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Autore Discussione: ELEZIONI -  (Letto 6395 volte)
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« inserito:: Novembre 21, 2007, 03:30:35 pm »

Il "Vassallum", la via "proporzionale" di Veltroni

Roberto Arduini


Tiene banco nelle sale della politica il cosiddetto "Vassallum" o "Veltronum", o ancora "Walterellum". È la proposta di modifica all´attuale legge elettorale, presentata al Senato, con Veltroni come nume tutelare. Ma che cos´è esattamente? Il testo integrale della proposta, predisposto dal costituzionalista Salvatore Vassallo, è un mix dei sistemi elettorali tedesco e spagnolo. Veltroni lo ha presentato come un sistema «tendenzialmente bipolare», la "via proporzionale al bipolarismo". In realtà, questo modello era già stato presentato, ben due anni fa, nel libro "Tra maggioritario e proporzionale. L´universo dei sistemi elettorali", uscito per il Mulino. L´autore è Alessandro Chiaramonte, 40 anni, professore associato alla facoltà di Scienze politiche dell´università di Firenze. Comparativista, cioè studioso delle differenze tra i diversi sistemi elettorali, il professore è scettico su un sistema misto tedesco-spagnolo-italiano. Nel suo libro, si scopre che la proposta fatta dal segretario del Partito Democratico ricalca un sistema elettorale misto (proporzionale-maggioritario) applicato in Germania nel 1949. «Ma i consulenti di Veltroni sulla riforma elettorale sono Vassallo e Ceccanti. Io mi sono limitato a suggerire possibili varianti», spiega Chiaramonte.

Cosa dice la proposta
Esperti del settore come Leopoldo Elia, presidente emerito della Corte Costituzionale, e Enzo Balboni, costituzionalista all´università Cattolica, considerano la proposta di Veltroni ancora «da studiare» e questo fa capire quanto il "Vassallum" sia oscuro anche agli stessi addetti ai lavori. Proviamo a riassumerne, comunque, le caratteristiche: non ancora definito nel dettaglio, è un sistema che prevede il 50 per cento dei deputati eletti in collegi uninominali e l'altro 50 per cento su base di lista a livello circoscrizionale. Si adotta in pratica il modello tedesco come sistema di base, con la modifica - in senso spagnolo - per lo sbarramento che in Germania è fissato al 5% a livello nazionale e che in Spagna è invece implicito. Scatta cioè a livello delle circoscrizioni con una percentuale dal 5% in su e con un effetto bipolarizzante superiore al modello tedesco.

Altro correttivo è l'adozione di una formula elettorale proporzionale diversa da quella tedesca attuale, l'Hare-Niemayer, che si limita a fotografare i voti dati (e adottato in Germania a partire dal 1985), ma il proporzionale d'Hondt che era usato per il Senato in Italia (prima del "Mattarellum") e in Germania prima del 1985 e che ha la caratteristica di correggere leggermente l'assegnazione dei voti (e quindi dei seggi) a favore dei partiti maggiori, mentre ne risultano penalizzate le formazioni più piccole. Non sarebbero penalizzate formazioni medie con forti basi territoriali: un partito che avesse il 4 per cento su base nazionale e il 12 per cento in tre regioni, avrebbe una decorosa rappresentanza parlamentare (potrebbe essere il caso della Lega). Ma un partito che ottenesse il 5 per cento omogeneamente diffuso su tutto il territorio nazionale rischierebbe di restare fuori dal riparto dei seggi o, nella migliore delle ipotesi, eleggerebbe un paio di deputati sparsi (potrebbe essere il caso di Rifondazione Comunista e dell´Udc).

Due meccanismi che, se adottati, sono un´alternativa allo strumento del premio di maggioranza su cui punta invece il "Porcellum" di Calderoli-Berlusconi e che, mentre produce una maggioranza, ha il grave limite di rendere la stessa eterogenea e litigiosa al limite del ricatto dei partitini - piccoli ma determinanti - e quindi dell´ingovernabilità.

Il "Vassallum" punta molto sulle circoscrizioni (auspicabilmente, pare di capire, di dimensioni vicine alle province) che si dovrebbero articolare in 6,7 o 8 collegi al massimo con liste di candidati corte - non più di 8 candidati e alternati per genere - da votare con un singolo voto da porre sulla scheda. Altra differenza questa dalla Germania dove si prevedono due voti, uno per il nominale e il secondo per la lista. Nel "Vassallum" il voto si esprime per il candidato nel collegio uninominale e automaticamente viene votata la lista (presentata nella parte bassa della scheda) per il riconteggio proporzionale. Con questo sistema lo sbarramento è implicito e giocherebbe su una media tra il 5 e il 6 per cento. Il risultato, come scrive Vassallo nella proposta, è un pluripartitismo moderato, ma in presenza di una bipolarizzazione dovuta ai due partiti nazionali maggiori.

A parte c´è poi tutto il discorso, estraneo alla proposta di legge elettorale, relativo alle primarie per designare i candidati e alla modifica dei regolamenti parlamentari per impedire (o ostacolare seriamente) la nascita di gruppi diversi da quelli presentatisi alle elezioni. Altro capitolo è poi quello della modifica costituzionale che può introdurre il monocameralismo e il meccanismo di sfiducia costruttiva per il governo.

Pubblicato il: 20.11.07
Modificato il: 20.11.07 alle ore 19.17   
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 09, 2008, 11:35:31 am »

Pd-Sinistra, divisi ma in accordo Convergenze solo a livello locale

Terremoto Cdl: lista unica Fi-An


Era l’ultimo tentativo per trovare un accordo programmatico tra Pd e Sinistra-arcobaleno. Franco Giordano, Fabio Mussi, Oliviero Diliberto e Alfonso Pecoraro Scanio hanno incontrato Walter Veltroni al loft di piazza Sant’Anastasia, sede del Pd. Ma dopo un'ora di colloqui, le posizioni restano quelle precedenti: ognuno andrà da sé alle elezioni.

Il primo a parlare al termine del vertice è Oliviero Diliberto, segretario del Pdci: «Ci saranno due formazioni – ha ribadito – la Sinistra Arcobaleno e il Pd». Resta l’impegno ad avere «un confronto leale», così come si lavorerà per trovare «convergenze programmatiche» a livello locale. Ma per quanto riguarda il governo nazionale, non cambia nulla.

«Non ci sono state le condizioni per fare un accordo», nemmeno per il segretario di Sinistra democratica Fabio Mussi, poiché il Pd aveva «già preso una decisione definitiva e perentoria». E comunque afferma che «per il futuro non rinunciamo alla prospettiva di un governo di centrosinistra senza ipotesi centriste o di larghe intese».

