LA-U dell'OLIVO
Novembre 27, 2024, 12:43:47 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2 3 ... 11
  Stampa  
Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 83721 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Giugno 18, 2007, 10:44:23 pm »

Stampa e libertà

Furio Colombo


Due lampi illuminano all’improvviso il cielo grigio delle notizie che, in disordine, fanno ossessivamente il giro del mondo, narrano sempre le stesse storie e poi spariscono. È accaduto il 13 giugno 2007, quando è stato pubblicato il temerario discorso di accusa di Tony Blair, Primo Ministro a fine carriera del Regno Unito (in Italia La Repubblica, 13 giugno). È accaduto il 14 giugno quando il New York Times ha pubblicato un testo di Patricia Cohen che - basandosi sul lavoro di economisti e politologi come Michael Mandelbaum, Joseph Stieglitz (il premio Nobel per l’economia) e Bruce Scott (economista di Harvard) - si domanda se valga ancora il legame ritenuto inscindibile (e anzi garanzia reciproca) fra capitalismo e democrazia. E dunque fra capitalismo e libertà delle notizie.

Il legame fra i due sorprendenti interventi è chiaro e - per l’Italia di oggi - di rilevanza immediata. La domanda è: c’è ancora - e serve a qualcuno o a qualcosa - la libertà di notizie, informazioni, comunicazioni, dunque la mitica e celebrata “libertà di stampa” ritenuta finora il cuore della democrazia?

Tony Blair, forse il più carismatico e certo, per qualche tempo, il più popolare leader della sinistra europea in molti decenni, si assume un compito che condivide con tutta la classe politica occidentale ma che, dimostra Blair, in questo periodo tormenta soprattutto la sinistra.

Il senso del discorso di Tony Blair ormai è noto e ha suscitato la sua parte di plauso (dai politici di ogni denominazione) e di condanna (da parte dei più autorevoli giornali inglesi) fra l’indifferenza infastidita di una vasta opinione pubblica che si sente estranea all’uno e all’altro lato della polemica (e questa è la vera notizia sullo stato delle cose).

Tony Blair attacca, condanna e disprezza la stampa che descrive come una belva che azzanna per nutrirsi di scandalo, utilizzando senza scrupoli il sangue delle persone che sono in vista perché si sono assunti la responsabilità della politica e sono da distruggere perché sono in prima fila ed hanno successo.

I politici dunque sono la vittima ideale della belva e la belva risponde ai suoi istinti ferini, non alla missione di informare. Sostiene Tony Blair che la notizia è un trucco per tendere trappole mortali ai politici.

Il lettore non farà fatica a cogliere curiose analogie con la situazione italiana di questi giorni. La stampa italiana ha scelto di ospitare con abbondanza tutti gli spunti possibili di intercettazioni telefoniche che contano, forse, sul piano del buon gusto e delle buone maniere ma niente dal punto di vista dei processi di cui queste intercettazioni sono storie laterali. E ha scelto di farlo lasciando scorrere tutto senza alcun filtro critico o almeno qualche “guida alla lettura” che distingua il giudizio morale e politico (conta o non conta una certa frase?) dal fastidio mediatico e dal disturbo del gusto. In realtà fra la storia italiana e la storia inglese c’è una importante differenza. Tony Blair attacca “la belva” non perché infastidito da sgarbi e critiche malevoli, ma a causa di un violento scontro frontale che segna un’epoca. Lo scontro, di cui Tony Blair è stato iniziatore e protagonista, si è compiuto sulle ragioni della guerra in Iraq.

Quelle ragioni, come è noto al mondo erano false. Ovvero era falsa tutta (tutta) la proposta, la argomentazione e la prova dei fatti (se vi fossero in Iraq armi di distruzione di massa puntate sul mondo e pronte ad entrare in azione in 45 minuti), mentre era ovviamente aperta al dibattito la questione politica (se Saddam fosse il tiranno contro cui usare subito la potenza del mondo).

Dunque c’è qualcosa di unico in ciò che Tony Blair, leader carismatico e popolare della sinistra europea, ha scelto di fare. Ha usato, con piena conoscenza di causa, argomenti che gli sono stati messi a disposizione dalla destra politica e militare del mondo per sostenere una guerra che si è rivelata un immenso errore militare e politico le cui conseguenze, fino alla guerra civile in Iraq, in Libano, in Palestina, fino al rischio di sopravvivenza dello Stato di Israele, sono ancora in corso, lontano da ogni possibile esito positivo.

Tony Blair, ha usato e giocato con la stampa in due modi. Come dimostra il recente libro americano The italian letter di Peter Eisner e Knut Royce, si è avvalso di un documento falso preparato in Italia nella redazione di un settimanale politico italiano, usando personaggi periferici del sottomondo spionistico per pronunciare il famoso discorso: «Ci possono distruggere in 45 minuti». E ha esercitato tutte le pressioni politiche disponibili ad un potere democratico per ottenere che la diffusione della falsa motivazione della guerra non fosse ostacolata o intercettata da argomenti critici al tempo in cui il leader Blair chiedeva per la sua guerra il sostegno della opinione pubblica inglese. È il periodo in cui uno scienziato che non voleva offrire il suo sostegno alla tesi dei «45 minuti per distruggere il mondo» si è tolto la vita. E il Direttore Generale della BBC, responsabile dei servizi giornalistici inglesi che non si erano sottomessi, è stato costretto alle dimissioni. È con un record tutt’altro che esemplare che Tony Blair si presenta alla tribuna di accusatore della stampa persecutrice dei politici.

La storia dimostra che invece - come è accaduto per George W. Bush negli Stati Uniti, per la stessa ragione (le false motivazioni di una guerra presentata come urgente e necessaria) - la vera salvaguardia della democrazia, e dunque della libertà delle notizie, sta nel tempo. Anche nella pienezza delle garanzie democratiche, un leader politico può imporre notizie false. Ma si tratta di un atto soggetto a scadenza. Evidentemente entrambi i leader hanno scommesso su una vittoria così rapida e clamorosa da trascinare l’opinione pubblica a ignorare la libertà di stampa. Brutta scommessa. Comunque, a causa del grave insuccesso, non ha funzionato. Adesso la stampa esige il risarcimento di un minimo di verità. Curiosamente Bush si è mostrato più cedevole del Primo Ministro inglese che ha scelto come difesa l’accusa ed esce di scena inseguito dalle denunce della stampa inglese che - a causa di quella accusa - gli ripetono e consegnano al futuro, con prove dettagliate, la sua fama di leader che mente.

* * *

Come si vede una garanzia contro la falsità della politica c’è, finché un Paese è democratico. Ma democrazia e capitalismo si sostengono a vicenda, come ci è stato sempre detto (i mercati vogliono la libertà come i partiti, per le stesse ragioni di competizione) oppure il capitalismo può, oggi, fare a meno della democrazia senza soffrirne, anzi sviluppandosi a ritmi sempre più stretti?

La domanda posta dall’intervento di Patricia Cohen sull’International Herald Tribune del 14 giugno ha molte motivazioni. Sono nei testi allarmati e dubbiosi di alcune grandi firme della politologia e dell’economia, ma anche nella constatazione del rapido e grandioso sviluppo economico di Paesi industriali e capitalistici tutt’altro che liberi, come la Cina e la Russia. Nella Russia di Putin, invece di fermarsi all’invettiva di Blair («la libera stampa è una belva») la belva viene uccisa. Il mondo momentaneamente appare costernato quando la belva ha il volto della coraggiosa giornalista Olga Politovskaia. Ma, dopo un po’, dimentica. La Cina conduce un controllo preventivo che - prima che portare alla morte - impedisce la nascita di una Olga Politovskaia. Ma intanto si sviluppa, si arricchisce - e arricchisce una parte dei suoi cittadini, lungo tappe successive di una espansione mai vista. Due studiosi americani, il politologo Scott e l’economista Stieglitz non pensano alla Cina ma all’Occidente quando dicono «è un errore pensare che tutto quel che ti serve per vivere in democrazia siano una costituzione e un voto» (Bruce Scott) e «abbiamo riflettuto su quanto sia facile, oggi, manipolare una elezione?» (Joseph Stieglitz). I due studiosi non si voltano indietro a ripensare il Cile, dove, sotto Pinochet, si sono fatte “riforme” (come quella delle pensioni, che viene raccomandata anche a noi, anche oggi, come quella della flessibilità del lavoro suggerita dai “Chicago Boys”, che a quel tempo non si chiamavano ancora “Neocon”). Li angoscia la impenetrabilità della Cina e della Russia capitalistica alla democrazia.

