare Prodi a gambe levate non conviene al signore di Arcore. Il Quirinale a quel punto ha l'obbligo di cercare una nuova maggioranza. Ebbene, la nuova maggioranza per un governo "di scopo" che porti avanti la legislatura fino a quando le riforme istituzionali ed elettorali siano state realizzate ed attui la Finanziaria e i suoi collegati, è sulla carta disponibile: la maggioranza attuale più An e Udc. Per un governo "di scopo". Maggioranza di emergenza.
Conviene a Berlusconi? Sarebbe di fatto una sua piena sconfitta. Se non ha del tutto perso la ragione, a lui conviene tenersi Prodi e andare avanti nella trattativa rinunciando all'appuntamento elettorale. Sarebbe una sconfitta anche questa ma almeno senza l'onta di vedere i suoi ex delfini traditori riprender confidenza con il potere. Dalla padella alla brace. Scelta difficile ma obbligata: la padella è meglio.

Quanto a Dini, se il governo non gli offre un pretesto valido non può esser così scriteriato da fare la parte di Bruto che non ha mai portato fortuna a nessuno. Ma poi quale Bruto? Quali ideali? Quale prospettiva politica? Andrebbe a far compagnia a Schifani e a Cicchitto, a Dell'Utri e alla Brambilla; una compagnia già troppo numerosa per lasciare spazio ad un nuovo venuto, ex traditore anche lui. Non sembra credibile. Andrebbe forse con Casini mentre Casini tratta a sua volta con Veltroni? Sarebbe imbarazzante. Per un piatto, anzi un piattino di lenticchie e senza primogenitura.
Dini può condizionare soltanto Prodi. Col risultato di rafforzarlo. Oppure di farlo cadere se la sinistra dovesse votargli contro sul voto di fiducia.
Bertinotti, Diliberto, Pecoraro Scanio come Bruto? Mentre anche loro sono chiamati a negoziare sulle riforme? Tutto questo per ottenere qualche briciola sui lavori usuranti e sullo "staff leasing"? Ma siamo seri!

* * *

Quale legge elettorale? Alla fin fine sarà la proporzionale tedesca con qualche (modesta) correzione maggioritaria che favorisca i partiti di maggiori dimensioni.
Entreranno in Parlamento sei partiti: il partito del popolo berlusconiano, il partito democratico, An, Udc, Lega, Sinistra radicale (Cosa rossa). Verdi, socialisti, radicali, dipietrini dovranno accasarsi a sinistra in qualche modo.
A guardare le cose così - e non vedo in quale altro modo guardarle - non esisterebbe una maggioranza. A meno che i berlusconiani e/o il Pd non riescano a sfondare portandosi in vista del 40 per cento dei voti.
È possibile un esito elettorale del genere? Possibile sì, probabile non direi. I berlusconiani al 40 per cento dovrebbero aver risucchiato almeno metà dei voti di An costringendo Fini a rientrare nei ranghi insieme alla Lega. E il Pd?

* * *

Qui si apre un discorso molto serio che va oltre le contingenze emergenziali dettate dall'attualità. Riguarda i tanti lavoratori e pensionati che hanno votato Berlusconi, i tanti giovani che non votano, i tanti delusi di sinistra che non votano più. I tanti imprenditori di piccola e media dimensione che stanno tra il leghismo e il riformismo. Le tante "casalinghe" che pensano al futuro dei loro figli. Insomma il paese spaesato che vuole onestà ed efficienza, innovazione e laicità religiosa. Che vuole fare da sé ma in un quadro politico che lo orienti e lo aiuti a fare da sé.
Il Partito democratico ha la potenzialità per compiere questo miracolo se saprà esprimere, interpretare e dare concrete risposte ai bisogni, ai desideri e ai sogni di questo settore maggioritario del paese.
Politologi e sondaggisti travestiti da politologi pensano che i voti fluttuanti capaci di cambiare partito tra un'elezione e l'altra siano un piccolo settore del corpo elettorale e questo è vero quando si fronteggino due solidi blocchi con solide appartenenze in mezzo ai quali si interponga uno strato sottile di elettori "centrali" che di volta in volta si muovano verso destra o verso sinistra.
Ma non è più vero quando il quadro è frammentato, i blocchi e le appartenenze sono fragili e la politica cosiddetta dei due forni non è possibile.
Non concordo con quanti sostengono che un ritorno al proporzionale significhi ritorno alla Prima Repubblica. Allora c'era un partito di centro - la Democrazia cristiana - largamente dominante. La politica dei due forni era lei a farla, scegliendo di volta in volta i suoi alleati. Il sistema proporzionale (come ha scritto giustamente Giovanni Sartori) funzionava di fatto come un sistema bipolare: Dc da una parte, Pci dall'altra. Bipolare ma senza alternanza.

Oggi il problema è quello di costruire un partito di maggioranza sul quale convergano riformisti seri e liberali altrettanto seri. Ceti che abbiano capito il valore democratico delle istituzioni, il valore di agire in un quadro europeo, il valore di collocare l'Italia nel processo di globalizzazione cogliendone i vantaggi e limitandone i danni. Riconquistando la fiducia del Nord e rilanciando il Sud come investimento nazionale e internazionale.

Questa mi sembra essere la vocazione del Partito democratico e ad essa dovranno dedicarsi quelli che l'hanno voluto e i tanti che hanno compreso e partecipato al progetto.

Berlusconi ha detto l'altro ieri ai suoi ex alleati "Voi tenetevi il progetto, io mi prenderò i voti". Sembra una battuta più o meno felice, ma il dramma dell'ex centrodestra è che quella battuta corrisponde esattamente al pensiero e alla personalità del suo autore. Il quale vede gli italiani come un popolo da accalappiare a forza di battutacce, barzellette grevi e carisma personal-mediatico.

Con questi ingredienti non si va da nessuna parte, il paese resta fermo o regredisce, come di fatto è avvenuto.
Il centrosinistra ha anch'esso rilevanti responsabilità nello stallo in cui ci troviamo da anni. Ma - non scordiamolo mai - ha compiuto una riforma di inestimabile valore portando l'Italia in Europa e nell'area della moneta europea, senza la quale a quest'ora saremmo rimbalzati in una condizione da Terzo Mondo.

Ora ci vuole uno scatto di qualità e di quantità, al quale sono chiamati tutti gli italiani. Riguarda infatti il Partito democratico ma anche la sinistra e i cittadini che sentono con maggiore sensibilità tradizioni liberali e moderate. Tutti sono interessati a far emergere le potenzialità delle quali l'Italia dispone. Questa è la vera maggioranza e questo dev'essere il progetto comune delle persone di buona volontà. I voti, quali che siano le battute della demagogia berlusconiana, verranno insieme al progetto, motivate dal progetto e con la volontà di attuarlo.

* * *

Non ho nulla da aggiungere a quanto ha già scritto il direttore di "Repubblica" sullo scandalo Rai-Mediaset, sull'operazione "Delta", sulla sua eccezionale gravità e sulla necessità di affrontarlo con appropriate terapie. Affrontarlo subito, perché è in gioco il mercato dell'informazione, la sua qualità e i suoi effetti sulla formazione della coscienza nazionale.