Sembra un po’ più deluso il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio: «Abbiamo lavorato fino in fondo per ricostruire le ragioni di una forte alternativa a Berlusconi e per non consentire la vittoria alle destre. Prendiamo atto della decisione del Pd – conclude – e la Sinistra andrà con un unico simbolo che ha i caratteri della bandiera della pace».

Ma il segretario di Rifondazione Franco Giordano chiarisce con toni pacati che non ci sarà alcuna rissa elettorale a sinistra. «Dobbiamo evitare elementi distruttivi e mettere in evidenza le opzioni politiche diverse. Noi diciamo no alle larghe intese e ribadiamo che chi vuole un voto di sinistra non può votare che la Sinistra arcobaleno». E quanto alle amministrative poi, i patti locali sono ritenuti essenziali. «La scelta è quella di evitare la vittoria delle destre - spiega Giordano -. Ci sono in ballo città importanti evitiamo di consegnargliele. È sempre stato così anche ai tempi del Pci e del Psi e cioè si evitava di avvantaggiare l'altro schieramento».

Insomma, per usare le parole di Dario Franceschini si tratta non di un divorzio «ma di una separazione consensuale».«Abbiamo constatato le coalizioni così come sono state in questi anni non funzionano. La nostra scelta, quella di andare da soli, è stata fatta per offrire una opportunità di cambiamento agli italiani -ha spiegato il vicesegretario del Pd- Noi faremo una campagna elettorale libera sui contenuti, poche cose chiare che vogliamo proporre al paese senza condizionamenti. Parleremo anche agli elettori che hanno votato centrodestra e che sono stanchi di liti e frammentazioni».

Resta tuttora in forse invece una possibile alleanza elettorale tra il Pd e l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Su questa la decisione non è stata ancora presa. «Vedremo, stiamo ragionando», certifica Franceschini.


Pubblicato il: 08.02.08
Modificato il: 08.02.08 alle ore 17.46   
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 09, 2008, 11:45:42 am »

LA NOTA

Un piccolo terremoto che può frenare la marcia della Cdl

Aut aut di Berlusconi sulla lista unica ma Casini minaccia di rispondere no


Più che di una semplificazione, si tratta di un piccolo terremoto. La metamorfosi del centrodestra rischia di consumarsi in modo traumatico. Forse, alle elezioni del 13 aprile FI, An e Lega non si presenteranno con l'Udc di Pier Ferdinando Casini. Si spezzerebbe un sodalizio che, fra alti e bassi, dura dal 1994. Silvio Berlusconi ha deciso di dare corpo a quel «partito unico» che accarezzava da tempo, insieme ad An; e di federarlo con la Lega. Nel suo schema, dovrebbe farne parte anche l'Udc. Ma il passaggio di alcuni esponenti centristi nelle file di FI, e il timore di essere fagocitati di fatto dal Cavaliere, ha provocato quella che per il momento appare una rottura.

Rimane da capire chi l'abbia voluta, e se sia definitiva. L'accelerazione berlusconiana dice che l'ex premier l'aveva messa nel conto. Da giorni FI teorizza che se non si piega il protagonismo di Casini, dopo il 14 aprile si riaprirà il contrasto con il Cavaliere: quello stillicidio di tensioni e distinguo, che ha logorato e minato l'ultima legislatura. L'idea di avere l'Udc «federato» ma non nello stesso contenitore, evoca il fantasma di una sorda guerra interna dopo l'eventuale vittoria. Per questo, Berlusconi ha posto l'aut aut. «Se non aderiscono, noi andiamo avanti ugualmente. Non si può negare che siano alleati, ma non nella stessa coalizione».

Solo la diffidenza spiega il motivo per il quale FI non ha concesso all'Udc quello che invece ha accordato a Umberto Bossi. «La Lega è un partito territoriale», si è giustificato Berlusconi. Ma Casini intravede soprattutto la voglia di umiliare l'Udc con una «estemporanea operazione elettorale». Per questo risponde: «Non ci interessa». E riprende il vecchio sogno di «unire i moderati » in un'area di centro che somiglia ad un «terzo polo». Non è da escludersi che il braccio di ferro finisca per dividere la Cdl. Ma forse è solo cominciata una trattativa, della quale si conoscerà l'esito a giorni.

Altrimenti, per l'Udc comincerebbe una campagna elettorale in salita, con l'obbligo di superare il 4 per cento alla Camera e l'8 al Senato. Ma anche il centrodestra potrebbe trovarsi in difficoltà. Oggi appare in vantaggio, e convinto di stravincere sull'ex Unione. Il conflitto che si profila in Sicilia per la carica di presidente della Regione, però, addita i contraccolpi di un braccio di ferro. La candidatura di Gianfranco Miccichè, plenipotenziario berlusconiano, ha provocato la reazione del governatore uscente. Salvatore Cuffaro, «padrone» di gran parte dei voti dell'Udc nell'isola, si è dimesso dopo una condanna in primo grado. Ma annuncia che contrasterà la marcia dell'uomo di FI.

«Farò di tutto per impedire l'elezione di Micciché», ha dichiarato ieri. Si coglie un riflesso dello scontro sul piano nazionale fra Casini e il trio Berlusconi-Fini-Bossi. L'Udc non ha la forza per contrastare il nuovo partito del Cavaliere. Ma vuole far capire che è in grado di metterne in forse la vittoria. Impresa ardua, per Casini, il cui partito deciderà giovedì. Ma avvertendo che «molti parlamentari dell'Udc hanno un'opinione diversa», Berlusconi promette battaglia. Di certo, in assenza di una tregua ancora possibile, tenterà una campagna acquisti a tappeto. Sembra ancora convinto di imporre le proprie condizioni: un epilogo non scontato.

Massimo Franco
09 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 11, 2008, 05:12:39 pm »

IL LUOGO SCELTO PER IL VIA DELLA CAMPAGNA ELETTORALE

Dubbi su Spello, location bucolica «Ma no, lì sembrava un santo guerriero»

 
MILANO — Vittorio Taviani si è accomodato in poltrona con la moglie Carla, ha acceso Sky Tg24 e ha tirato un sospiro di sollievo: «Ma sì, ne avevamo proprio bisogno, dopo tanti scontri, tante urla che ci hanno fatto stare male. Ci siamo messi comodi e c’era Veltroni, nella bellissima Umbria, che ci parlava.
Un dialogo semplice, pacato ». Questione di punti di vista, come un regista sa bene. E da buon appassionato di cinema Veltroni ha scelto con cura la scenografia per il suo debutto, inviando in mandato esplorativo agreste il fido Walter Verini. Con una missione: «Trovare un posto dove non si urla». Ed eccolo, Spello: borgo da cartolina, cielo limpido e trasparente, case antiche, la pace della campagna. E Veltroni, in piano americano, con il suo «low key speech», come scrive la Reuters, il suo discorso «sottovoce».