Ma li impressiona ancora di più la fragilità delle più grandi e celebrate democrazie. Da un lato si intravede la crepa dell’imbroglio (abbiamo appena parlato di Blair, ma per l’Italia si veda la denuncia ripetuta da Enrico Deaglio con il film dvd Gli imbroglioni, a proposito di molti punti strani e oscuri nelle elezioni politiche italiane del 2006; ma anche le prove di broglio denunciate da Leoluca Orlando dopo le recenti elezioni comunali a Palermo; ma anche la questione sollevata invano dagli interessati, di otto senatori forse spariti dalla lista di eletti alla “camera alta” italiana dopo contestati e mai discussi scrutinii delle ultime elezioni politiche). Dall’altra una stampa esangue che negli Usa ha risposto tardi (con le scuse formali e congiunte ai lettori dei direttori del New York Times e del Los Angeles Times e la pubblicazione, a cura di Frank Rich, delle notizie omesse per non dispiacere al governo di Bush). In Inghilterra si reagisce adesso. E in Italia si continua a sentire il fiato caldo del potente politico-editore Berlusconi sul collo di chi fa informazione. E si preferisce, anche adesso, non imbarcarsi in argomenti sbagliati o pericolosi, lasciando che siano Bruno Vespa o Minzolini a dirci, anche adesso, anche oggi, qual è il menù delle notizie del giorno.

Se Berlusconi dice che per togliere di mezzo Prodi lo strumento più adatto è il regicidio, cioè il delitto, ti dicono di non disturbare, ti avvertono che si tratta solo di “uno scherzo”.

Ricordate le violente accuse a questo giornale, definito, esclusivamente per le sue critiche politiche, “testata omicida” da tutta la stampa e le televisioni di proprietà o sotto controllo di Berlusconi? Se poi la Lega occupa i banchi del governo ostentando il giornale da statisti di quel Gruppo, che intitola “Fuori dalla balle”, compiendo dunque un gesto probabilmente non consentito in Guatemala, tutto viene narrato (e molto brevemente) come una ragazzata. Dice festosamente il Tg1 del 15 giugno: «È subito baruffa» notare la parola bonariamente goldoniana. Segue, regolare, per tutti coloro che si indignano, si scandalizzano, protestano, o anche solo si sentono imbarazzati, la raccomandazione «ad abbassare i toni».

La fine della storia è nell’iniziativa della nascente leader politica Brambilla, il nuovo cyborg di Berlusconi, che fonda un giornale “della libertà” nel giornale di Berlusconi e una televisione “della libertà” nella televisione di Berlusconi. Altrove democrazia e libertà di stampa rischiano il loro destino nel dramma. Da noi nel ridicolo.


Pubblicato il: 16.06.07
Modificato il: 17.06.07 alle ore 12.53   
© l'Unità.
« Ultima modifica: Ottobre 27, 2007, 11:12:27 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Luglio 08, 2007, 04:52:58 pm »

La paga
Furio Colombo


Un giovane tatuato e abbronzato di nome Fabrizio Corona attraversa l’inquadratura delle nostre televisioni e tutti gli spettatori sanno, di colpo, che è lui l’eroe del nostro tempo. Come fare a dirlo? Semplice. È ricco. Non ha mai lavorato. Ha colto con prontezza alcune buone occasioni (fotografare e poi ricattare), ha saputo farlo presto (da giovane) con le persone giuste (ricattabili) nel momento più adatto, mentre l’Italia, spaventata dal lavoro precario, dalle pensioni incerte e affascinata dalla ricchezza esentasse, guarda verso il solo valore a cui vale la pena di guardare: il danaro, purché sia molto. E se in mezzo c’è la disavventura della prigione, perché non prenderla come una «isola dei famosi», il luogo da cui passano brevemente (e per poco) con sfacciata spavalderia, tutti coloro che non sanno che farsene della buona reputazione e del vecchio e superato privilegio di essere incensurato, a confronto con una solida agiatezza?

Sono tutti coloro che non dovranno mai sedersi con Padoa-Schioppa per sapere se, quando, con quanto andranno in pensione, dopo trentacinque o quarant’anni di noiosissimo, ripetitivo e magari usurante lavoro e di versamento regolare (se nel tuo piccolo sei fortunato) dei contributi previsti dalla legge, che adesso tutti definiscono «inadeguati» ma che a te portavano via quasi metà della paga. Fabrizio Corona non è solo. Lui e la sua bella ragazza non vivono nel vuoto. Quando non insultano il giudice - un impiegato statale che ha osato interferire con la loro splendida vita - entrano in un’altra inquadratura, dove c’è Lele Mora e una corte di gente giovane, ricca, esentasse, un nuovo festoso presepio a bordo piscina in cui il nuovo Gesù bambino è un pacco di milioni. Per capire Lele Mora e Corona e la nuova Italia delle «Veline» che si presentano per approvazione fisica a certi portaborse di personaggi della Farnesina (ai tempi di Berlusconi) prima di arrivare in Rai, bisogna passare attraverso la sinistra «moderna» di Ichino e Tito Boeri.

Passare cioè attraverso un percorso in cui il duro giudizio per il lavoro (“fannulloni”) e l’irritazione per ogni esitazione a tagliare tasse e pensioni sta spostando tutto il peso, tutta la attenzione su qualunque modo non regolare di guadagnarsi la vita.

Ormai sappiamo che in ogni treno, invece di due ferrovieri ce ne può essere benissimo uno solo, e - per giunta - con un piede sempre su un pedale con cui dimostra di essere sveglio e attento. Se toglie il piede, interviene la direzione.

Ormai sappiamo che, da una parte della vita, una serie di nuove leggi molto lodate come “moderne” preferiscono definire il lavoro come una serie successiva di gabbie di precariato o, come dicono certe volte con linguaggio benevolo, “di lavoro a progetto”. E, dall’altra parte, coprono di vergogna gli anziani che vorrebbero staccare dopo 35 anni o 40 anni di effettivo lavoro; si fa del sarcasmo facile sul lavoro usurante (mimando timbri e sportelli) e si accusano i vecchi di bloccare, con la loro pretesa alla pensione - e magari a un po’ più di pensione - la strada ai giovani. Lo si rimprovera a loro, non a chi - in passato - ha governato male il paese, non a chi ha gestito male o liquidato o svenduto le imprese.

Allora l’immagine di Corona, che alla sua giovane età, circondato di ragazze svestite, con foto e ricatti e allegria e libera impresa ha già accumulato milioni (di cui si vanta senza che sia mai stato verificato il suo status fiscale) diventa l'immagine dell'eroe del nostro tempo. Non vorrai entrare nella gogna del precariato, passare la vita da fannullone ed affrontare una vecchiaia in cui ti ingiungono di restituire come un maltolto un po’ di anni di vita e un po’ di pensione?

* * *

Ho rispetto e attenzione per il prof. Ichino e per il prof. Boeri, e so benissimo che esistono i “fannulloni”. Esistono, quando è possibile (ma - diciamo la verità - meno che in altri settori e livelli sociali della vita) nel lavoro salariato e stipendiato. Perché ho detto «meno che in altri settori»? Credo che la risposta sia evidente: nel lavoro retribuito con paga o salario ci sono più controlli che per Tronchetti Provera. Dubito, per esempio, che ci siano “fannulloni” nel settore privato. E domando a Ichino: quanti “fannulloni” ci saranno nel settore pubblico della Agenzia delle Entrate se c’è stato, in un solo anno di attenzione di governo, un aumento così drammatico del gettito fiscale, un aumento grande abbastanza da cambiare in parte (disgraziatamente con infinita discussione ed estenuante indecisione) i piani prudenti di questo governo? Sappiamo tutti di disfunzioni del settore pubblico come le liste di attesa degli ospedali. Ma ogni indagine, anche privata e accurata, accerta clamorose colpe organizzative delle direzioni generali e delle Regioni. E anche una clamorosa insufficienza di personale e di fondi. Abbiamo tanti scandali di malasanità in Italia,ma non quello del personale sanitario che fa festa al bar mentre i pazienti attendono nelle famose liste di attesa.

E non abbiamo alcun sistema per identificare e premiare i bravi. Eppure i bravi ci sono. Sono gli impegnati, i volontari del proprio lavoro pubblico che restano in ore non pagate e tornano in giorni non previsti. Devono esserci, se in un sistema pubblico così disarticolato da sovrapposizioni di leggi, brusche variazioni di orientamento politico, strani regolamenti mai aboliti e sindacati accusati di tutto, la durata della vita umana in Italia è un po’ più lunga che in America.

Vorrei essere chiaro. Ogni contributo a migliorare uno Stato malandato e una burocrazia così ossessiva e radicata nel costume che - appena possibile - si riproduce, come un incubo da fantascienza, anche nel settore privato, è utile, importante, urgente, specie se viene da fonti esperte di strutture complesse e capaci di semplificazioni organizzative.

Ma ecco da dove viene un problema grave che - anche nei dibattiti di sinistra - sta inquinando la vita politica e persino i passaggi logici delle mille discussioni che si accendono su come cambiare il futuro. Si sovrappongono due leggende che cercherò di ripetere qui, e di chiarire.

La prima è un percorso soggettivo che addita individui colpevoli. Sono i “fannulloni” di Ichino, sono coloro che “pretendono” di andare in pensione troppo giovani (o secondo i loro comodi) nelle riflessioni di Tito Boeri. È strano come gli esperti e autorevoli “discussant” (come si dice nelle tavole rotonde anglosassoni) non vedano la futilità di disegnare la scena del lavoro e quella della fine del lavoro a partire dalla trovata di creare una gogna per il “fannullone” e una gogna per il lavoratore in fuga verso la pensione.