Aggiungo a quanto hanno scritto Giovanni Valentini, Michele Serra e Giuseppe D'Avanzo due considerazioni. La prima riguarda la cosiddetta "fuga di notizie" a proposito delle intercettazioni telefoniche nel processo per bancarotta della società controllata dall'ex sondaggista di Berlusconi. La fase istruttoria è chiusa da tempo, tutti gli atti relativi sono stati depositati nella cancelleria del Tribunale di Milano a disposizione delle parti e quindi sono pubblici. La cosa stupefacente è che vi siano ancora recriminazioni sulla "fuga" di queste notizie che non sono più soggette ad alcun obbligo di secretazione.

La seconda osservazione riguarda la terapia affinché la Rai cessi di essere un corpaccione dominato dai partiti e dalle camarille interne e divenga invece un'azienda indipendente, incaricata di compiere il servizio pubblico dell'informazione. Non parlo ovviamente della necessità di accertare i fatti e sanzionarne severamente gli autori: è un atto dovuto. Parlo della necessità di trasformare l'azienda scrostandola dalle camarille interne e dalla pressione esterna-interna dei partiti.

C'è un solo modo per farlo: trasferire la proprietà dell'azienda dal governo ad una Fondazione i cui dirigenti siano designati dal Presidente della Repubblica e da altre Autorità indipendenti. La Commissione di vigilanza dev'essere a mio avviso abolita perché ha la sola funzione, non più accettabile, di tutelare i partiti. La Fondazione avrà il potere di nominare l'organo di amministrazione dell'azienda e questo nominerà i direttori delle reti e dei telegiornali oltre che gestire le risorse e gli investimenti.

Non è cosa difficile e non richiede molto tempo ma soltanto volontà politica. E urgenza.
Una volta che la Rai sia di proprietà d'una Fondazione indipendente dalla politica, anche il problema del conflitto d'interessi sarà risolto, almeno per questa parte che è poi quella essenziale.
Non aspettate, per favore, neppure un minuto di più.


(25 novembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 04, 2007, 11:26:13 pm »

Eugenio Scalfari.

Nietzsche ultimo moderno

Dopo di lui un confuso balbettìo.

Nel quale emergono anche figure di grande peso e validità artistica, ma non tali da configurare una 'poetica'


Un libro recentissimo di Alfonso Berardinelli, 'Casi critici', apre e chiude la discussione sul post-modernismo, cioè sulla letteratura, la poesia e l'arte fiorite (si fa per dire) nella seconda metà del Novecento come omologazione e distacco dalla modernità. Stando all'analisi di Berardinelli il post-moderno sarebbe cominciato già negli anni Quaranta del secolo scorso e avrebbe dunque coinvolto anche scrittori e poeti come Moravia, Calvino, Pasolini, il secondo Montale (quello di 'Satura' e delle opere ultime), i 'Cent'anni di solitudine' e perfino un poeta come Auden che ha illuminato la poesia del XX secolo.

Berardinelli si pone, ovviamente, la domanda di che cosa sia e in che cosa consista il post-modernismo e abbozza una risposta. Anzitutto ciò che non è: non è moderno ma neppure avanguardia; non è un 'ritorno all'ordine'; non è invenzione innovativa. Invece è barocchismo, citazionismo, lontananza dalla modernità senza la potenza necessaria ad indicare una strada nuova e diversa. Pensiero debole, lo definisce in conclusione l'autore senza necessariamente dare a questa definizione un significato dispregiativo.

Questo, se ho capito bene, sarebbe il post-modernismo del quale comunque Berardinelli annuncia la fine. Una fine, direi, per estenuazione, dopo la quale non si intravedono altri inizi.

Non faccio il mestiere del critico e quindi non voglio invadere campi di scrittura che non sono i miei; tuttavia sono un lettore di professione, come avrebbe detto Paolo Milano che di critica se ne intendeva. Lettore di professione. Come tale mi arrischio a dire la mia sul tema sollevato da Berardinelli e comincio dall'inizio, cioè dalla modernità.

Ho la sensazione che non si abbia un'idea chiara della modernità, di che cosa si intenda per pensiero moderno. Che riguarda anche, e produce effetti, sulla letteratura, la poesia, la pittura, l'architettura, la musica, la scienza. Insomma su tutte le manifestazioni della vita perché il pensiero è la principale modalità che caratterizza il vivere della nostra specie nel mondo.

Ebbene, il pensiero moderno nasce nel momento in cui la personalità individuale si autopropone come soggetto centrale e autonomo di coscienza e di creatività. Rompendo con i canoni tradizionali dell''ipse dixit', con l'imitazione del passato, con la fissità dei generi letterari e artistici.

La modernità rappresenta cioè la grande rottura rispetto all'antichità classica. Una rottura che coinvolge anche il costume e la politica, l''ancient régime' e la Chiesa da un lato, i moderni dall'altro. Se dovessi scegliere qualche nome direi Caravaggio, Donatello, Michelangelo, direi Mozart, direi Cartesio, Machiavelli, Shakespeare, Galileo e Newton, direi Pascal ed anche Rabelais e Cervantes.

Questo è l''incipit' della modernità, che non comincia tutta insieme e dovunque ma si espande gradualmente a macchia di leopardo per abbracciare alla fine l'insieme della civiltà occidentale.

Il culmine della modernità è raggiunto agli inizi del XIX secolo, a cavallo tra l'Illuminismo e il Romanticismo. Con qualche riserva su quest'ultimo, che regredisce verso il 'Gotico' ma con un'altra parte di sé irrompe ancor più avanti nella creatività soggettiva, soprattutto nella musica, nel romanzo e infine nelle arti figurative e nella poesia.

Fino a quando dura la modernità? Questa sì che è una bella e difficile domanda. Ad essa non si può dare un'unica risposta se non dicendo che la modernità dura fino a quando permane la sua creatività o, se si vuole dirlo in altro modo, la sua forza propulsiva.

Brahms, Mahler, Wagner, sono certamente moderni romantici; ma anche Stravinskij e Debussy fanno parte della modernità sia pure in chiave di avanguardia.

In pittura la modernità arriva fino a Picasso e a Matisse. Ma perfino a Rothko. Avanguardia moderna. Creativa. Innovativa. Che viaggia sull'ascissa del tempo e sull'ordinata della classicità perché la grande modernità è classica, duratura, dinamica. Mi viene da dire eraclitea. Forse aiuta a capire ciò che intendo per modernità se faccio i nomi di Leopardi, Keats, Flaubert, Stendhal, Tolstoj ma poi anche Proust, Joyce, Faulkner, Auden, Rilke, Kafka.

Questa è la modernità classica per dire la più matura e avanzata. Nella scienza la creatività moderna si fregia dei nomi di Einstein, Max Planck, Freud. Poi comincia la 'décadence'. È una fase assai complessa, quella della decadenza. Sopraggiunge quando la modernità raggiunge la pienezza ed è presa da una sorta di languore creativo, dubbiosa sulle proprie capacità e ripiegata su sé stessa. Infine estenuata anzi stremata. Con discontinui bagliori di ripresa che ben presto si spengono in un balbettìo sempre più opaco e insignificante.