Eppure — sarà stato il cipresso che «intristisce», come dice l’esperta di immagine di Berlusconi Miti Simonetto —, sarà stato l’impatto cromatico di «una location che non va» (sempre Miti), fatto sta che tutta quell’atmosfera bucolica ha fatto saltare i nervi a Oliviero Toscani: «O mamma, ma che sarà mai? Ne ho piene le scatole di questi trucchetti: mi metto il colletto su o giù? Mi metto a parlare sull’erba o vado sull’eremo? Neanche fosse Gesù Cristo». Qualcosa vorrà pur dire questa scelta, no? «Non vuol dire un bel niente, solo che c’è uno che cerca di passare come nuovo, ma dice le stesse cose con la stessa faccia da 30 anni. In Italia si nasce e si crepa politici. Lui è nato nella Fgci, il più grande ufficio di collocamento d’Italia».
 
Se, sul fronte politico, l’udc Maurizio Ronconi lo accusa di ingannare anche i morti—«Ha detto bugie di fronte alle migliaia di morti del cimitero »—su quello artistico appare più pacatamente veltroniano, ma non troppo, Marco Bellocchio: «È stato un avvio di campagna nel suo stile: elegante, netto ma discreto. Il contrario di quello berlusconiano, a base di urla e insulti. Il pericolo è che alla differenza di stile non corrisponda una diversità di contenuti. Penso alle posizioni sulle tasse, ai forti condizionamenti sulla laicità». Il più ammirato resta Vittorio Taviani. Che azzarda un paragone: «La scelta del paesaggio è molto indicativa. Ricorda San Francesco, nella duplice accezione di santo e guerriero: da una parte il francescanesimo, l’assoluta fiducia in quello in cui si crede; dall’altra la volontà ferrea nel realizzarlo ».

Alessandro Trocino
11 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 11, 2008, 05:48:49 pm »

«È la speranza il motore del cambiamento»

Walter Veltroni

Di seguito ampi stralci del discorso che Walter Veltroni ha tenuto ieri a Spello


Cominciare da qui, da questa piazza, da questo borgo, con alle spalle questo magnifico panorama italiano, è un modo per dire a cosa pensiamo: non al destino di questo o quel leader, non a questo o quel partito, ma al destino dell’Italia, al nostro Paese, alla sua struggente e meravigliosa bellezza e alla sua storia grande e tormentata, alle gravi difficoltà del suo presente e alle straordinarie potenzialità del suo futuro. È un modo per metterci in sintonia con quelle che sono state chiamate le correnti profonde della storia. Perché tutti noi viviamo, giorno per giorno, sulle increspature superficiali, quelle sulle quali si scatenano le tempeste e poi si distendono le bonacce. Ma è solo se scendiamo più in profondità, che possiamo provare a capire dove il mare della storia ci sta portando. (...)

Nessun popolo della terra ha ereditato tanto dai suoi progenitori. E nessun popolo, meglio del nostro, è messo nelle condizioni di capire come lo sviluppo economico non solo non sia in contrasto, ma possa e debba sposarsi con la qualità della vita. Troppo a lungo crescita economica e salvaguardia dell’ambiente, espansione urbanistica e tutela del patrimonio artistico, perfino lavoro e cultura, occupazione e scolarizzazione, sono stati pensati come valori contrapposti, come se l’uno fosse una minaccia per l’altro.

E invece, oggi abbiamo compreso che quei valori sono tali solo se promossi insieme. Lo sviluppo contro l’ambiente non è sviluppo. Ma anche viceversa: una difesa dell’ambiente che si riduca alla moltiplicazione di vincoli e veti contro la crescita è sterile e perdente. E invece, un nuovo ambientalismo, un ambientalismo positivo, un «ambientalismo del fare», come lo abbiamo chiamato, inserito in una nuova cultura della sostenibilità e della qualità della vita, può diventare un formidabile volano di sviluppo. Prendiamo il sole: non è solo un’alternativa al petrolio per la salute della Terra, ma uno dei principali traini della crescita di domani. (...)

Non bisogna aver paura del nuovo. Il futuro è l’unico tempo in cui possiamo andare. Ma il nostro paese, i suoi meccanismi politici ed istituzionali, sembrano temere le cose nuove. Sembrano paralizzati dal demone del conservatorismo. Sembrano pensare che il mestiere di chi può decidere sia solo quello di rinviare; il mestiere di chi ha il potere sia solo quello di usarlo per mettere veti, paletti, bloccare sul nascere quella meraviglia che è il nuovo. Il nuovo che sorge dal talento, dalla scienza, dall’energia delle donne e degli uomini. Il nostro Paese deve tornare ad avere voglia di futuro. Una nuova generazione di italiani chiede una Italia più aperta e dinamica, più giovane e mobile. L’Italia del nuovo millennio, non l’Italia della fine del secolo precedente. L’Italia dell’ascolto e della ricerca, l’Italia del rigore e della responsabilità, l’Italia dei doveri e non solo dei diritti. L’Italia della mobilità sociale e non dei corporativismi asfissianti. L’Italia della ricerca, della scienza e della tecnologia e non degli steccati ideologici. L’Italia della legalità e non della furbizia. L’Italia che ritrova i valori, il senso della sua grandezza e l’orgoglio di sé. Perché una comunità umana non vive senza i valori, senza le ragioni che illuminano il cammino collettivo e forniscono un senso alle cose.

Non possiamo essere una società che conosce «il prezzo, ma non il valore delle cose». Una società arida, in cui rapporti umani sono puramente strumentali e si vive schiacciati dall’egoismo, dall’insicurezza e dalla solitudine. Oggi il Paese, chi vive e parla con gli italiani lo sa, sembra cupo, impaurito. Sembra aver perso quella certezza che domani sarà meglio di oggi. Certezza che è l’energia vitale di una comunità. L’energia che si ritrova nei racconti di quella generazione che ha ricostruito l’Italia dopo la guerra. (...)

È quello spirito che dobbiamo ritrovare. (...)