È strano, perché nessuno troverebbe di buon gusto dire che i commercianti fischiano Prodi e Visco perché non vogliono pagare le tasse. Diremmo subito che fischiano - santo cielo - perché pagano troppe tasse. Al piccolo imprenditore scontento diciamo che si deve prestare ascolto. È giusto. Ma ci intratteniamo volentieri con il mito del lavoratore “fannullone” e con il rito dell’operaio in cerca di via di fuga, attraverso la pensione, dalla ripetizione infinita degli stessi gesti quotidiani, come se si trattasse di intere categorie di profittatori ben accasati dentro fabbriche e uffici, sotto una pioggia di benefici a cui, anche adesso che la festa è finita, non intendono rinunciare.

Strano anche che questa “festa finita” non impedisca di promettere prontamente nuove, ulteriori facilitazioni alle imprese (giusto, se è possibile facciamolo subito) e consigli un rispettoso e attento ascolto dei fischi e dei boati dei commercianti, artigiani, professioni liberalizzate in rivolta (certo che si deve ascoltare, e sanare subito eventuali errori e ingiustizie).

Ma se si tratta di lavoratori che si allarmano (dopo decine di convegni e centinaia di telegiornali) sul crollo del sistema previdenziale e sul costo del lavoro, sempre eccessivo- ci dicono- dal 1950 ai giorni nostri, e se si allarmano e protestano, e se, protestando mettono in moto i sindacati, subito si parla, nell’ordine: di sindacati conservatori, di rigurgiti massimalisti, di politica di estrema sinistra o di sinistra antagonista. Eppure la difesa del lavoro non è mai stata di estrema sinistra o di sinistra antagonista, ma soltanto di sinistra. È sempre stata ben dentro le strutture democratiche nelle quali chi lavora vuole continuare ad avere diritto di rappresentanza e di parola. Questa sinistra infatti sa benissimo che accanto alle teorie totalmente liberista del Nobel Milton Friedman - che ispira economisti di destra come Martino e Tremonti,e anche un po’ di riformatori- ci sono le voci del Nobel Joseph Stieglitz, del docente di Princeton Paul Krugman e, in Italia, dell’amato e rimpianto Sylos Labini, che - in difesa del lavoro - hanno avuto a hanno ancora molto da dire.

Hanno da dire - soprattutto - che sul lavoro, e non sulla finanza, si fonda la democrazia e quella speciale forza della democrazia che viene dalla partecipazione e dal consenso.

* * *

C’è poi una seconda leggenda che circola negli infaticabili convegni economici sempre dedicati alla “festa finita” per le donne e gli uomini del lavoro quotidiano e del reddito fisso che credevano di meritare un po’ di pace, ma che alla “festa”(che adesso è finta) non sono mai stati invitati. Citerò la leggenda con le parole di Michele Salvati (Il Corriere della Sera, 30 giugno): «È l’alternativa statalista e socialdemocratica vicina alle posizioni del sindacato e delle grandi burocrazie, condivisa da coloro che ritengono che i problemi sociali si risolvono buttando soldi addosso. Insomma il “tassa e spendi” della nota caricatura della sinistra». Tutto ciò, secondo Salvati «sta nella pancia di buona parte del popolo di sinistra». Se intende dire che il popolo di sinistra è il popolo della gente che lavora e che dunque questa gente è un po’ ansiosa sulla continuazione del posto di lavoro e sulla pensione (che forse non non sarà tanto presto e non sarà tanto grande)ed è un po’ pessimista, e non partecipa alle effervescenze del “Billionare”, ha ragione. Ma potrebbe Salvati fare un esempio di governo “tassa e spendi” fra le democrazie industriali di oggi nel mondo? Potrebbe dirci se e quando, dai tempi del “New Deal” roosveltiano che ha posto fine alla grande depressione americana, causata da un mercato che non voleva regole, esistono (e dove) «coloro che ritengono che i problemi sociali si risolvono «buttando i soldi addosso»? Ha mai visto, in Italia, l’ospedale San Giacomo (Roma) o, in Usa, l’ospedale militare Walter Reid (Washington) dove i topi convivono con i feriti e i mutilati dell’Iraq? Perché parlare di un mondo che non esiste e intanto screditare ansie e fatti e realtà e paure del mondo del lavoro quotidiano che richiedono - se mai - grandi ripensamenti delle strutture organizzative, come ai tempi di Adriano Olivetti, piuttosto che gogna e sarcasmo per il “fannullone” (a proposito, si può essere fannulloni di propria iniziativa, dentro strutture bene organizzate, efficienti, ben dirette, che funzionano?) e ironia sul prendi e fuggi della pensione? Manca il quadro largo intorno al “fannullone”, subito diventato celebre, di Ichino. Ovvero la domanda “a monte” sulla organizzazione del lavoro e la sua efficienza in cui chi lavora è partner e non clown per la ricreazione dei riformisti doc.

Manca la realtà nel paesaggio di Michele Salvati. Nessuno tira i soldi addosso a nessuno, perché i soldi sono nei tesoretti di Corona e Fiorani e Lele Mora, veri monumenti al valor civile del nostro tempo. I costi del lavoro li stabiliscono loro. La pensione, magari un po’ eccessiva, l’hanno già accumulata. E il resto è vita, ben documentata da giornali e telegiornali.

I figli di quei poveri diavoli che adesso sono col cuore in gola in attesa di sapere se devono vergognarsi di andare in pensione prima dei sessantacinque anni (sempre che non siano stati già prepensionati a cinquanta anni dalle loro pregiate ditte in successive operazioni di “snellimento” che hanno risanato centinaia di aziende e zavorrato pesantemente l’INPS) adesso, quanto a modello per il futuro, sanno dove guardare. Certamente non vorranno cadere nella trappola del lavoro, della paga, della pensione. Se non ci occupiamo del destino di chi lavora che, alla fine, se tutto va bene va in pensione con un minimo di rispetto e di dignità, Fabrizio Corona sarà il nuovo modello per la prossima Italia.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 08.07.07
Modificato il: 08.07.07 alle ore 6.25   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Luglio 09, 2007, 09:40:02 am »

L'altolà di Epifani «Pensioni, partiti fuori dalla trattativa»

Troppe interferenze.

La trattativa sulllo scalone è «una maionese impazzita» 

 
ROMA — «Una maionese impazzita ». Altro non è, per Guglielmo Epifani, la trattativa sullo scalone Maroni. Così, quando si chiede al segretario della Cgil che si aspetta, allarga le braccia: «Lavoriamo per fare un buon accordo. E poi valutare. Se il governo ha una prospettiva, ripartire con un disegno. Un nuovo patto intergenerazionale, affrontando anche il problema degli anziani. Ma questo non è nelle mani del sindacato».

Fare l'accordo: sembra facile...
«Una cosa da dire alle forze politiche è che in questo Paese si sta smarrendo il confine fra responsabilità dei partiti e del sindacato. Questa vicenda è una maionese in cui non si capisce più chi fa che cosa. Se non si riconosce uno spazio di autonomia al confronto fra governo e sindacato ma ognuno interferisce in questa vicenda, diventando soggetto negoziale, allora è finita».

Con chi ce l'ha?
«Sono tutti i partiti a esprimere su questo o quell'altro aspetto un punto di vista. C'è chi ( Francesco Rutelli, ndr)
propone l'innalzamento dell'età delle donne, c'è chi ( Massimo D'Alema, ndr) sostiene che senza risorse è meglio tenersi lo scalone, chi ( Lamberto Dini, ndr) ha già deciso che voterà no all'intesa quale che sia. Tutto legittimo, ma questo rischia di rendere impossibile l'esito di questo negoziato. Causa ed effetto delle divisioni e della debolezza del governo. Per questo va usato il buonsenso ».

Purtroppo non se ne vede molto in giro.
«Con Dini trattammo due mesi in modo assolutamente riservato. Qui escono sui giornali ipotesi che neanche conosciamo. Sono stati annunciati incontri che non sono mai avvenuti, proposte mai avanzate. Bisogna uscirne assolutamente. Fuori c'è un Paese reale che alle volte ti colpisce».

Come ti colpisce?
«Faccio un esempio. Il 90% dei lavoratori avrebbe scelto la destinazione del Tfr, non si sarebbe rifugiato nel silenzio assenso. C'è stato un voto responsabile, in un senso o nell'altro, ed è un fatto importante».

Non la imbarazza l'accusa di corporativismo?
«Trovo una parte di queste critiche mossa da qualche interesse».

Lei si è fatta un'idea?
«In questo caso abbiamo fatto tutto lo sforzo per non concentrare l'attenzione sul tema del superamento dello scalone, che nella nostra piattaforma è al decimo posto. Prima vengono tante altre cose. L'aumento delle pensioni basse. La questione dei giovani, dal recupero dei contributi al riscatto della laurea. Per noi è sempre stato più importante, per esempio, difendere i 60 anni dell'età di vecchiaia delle donne».

Ma che accadrà quando l'aspettativa di vita sarà più lunga?
«Con il contributivo a regime tutto questo finirà. Non ci sarà più distinzione tra uomo e donna. Come vede, il nostro sforzo era di fare un'operazione tutt'altro che corporativa. Poi è successo che da mesi si dibatte solo sullo scalone».