Su questo panorama si erge la figura di Federico Nietzsche che è insieme filosofo, poeta, profeta. E chiude, lui sì, definitivamente la modernità poiché la porta al suo punto di estrema radicalità e di nichilismo. Se questo è stato il percorso, e così io penso sia stato, ciò che viene dopo è un confuso balbettìo nel quale emergono figure di grande peso e di grande validità artistica ma non tali da configurare una 'poetica'. Perciò andare a caccia di scuole e di definizioni è tempo sprecato. Dopo la modernità ci sono i contemporanei, che sono inclassificabili. Nasce il linguaggio della fotografia e quello del cinema. Poi quello di Internet. Qualcuno lancia l'immagine delle invasioni barbariche. Perché no?

(30 novembre 2007)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 07, 2007, 11:15:01 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Bertinotti e il dovere del silenzio

di EUGENIO SCALFARI


HA ragione il capo dello Stato che si dichiara "perplesso" delle parole dedicate dal presidente della Camera a Prodi e al governo da lui presieduto, nell'intervista pubblicata qualche giorno fa dal nostro giornale. Perplesso è l'aggettivo giusto. Fossimo alla Camera dei Comuni l'aggettivo appropriato sarebbe "scandalizzato", ma qui da noi da tempo i presidenti della Camera e del Senato hanno cessato di essere considerati e da considerarsi semplicemente gli "speaker" delle rispettive assemblee. Sono uomini politici che parlano di politica dalle più alte sedi istituzionali, con la sola cautela di astenersi dalle singole votazioni.

Ma anche se questa è la prassi invalsa, questa volta Fausto Bertinotti l'ha visibilmente oltrepassata. Augurarsi, anzi prevedere, anzi dichiarare che il presidente del Consiglio "è morente", che il centrosinistra ha fallito, che l'opinione pubblica l'ha abbandonato e che il suo partito (di Bertinotti) si propone di dissociarsi dalla coalizione e avere "le mani libere", raffigurano un leader politico a tempo pieno che crea un vero e proprio conflitto istituzionale di inaudite proporzioni. Ne era consapevole il presidente della Camera? Ne aveva valutato gli effetti? Oppure si è fatto prendere la mano mettendosi in una posizione che definire imbarazzante è dire assai poco? Ho grande stima per le capacità suggestive del suo linguaggio e per la sua immaginazione politica. Un po' meno per quanto riguarda il suo senso delle istituzioni.

Ma il problema ora è di capire perché Bertinotti ha detto ciò che ha detto e poi vedere qual è la via - se ce n'è una - per ricomporre il devastante conflitto istituzionale che si è creato.

Capire ciò che ha detto significa anche valutare ciò che non ha detto. Non ha detto che tra gli sconfitti della situazione politica attuale il primo è proprio lui. La pretesa sconfitta del centrosinistra è in realtà l'isolamento della sinistra radicale e il suo ritorno a quel ruolo di semplice testimonianza antagonista dal quale proprio lui, Fausto Bertinotti, ha tentato di liberarla affidandole una funzione di presenza politica governante e concretamente riformatrice.

Nell'idea di Bertinotti la sua sinistra avrebbe dovuto rappresentare una sorta di affluente nel grande fiume del riformismo italiano. Un affluente di grande importanza e di ampio volume di acque, che avrebbe potuto e dovuto modificare in modo significativo il corso del fiume senza proporsi di invertirlo.
Quest'operazione era molto ambiziosa. Il suo partito era infatti nato non per affluire in un fiume riformista ma per dar vita ad un fiume autonomo. Magari parallelo per una parte del percorso, ma poi orientato verso un altro punto cardinale e sospinto da un'altra pendenza.

Superare questa concezione originaria è stato, fin dal 2004 e sempre più con l'approssimarsi delle elezioni politiche del 2006, l'obiettivo di Bertinotti. Per raggiungerlo si è "inventato" il partito transnazionale della sinistra europea. Per la stessa ragione ha accettato la leadership di Prodi, cioè di un leader senza partito; per dare corpo alla sua strategia ha chiesto la presidenza della Camera, mettendosi oggettivamente di traverso alla candidatura di Massimo D'Alema.

So (l'ho saputo dallo stesso D'Alema) che nella "spiegazione" che ci fu tra loro due, D'Alema gli manifestò il timore che Rifondazione, perdendo il suo segretario, avrebbe rischiato di sbandarsi. Fu rassicurato da Bertinotti su questo punto e - come ricordato da Benigni con l'irresistibile comicità che gli è propria - "fece un passo indietro", ma la sua diagnosi si è dimostrata giusta. Rifondazione ha accettato con molto disagio i nuovi compiti politici che gli venivano assegnati, ha accentuato la necessità di distinguersi all'interno del governo, ha alimentato lo scontro anche se alla fine di ogni "round" decideva poi di riallinearsi per evitare la caduta del governo.

La perdita di consenso di Prodi si deve in gran parte alla permanente rissosità che i ministri della sinistra radicale hanno via via accresciuto, dando agli italiani la sensazione che il governo non fosse in grado di governare. Un giudizio che non corrispondeva alla realtà: il governo in un anno e mezzo e malgrado la situazione numerica al Senato, ha governato. Ha varato due Finanziarie importanti, ha recuperato un accettabile risanamento finanziario, ha dato inizio ad una politica redistributiva non trascurabile, ha svolto un ruolo importante nella politica estera.

Eppure tutto è stato reso invisibile dalla rissa continua all'interno dell'Unione e all'interno del governo. Sui "media" non c'era giorno che non vi fossero titoli su quella rissa, se ne fornissero i retroscena, se ne raccontasse lo svolgimento. La gente ha perso progressivamente fiducia, l'opposizione ha puntato tutto sull'implosione della maggioranza. Chi si è assunto la responsabilità dei danni creati da questa continua ricerca di visibilità? Gli attori mai stanchi di rilanciare lo scontro interno sono stati i gruppi di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, oggettivamente coadiuvati sull'opposto versante da Mastella, Di Pietro, Dini. La nascita del Partito democratico ha accelerato questo percorso: dal momento in cui il fiume riformista veniva personificato da un partito e da un leader la situazione degli affluenti non poteva che risultare sempre più disagevole.

Concluderei su questo punto con il vecchio adagio: chi è causa del suo mal pianga se stesso. I "cespugli" della sinistra radicale e Rifondazione non si sono accontentati di correggere il corso del fiume riformista, hanno tentato di invertirne il corso o almeno di dare l'apparenza di questa operazione. Di qui l'apparenza di un governo che galleggiava anziché governare, d'un Prodi Re Travicello travolto dai marosi della sua coalizione.

C'era un'alternativa per la sinistra radicale? Non ce n'era altra che tornare al suo vecchio ruolo di testimonianza antagonista. Bertinotti ha resistito finché ha potuto, poi ha mollato. L'intervista a "Repubblica" è la testimonianza del fallimento della sua politica. Purtroppo porta con sé, a scadenza più o meno breve, la fine dell'esperimento prodiano. A meno che Bertinotti innesti ora la retromarcia. Ma il suo partito lo seguirà?

C'è un punto che va chiarito: la citazione di Riccardo Lombardi che nelle parole di Bertinotti a "Repubblica" risulta essere il modello della sua azione politica. Bertinotti come Lombardi? Rifondazione come la sinistra lombardiana?