Eppure. Eppure sembriamo smarriti. Perché abbiamo perso il senso delle cose. Perché ci hanno detto per anni che gli altri sono solo concorrenti, persino nemici. Che il destino dell’altro non ci riguarda. E così abbiamo smarrito la voglia collettiva di cercare, di rischiare, di cambiare. La società italiana nel tempo del suo possibile massimo dinamismo sembra ferma, inchiodata da spiriti di conservazione, da logiche di veto. Degli uni e delle altre una certa politica è la massima responsabile.

Una politica che nello stesso giorno in cui un uomo che fa onore all’Italia, Umberto Veronesi, indicava vie nuove per il futuro della lotta al cancro, dava un triste spettacolo di sé, con quegli schiamazzi e quegli sputi nell’Aula del Senato che hanno dato un’immagine dell’Italia che non meritiamo e non vogliamo più vedere. E state certi che quel senatore troverà ospitalità in qualche lista. Quelle urla sono la più brutta espressione di una politica senza radici nella grande storia italiana, ripiegata su se stessa, priva della voglia di rischiare, di conoscere le sfide brucianti di un tempo nuovo. Dell’incapacità di fare ciò per cui il Presidente Napolitano non ha mai smesso di spendere energie e saggezza: mettere al primo posto il bene del Paese, al primo posto l’amore per le istituzioni. Quello che nelle ultime settimane avrebbe dovuto far scegliere non la propria presunta convenienza, ma la riscrittura delle nostre regole comuni: una legge elettorale per la stabilità e la riduzione della frammentazione del sistema politico, una sola Camera legislativa, la riduzione del numero dei Parlamentari e dei costi della politica.

Si è scelto altro. E noi siamo pronti. È all’Italia vera che noi parliamo. Verrà presto, tra solo sei giorni all’Assemblea Costituente del Partito democratico, il tempo di tornare a parlare il linguaggio asciutto e severo dei programmi. Il tempo di spiegare e chiarire le nostre proposte, e di ribadire ad esempio che oggi è possibile ridurre le tasse, perché la lotta all’evasione ha dato risultati. Io rimango della mia idea: pagare meno, pagare tutti. Oggi, grazie al lavoro del governo Prodi, possiamo fare quello che non è mai stato fatto. Quello, gli italiani lo sanno, che è stato ogni volta annunciato ai quattro venti, ma non realizzato.

Verrà il tempo per dire agli italiani ciò che è nostro dovere dire: questo è il nostro progetto per cambiare il Paese, queste sono le cose che faremo per fronteggiare i problemi e trovare soluzioni. E lo potremo dire guardando negli occhi l’Italia, perché abbiamo deciso, unilateralmente, di correre liberi. Liberi, più che soli. Liberi di poter finalmente non mediare parole, non attenuare cambiamenti possibili, non rinunciare a ciò che si crede giusto. Guardiamo negli occhi l’Italia e le diciamo: comincia un tempo nuovo. Il tempo del coraggio e del cambiamento. Il tempo della decisione e della responsabilità. Gli occhi degli italiani hanno visto troppo odio e divisioni in questi anni. Unire l’Italia, restituirle forza e orgoglio di sé. (...)

Ora bisogna rimettersi in cammino. Perché non ci sono due Italie separate da muri invisibili. Né è giusto mettere sulle regioni, sulle città, sulle case e persino sulle teste degli italiani delle bandierine di colori diversi. Gli italiani non «appartengono» a nessuno, se non a se stessi. Appartengono alla propria coscienza, alla propria mente, al proprio cuore. Ed è così che decideranno, il 13 aprile.

Di una cosa sono certo: gli italiani vogliono uscire dalla confusione, dall’instabilità e dall’immobilismo. Vogliono una stagione nuova. L’Italia deve lasciare l’odio e scegliere la speranza. L’Italia deve lasciare la paura e scegliere il nuovo. La memoria impressa nel paesaggio italiano, lo splendido paesaggio che sta alle mie spalle, racconta la storia dell’Italia delle cento città: una storia di eroiche lotte per la libertà e, insieme, di crudeli guerre fratricide. Firenze contro Siena. E dentro Firenze, guelfi contro ghibellini. E guelfi neri contro guelfi bianchi, via via frazionando e frammentando. (...)

E invece è proprio quando si sono mossi spinti dal desiderio di unità, che gli italiani hanno fatto le cose più grandi. È così che una terra divisa in piccoli regni, granducati e domini stranieri è diventata una nazione: grazie a chi immaginò ciò che non esisteva, a chi lottò per realizzarlo. È così che l’Italia è uscita dal buio della dittatura, dalla vergogna delle leggi razziali, dall’abisso della guerra: grazie a donne e uomini che ebbero il coraggio e la moralità di mettere la libertà del loro Paese davanti a tutto, davanti alle loro stesse vite. Uniti sotto il tricolore, sotto la bandiera italiana. Uniti nella Resistenza: quella attiva dei partigiani, quella silenziosa dei deportati, quella operosa dei tanti giusti che seppero aprire la porta a chi cercava aiuto.

L’altro giorno, la sera stessa in cui abbiamo presentato il nuovo sito internet del Partito democratico, è arrivata una mail. Poche righe, a raccontare un pezzetto della nostra storia. «Ricordo con grande nostalgia - dice la lettera - quando mio nonno mi portava nella stalla a vedere i buoi, io avevo quattro cinque anni. Mi raccontava tante storie, ma una la ricordo molto bene. È quella di quando lui aveva nascosto nella stalla un gruppo di partigiani che erano sfuggiti ad un rastrellamento fascista e aveva messo a repentaglio la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Però l’aveva fatto e ancora ricordo che me lo diceva come se fosse la cosa più ovvia. Di fronte alla difesa della libertà e della propria patria non c’è esitazione, si fa cosa si deve fare e basta. Non l’ho mai ringraziato abbastanza per queste storie, certo che ancora oggi che ho 51 anni le ricordo volentieri, sono parte di me stesso me le porto dentro di me. Vorrei che il Partito Democratico avesse questi sapori veri, autentici».

L’Italia è questo. L’Italia è andata avanti così. Così è diventata una grande democrazia, uno dei pilastri della nuova Europa unita, dell’utopia di Altiero Spinelli divenuta realtà. L’Italia ha costruito il meglio, ha dato le prove più belle di sé, quando ognuno, da chi aveva le più grandi responsabilità alla persona più semplice, ha saputo curare più di ogni altra cosa l’interesse nazionale, ha saputo fare nel modo più naturale, «come fosse la cosa più ovvia», ciò che sentiva giusto, ciò che serviva davvero al Paese. È così, unita, che l’Italia è uscita dagli anni di piombo. Avevano il tricolore in mano, quei lavoratori che la mattina del 16 marzo del ’78 riempirono le piazze d’Italia contro gli assassini che aveva lasciato a terra cinque ragazzi delle forze dell’ordine e avevano portato via un uomo di stato e di dialogo come Aldo Moro. Con il senso di quella unità il terrorismo è stato sconfitto.