Allora è falso che il governo Prodi prende ordini dal sindacato.
«Il governo di centrodestra provò a fare un accordo per dividere il sindacato isolando la Cgil. Prova che comunque aveva il sindacato al centro della sua strategia. Con questo governo, invece c'è stata difficoltà di costruire anche la stessa Finanziaria ».

Non era la Finanziaria che anche lei avrebbe fatto?
«All'inizio diedi quel giudizio positivo, ma poi ci siamo trovati con un aggravio fiscale anche sui lavoratori dipendenti e i pensionati. Se questo è dare ordini al governo…. Ne dico un'altra: avevamo accettato di aumentare dello 0,3% il prelievo contributivo in cambio di un sostegno alle pensioni dei lavoratori che stavano peggio e anche qui non si è ancora fatto nulla. Se questo è il sindacato corporativo…».

Non negherà che il pubblico impiego è stato difeso a oltranza.
«Abbiamo dato una totale disponibilità sulla produttività e sulla riorganizzazione. Il memorandum è rimasto fermo non per responsabilità nostra ».

Anche qui la colpa è del governo?
«L'iniziativa deve partire per forza dal governo che in alcuni passaggi non ha tenuto fede agli impegni presi. Si è fatta diventare una cosa importante, lo scalone, l'unica cosa centrale. In un paese che ha un allungamento così importante della vita media non dovrebbe porsi soltanto un problema di costi, ma di come organizzare la società. L'invecchiamento attivo degli anziani è un grande tema sociale e riformatore. Nei loro confronti non si fa nulla».

Che cosa si dovrebbe fare?
«Se si vuole affrontare la permanenza al lavoro non ci può essere solo la strada dell'obbligo. Ci dev'essere quella di creare le condizioni per questa permanenza. Per anni abbiamo parlato di flessibilità in uscita, di part-time, e non è stato fatto niente, niente… Abbiamo chiesto alle aziende di non mandare via i lavoratori negli ultimi cinque anni e non s'è fatto nulla…».

Come si creano queste condizioni?
«Con un progetto, mettendosi intorno a un tavolo, studiando le esperienze degli altri Paesi. Il tema della non autosufficienza è totalmente scomparso dall'agenda. Per i giovani, invece, ci vuole soprattutto formazione. Finora gli investimenti in questo campo non sono stati all'altezza. Infine, le imprese».

Che c'entrano loro?
«Non è che possono stare fuori e pontificare. C'è un problema di qualità della domanda di lavoro. Noi non abbiamo pochi ingegneri perché non si laureano, ma perché le aziende ne utilizzano pochi. Quando in Italia si parla del merito e lo si contrappone al bisogno, andrebbe ricordato che abbiamo precari che guadagnano 500 euro al mese, operai che ne guadagnano 1000 e ingegneri da 1.200 euro ».

Pensa che il sindacato non debba fare proprio nessuna autocritica? Le ricordo che Padoa-Schioppa è stato messo alla berlina perché non voleva più dare premi a pioggia nel suo ministero.
«Noi stessi contestammo quella parte dell'accordo nel quale si riconosceva l'aumento anche a chi era in distacco sindacale».


Sergio Rizzo
09 luglio 2007
 
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Luglio 12, 2007, 06:56:35 pm »

Il dolore e la brutta politica

Furio Colombo


Una frase ha segnato la presenza di Bill Clinton in politica quando, durante le elezioni primarie del Partito democratico, era l’ultima ruota del carro, il candidato sconosciuto. Si era rivolto a lui, durante un dibattito, un signore di mezza età che gli aveva detto: «Ho cinquant’anni, sono ammalato. Troppo ammalato per restare in casa, ma non abbastanza per il ricovero d’urgenza in ospedale, troppo solo per provvedere a me stesso ma non abbastanza povero da meritare assistenza. Non chiedo niente ma volevo dirglielo».

La risposta di Clinton, mai più dimenticata dagli americani, era stata: «I feel your pain». Ovvero «il suo dolore lo sento come se fosse il mio».

È soltanto una frase di consolazione. Ma a volte la politica è anche consolazione, quando si propone lo scopo di interrompere isolamento e solitudine.

Saranno cambiati i tempi, oppure la situazione è sempre stata diversa in Italia. Il fatto è che in questi giorni puoi ascoltare la voce di parlamentari cattolici (cattolici osservanti, cattolici in latino, cattolici del centro sinistra) che entrano nell’Aula del dibattito e annunciano a voce deliberatamente alta: «Il testamento biologico porta sfiga».

L’affermazione è crudele, se vogliamo dirla tutta è il contrario della buona politica, che è fatta anche di solidarietà e connessione («nessuno è solo») e dovrebbe tendere a creare legami, non spinte brutali per scansare l’ostacolo.

Ormai, dopo tante discussioni «cattive» (nel senso di gelide, indifferenti, ostili, di irrisione verso coloro che lo sostengono) tutti sanno che cos’è il testamento biologico.

È il diritto consacrato dall’Articolo 32 della Costituzione Italiana, secondo comma, che dice «Nessuno può essere obbligato a subire un trattamento medico che non desidera». È il diritto per il quale, in Italia, si sono battuti per primi i Radicali di Marco Pannella e Marco Cappato e l’Associazione Luca Coscioni.

Quel diritto si è evoluto secondo il modello di quanto accaduto prima negli Stati Uniti e poi, a uno a uno, in tutti i Paesi dell’Unione europea (e anche in molti altri Paesi) che consente di annunciare, in anticipo, con documento scritto e affidato a persona di famiglia o di fiducia, la propria decisione di non voler essere tenuto artificialmente in vita oltre la soglia della vita cerebrale.

È accaduto in tutto il mondo civile. Ma non (non ancora) in Italia, dove l’opposizione di alcuni credenti (non importa se di destra o di sinistra) fa barriera e quando occorre - come abbiamo visto - oppone sarcasmo.

Per questo Andrea Boraschi e Luigi Manconi hanno scritto un libro che è un manuale del momento che stiamo attraversando in Italia. È un brutto momento, in cui il corpo di Piergiorgio Welby, già martoriato dalla malattia, viene lasciato, dopo morto, fuori dalla chiesa, con un atto di crudeltà inedita. È il momento in cui il medico Riccio, che, seguendo scrupolosamente il dettato della Costituzione e del suo dovere professionale e morale, ha posto fine al dolore inaudito di Welby morente e per questo ora viene rinviato a giudizio.

Il libro di Boraschi e Manconi ha il titolo drammatico Il dolore e la politica (editore “A buon diritto”) e ha raccolto quattro testi essenziali di Enzo Campelli, Ignazio Marino, Stefano Rodotà, Enza Lucia Vaccaro.

C’è in questa serie di scritti un senso di emergenza, quasi un muovere concitato all’interno di un territorio di libertà e di diritti civili che si restringe, e in cui alcuni politici ci dimostrano di voler ignorare, anzi di respingere, principi fondamentali non solo della nostra Costituzione ma anche di ogni ordinamento giuridico delle democrazie contemporanee.

Infatti il testamento biologico ha avversari molto potenti: il Vaticano attraverso l’esercizio del potere politico e dell’ossequio mediatico; e la Chiesa cattolica con il pesante strumento della dottrina.

Ma sono avversari tanto potenti (ed efficaci e abili e ricchi di risorse e di strumenti per la persuasione comune) quanto elusivi. Infatti, perché dicono no al testamento biologico che non è eutanasia, non viola e non intacca alcun principio morale o religioso, rappresenta un diritto che, infatti, nessuno contesta se il cittadino è cosciente, e può personalmente comunicare la propria decisione di rifiutare le cure?

Ciò che caratterizza il testamento biologico (come per il resto ogni altro testamento) è l’anticipazione. Si tratta, di decidere prima (in questo caso: rifiutando di essere tenuti in vita), per una circostanza o un tempo in cui il cittadino potrebbe non essere più in condizione di decidere.

Che cosa c’è di immorale o di offensivo per la religione cattolica in questa comunicazione preliminare di volontà?

Se si segue il percorso della esperienza medica, ma anche del cauto, scrupoloso, attentissimo lavoro legislativo, è importante leggere, in questo libro, il testo di Ignazio Marino. Sanno tutti che Marino è un medico di fama internazionale ed è il presidente della Commissione Sanità del Senato.

Da ciò che scrive apprendiamo con quanta competenza e con quanto senso di rispetto e di responsabilità il senatore Marino propone, affronta e avvia a soluzione giuridica di alto livello civile e morale, la questione del diritto legittimo di decidere in anticipo sulle proprie cure.