Non posso credere che Bertinotti non conosca a fondo il pensiero e la biografia politica di Lombardi, perciò o ha travisato volutamente o vuole fornire un'immagine di sé e del suo partito che non collima con la realtà. Lombardi apparteneva allo stesso ceppo riformista di Pietro Nenni. Veniva dal Partito d'azione. Non ebbe mai indulgenze verso l'ala filo-comunista e filo-sovietica che nel Psi era rappresentata da Vecchietti e da Valori. Aveva una solida conoscenza dell'economia, non amava il piccolo cabotaggio riformista e puntava invece sulle riforme da lui definite strutturali: quelle che potevano modificare appunto la struttura del capitalismo senza però impedirne il funzionamento ed anzi rivitalizzandone la concorrenzialità, la trasparenza, l'efficacia e rafforzando la sua scelta democratica.

Le riforme alle quali lavorò quando ebbe inizio il centrosinistra nel 1962, erano quattro: la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la nominatività dei titoli azionari, l'abolizione del segreto bancario, la nazionalizzazione dei suoli edificabili. Conosco bene questa storia perché la seguii assai da vicino. Assistetti anche ad un incontro decisivo su tutta questa tematica tra Carli e Lombardi che avvenne in casa mia nel 1963 su richiesta di Riccardo.

La conclusione fu - per dirla molto in breve - che Carli convinse Lombardi sull'impossibilità politica, sociale ed economica di fare quattro riforme di quella portata in un breve spazio di tempo. Avrebbero provocato il panico di tutti i ceti sociali, una crisi nei depositi bancari, una gigantesca fuga di capitali e reazioni politiche di segno autoritario. L'incontro durò fino alle due del mattino. Alla fine Lombardi si convinse. Stralciò la nazionalizzazione dei suoli e l'abolizione del segreto bancario. Concentrò l'azione del Psi sulla nazionalizzazione dell'industria elettrica e sulla nominatività non dei titoli azionari ma delle cedole e dei dividendi all'incasso.

Il suo riformismo cioè riuscì a correggere il corso del fiume riformista senza precipitare in un antagonismo sistemico che serve soltanto a mantenere in vita la ditta dei cespugli grossi e piccoli. Perciò il modello lombardiano è forse quello cui Bertinotti aspirava ma che il suo partito non ha condiviso.

Quanto alla crisi istituzionale, è evidente che essa deve essere immediatamente ricomposta. Sulla carta ci sono due modi di affrontarla: le dimissioni di Bertinotti dalla presidenza della Camera oppure una sua stagione di stretto riserbo politico nei limiti d'uno scrupoloso esercizio del suo ruolo istituzionale. La prima soluzione - quella delle dimissioni - è di gran lunga la peggiore. Aggraverebbe drammaticamente la crisi anziché risolverla; forse sarebbe possibile in un Paese diverso e in una diversa situazione. La seconda dunque è in realtà la sola strada, ma deve avere rilievo pubblico, deve essere esplicita e non implicita.

Non si deve certamente chiedere a Bertinotti ciò che nessun politico è disposto a dare, non gli si può chiedere di smentire se stesso. Ma si ha ragione di chiedergli che dica che d'ora in avanti non farà più esternazioni politiche visto che esse provocano disagio e contrasti accrescendo la confusione.

Prenda atto del dato di fatto e cominci la sua nuova stagione di "speaker", lasciando che il suo partito e gli organi che lo guidano orientino da soli il loro cammino senza bisogno del suo patrocinio. Così avrebbe dovuto essere fin dall'inizio. Lo sia almeno da ora. E lo sia soprattutto per quanto riguarda la riforma della legge elettorale. Sarebbe grottesco e assolutamente intollerabile che il presidente della Camera fosse di fatto uno degli interlocutori degli altri partiti in causa su una materia che troverà in Parlamento la sua sorte. Mai come in questa occasione l'arbitro non può giocare in campo con i giocatori, né nella forma né nella sostanza. Perciò si turi le orecchie, si bendi gli occhi e abbia di mira esclusivamente la corretta applicazione del regolamento parlamentare.

(7 dicembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 09, 2007, 04:54:31 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Cade, non cade, magari ce la fa

di EUGENIO SCALFARI


CADRÀ a gennaio. No, cadrà prima. Non durerà fino al 2009. I pareri sono discordi, le scommesse impazzano. Perfino i cronisti e i notisti politici dei giornali ne sono stati contagiati e invece di raccontare e di analizzare quel che accade si impigliano in vaticini, spesso orientati dagli uffici stampa dei partiti in barba all'oggettività deontologica della professione.

Se il governo cadrà prima di gennaio, cioè nei prossimi giorni, la causa scatenante sarà stata l'emendamento del decreto sulla sicurezza che prevede pene detentive contro chi incita alla discriminazione razziale e omofobica. Cioè il caso sollevato in Senato dalla cattolicissima Paola Binetti.

A gennaio invece si parlerà di verifica: la vuole Prodi per sapere se Rifondazione ha deciso di uscire dall'Unione e la vuole Rifondazione per imporre al governo una politica economica più impegnata nel sociale, per aumentare il potere d'acquisto dei salari e per contrastare il lavoro precario.

Se questi appuntamenti saranno superati il governo avrà guadagnato un anno. Poi si vedrà. Su questi diversi scenari bisogna riflettere. E poi, magari, anche scommettere, ma con cognizione di causa.

* * *

Paola Binetti è senatrice cattolica. Ultracattolica. Di tanto in tanto porta il cilicio (l'ha detto lei) per mortificare il corpo e offrire a Gesù il suo sacrificio.
Questa prassi, ormai desueta, suscita rispetto ma fa anche impressione. Nello smaliziato mondo di oggi può perfino provocare comicità. Infine la Binetti è seguace dell'Opus Dei. Ma si è iscritta al Partito democratico o meglio: viene dai Popolari di Marini, quindi dalla Margherita, per avvenuta fusione è infine approdata al partito di Veltroni.

Sembra che ci si trovi a suo agio. Fa piacere saperlo, la democrazia pluralista del Pd non può che essere rafforzata da questa "contaminazione".
Per i valori che rappresenta, la Binetti è stata inserita nella commissione di quel partito e incaricata di redigere il "manifesto", cioè appunto la carta dei valori. Il presidente della commissione è Alfredo Reichlin, una vita da dirigente del Pci, un intelletto fervido e rispettoso delle diversità, ma certo non un baciapile.

La Binetti e i valori da lei rappresentati saranno indubbiamente contaminanti (utilmente contaminanti) ma dovranno a loro volta venir contaminati dai valori della laicità (utilmente a loro volta contaminanti). Insomma ci dovrà essere una sintesi. Da subito perché il caso Binetti è già scoppiato, rischia di provocare la caduta del governo, il Pd deve dunque prendere una decisione. È evidente che la Binetti non può essere espulsa dal partito: un partito democratico non può, per definizione, sanzionare i casi di coscienza.

Da parte sua la senatrice ultracattolica deve rispondere a due domande. La prima: è vero che alla vigilia del voto ha ricevuto una telefonata dal segretario della Conferenza episcopale che le raccomandava di votare contro? Se è vero, il fatto è molto grave. Non tanto per lei, che avrà certamente seguito la sua coscienza, quanto per monsignor Betori. Lo spazio pubblico di cui la Chiesa gode in abbondanza le dà titolo a propagandare i suoi principi di dottrina, di fede e di morale. Spesso sconfina - e non dovrebbe - nella politica. Ma assolutamente non può intervenire direttamente per condizionare il voto di un membro del Parlamento.