È di uno spirito così che il Paese ha bisogno. La priorità sono gli interessi nazionali, non quelli di parte. Oggi come ieri. Oggi che, come un albero sotto il peso della neve, l’Italia appare piegata, oppressa, legata da nodi strutturali che nessuno sembra in grado di sciogliere. Sono trascorsi ormai quasi vent’anni dal crollo del Muro di Berlino e dalla crisi definitiva della politica ideologica. (...) L’ideologia non c’era più, ma è come se la politica non fosse capace di rinunciare ai suoi cascami: la cultura del nemico, il dualismo manicheo, la demonizzazione dell’avversario, a volte un vero e proprio sentimento di odio, almeno predicato e ostentato, nei confronti della parte avversa.

«Non faremo prigionieri», è la frase celebre di un ministro della Difesa: anno del Signore 1996. L’Italia non era in guerra con nessuno, per fortuna, quindi non c’erano nemici alle porte da minacciare. L’Italia stava entrando nel bipolarismo politico, mimando i toni e i linguaggi di una guerra civile. Due alleanze sempre più sterminate, accomunate più dalla eccitata volontà di battere l’avversario, che da un chiaro programma di interventi incisivi e netti sui mali strutturali del Paese. Non sorprende che in questi anni nessuno di questi mali sia stato affrontato in modo risolutivo: non il debito, non lo squilibrio Nord-Sud, non i ritardi delle infrastrutture, non l’inefficienza della pubblica amministrazione. Le cose buone che pure sono state fatte sono state fatte quasi sempre sull’onda dell’emergenza, a cominciare dalla spettacolare rimonta che all’Italia governata da Romano Prodi, nel tempo del primo Ulivo, nella stagione più feconda della recente storia italiana, consentì di centrare l’obiettivo dell’ingresso da subito nell’Euro.

Ma la politica in questi anni non è riuscita a imprimere forza, a portare avanti quelle grandi riforme, quelle liberalizzazioni e modernizzazioni di cui l’Italia ha bisogno. Non sorprende allora che i cittadini stiano scoprendo una crescente insofferenza nei confronti di un sistema politico roboante e inconcludente, invadente e impotente, costoso e inefficiente. Una politica che divide il Paese, invece di unirlo per far fronte ai problemi di tutti. Una politica che divide non solo tra destra e sinistra, ma anche tra Nord e Sud, tra italiani e immigrati, tra dipendenti e autonomi, tra padri e figli, tra laici e cattolici.

La stragrande maggioranza degli italiani è stanca di una politica come questa, che crea una conflittualità esasperata e la usa come alibi per non affrontare i veri problemi del Paese: come far ripartire la crescita economica, come rimettere in moto l’ascensore della mobilità sociale, come valorizzare talenti e meriti, allargando gli spazi di libertà delle persone, come ridare potere di decisione alla democrazia. Gli italiani non ne possono più di piccoli interessi e di vedute ristrette. Riconoscono le soluzioni semplicistiche offerte a problemi complicati. Capiscono quando poche minoranze cercano di imporre la propria visione come fosse una verità indiscutibile, senza curarsi del fatto che così si alimentano solo divisioni, contrapposizioni, conflitti che non portano a nulla. Gli uni contro gli altri armati. Sempre e comunque. Costi quel che costi.Gli italiani vogliono altro. Meritano altro. Perché sono altro.

L’Italia non si deve rialzare. L’Italia è in piedi. Sono in piedi gli italiani. È la politica che si deve rialzare. Gli italiani sono i milioni di donne e di uomini che ogni giorno faticano e lavorano, e che a volte per quel lavoro, con indosso una divisa o addirittura una tuta da operaio, rischiano la vita. Gli italiani sono gli imprenditori che hanno le idee, che hanno il coraggio di spendersi in prima persona per vederle realizzate, che scelgono la strada della qualità e dell’innovazione, che mettono tutta la tenacia e tutta la capacità di lavorare per ore e ore ogni giorno nel progetto in cui credono. (...)

Gli italiani sono gli insegnanti che, nonostante stipendi e condizioni inadeguate, non rinunciano a vedere il loro mestiere come una missione, perché sanno che sono loro a poter fare la differenza nella vita di un bambino, di un ragazzo, soprattutto lì dove le situazioni sono più difficili, dove la vita è più dura. Gli italiani sono le persone che si spendono volontariamente per chi è più debole e ha bisogno, che si prendono cura degli altri, che sanno che questo riempie la vita molto più che avere in tasca l’ultimo modello di telefonino o apparire per pochi minuti in qualche programma televisivo. Gli italiani sono le persone che tengono duro in silenzio e con dignità, che magari fanno mille sacrifici per mantenere la loro famiglia, ma non rinunciano all’onestà, al rispetto delle leggi, all’accoglienza, alla solidarietà verso il proprio vicino così come verso chi arriva da un paese lontano. (...)

La politica è ben poco, se non capisce la preoccupazione di una madre e di un padre che si domandano che tipo di educazione e di ambiente civile riusciranno a garantire al proprio bambino. Se non sente sua l’ansia di un anziano pensionato costretto a fare i salti mortali quando a fine a mese arriva la bolletta del riscaldamento. Se non dà risposta alla domanda angosciata di un operaio che vuol sapere se sono vere le voci che annunciano la chiusura della sua fabbrica perché la produzione si trasferisce altrove, in un paese dove si possono pagare salari ancora più bassi e preoccuparsi ancora di meno delle condizioni di sicurezza. Se non vede l’inquietudine di un imprenditore che per fare il proprio lavoro si trova a dover lottare contro mille difficoltà: le complessità burocratiche, il peso fiscale, l’assenza delle infrastrutture, con uno Stato che spesso sembra essergli nemico.

La politica è miope, non riesce a guardare lontano, se si preoccupa solo di chi ha già garanzie e trascura gli interrogativi e la vita di un giovane laureato che non sa che fare, se provare a vincere un dottorato di ricerca e continuare a studiare, a fare quel che gli piace e per cui si sente portato, oppure essere realista e cercarsi subito una qualsiasi occupazione, anche precaria, anche sottopagata. Costretto a scegliere una vita, quella della precarietà, che è un furto di futuro. Per un’intera generazione.