Ciò che la maggior parte dei cittadini non sa è lo stato d’assedio in cui lavora il medico presidente della Commissione Sanità del Senato italiano e autore della legge, un assedio che tiene inchiodata la commissione ad una impossibilità di decidere. Lo stato d’assedio è guidato da senatori che sono vere e proprie guardie vaticane. Non dichiarano aperti motivi per obbedire alla gerarchia religiosa, ma frappongono ostacoli di ogni genere, ora di procedura, ora di sostanza, ora di puro espediente (come l’introduzione di una norma che consente “obiezione di coscienza” ai medici, cioè il potere arbitrario di negare il diritto già espresso dal paziente a decidere sulle sue cure) pur di fermare una legge di ovvia moralità e di evidente accettabilità giuridica. Gli “obbedienti” - detti “neocon” dal linguaggio americano che definisce i fondamentalisti cristiani - non potrebbero condurre l’assedio da soli. Si avvalgono perciò di un tessuto di alleanze con senatori “laici” che partecipano all’assedio in base alla parola d’ordine “dobbiamo fare le leggi insieme”. In questo caso “fare” vuol dire tragicamente “non fare” .

È come abbandonare un’altra volta il corpo di Piergiorgio Welby fuori dalla Chiesa, che per lui è sbarrata. È come esporre tanti altri medici che non faranno “obiezione di coscienza” al rischio di essere rinviati a giudizio come il medico Riccio che - nella piena responsabilità della sua professione e missione medica - ha posto fine alla sofferenza inaudita di Welby.

Legalmente? Nei limiti e secondo le norme della Costituzione? Questo è il tema del contributo giuridico di Stefano Rodotà, forse il più bello e il più limpido tra i tanti interventi che abbiamo letto sull’argomento. Rodotà dimostra che, con il comportamento del medico Riccio e con la proposta di legge sul testamento biologico di Ignazio Marino, siamo con certezza e senza equivoci dentro il territorio della legalità e sotto la protezione delle garanzie costituzionali. Ma Rodotà si spinge più avanti. Disegna un mondo civile e legale e benevolo nel quale nessuna prescrizione autocratica può negare, cancellare o impedire il diritto dei cittadini.

Per questo il libro Il dolore e la politica è un manifesto di civiltà in un momento non luminoso della vita democratica italiana.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 12.07.07
Modificato il: 12.07.07 alle ore 8.47   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Luglio 16, 2007, 12:17:27 am »

Per il Partito Democratico
Furio Colombo


Chi avesse assistito nella mattina di venerdì 13 luglio al dibattito al Senato sul riordino dell’ordinamento giudiziario avrebbe notato subito un grave errore nel “manifesto per il Partito democratico” firmato da Rutelli, Chiamparino, Cacciari, Follini. Quel manifesto, pubblicato lo stesso giorno da Europa col titolo “Il coraggio delle riforme” dice: «È finita la lunga stagione in cui la coesione del centrosinistra è stata garantita dall’antagonismo verso Berlusconi».

Ecco la prova dell’errore.

Il senatore Gerardo D’Ambrosio si era appena alzato a parlare sulla legge che deve cancellare la nefanda “riforma Castelli” quando la senatrice Anna Cinzia Bonfrisco è scesa nell’emiciclo per urlare all’ex procuratore della Repubblica di Mani Pulite: «Delinquente, assassino, zitto assassino, questo è il tuo giorno!». Anna Cinzia Bonfrisco, pur essendo immensamente volgare nonostante capelli e trucco già pronti per una festa e un abito argento da pubblicità dei cioccolatini, non è matta. E infatti il senatore Schifani ha ingiunto a D’Ambrosio di chiedere lui scusa alla senatrice insultante. E Buttiglione le ha baciato la mano. Tutti hanno ricevuto gli ordini e il messaggio. La sera prima Berlusconi era in televisione, due “dirette” di Rai e di Sky (oltre al Tg 2). Dirette che non toccheranno mai a George W. Bush quando avrà lasciato la Casa Bianca e non toccheranno mai a Chirac, a Shroeder, persino al carismatico Tony Blair. Insomma, mai a nessuno, in Paesi di normale democrazia.

In Italia Berlusconi è tutt’ora in grado di stare, come vuole e quando vuole, al centro della scena. È in grado di prendersi la “diretta” e di incitare il Paese alla rivolta. Berlusconi in una piazza di Napoli ha mentito per due ore. Ha detto persino (citazione) «Ho fatto più di trenta riforme, 106 opere pubbliche e 12 codici». Proprio così. Ha detto «12 codici». E ha chiamato l’Italia alla rivolta. I suoi senatori ci stanno.

Invano i capigruppo Zanda dell’Unione e Russo Spena di Rifondazione difendono D’Ambrosio e invocano il ritorno alla ragione. La manifestazione indecente si porta via una buona ora nella triste storia di questo Senato. Ma il punto è stato fermamente segnato.

Berlusconi è (politicamente) vivo e combatte insieme a loro. Perché ripetere il grande errore di negarlo? A beneficio di chi? Non del Partito democratico.


***


Ma ecco ciò che sto per dire ai lettori di questo giornale, a coloro che mi seguono la domenica e che rispondono con e-mail di obiezioni e sostegno, approvazione e dissenso ai miei interventi: intendo candidarmi alla segreteria del nascente Partito democratico. Questo, vi è chiaro, non è l’annuncio del giornale l’Unità, che resta libero e aperto a tutte le candidature (speriamo molte). È l’annuncio di un candidato.

Immagino una prima legittima obiezione: ma non avevamo detto di fare spazio ai giovani? È una obiezione giusta è non c’è alcuna risposta logica se non questa: ognuno fa (deve fare) quello che può, quando può. Se lo fa bene, in una situazione che interessa tutti (o tanti) come questa, lo fa per passare il risultato agli altri. Che vuol dire: prima di tutto, per cambiare il gioco. O almeno per arricchirlo, se ci riesce, naturalmente.

La seconda obiezione è mia, nella forma di una incertezza. Si può partecipare alle elezioni primarie per la segreteria del Partito democratico, con una serie di regole che sembrano scritte per gli apparati dei partiti (i due “grandi”, Ds e Margherita), i soli ad essere presenti e a poter agire in fretta su tutto il territorio del Paese?

Vorrei ricordare che le elezioni primarie americane si svolgono nell’arco di molti mesi, Stato per Stato, luogo per luogo, quasi mai con coincidenza e sovrapposizione di date, e che ogni singolo episodio (vincere o perdere nel Vermont o in quale graduatoria ci si piazza nelle primarie del Maine) si riflette sia nel luogo sia nella opinione pubblica nazionale (nel 1980 Bush padre prevaleva su Reagan in alcune singole primarie, ma Reagan guadagnava sempre più favore nei sondaggi, anticipando i risultati delle votazioni successive).

Non dubito che gli addetti al disegno definitivo di percorsi e di regole - proprio perché scelti e nominati e insediati in base, devo pensare, a esperienza e buon senso - si porranno il problema più importante per questa nuova entità politica: come si nasce nel nuovo partito (dalla partecipazione alla candidatura) se non si è figlio di uno dei due partiti?

Intendo infatti rappresentare coloro che figli dei partiti non sono, non hanno alcun passato partitico da ricordare o da dimenticare. Intendo portare al centro dell’attenzione dei nuovi democratici lo squilibrio sociale nel quale vive il nostro Paese e la cui descrizione e interpretazione abbiamo affidato - chissà perché - soltanto agli uffici studi di banche e imprese, mostrando invece una sorta di istintivo fastidio, quasi una reazione allergica, se, quando parlano i sindacati.


***


Userò ancora per un momento il “manifesto” Rutelli-Chiamparino- Cacciari-Follini per indicare la diversità (e anche, se volete, l’estraneità) della mia candidatura rispetto a ciò che fino ad ora è stato detto e anche celebrato.

Dicono i nostri, fra l’altro, che «modernizzare l’Italia non è solo indispensabile ma può essere popolare». Affermo che la vera innovazione e modernità del Partito Democratico non è una gettata di cemento in più o in meno ma riconquistare, attraverso comunicazione chiara e immediata, attraverso il contatto continuo e l’ascolto, la partecipazione dei cittadini, che sono, o si sentono adesso, troppo lontani dai punti di decisione e troppo estranei ai modi in cui si decide. Vicenza è un capolavoro negativo, da non ripetere. Nessuno, mai, (tranne la finta rappresentanza istituzionale di un sindaco inadeguato) ha interpellato o ascoltato i cittadini di quella città sulla base Usa da costruire. Il mio modello sono i town meeting (assemblea di città o di villaggio) di Bill Clinton. S’intende che la decisione finale era responsabilità del presidente. Ma prima il presidente girava mezza America per spiegarsi e ascoltare, due atti essenziali di un governo moderno.

«Coesione sociale è il futuro», affermano i “coraggiosi” di Rutelli. Ma coesione sociale è un punto di arrivo, non di partenza. Sul terreno troviamo un’Italia spaccata e divaricata in cui gli operai vengono ammoniti a non pretendere troppo sulle pensioni, ma è “moderno” stare bene attenti alle “giuste richieste” delle imprese.

Aggiungono i “coraggiosi” che bisogna dare «potere alla creatività dei giovani, un ascensore sociale che torni a far salire talenti, merito, lavoro».