L'intervento del segretario della Cei raffigura una macroscopica lesione delle norme concordatarie. Se l'intervento c'è stato, il ministro degli Esteri della Repubblica italiana dovrà chiedere spiegazioni e scuse formali alla Segreteria di Stato vaticana. Perciò la Binetti ha l'obbligo di dirci la verità su questo punto essenziale.

C'è però una seconda domanda cui deve rispondere. La Costituzione italiana prescrive in modo esplicito che non vi possano essere discriminazioni nei confronti dei cittadini, eguali di fronte alla legge indipendentemente dall'età, dal sesso, dalla religione. Perciò parlare, o peggio ancora legiferare, discriminando gli omosessuali è un atteggiamento anticostituzionale.

L'emendamento inserito nel decreto in questione tende a dare attuazione con legge ordinaria ad un principio essenziale stabilito dalla Costituzione. La senatrice Binetti contesta la stesura di quell'emendamento (che può essere modificato) o contesta il principio sancito in Costituzione? Nel primo caso è giusto che operi per emendare l'emendamento; nel secondo è doveroso che si dimetta dal Partito democratico che tutti può ospitare salvo chi anteponga i suoi principi a quelli della Costituzione.

Non mi pare che sul caso Binetti ci sia altro da dire. C'è solo da attendere le risposte dell'interessata. Se vorrà darle a noi le saremo grati. Comunque le deve dare al suo partito e, più ancora, al Senato della Repubblica.

* * *

Se non cadrà sul caso Binetti, supererà il governo la verifica di gennaio? Io credo di sì.
Rifondazione chiede un robusto impegno sul potere d'acquisto dei ceti più deboli, sul precariato, sulla chiusura dei contratti di lavoro ancora aperti. Per mettere altra carne al fuoco, i ministri della sinistra radicale chiedono anche a Prodi un ripensamento sulla base militare americana a Vicenza.

Il ripensamento violerebbe un accordo internazionale già firmato e confermato. Perciò la richiesta mi sembra più provocatoria che sostenibile. I contratti riguardano la controparte dei sindacati e non il governo, il quale può soltanto auspicarne la chiusura e offrirsi come mediatore se richiesto dalle parti contraenti.

Quanto alla politica redistributiva e al precariato, si tratta di obiettivi che fanno parte integrante degli impegni programmatici del governo il quale ha già dato inizio al loro adempimento e ha già dichiarato la sua ferma intenzione di andare avanti su quella strada nella Finanziaria del 2009. Se anticiperà i tempi sarà ben fatto e penso che lo farà.

Il limite sta esclusivamente nelle risorse disponibili. Cioè nella copertura finanziaria, che dovrà tener conto del vincolo europeo. Già nella Finanziaria del 2008 il governo si è mosso in un'ottica di rispetto di quel vincolo dandone però un'interpretazione intelligente e flessibile, anche se ne è derivato un conflitto con la Commissione di Bruxelles, poi superato in sede Ecofin.

Immagino che la stessa interpretazione sarà mantenuta ferma anche nel prossimo esercizio finanziario. Ma nella sostanza quel vincolo permane ed è interesse del Paese rispettarlo. Per di più, in una materia che investe la politica sociale, è evidente che la verifica politica dovrà svolgersi in parallelo con la verifica con le parti sociali, che del resto l'hanno già chiesta anche loro.

Comunque: non c'è alcuna contrapposizione sugli obiettivi, che sono comuni del governo, della sinistra, dei sindacati. Ed anche della Confindustria e della Banca d'Italia. Altrettanto comuni sono (o dovrebbero essere) gli obiettivi riguardanti la pressione fiscale, la spesa corrente, il disavanzo, il debito pubblico, che dovrebbero tutti diminuire, e l'avanzo primario che dovrebbe invece aumentare.

Non vedo dunque come e perché il governo dovrebbe cadere sulla verifica, sempre che Rifondazione non sia a caccia di pretesti e non abbia già deciso di mettere in crisi il governo.

Se l'ha deciso, se ne assumerà le responsabilità. È vero che la crisi del governo Prodi non significa necessariamente la fine della legislatura. Berlusconi, a quanto si sa, ha assunto l'impegno con Veltroni di continuare il negoziato sulle riforme e lo stesso proposito hanno manifestato Fini e Casini. Tuttavia lo stesso Veltroni ha poi dichiarato che, nonostante questo impegno, una crisi del governo Prodi aprirebbe una fase di precarietà generale che rischierebbe di chiudersi con le elezioni anticipate fatte con l'attuale legge elettorale.

Perciò ci pensi bene la "Cosa rossa" prima di giocare a dadi sulla sorte di Prodi. Ci pensi molto bene perché con quella giocata mette contemporaneamente a rischio gli interessi del Paese e anche i propri.

* * *

Dovrei ora esaminare lo stato della trattativa sulle riforme e il tipo di legge elettorale che potrà risultarne.
Da quanto sappiamo si va verso una legge proporzionale, con uno sbarramento del 5 per cento, qualche specifica normativa per i partiti ad insediamento regionale, la sfiducia costruttiva come prevista dal modello tedesco.
Forse anche una dichiarazione preventiva di alleanze ma non impegnativa rispetto a risultati che richiedessero altre soluzioni.

All'interno del Pd questo risultato (probabile ma nient'affatto facile da raggiungere) ha incontrato finora la netta ostilità di Parisi e della Bindi che rivendicano il sistema maggioritario con premio di coalizione. Perché si aggrappino a questa soluzione è un mistero. Non certo per difendere il bipolarismo, che esiste in ogni caso visto che alla fine, in un regime democratico, ci deve essere una maggioranza che governa e un'opposizione che la contrasta.

Non è dunque il premio di maggioranza che crea il bipolarismo ma la differenza dei programmi e delle forze sociali che i partiti rappresentano. Il premio obbliga a comporre coalizioni non coese, alle quali la pubblica opinione si ribella dopo averle viste all'opera con Berlusconi prima e con Prodi dopo.

Parisi e Bindi fanno finta di ignorare questo generale rifiuto dell'opinione pubblica, ma ne sono perfettamente edotti. Allora qual è la ragione della loro contrarietà? A questa domanda non hanno dato alcuna risposta. Nei fatti la loro ostilità sembra mirare ad un'operazione di indebolimento di Veltroni. Essi lo negano, ma la logica politica porta a questa conclusione. Perciò si spieghino.

Ne hanno il diritto ma soprattutto il dovere.

* * *

Sull'opposto versante, non si riesce ancora a capire la qualità dei rapporti politici tra Fini e Casini e tra i loro rispettivi partiti. Casini dice che sono rapporti improntati al massimo rispetto reciproco, ma questa frase non dice assolutamente nulla. Si stanno avviando verso una federazione elettorale? Un patto di unità d'azione necessario per far loro raggiungere una massa critica numericamente rispettabile, anche al netto di probabili incursioni berlusconiane nel loro elettorato?

Se così fosse e se la legge elettorale fosse proporzionale, il panorama post-elettorale potrebbe essere il seguente: due partiti maggiori - il Pd e i berlusconiani comunque si chiameranno - intorno al 30-35 per cento ciascuno; due partiti di medie dimensioni (Fini-Casini da un lato e Cosa rossa dall'altro) intorno al 15-17 per cento. La Lega e altre formazioni minori di natura locale.