La politica è miope se non capisce che un bambino disabile, autistico o down, è la creatura al mondo che ha più bisogno di avere la società vicina, di sentire la comunità solidale. Se non capisce che c’è una spesa pubblica che non può mai essere tagliata: quella per loro. Nessuna di queste persone si aspetta che un governo possa risolvere tutti i loro problemi. Ma ognuno di loro, giustamente, chiede ascolto, chiede attenzione, rispetto, e vuole avere la percezione concreta che qualcuno i suoi problemi li sta affrontando davvero.

Il Partito Democratico nasce per questo. Per far riamare la buona politica, quella che in uno straordinario giorno di ottobre tre milioni e mezzo di persone hanno animato con al loro passione, con al loro partecipazione. Il Partito democratico nasce per dare alle donne e agli uomini e ancor più alle ragazze e ai ragazzi del nostro Paese la certezza che se vogliamo, insieme, noi possiamo cambiare la politica e cambiare l’Italia.

La scelta è tra passato e futuro. (...)

Noi ci presentiamo agli italiani con una chiara proposta di governo: un programma, una leadership, una squadra coesa e affiatata. Lo state vedendo. Dopo la nostra scelta tutto si è messo in movimento. Anche nell’altro campo. Ma guardate bene quel che succede nelle loro file: sono preoccupati di «come» vincere, non del «perché» vincere. Di come organizzarsi meglio, non di cosa offrire di nuovo all’Italia, di cosa fare di nuovo per gli italiani. D’altra parte hanno già governato l’Italia per sette anni, e propongono solo di tornare a farlo, esattamente come prima. Noi vogliamo voltare pagina. Noi diciamo: non cambiate un governo, cambiate l’Italia. Cominciamo. Cominciamo a farlo insieme. Trasformiamo l’Italia. (...)

Si può fare. Questi due mesi ci metteremo in viaggio, toccheremo tutte le 110 province italiane, tutta la bellezza e la meravigliosa diversità del Paese. Questi due mesi saranno il modo più appassionante che abbiamo per far vivere le nostre speranze e dare corpo ai nostri sogni. Non sono le speranze e i sogni di pochi.

Sono le speranze e i sogni di milioni di persone, che insieme cambieranno l’Italia. La speranza, il sogno: parole che alcuni giudicano ingenue, astratte, poco adatte alla politica e alle sue esigenze di realismo. Ma «speranza» vuol dire immaginare qualcosa che non c’è e impegnarsi per renderla possibile. Cosa di più bello nella vita? La speranza, la fiducia nel futuro, è il motore del cambiamento che serve all’Italia. È per questo che io mi candido. Non per ricoprire una carica. E vi chiedo, nei prossimi mesi, di pensare non a quale partito, ma a quale Paese.

Facciamo un Paese grande e lieve.

Una Italia in cui non si muoia per lavorare. In cui studiare e intraprendere sia facile. In cui le donne e gli uomini ritrovino la voglia di viaggiare, insieme e sicuri, verso il futuro. In cui la politica riscopra il coraggio di rischiare il nuovo. E forse, un giorno, ricorderemo che qui, oggi, in una bellissima domenica italiana, tutto è cominciato.

Pubblicato il: 11.02.08
Modificato il: 11.02.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 14, 2008, 04:23:36 pm »

VERSO LE URNE

«Fuori de Magistris». E Tonino accettò

Il Pd: tre posti ai radicali. Bonino tentata

Veltroni a Di Pietro: molti non ti volevano, ho deciso io. Bindi, Parisi e Polito contrari.

De Mita sarà escluso all'ultimo momento per evitare che passi alla Rosa Bianca


 ROMA — Quando si è presentato al loft per siglare l'accordo con il Pd, Antonio Di Pietro era pronto a fare un'altra concessione al Partito Democratico.
Tra le sue carte c'era un bozzetto con il simbolo dell'Italia dei Valori e la scritta «per Veltroni». Ma non vi è stato bisogno nemmeno di fare quel passo. Il leader del Pd aveva già deciso per l'accordo. E ai suoi l'aveva spiegata così: «Innanzitutto dobbiamo evitare che Di Pietro vada con la Rosa Bianca, e anche nel caso in cui andasse da solo ricordiamoci che potrebbe attirare tutti i voti dei girotondini e dei sostenitori di Grillo e questo ci porterebbe via consensi». Ragionamento non tanto campato in aria perché tra i molti bozzetti che l'ex magistrato aveva fatto preparare ve ne era anche uno in cui figurava un'elegante rosa bianca. Le condizioni poste da Veltroni a Di Pietro sono state tre.

La prima era stata già accettata: fare gruppo parlamentare comune nella prossima legislatura. La seconda anche. Veltroni ha chiesto al leader dell'Italia dei Valori di poter metter bocca sulle sue candidature. Ed è accaduto così che ancor prima dell'incontro al loft il nome di de Magistris, inserito tra le candidature possibili di Idv, venisse cancellato con una bella croce sopra. Terza condizione: poiché il Pd dovrà procedere a un certo rinnovamento, Di Pietro deve promettere che non metterà in lista i parlamentari del Partito Democratico fatti fuori, che non saranno pochi. Alla fine, per esempio, non verrà candidato l'ottantenne Ciriaco De Mita ma per bocciarlo si aspetta l'ultimo momento utile, onde evitare che passi armi, bagagli e voti irpini alla Rosa Bianca. Intesa siglata, dunque. Del resto anche il ministro delle Infrastrutture un suo interesse lo aveva: i sondaggi lo davano oscillante tra il 3,5 e il 4,5 per cento. Insomma, Di Pietro non aveva la matematica certezza di passare il quorum necessario a chi non si apparenta. Veltroni, nel colloquio con il leader dell'Italia dei Valori, è stato franco: «Guarda che una parte del Pd non ti voleva, ma siccome ogni decisione è stata delegata a me io ho stabilito di stringere questo accordo ». Accordo che non piace ad Arturo Parisi («è uno sbaglio»), a Rosy Bindi, a tanti prodiani, a una parte degli ex ppi, ma anche a un personaggio come il senatore Antonio Polito, che dice: «Sono contrario». Ma così è.