Traducendo dallo stretto politichese, io dirò (direi, se risulterà possibile candidarsi) che ci si deve impegnare nel sostegno - e rifinanziamento - della scuola pubblica e dei suoi insegnanti; che occorre motivare le banche a sostenere con prestiti sulla parola i giovani universitari che non hanno la protezione di una famiglia agiata, ma meritano il prestito (come negli Usa e in Inghilterra) in base ai voti; che il merito non conta niente nel mondo del precariato e della raccomandazione. E che dunque tutto ricomincia dalla squalifica del familismo professionale (i genitori fortunati a cui subentrano figli o nipoti fortunati) e dal ritorno di concorsi bene organizzati e tecnicamente irreprensibili.

Nel manifesto dei “coraggiosi” trovo una frase inspiegabile in un testo politico. È la seguente: «È urgente uscire dall’inverno demografico». Sono stupito e dirò perché. Il problema di governare è creare accesso alle scuole, anche quelle specialistiche, anche quelle costose; al lavoro, attraverso un disegno dei percorsi che non abbandoni i giovani alla solitudine (più soli, più poveri); alla casa, attraverso progetti e programmi che, da decenni, non esistono più. Tutto ciò è urgente, ed è responsabilità pubblica. I figli sono una splendida scelta privata su cui i politici, in un contesto politico, non hanno niente da dire.


***


Trovo strana, infine, e un po’ minacciosa, la frase finale (dunque, in senso retorico, la più importante) del manifesto Rutelli-Chiamparino-Cacciari-Follini che alcuni considerano fondativi del nuovo Partito Democratico. Trascrivo: «La maggioranza che ha vinto deve governare i cambiamenti. Sappiamo che potrà essere confermata solo se soddisferà le attese degli elettori. Altrimenti il Partito Democratico dovrà proporre una alleanza di centro sinistra di nuovo conio. Per non riconsegnare l’Italia alle destre. Ma soprattutto per non essere imprigionato dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra, né della paralisi delle decisioni».

Il problema grave posto da questa frase è che prefigura uno spostamento di scena in cui esce dalla inquadratura una parte della sinistra, arbitrariamente definita da un presunto vertice illuminato. Ed entra in scena una parte della destra, indicata con la elegante espressione «un centrosinistra di nuovo conio».

Sostengono gli illuminati che «Veltroni a queste ragioni si ispira». Non mi risulta. In ogni caso propongo di battermi per un Partito Democratico meno gassoso e più fondato sulle cose, non tante. Ma chiare e sempre spiegate.


***


Proverò a riassumere.

Il Partito Democratico a cui penso è perfettamente cosciente del perdurare della minaccia Berlusconi, che continua a essere visto, anche fuori dall’Italia, come l’incognita allo stesso tempo ridicola (vedi le sue domande parafasciste e un po’ insultanti per la folla di Napoli) e pericolosa per la nostra vita pubblica. Lo sbarramento a Berlusconi si realizza con la presentazione (già avvenuta) e il sostegno (di cui siamo in attesa) di una legge che ponga invalicabili ostacoli al conflitto di interessi.

Il Partito Democratico a cui penso si fonda sulla più rigorosa legalità, vuole sapere tutto dello spionaggio militare a cui sono stati sottoposti magistrati e giornalisti nei cinque anni del governo Berlusconi, e sull’intreccio di quello spionaggio con le intercettazioni private da parte di una grande impresa esente da conseguenze e sugli effetti mediatici di tutta l’operazione.

Quanto è stata deviata, inquinata, cambiata, avvelenata da quella vasta operazione illegale l’informazione su tutto ciò che sappiamo delle vicende italiane?

Il Partito Democratico in cui intendo impegnarmi propone come temi fondamentali i diritti civili, il lavoro, la scuola, la salute, la ricerca, l’ambiente, la casa. Tutto ciò nel quadro - rigorosamente confermato - della Costituzione italiana. Si tratta di settori e aspetti della vita a cui il mercato (grande e superiore eroe della modernità) non provvede o che preferisce ignorare quando il costo non ha immediata contropartita. Le grandi democrazie ci dicono che la contropartita è costituita dai due valori della fiducia e della partecipazione dei cittadini.

Il Partito Democratico di cui parlo capisce e si fa capire, in uno sforzo di comunicazione che non tollera zone d’ombra, segreti e cose non dette. Non vuole la solitudine disorientata dei cittadini con cui nessuno parla, spiega, ascolta prima di decidere.

Il Partito Democratico di cui stiamo parlando non sarà il congiungersi di due burocrazie di partito ma l’afflusso libero di cittadini decisi a essere protagonisti della vita pubblica e non spettatori passivi.

L’impegno è un paesaggio finalmente normale in cui la sinistra è a sinistra e la destra a destra, contando non sulla contaminazione o l’incrocio dei poli ma sulla chiarezza e sul riconoscimento reciproco, una volta espulsa l’illegalità e il conflitto di interessi dalla scena pulita della vita pubblica italiana.

Sinistra è lo spirito della tradizione solidaristica europea, dello schierarsi socialista e cristiano con i più deboli, della tolleranza “liberal” e multiculturale di impronta americana, tutti valori che sono il più vicino possibile alla pace, alla giustizia, alla eguaglianza almeno come punto di partenza. L’impegno è di restituire al cittadino laico lo stesso riguardo, rispetto e attenzione che viene dedicato al credente e alle gerarchie religiose del credente.

Per tutte queste ragioni chiederò, se sarà possibile - ai cittadini che si orientano a sostenere e dare vita e anima al Partito Democratico - di considerare la mia candidatura indipendente e laica che propongo nello stesso spirito con cui alcuni si candidano, in questo periodo, alle elezioni primarie americane. Lo spirito è dare un contributo di proposte e di esperienza, che altrimenti non ci sarebbe. Lo spirito è far sapere ai cittadini che voteranno in queste elezioni primarie che si apprestano a scegliere tra veri candidati e vere proposte alternative.

La vostra risposta di lettori sarà il primo modo di rendere possibile questa candidatura. Essa è soggetta, come già detto, a un chiarimento e a una condizione. Il chiarimento è che l’Unità, con questo articolo, ospita la mia intenzione. È un annuncio, non un “endorsement” (cioè quando i grandi quotidiani americani, sotto elezioni, dichiarano le loro scelte politiche ai lettori).

La condizione è che le regole consentano davvero la partecipazione di candidati senza apparato di partito e scorta di carica.


furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 15.07.07
Modificato il: 15.07.07 alle ore 14.40   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Luglio 17, 2007, 10:45:56 pm »

Colombo: «Chiedo i voti degli antiberlusconiani»
Andrea Carugati


«Ma come? Sono i giorni dell’anniversario del “pestaggio cileno” di Genova, come scrivemmo su l’Unità, e il centrosinistra pensa di andare a cercare Berlusconi per fare delle cose insieme?».

La lettura dei giornali di ieri, con le parole di Nicola Latorre al Giornale (in cui il senatore Ds auspica un dialogo con Berlusconi sulle riforme costituzionali), ha ulteriormente convinto Furio Colombo della scelta di candidarsi alla guida del Pd. Soprattutto per dare voce, spiega Colombo, «a tutti quelli che pensavano di non andare a votare alle primarie e che mi stanno scrivendo che la mia decisione gli ha fatto cambiare idea. Da domenica ho ricevuto decine di lettere». A scrivere è quel popolo di lettori de l’Unità, molti del Nord, deluso dal fatto che non si sia ancora fatta una legge sul conflitto di interessi. Timoroso di una deriva centrista del Pd e del centrosinistra. Colombo sfoglia le sue mail e sorride: «Non è certo il momento di andare a cercare Berlusconi, mentre lui chiama le piazze alla ribellione contro il governo legittimo e fa insultare in Senato Rita Levi Montalcini e D’Ambrosio». «La mia candidatura significa questo: gran parte degli elettori ha capito benissimo che non si può abbassare la guardia sul pericolo Berlusconi e sul conflitto di interessi. Lo dicono i risultati delle amministrative: anche a Genova meno persone sono andate a votare per la sinistra, nonostante una buona candidata. Si sono astenuti perché non hanno più sentito l’impegno sulle cose incredibili che hanno marchiato l’Italia durante i 5 anni di Berlusconi». Ma al Nord non si era perso per le tasse? «Sono cose scritte dal Giornale che tutti abbiamo adottato come “La Verità”. Noi abbiamo questa specializzazione: prendere le ragioni della destra e dire che “non sono niente male, possiamo dirle anche noi”. È successo anche con la presunta incompatibilità tra sinistra cosiddetta “riformista” e “radicale”: lo dice Tremonti in tv e noi ci siamo persuasi che sia vero. Ma sulla giustizia sono stati tre moderati di centro a far quasi cadere il governo Prodi».

Colombo, dunque, scalda i motori. Nonostante le difficoltà per lanciare una candidatura entro il 30 luglio: servono almeno 2mila firme di sostegno, in almeno 5 regioni. «Queste regole bizzarre sono state scritte avendo in mente esclusivamente importanti leader dei due partiti. Forse pensavano, in buona fede, che nessun outsider si sarebbe candidato: mi dispiace». «Negli Usa- spiega Colombo- le primarie non si fanno lo stesso giorno in tutti gli stati: si dà il tempo ai vari candidati di avanzare con le loro idee di piccolo luogo in piccolo luogo. Clinton era sconosciuto: se avesse dovuto affrontare tutte le primarie lo stesso giorno non sarebbe mai diventato presidente». «Per fortuna- dice Colombo- la risposta spontanea che ho avuto fino ad ora mi fa sperare che troverò aiuto anche in realtà dove non avrei i mezzi per organizzarmi». In molte mail, infatti, agli incoraggiamenti seguono numeri di cellulare e promesse di collaborazione: «Qui a Correggio siamo pronti a rimboccarci le maniche», scrive Rossana.