Questo panorama è probabile. Una variante potrebbe essere il rientro di Fini nell'ovile berlusconiano. A quali condizioni? Ancora un lungo e sempre incerto delfinato?
Tutto è possibile ma, allo stato, largamente improbabile.

Intanto la politica, stando agli ultimi rilevamenti del Censis, ha raggiunto il massimo della disistima nella pubblica opinione italiana. Non la destra o il centro o la sinistra, ma la politica complessivamente considerata.
La società civile - ha sentenziato De Rita, ispiratore e fondatore del Censis - è diventata una poltiglia, priva di principi di struttura sociale, di convinzioni radicate. Ed ha illustrato doviziosamente, con analisi e tabelle, questo degrado della nostra società.

Purtroppo sapevamo da un pezzo, molto prima del rapporto Censis, che i blocchi sociali si erano dissolti, la scomparsa delle ideologie aveva dato campo libero alle "lobbies", alle corporazioni, alle clientele ed avevano trasformato le masse in folla anonima, emotiva, dentro la quale ogni individuo è solitario e non chiede altro che di uscire, sia pure per un attimo, dal pozzo nero dell'anonimato.

Questo è lo stato miserevole delle nostre società, di quella italiana in particolare.
Non è un buon segno la disistima verso la politica. Magari meritata, ma non è un buon segno. Come dice Celentano, il nostro lavandino non funziona. Non è con le grida e gli insulti antipolitici che si possa riparare. Ci vuole un buon idraulico. I buoni idraulici non mancano. Qualcuno l'abbiamo già conosciuto, altri possono farsi luce. Bisogna aver fiducia e investire sul futuro.



(9 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 14, 2007, 05:04:05 pm »

Eugenio Scalfari


A proposito dell'amore secondo Jean-Luc Marion

Sesso, denaro, tecnologia, hanno scacciato l'eros dalla nostra società: è la tesi del filosofo cattolico francese nel suo trattato 'Il fenomeno erotico' che ha fatto discutere in Francia e ora in Italia.

Perché Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave


"Amo, dunque sono": è un libro appena tradotto in italiano, l'autore è un noto filosofo francese (editore Cantagalli) che insegna alla Sorbona, si chiama Jean-Luc Marion, il titolo del volume 'Il fenomeno erotico'. In Francia è già un best-seller ed ha suscitato un dibattito molto intenso. Marion professa la fede cattolica e infatti una parte sostanziosa delle 380 pagine del libro è dedicato all'amore mistico verso Dio e ad una dell'encicliche di Papa Ratzinger sull'amore visto come carità, verso il prossimo e quindi verso Dio.

La tesi centrale dell'opera di Marion è comunque quella parafrasata dal 'Discorso sul metodo' di Descartes. Questa poneva nel pensiero l'evidenza esistenziale dell'io; Marion la colloca nell'amore, anzi per esser più precisi nell'amore erotico, nell'eros, che non si esaurisce soltanto nell'atto sessuale ma in una serie di altri comportamenti altrettanto erotici e forse di più, a cominciare dalla castità dei mistici che amano Dio e/o Gesù non solo con l'intelletto e con la fede ma soprattutto con il corpo, anzi con la carne.

La tesi di Marion è certamente interessante e potremmo anche definirla 'trendy' contrariamente a quanto pensano alcuni dei suoi sostenitori. Nel dibattito che il libro ha suscitato in Francia ma ora anche in Italia si confrontano infatti varie tesi. La prima è che nella nostra società, dominata dalla scienza e dall'economia, non ci sia più posto per l'amore ma soltanto per il sesso. Sesso, denaro, tecnologia: sarebbero questi gli idoli del presente che avrebbero scacciato l'eros. Questa è comunque la tesi di Marion e di chi sostiene le sue affermazioni.

A me non sembra che le cose stiano così. A me sembra invece che l'amore erotico abbia una parte crescente nella nostra modernità. Il corpo e la carne hanno una parte crescente, la carità ha una parte crescente, le varie forme di misticismo religioso hanno una parte crescente. Sarei perciò molto cauto nel sostenere che la società moderna sia sessualmente ricca ma eroticamente povera. A me sembra piuttosto vero il contrario. Se c'è un aspetto in netto declino è piuttosto quello dell'amore intellettuale e della conoscenza disinteressata. Questo sì, sta quasi scomparendo: la filosofia, l'amore per la sapienza e per il sapere.

Un altro punto di confronto nel dibattito suscitato dal libro di Marion riguarda un problema più propriamente filosofico: la felice formula "amo, dunque sono" avrebbe liquidato, dopo quattro secoli di incontrastata egemonia, il "penso, dunque sono" cartesiano ed anche la polarità cartesiana che contrappone o per lo meno distingue la 'res cogitans' dalla 'res extensa'. Saremmo cioè in presenza di una vera e propria rivoluzione nella storia delle idee filosofiche.

Ho usato prima la parola 'dibattito' ma mi correggo: sulla radicalità delle tesi di Marion non c'è stato dibattito ma una sostanziale unanimità. Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave. Ebbene, una posizione di questo genere dimostra soltanto a mio modo di vedere la pochezza del sapere filosofico dell'epoca nostra. La tesi cartesiana che definisce la bipolarità tra il corpo e il pensiero era già stata superata da Baruch Spinoza pochi anni dopo la pubblicazione del 'Discorso sul metodo'. Da allora cessò di egemonizzare la storia della filosofia pur essendole perennemente riconosciuta l'importanza d'aver detronizzato l'egemonia della 'Scolastica' aprendo la strada al pensiero moderno.

Diverso il giudizio che si deve dare sul 'Cogito, ergo sum'. La sostituzione di Marion dell'Io amante all'Io pensante costituisce certamente una variante che si affianca all'evidenza cartesiana senza tuttavia spossessarla della sua validità. D'altra parte non è la sola variante possibile dell'evidenza del soggetto; se ne potrebbero indicare parecchie altre di eguale evidenza e validità, tratte dai requisiti essenziali che caratterizzano la nostra specie. Per esempio: "rido, dunque sono", "gioco, dunque sono", "uccido, dunque sono", "sono nato, dunque sono" e infine, forse la più decisiva di tutti, "morirò, dunque sono".

(13 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 15, 2007, 05:53:14 pm »

Il fatto e la verità

Le mie riflessioni su alcuni saggi dell'ultimo libro di Umberto Eco 'Dall'albero al labirinto' 

DI EUGENIO SCALFARI


Pochi giorni fa è arrivato nelle librerie un nuovo libro di Umberto Eco. Si intitola 'Dall'albero al labirinto' con un sottotitolo che è una sorta di didascalia: 'Studi storici sul segno e l'interpretazione' (l'editore è Bompiani, le pagine sono 536, l'indice e i testi sbalordiscono per erudizione, acutezza mentale, capacità metaforica, chiarezza di scrittura).

Queste mie riflessioni non vogliono certo essere una recensione. Confesso umilmente che non ne sarei capace. Solo un sapiente di semiologia può affrontare un testo di tal genere. Chi, come me, non possiede questo sapere e ne sa soltanto per ciò che ha letto intorno ad esso, non può cimentarsi se non cogliendone alcuni aspetti dei quali anche lui abbia cognizione e frequentazione non episodica. Ed è quello che qui mi propongo di fare anche perché solo su alcuni dei saggi lì raccolti mi sono concentrato per affinità e curiosità diciamo elettive. Così ho letto 'L'Arbor Porphyriana', le 'Ontologie', le pagine dedicate a Kant, quelle sull''Estetica' di Croce (una stroncatura senza appello ma insieme un inno alla suggestione letteraria della prosa crociana), il capitolo dedicato ai 'Promessi sposi' e infine quello sul pensiero debole e l'interpretazione.