Quello con Di Pietro è l'unico accordo che Veltroni ha intenzione di siglare. Ai radicali contropropone la vecchia offerta: tre posti nella lista del Pd, a Emma Bonino, Marco Cappato e a uno dei deputati uscenti. La maggior parte del gruppo parlamentare radicale non è insensibile a questa profferta e dicono che anche Bonino sia lusingata. Ma, come sempre avviene in quel partito, non si muove foglia che Pannella non voglia. E il carismatico leader non vuole. Almeno finora, perché Veltroni, Goffredo Bettini e Dario Franceschini non disperano in questi giorni di rendere più malleabile Pannella. Con i socialisti, invece, è guerra aperta. Non vogliono qualche strapuntino? Pazienza, si presentino da soli. «Tra l'altro vedrete che prima o poi qualche socialista verrà», è il convincimento di Veltroni. Ma Enrico Boselli ha intenzione di vendere cara la pelle: «Allearsi con il manettaro Di Pietro e non con noi riformisti? Il Pd vuole cancellarci». E i socialisti meditano già le possibili contromosse: «Ricordate — osserva Roberto Villetti — che questa primavera ci sono anche le amministrative e se noi decidessimo di andare da soli, il Pd perderebbe diverse giunte...».

Maria Teresa Meli
14 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 14, 2008, 07:12:22 pm »

La prima riforma del Pd? Salari e potere d'acquisto

Massimo Brutti


Le proposte avanzate in questi giorni dal Partito democratico sulla detassazione dei salari pongono al centro della nostra campagna elettorale una questione cruciale per la sinistra riformista: come può l’azione politica di governo innalzare i livelli di reddito degli strati popolari, promuovere l’accesso ai beni della vita, e come può modificare - perseguendo obiettivi di uguaglianza - le condizioni materiali nelle quali vivono i lavoratori italiani? La risposta non può essere congiunturale. Essa ha invece un valore strategico. Mette alla prova il Partito democratico e riguarda il suo rapporto (costitutivo della identità che si sta formando) con l’Italia che lavora e che chiede giustizia sociale.

Se tracciamo un bilancio delle esperienze di governo del centrosinistra, vediamo bene che il risanamento, l’ingresso nell’euro, la messa in ordine dei conti non sono bastati a cambiare il Paese. Le vite degli italiani sono pesantemente condizionate dai privilegi, dalle clientele, dalla insicurezza del lavoro, dal mancato riconoscimento del sapere e dei meriti nei rapporti sociali, dalla disparità nell’esercizio dei diritti e dalla debolezza del sistema politico. Quale competitività dell’economia nazionale possiamo immaginare, quale modernizzazione, quale mobilità sociale, se i vizi antichi di un’Italia premoderna, tradizionalmente diretta da corporazioni e consorterie, continuano a riproporsi oggi nella distribuzione iniqua delle ricchezze e nelle strutture di potere chiuse che dominano la società civile e la politica?

Risulta dai dati Ires-Cgil del 2006 che oltre 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al mese e 7,3 milioni meno di 1.000 euro. Nell’industria il 66,2 per cento dei lavoratori e il 90 per cento delle lavoratrici non superano i 1.300 euro. Ne deriva una drammatica limitazione della libertà per un numero elevatissimo di cittadini. A parte le iniziative del sindacato, troppo poche sono finora le voci politiche che riconoscono l’urgenza di un intervento riformatore su questo terreno.

Non c’è dubbio che durante l’ultimo decennio le disuguaglianze nella società italiana, invece di diminuire, si sono accresciute, con una rilevante compressione dei redditi da lavoro, che investe anche i ceti medi, che indebolisce la domanda interna e che, per la sua grande estensione, deprime l’insieme della vita sociale, spingendo vasti settori di opinione pubblica all’insoddisfazione e al rifiuto della politica.

Si è insomma determinato un forte squilibrio tra i sacrifici richiesti ai lavoratori, specialmente al lavoro dipendente, e quello che la collettività, attraverso l’azione dei pubblici poteri, è riuscita a dare in cambio, sul terreno dei redditi e dei diritti sociali.

Intervenire sui salari e sugli stipendi per aumentarli, per accrescerne il potere di acquisto diventa quindi la prima fondamentale riforma di struttura che dobbiamo perseguire. Andando decisamente al di là delle misure che il Partito democratico ha finora proposto (ma anch’esse urtano la destra e vengono complessivamente respinte) circa la riduzione del carico fiscale sugli straordinari e su quella parte del salario che si determina con la contrattazione di secondo grado.

Tutto ciò significa definire una serie coerente di progetti e di provvedimenti in direzione dell’incremento delle retribuzioni reali, del sostegno alla domanda, dell’abbassamento delle tariffe e di una politica sociale che restituisca dignità al lavoro, in tutte le sue forme (un esempio: la previsione di minimi salariali al di sotto dei quali non possono andare i contratti di collaborazione continuativa). È chiaro che per questa svolta non basterà l’extragettito guadagnato nell’ultimo anno e mezzo. I suoi margini sono del resto ancora incerti. Si tratta piuttosto di modificare sistematicamente il rapporto tra risorse e diritti. Sarà necessaria una politica di più lungo periodo che sia, ad là dei primi atti (già annunciati), sorretta da una ispirazione coerente: il contrario delle oscillazioni e delle continue divaricazioni interne al governo, proprie della fase che abbiamo alle spalle.

Dovremo ancora operare per la crescita, senza la quale non c’è equità né progresso civile. Ricordo in proposito una frase del vecchio Edward Bernstein, che appartiene all’abc del pensiero socialista moderno: «Le prospettive della socialdemocrazia - scriveva nel 1900 - non dipendono dal regresso, ma dall’accrescimento delle ricchezze sociali».

Non basta tuttavia l’attesa dello sviluppo. Dovremo spostare risorse per dare forza ai redditi da lavoro e sappiamo che ciò significherà ridurre le rendite e risparmiare sulla spesa pubblica.

Una leva decisiva per la crescita è la moralizzazione delle istituzioni. Il rispetto delle regole, un costume nuovo nello Stato, la dedizione dei funzionari, dei professionisti, delle classi dirigenti ai propri doveri istituzionali: sono tutti fattori che contribuiscono ad accrescere le ricchezze sociali. Ecco perché serve un’azione di governo anti-sprechi, che punti a sanare l’inefficienza della pubblica amministrazione, che colpisca il dispendio inutile e la neghittosità, che licenzi i parassiti del pubblico impiego ed insieme metta al bando i politici che organizzano le clientele e vivono di esse, che tagli drasticamente il capitalismo pubblico «di ritorno» costituito per iniziativa delle regioni e degli enti locali, fonte anch’esso di improduttività e dispersione di risorse.

Adopero a proposito del salario l’espressione «riforma di struttura», perché penso che attraverso le retribuzioni delle attività lavorative passi una gerarchia degli interessi, un modello di rapporti tra le figure sociali. Una busta paga più pesante dà coraggio, capacità e fiducia ai lavoratori e alle loro famiglie e quindi contribuisce in modo rilevante a cambiare i rapporti di forza nella società, il senso comune, le forme di vita.