Dai big della politica non sono arrivate telefonate. Neppure da Nanni Moretti. «Ma anche Clinton ha conquistato consensi mano a mano...». Con Prodi ne ha parlato? «No, perché sarebbe sembrato che cercassi una sponsorizzazione. Ma sono sicuro che ne pensa bene». E il ticket con Rosy Bindi proposto da Travaglio? «È una delle persone con cui mi sarebbe più facile fare un ticket. Il lavoro sui Dico è molto civile e non apprezzo che sia stato abbandonato». E Veltroni? «Trovo molto onorevole essere in competizione con lui. C’è un antico rapporto di amicizia: confido che prevarrà sugli eventi contemporanei. Non mi candido contro di lui, ma per completare il discorso: ad esempio per dire a Rutelli che non sono d’accordo a cancellare dall’inquadratura una parte della sinistra per mostrare una parte della destra».

Pubblicato il: 17.07.07
Modificato il: 17.07.07 alle ore 8.43   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Luglio 18, 2007, 10:15:14 pm »

Il direttore coraggioso
Furio Colombo


«Si affolla la gara per le primarie». Così inizia il suo articolo Stefano Menichini, direttore di Europa, organo dei “coraggiosi” che suggeriscono di smontare il palco dell’attuale centrosinistra per rimontarlo un po’ più vicino a Berlusconi.

Curiosa apertura di un articolo dedicato da un quotidiano politico non a una “gara” ma alle elezioni primarie per la carica di segretario del nascente Partito democratico. Ancora più curiosa l’immagine che il direttore evoca per i suoi lettori. Si “affolla” una “gara” che sabato 14 luglio era di uno (Walter Veltroni), il 15 luglio era di due (Walter Veltroni e io) e lunedì 16 era di tre (quando si è aggiunta felicemente Rosy Bindi).

Dopo un’apertura così poco giornalistica (a lui tre persone che vorrebbero confrontare idee e progetti per un nuovo grande partito sembrano una folla), segue un elaborato in cui Menichini perde il filo forse perché cautamente assente dagli anni di Berlusconi in cui Padellaro e io, solo per l’ostinazione di dirigere un giornale antiberlusconiano, venivamo definiti terroristi, omicidi (”testata omicida” era la definizione che ci spettava, mentre Menichini era probabilmente a Lugano) querelati quasi una volta al giorno (mai sui fatti), citati a giudizio in cause civili milionarie dalla batteria di avvocati di casa Berlusconi-Previti- Dell’Utri.

Se il direttore di Europa, invece che in un dorato esilio (così si deve immaginare a causa della sua memoria totalmente sgombra da persone e fatti realmente accaduti dal 2001 al 2006) si fosse trovato a vivere in Italia avrebbe notato che questo giornale - si è accorto delle violenze cilene accadute al G8 di Genova (un ragazzo ucciso e centinaia di feriti nel modo più brutale) come debutto democratico del duo Fini-Berlusconi, molto prima delle rivelazioni giudiziarie e delle drammatiche confessioni di parti in causa;

- si è schierato con il Palavobis prima di sapere che invece di 400 o 4.000 partecipanti ci sarebbero stati 40.000 protagonisti di libertà (quella sì era una folla);

- ha lavorato a sostenere tutti gli eventi liberi e tutti i girotondi fino all’autoconvocazione, senza cestini pranzo e autobus pagati, di un milione di cittadini in Piazza San Giovanni;

- si è occupato giorno per giorno di ogni legge vergogna e di ogni Tv vergogna (direttori di grandi quotidiani che sedevano due ore in silenzio attorno al facondo monologante Berlusconi, sostenuto dal sorriso di Bruno Vespa, senza interromperlo mai);

- si è meritato sia ripetute minacce di morte (il giornale ha dato notizia solo di quelle pubbliche, le altre le ha girate alla Digos) sia lo spionaggio personale e quotidiano per cinque anni, pedinamenti inclusi, di quella parte o gruppo dirigente del Sismi che è adesso al centro di una vasta inchiesta giudiziaria.

Menichini mi accusa di «presunzione di superiorità morale». Diciamo che, con Padellaro e tutti i miei colleghi de l’Unità, abbiamo lavorato per la fine della clamorosa e vergognosa illegalità che dominava sotto Berlusconi. E Menichini no. Nessuno si sarebbe sognato di rimproverargli la sua prudente assenza dalla scena. Dopotutto Berlusconi, senza il Palavobis, senza Piazza San Giovanni, senza centinaia di girotondi, senza la mobilitazione di tanti cittadini altrimenti estranei ai partiti e alla politica, e senza l’Unità (il solo giornale politico europeo con 70mila copie vendute) avrebbe potuto durare dieci anni e anche più, continuare il massacro delle nostre libertà, il controllo totale delle televisioni e la immagine ridicola e penosa dell’Italia, nata il giorno del non dimenticato scontro con l’eurodeputato Schultz, che Berlusconi ha chiamato kapò.

Ma adesso è Menichini che un po’ bizzarramente fa l’elenco di ciò che noi, secondo lui, non avremmo fatto. Ci vuole coraggio, ma dopotutto Menichini fa parte dei “coraggiosi”. Sentite. Avremmo dovuto (noi, l’Unità e il suo direttore) in piena epoca berlusconiana tener testa a Prodi, sfidarlo a quelle primarie; avremmo dovuto andarci piano con Berlusconi. Dopotutto è stato scelto da metà del Paese. Pensate alla fortuna dei cittadini americani che nessuno ha ammonito ad andarci piano con Bush, neppure quando aveva il 70 per cento di gradimento. E infatti adesso il suo gradimento è al 34 per cento. Si chiama democrazia.

Io, personalmente, dovrei essere molto prudente nelle primarie, mi ammonisce Menichini. Vedessi mai che le vinco. «Berlusconi - dice lui con una gentile affermazione di stima nei miei confronti - lo affosserebbe in tre giorni». Con il Sismi dei tempi di Berlusconi e tutta la televisione ferreamente sotto controllo, pena il licenziamento immediato, è possibile. Ma se la vita italiana fosse normale, Menichini pensa davvero che l’uomo rifatto di Arcore sia così irresistibile? Se lo immagina Berlusconi eletto a plebiscito in Francia o anche solo in Costarica? Senza Vespa, senza Confalonieri, senza i ragazzi a gettone di Dell’Utri e la folla napoletana che, sono certo, non si lascerà umiliare una seconda volta da quelle domande tipo spot dei telefonini a cui bisogna rispondere in coro “siiii” e “noooo” come non si vede neppure in “Fascisti su Marte”?

Menichini si domanda perplesso come Padellaro, Travaglio, Flores, e io (per dire i peggiori) ce la faremmo mai a battere Berlusconi.

Semplice, Menichini: prima di tutto smettere di venerarlo, smettere di pensare che sia astuto, good looking, affascinante, moderno e invincibile.

Chiamiamo a testimone Veronica Lario. Lei - che lo ha visto da vicino - ha voluto farci sapere che, a differenza di ciò che credono alcuni della Margherita (e anche alcuni Ds) l’uomo rifatto di Arcore viene dal più profondo e umiliante passato italiano.

Bello però il titolo di Menichini: «Con quelli non vinceremo mai». Ce lo avevano già detto, a cominciare dal 2001 e nei giorni della rinascita de l’Unità, molti suoi colleghi, quando lui era a Lugano. Noi testardamente siamo andati avanti. Pazienza, Menichini. Per il momento Berlusconi non governa. Nonostante lo spionaggio, le accuse, le calunnie, le querele milionarie, non ci ha spaventato, non ci ha affascinato e non ha vinto. Per il futuro, perché non augurare buona fortuna a chi non smette di provare, e di dare il suo contributo per un po’ più di dignità e di libertà in Italia, sempre che Europa sia, oltre all’ Unità, l’altro giornale del Partito democratico?

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 18.07.07
Modificato il: 18.07.07 alle ore 7.50   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Luglio 19, 2007, 03:24:16 pm »

Israele e Italia

Furio Colombo


«Qual è la politica estera italiana?», ha chiesto il 18 luglio l’Ambasciatore di Israele Gideon Meir, rispondendo con una domanda a una domanda del Corriere della Sera.

Ho posto la stessa domanda alla Commissione Esteri del Senato nel pomeriggio del giorno 17. La ragione di questo interrogarsi ansioso e tutt'altro che tranquillizzante, è stata provocata da una dichiarazione del ministro degli Esteri Massimo D'Alema nel corso di una Festa de l’Unità.

D’Alema ha detto: «Hamas è una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese. Hamas è un movimento popolare. Hamas è stato democraticamente eletto. Per l'Occidente non riconoscere un governo democraticamente eletto non è una grande lezione di democrazia».