Ho enumerato i limiti quantitativi della mia lettura che corrispondono tuttavia ad una mia selezione qualitativa. La mia mente cioè ha scelto ciò che riteneva di poter comprendere nel vasto arcipelago del sapere d'un autore che non a caso è considerato tra i più fertili della nostra modernità. La mia mente cioè ha deciso autonomamente e preliminarmente in che modo affrontare il testo pretendendo di capirlo e magari giudicarlo non nella sua interezza ma assumendone alcune parti come decisive e simbolicamente rappresentative del tutto. Il lettore avrà compreso che faccio queste precisazioni per entrare a far parte della metodica con la quale l'autore pone la Mente di fronte al Mondo in questo caso la Mente è la mia e il Mondo è il libro che ho tra le mani.

Esaurito questo preambolo vengo a quello che per me è il tema centrale dei saggi qui raccolti e cioè il rapporto tra i fatti e le interpretazioni. Si potrebbe dirlo in vari altri modi. Per esempio: oggettività e soggettività, oppure incomunicabilità della cosa in sé, e altre ancora.

Perché dico che questo tema - che Eco affronta con la sapienza e l'equilibrio che gli sono propri - è centrale? Perché pone al centro la questione della verità. Se vi sia una verità assoluta. Se possa concepirsi e se sia correttamente pensabile una verità assoluta. E quindi se sia correttamente pensabile l'Assoluto, che in questo caso va scritto con la lettera maiuscola perché rappresenterebbe l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine, la Causa prima dalla quale tutto discende e che tutto comprende.

Eco si è confrontato molte volte con questo tema, anche nei romanzi dove assume una funzione essenziale l'enigma, la lettura ambivalente, il 'giallo' raccontato come coesistenza di molte soluzioni possibili, il cavallo alato sulla cui groppa vola la fantasia dell'autore.

Ho segnalato prima l'equilibrio di Eco, per dire che egli evita di radicalizzare le tesi verso le quali propende. Propende ma fino a un certo punto. Propende ma con buon senso. È fedele alla sua tesi ma anche alle 'resistenze' che essa incontra. Fa addirittura l'elogio di quelle resistenze.

Questa sua prudenza, equilibrio e perfino ambivalenza risultano evidenti nelle pagine dedicate al rapporto tra i fatti e le interpretazioni, che chiamano in causa il pensiero di Nietzsche. Il mondo come moltitudine di interpretazioni è infatti la parte essenziale della visione nietzschiana. Servendosi di quello strumento Nietzsche ha messo la parola fine al capitolo della metafisica, che ha dominato la filosofia occidentale da Platone fino all'autore di Zarathustra. Duemila anni di metafisica si sono conclusi nel momento in cui l'interpretazione dei fatti ha detronizzato la verità assoluta. Eco condivide - in parte? - la posizione di Nietzsche che altri filosofi hanno arruolato nel cosiddetto 'pensiero debole'. A me pare invece un pensiero forte, anzi fortissimo per le implicazioni che ha comportato e comporta, ma accantoniamo le definizioni.

Nel ragionamento di Eco, tuttavia, le interpretazioni non possono prescindere dai fatti. I fatti resistono alle cattive interpretazioni. I fatti (è sempre Eco che parla) costituiscono il canone di se stessi nel senso che rappresentano la sola fonte autentica cui si può fare ricorso per scoprire le interpretazioni non pertinenti, non appropriate, insomma fuorvianti.

Debbo dire che Eco non spiega però in quale modo i fatti possono intervenire sulle interpretazioni. Chi parla per conto dei fatti? Chi è il loro 'speaker'?

I fatti (questo penso io) sono muti proprio perché materia interpretabile. I fatti sono una cosa. Una cosa che appare. Fenomenologia. Oggetto di sguardo. Lo sguardo è di per sé un'interpretazione né può essere altra cosa perché è il mio sguardo e non quello di un qualsiasi altro; io guardo quel fatto e leggo quel testo dalla posizione in cui mi trovo in quel momento e in quel luogo; nessun altro individuo può guardare quel fatto dalla mia stessa posizione, nello stesso istante e nel medesimo luogo dal quale la guardo io. Ecco perché la realtà è relativa. Ed ecco perché non esiste alcuna possibilità che il fatto opponga resistenza alla mia interpretazione se non con un'altra interpretazione. Non a caso Nietzsche scrive che "il centro non esiste". Esiste una moltitudine di centri perché ognuno di noi si sente ed è al centro del mondo. Intorno a ciascuno di noi il mondo è una sterminata periferia, dunque il centro è dappertutto, cioè in nessun luogo.

Lo spazio, caro Umberto, è tiranno e qui debbo fermarmi. Spero d'aver scritto abbastanza per stimolare le tue riflessioni come tu hai intensamente stimolato le mie.

(14 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 17, 2007, 03:52:09 pm »

Sinistra poco laica

di Daniela Minerva

La Chiesa non può influenzare le scelte del Parlamento.

E se lo fa, le istituzioni hanno il dovere di reagire.

Il giudizio del fondatore di 'Repubblica'.

Colloquio con Eugenio Scalfari 

 
Nel momento in cui la senatrice Paola Binetti, il 6 dicembre scorso, dopo aver invocato lo Spirito Santo, vota contro il governo sostenuto dal suo partito, si consuma lo strappo. Lei afferma che la sua coscienza le impedisce di voler punire la violenza indotta da omofobia. E squaderna il conflitto che sia Romano Prodi sia Walter Veltroni hanno accuratamente evitato nascondendolo sotto l'oscura etichetta di 'temi eticamente sensibili', e affidandolo, in buona sostanza, alla coscienza dei singoli. Così, all'indomani del voto della Binetti sulla discriminazione degli omosessuali, nella settimana in cui il comune governato da Veltroni deve decidere sulle unioni civili, i temi eticamente sensibili acquistano concretezza, e si rivelano per quello che sono: carne viva del popolo del Pd. Che, a questo punto, si chiede, che razza di partito sta nascendo. E quali compromessi debba trovare con la Conferenza Episcopale per conquistare il diritto di esistere. Noi lo abbiamo chiesto a Eugenio Scalfari.

Il Pd nasce evitando accuratamente i temi cosiddetti etici. Veltroni ha parlato di tutto tranne che di unioni civili, di testamento biologico, di fecondazione assistita. Le pare un buon inizio? O solo un inizio inevitabile?
"È un inizio inevitabile. In quel partito convivono vari nuclei di pensiero tra i quali c'è quello dei cattolici, degli ex popolari, che non vogliono essere stranieri in patria. E vogliono che i propri valori si affermino, insieme a quelli degli altri. Quindi occorre trovare una sintesi. Non solo: questo Pd, a vocazione maggioritaria come ripete il suo leader, vorrebbe espandersi sia verso la propria sinistra sia verso il centro. Ma al centro si imbatte innanzitutto in una formazione moderata cattolica, l'Udc. Pertanto, se si presenta con un volto accesamente laicista, avrà sicuramente molta difficoltà a espandersi verso destra. E verso sinistra, non è su questi temi che trova consensi".