Questi rapporti si cambiano anche agendo su altri diritti dei ceti popolari: con più scuola e più formazione qualificata, con più diritto alla salute, con più sicurezza nella vita quotidiana. Ma il salario è il punto di partenza essenziale. E la politica dell’equità salariale è un momento di quella scommessa strategica sull’uguaglianza, che rappresenta l’anima e il destino delle culture politiche di sinistra.

Chiudo queste considerazioni con un’ultima domanda. È possibile ed in quale misura che su questa linea si stringa attorno al Partito democratico e a sostegno del suo programma, del suo simbolo, fin dai prossimi giorni, una vasta alleanza di sinistra, un insieme di raggruppamenti e di culture che intendono ricollegarsi al socialismo europeo, alle idealità del lavoro e della solidarietà?

Io credo che una simile alleanza sia nelle cose e che essa andrà avanti. Ampi settori di sinistra scelgono oggi consapevolmente di stare nel Pd per una politica riformista, per dare concretezza alla volontà di cambiamento, per non può fermarsi alla testimonianza. Numerose associazioni e gruppi che si rifanno alla tradizione socialista sono già nel Pd. Inoltre, molti lavoratori con esperienze sindacali, molti quadri di sindacato hanno partecipato alle elezioni primarie del 14 ottobre, con le quali il Pd si è costituito, ed oggi operano con noi. Altri ne stanno arrivando. Scartano altre esperienze, come quella della «cosa rossa». Scelgono la nuova identità riformista del Pd. In una forza più radicata e grande (un tempo si sarebbe detto in un partito di massa), l’impegno politico conta di più e le idee-guida della sinistra acquistano una maggiore capacità espansiva.

Pubblicato il: 14.02.08
Modificato il: 14.02.08 alle ore 8.46   
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 14, 2008, 07:15:28 pm »

Attenti a chi si candida

Enrico Fierro


Questo è un articolo-appello rivolto a Walter Veltroni, ad Antonio Di Pietro, a Fausto Bertinotti e a tutti i leader del centrosinistra che si apprestano a scegliere i candidati per le prossime elezioni politiche. Fate pulizia in Calabria, candidate uomini e donne mai sfiorati non da un avviso di garanzia, un rinvio a giudizio o una sentenza, ma dal semplice «sospetto» di essere collusi, vicini o compiacenti con la ‘ndrangheta. È una misura radicale, estrema, pesantissima, come estrema, pesantissima, radicale è la situazione che si vive in quella realtà.

Non si era ancora placato lo sdegno per i risvolti dell’arresto di Mimmo Crea, che ieri arriva l’ultima notizia: l’arresto dell’assessore regionale Pasquale Tripodi (Udeur). Poco meno di un mese fa l’accusa di mafia per il capogruppo dello stesso partito, Franco La Rupa. Nei giorni scorsi le perquisizioni a casa del presidente Agazio Loiero per l’indagine «Why Not», notizie che circolano da mesi su almeno una ventina di consiglieri regionali inquisiti per vari reati. Ha ragione Loiero quando dice che «non se ne può più». La Calabria non ne può più di personaggi politici alla La Rupa, che era socio d’affari con il boss di Amantea Tommi Gentile, e di Pasquale Tripodi. Ma ci voleva l’arresto di ieri per rendersi conto che non era il caso di riconfermarlo nel ruolo di assessore? Perché si è sottovalutato il fatto gravissimo che un collaboratore dell’onorevole è stato recentemente arrestato perché trovato in possesso di mitra e pistole? Anche in Calabria la politica lamenta l’eccessiva intromissione della magistratura nei suoi affari interni. C’è un solo modo per evitare che siano i pubblici ministeri a decidere le sorti di questo o quel personaggio politico: candidare uomini e donne al di sopra di ogni sospetto. In Calabria ci sono. Basta avere il coraggio di scegliere e di rompere con gli uomini del passato. Ha ragione Loiero quando dice che Tripodi lui non lo voleva in giunta, che furono l’Udeur e Mastella ad insistere perché il loro uomo avesse un ruolo di rilievo nel governo della regione. Ma perché accettare accanto a sé un personaggio «chiacchierato», così «leggero» da scegliersi un collaboratore che gira armato? Realismo politico, compromessi? Per tutto ciò in Calabria non c’è più spazio. Al punto in cui è arrivata la situazione, l’unica forma di realismo politico è quella di voltare pagina, ripulire drasticamente le liste, selezionare i candidati con rigore, attingere da quel poco di società civile (cooperative sociali, università, centri di cultura, movimenti giovanili, sindacati, sindaci onesti) che da Cosenza a Reggio ancora resiste.

La ’Ndrangheta in Calabria è ad una svolta, l’omicidio Fortugno è stato un «incidente», sicuramente necessario, ma da non ripetere. Ora più che in passato l’ordine dei boss è entrare nelle istituzioni, determinare le scelte politiche, salire sul carro dei vincenti. Un’operazione che le famiglie possono fare perché la loro potenza economica e la capacità di controllo del territorio sono fortissime. Un unico dato - elaborato dal criminologo Antonio Nicaso -: in Calabria, dove il 23% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà e la disoccupazione palese è al 12%, il rapporto tra fatturato criminale e Pil è del 120% contro il 39 della Sicilia e il 32 della Campania. Siamo di fronte ad una straordinaria emergenza democratica che obbliga i partiti ad una rivoluzione profonda. Via i compromessi che nel 2005 permisero (con pranzi, cene e convention alle quali parteciparono leader nazionali) al «chiacchieratissimo» Mimmo Crea di passare dal centrodestra al centrosinistra. Via gli accordi con uomini che cambiano partito e schieramento ad ogni tornata elettorale. Via i distratti e gli incoerenti sul tema di una rigorosa lotta alla ’ndrangheta. In questi giorni si è polemizzato sulla possibile candidatura dell’europarlamentare Armando Veneto nelle file dipietriste. Nel ’79 l’onorevole-avvocato partecipò ai funerali del boss di Gioia Tauro Mommo Piromalli. Si è discusso e ci si è scontrati, l’onorevole si è difeso dicendo che lui si trovava quasi per caso a quei funerali, che furono i parenti del morto a chiedergli di salutare gli amici. Gli crediamo, ma non giustifichiamo. In quegli anni si sapeva chi era Piromalli, quale era il suo potere, lo sapeva anche Ciccio Vinci, studente di anni 18, ucciso tre anni prima di quel funerale perché nemico della ’ndrangheta.

Pubblicato il: 14.02.08
Modificato il: 14.02.08 alle ore 8.46   
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