Perché?
"Perché la sinistra radicale non ha una propensione spiccata verso il laicismo. Non è quello il suo terreno: preferisce il terreno sociale. Quindi io penso che il Pd coltivi chiaramente in sé lo spirito di laicità forte. Ma, specie nel muovere i suoi primi passi, lo risolve sul piano definito dal documento che rappresenta la base del Partito democratico su questi temi: quello che fu firmato dai 40 deputati della Margherita guidati da Enrico Letta e Rosy Bindi. In quel testo i 40 dicono che loro, in quanto cattolici, sono molto rispettosi del magistero della Chiesa. Ma aggiungono che non è bene che questo magistero morale entri nella politica, o addirittura nelle normative della politica. Perché a quel punto si pone un confine: l'autonomia dei cattolici entrati in politica e, in particolare, l'autonomia dei parlamentari eletti. Questa è la linea di demarcazione".

Il problema che sembra insormontabile è proprio quello di definire un crinale certo tra le competenze della Chiesa e quelle dello Stato. La Chiesa non può non avere diritto di parola su quelli che sono, da sempre, gli ambiti del suo magistero (la famiglia, la vita, la morte). Non può, insomma, rinunciare al suo mandato di formare le coscienze. Quando questo diritto diventa intromissione inaccettabile?
"Faccio un esempio preso dall'attualità, che mi serve per definire concretamente il limite. Si dice che il segretario della Conferenza Episcopale, monsignor Giuseppe Betori, abbia telefonato a Paola Binetti raccomandandole di votare come poi ha votato. Alcuni però dicono che il monsignore ha telefonato dopo il voto per congratularsi della scelta. Domenica scorsa, scrivendo su 'la Repubblica', ho chiesto alla senatrice di dire chiaramente com'è andata, ovvero se questa telefonata è avvenuta e, eventualmente, quando è avvenuta. La senatrice Binetti è liberissima di non rispondere a me, ma dovrebbe certamente rispondere se a farle la domanda fosse il suo segretario. O se fosse un'interrogazione presentata al Senato. E questa è una questione centrale se parliamo del confine: è necessario che si sappia come è andata e può dircelo solo lei. Allora, se la senatrice dichiarasse che monsignor Betori le ha telefonato prima del voto: questo sarebbe stato un tentativo di condizionare il voto di un parlamentare dichiaratamente cattolico. E quindi sarebbe una lesione macroscopica delle norme concordatarie che dovrebbe indurre, se accertata, un governo serio a inviare alla Santa Sede, tramite il suo ambasciatore in Italia, una nota diplomatica del ministero degli Esteri. E il leader del Partito democratico dovrebbe sollecitare il governo a imboccare la strada di questa procedura".

Tuttavia la Chiesa non può essere ridotta alle opinioni di alcuni grandi prelati. Insomma, sembra legittimo il dubbio che Bertone o persino Angelo Bagnasco non rappresentino la Chiesa nel suo complesso. Lei ritiene che l'interlocutore del Pd sia la Chiesa di Roma o la Chiesa dei credenti?
"Il Pd non ha interlocutori nella gerarchia ecclesiastica. Che può essere interlocutore ufficiale del governo, della presidenza della Repubblica. Delle istituzioni, insomma".

Quindi quando il Pd dice che deve guardare al mondo cattolico, a chi si riferisce: alle gerarchie o alle coscienze?
"Chiaramente alle coscienze. Le gerarchie sono delle istituzioni, le quali colloquiano con la loro gente e con le istituzioni civili del paese di cui fanno parte. Perché, non dimentichiamolo, i vescovi sono cittadini italiani, con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani".

Sembra, però, che Veltroni e il Pd abbiano molto a cuore il dialogo con monsignor Bagnasco...
"Veltroni può incontrare chi vuole, ed è bene che incontri Bagnasco. Il problema nasce non nel dialogo con le istituzioni ecclesiastiche, ma quando esse dicono cose che violano i patti. Se la Conferenza Episcopale insiste su una linea che viola la sostanza, e talvolta addirittura la lettera, del Concordato, allora le istituzioni italiane devono opporre resistenza".

Giuliano Amato, nel commentare su 'L'espresso' come il Pd deve affrontare i nervi scoperti del rapporto con la Chiesa, ha detto che dovrà essere "la classica formazione collettiva di un'area di consenso comune", come fosse una trasformazione "di elementi chimici diversi", la tradizione cattolica e laica. Il che non mi pare diverso da quanto lei scriveva su 'la Repubblica' nel riferirsi ai valori della senatrice Binetti che sono "giustamente contaminanti" e che devono venir "contaminati" dai valori della laicità. Ora, oggi pare che l'ala teodem del Pd non abbia molta voglia di farsi contaminare. Che ne pensa?
"Non la metterei così. Alfredo Reichlin, che è il presidente della Commissione incaricata di stendere il Manifesto dei valori del Pd e di cui Paola Binetti fa parte, mi ha raccontato che nell'ultima seduta della commissione, avvenuta dopo il voto del 6 dicembre, c'è stato uno scambio di battute vivace che però si è concluso con un abbraccio".

Come hanno trovato la sintesi sui gay i saggi della Commissione?
"Cominciamo a dire che la non discriminazione nei confronti degli omosessuali, come di chiunque altro, è sancita da un principio della Costituzione. E a dire che essa è, peraltro, un principio cristiano, parte del patrimonio della predicazione evangelica: ama il prossimo tuo come te stesso. La senatrice Binetti in commissione ha detto che, ovviamente, lei non discrimina nessuno, e neppure gli omosessuali. Ma che ritiene gli omosessuali siano devianti rispetto alla Natura, e che si riserva il diritto di dire che, in quanto tali, non possono accedere a certe istituzioni, fatte per l'uomo e la donna insieme, come il matrimonio o l'adozione. Allora il problema nasce davanti a una legge in cui il diritto sancito dalla Costituzione è detto molto male, tanto male che un giudice, nell'interpretarla, potrebbe condannare un religioso o un laico che sostenga la devianza degli omosessuali e neghi loro matrimonio e adozione. Quindi, secondo la senatrice Binetti questa legge non va bene, e lei non la vota. E questo è un suo diritto. Ma è anche un punto di vista che il Pd deve considerare perché questo articolo è malscritto, e così come è configura un reato d'opinione. Noi democratici, possiamo accettare un articolo che configura un reato d'opinione? Certamente no".

Come le pare questo paese senza morale che, però, si esalta a parlare di etica? E, conseguentemente, cosa pensa di questa epidemia di devozioni? Oggi sono davvero in molti a sentire il 'fascino della fede'. Le pare genuino?
"La maggior parte degli italiani è credente. I non credenti sono una minoranza infima. I credenti veri sono un'altra minoranza. I credenti fai da te sono una maggioranza larghissima. Questa è la situazione del paese, quindi anche la situazione del Pd. I credenti fai da te sono dei laici, non dei laicisti, vagamente credenti. E certamente non sono molto interessati a chiedersi se monsignor Bagnasco possa o non possa intervenire nel dibattito politico. E a dire il vero non sono nemmeno molto interessati a cosa monsignor Bagnasco abbia da dire. È come se dicessero: 'se parla lasciatelo parlare', tanto noi ci comportiamo secondo la nostra coscienza".

(17 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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