Come si vede il tema è il Medio Oriente, i rischi della pace, la nuova e pericolosa condizione creata dalla spaccatura violenta avvenuta in modo sanguinoso (200 morti) fra Hamas e Al Fatah, che erano parte di un governo di unità nazionale. E, alla fine, il pericolo è per la sopravvivenza di Israele e la possibilità che ci sia mai, dopo questo drammatico percorso, uno Stato palestinese. E' chiaro a tutti ormai, che senza Israele non ci sarebbe mai stata neppure la rivendicazione di uno Stato palestinese (Giordania ed Egitto si erano già attribuite parti del territorio che avrebbe dovuto diventare Palestina). E senza la permanenza stabile e sicura di Israele e del suo “diritto alla pace” (parole di Prodi nel suo recente viaggio) non ci sarà mai alcuna patria dei palestinesi ma soltanto guerra senza fine.

Per questo ieri “Sinistra per Israele” ha detto in un comunicato: «Stupore per la presa di posizione del ministro degli Esteri e vice Presidente del Consiglio nel governo dell’Ulivo». È lo stesso stupore da me espresso alla Commissione Esteri del Senato e a cui il ministro ha risposto impegnandosi a parlare alle Camere sulla posizione Italiana in Medio Oriente il 24 luglio prossimo. Sarà, speriamo, un contributo di chiarezza lungo un percorso complicato e difficile in cui le cose dette e fatte in Israele dal presidente Prodi non sembrano coincidere con la recente affermazione del ministro degli Esteri. Resta comunque grande sia il rischio di sopravvivenza di Israele sia l'eventualità che, ancora una volta, i palestinesi siano usati dai nemici giurati di Israele come materiale sacrificabile pur di far danno e - se possibile - di “cancellare” quel Paese, secondo il proclama lanciato al mondo, dal presidente dell’Iran Ahmadinejad.

Può essere utile rivedere alcune ragioni.

1. Hamas è una organizzazione che è stata eletta sulla base di un programma di guerra, terrorismo e distruzione di Israele. Siamo sicuri che saremmo altrettanto gentili se il governo di uno Stato europeo fosse democraticamente eletto sulla base dell’impegno di mettere a ferro e fuoco lo Stato vicino? Non è per evitare simili pericoli che sono nate ed esistono ancora le Nazioni Unite?

2. Del programma terroristico e negazionista di Hamas si è detto: sono solo parole, linguaggio di disperati. Si è detto: diamo tempo e spazio e i leader di Hamas si dimostreranno statisti. Con questa speranza il presidente palestinese Abu Mazen aveva dato vita con Hamas ad un governo di unità nazionale. Ma Hamas, con un durissimo e improvviso colpo militare, ha fatto strage degli alleati palestinesi di Al Fatah, uccidendo lì casa per casa, e ha conquistato per sé la striscia di Gaza.

3. Il ministro degli Esteri italiano è stato il primo, un anno fa, a vedere il pericolo Hezbollah e a dare inizio alla costituzione di una efficace forza di pace ONU fra Libano e Israele, dopo la guerra dell’altra estate. La domanda è come sia possibile, un anno dopo, mentre tutti i pericoli intorno a Israele sono intatti, che lo stesso ministro si faccia sostenitore di un riconoscimento di Hamas senza chiedersi se l’evento “elezioni democratiche” che ha stabilito la prevalenza di Hamas, non sia stato sovvertito e cancellato dalla violenta e sanguinosa occupazione della striscia di Gaza e dallo sterminio, in poche ore, di tutti gli avversari politici e di molti innocenti. Possibile che una simile prova di violenza spietata non faccia differenza?

4. Il ministro degli Esteri italiano ha mostrato molte volte di saper lavorare cautamente a questioni complesse e pericolose in cui il lavoro diplomatico è simile alla paziente prudenza di chi cerca di disinnescare pericolose trappole esplosive.

Quale può essere oggi - dopo la visita di Prodi a Gerusalemme e la inequivocabile prova di sostegno dell'Italia alla democrazia israeliana - il senso della dichiarazione di fiducia verso Hamas da parte del ministro D'Alema mentre Hamas continua a confermare il suo impegno di distruzione di Israele, insieme a Hezbollah e al potente sponsor della fine di Israele, il Presidente iraniano? Quale può essere, in un difficile lavoro diplomatico svolto finora con attenzione ed esperienza, una improvvisa dichiarazione di preferenza per la più pericolosa delle parti in gioco? Dobbiamo pensare che il ministro D’Alema vorrà spiegare, chiarire, se necessario correggere, il più presto possibile.


Pubblicato il: 19.07.07
Modificato il: 19.07.07 alle ore 12.59   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Luglio 22, 2007, 12:05:25 am »

Lettera aperta al Pd

Furio Colombo


Caro Partito democratico, ho appena ricevuto questa e-mail. Come devo rispondere?

Caro Furio, ho letto stamattina, su l’Unità, le regole per partecipare alle primarie. Sono fatte per impedire di parteciparvi a chiunque non faccia parte della casta. Peccato. Avrei votato per Lei. Se non me lo lasceranno fare non voterò per nessuno in questo giro. Poi vedremo. Un saluto affettuoso a Lei, e ai lavoratori de l’Unità (Padellaro in testa). Grazie per le cose che ci scrivi.
Saverio B.

La lettera mi è sembrata affettuosa e pessimista. Avevo esaminato il regolamento.
Francamente mi era sembrato strano perché è pieno di dettagli tecnici che sembrano studiati come prove da Harry Potter, poco rapporto con i contenuti della politica e una serie di ostacoli ben congegnati. Ne superi uno e te ne presentano un altro. Poi mi sono accorto che - come con le pensioni - gli stessi numeri si possono aggregare in tanti modi. Poiché, naturalmente, ho pensato alle semplicissime primarie americane (vai, ti iscrivi, ti presenti, parli poi gli elettori giudicano, alcune riflessioni non festose sono inevitabili. Credo di poter dire che non si conosce, nel mondo democratico alcuna organizzazione politica che - prendendo la lodevole iniziativa di indire elezioni primarie - decida di trasformare quelle elezioni in uno sport estremo, una sorta di arduo pentatlon in cui devi vincere gare diverse in luoghi diversi e con diverse modalità, solo per poter cominciare a parlare.

Confesso che devo all’articolo di Andrea Carugati (l’Unità del 20 luglio) la piena comprensione della strana prova che avete creato e che chiede a chi si candida di organizzare, iniziare, portare a termine con successo, una serie di operazioni che fanno parte di uno strano gioco organizzativo ma non hanno niente a che fare le qualità e il lavoro del candidato. Cito dall’articolo di Carugati queste scene da film dell’orrore: «L’aspirante candidato dovrà schierare una squadra minima di 125 candidati: 5 per ognuno dei 25 collegi scelti. Ogni lista di collegio richiede un minimo di 100 firme per essere ammessa alla gara. Dunque la quota minima di firme per le liste è 2500. Tutto ciò non basta per essere votato in tutta Italia ma solo in quei 25 collegi. Negli altri 450 la sua candidatura non esisterà».

Attenzione, cittadini e lettori, alla frase che segue: «Per esistere in tutta Italia l’aspirante candidato dovrà mettere in campo una lista per ogni collegio, e dunque raccogliere quasi 50 mila firme. Chi non fosse in grado di competere con questi numeri resta al palo».

Uno come Mario Adinolfi (il giovane “new entry” messo finalmente in onda su SKY TG 24 la sera del 19 luglio) e uno come me, che “new entry” non è né nella vita né nella politica ma, come Adinolfi, non ha apparato, macchine, segreteria, sostegno logistico e corrispondenti in ogni luogo, potrebbe lamentare che tutto è stato fatto per offrire un passaggio a pochi grandi. Carugati, da giornalista più attento di altri colleghi, infatti precisa: «A Santi Apostoli (sede del Partito democratico ancora senza volto, ndr) ti spiegano che non sono previsti “aiutini” dal quartier generale Pd né per raccogliere firme né per aprire una stanza. Ognuno si deve arrangiare. Si presuppone che i candidati abbiano dietro di sé una struttura».

Eppure la questione dell’apparato è la prova vistosa che chi è senza apparato e potere organizzativo e logistico non solo non vince ma non deve neppure provare, è una fantasiosa stranezza, che richiama i tragici indovinelli nel finale della “Turandot” (”Popolo di Pechino, la legge è questa!”). Ma non è il peggio.
Il peggio, lo avrete notato, è nel non detto e anzi nel deliberatamente non voluto. Per esempio non è previsto un solo confronto fra candidati, non è richiesto un solo dibattito.
Benché, per fortuna, si siano finora candidate persone di qualità, meritevoli di partecipare alla guida di un grande partito, l’augurio non è “vinca il migliore”. L’augurio è: “vinca il più forte”.
Quello che ha un migliore sistema di trasporto, di comunicazioni, di strutture locali a disposizione e può in pochi giorni fondare e gestire la sua presenza a Marsala e a Pavia, ad Aosta e a Sant’Agata di Militello, a Salerno e a Bressanone.

Dunque il Pd si sta manifestando come una vasta rete turistica da percorrere entro breve tempo (30 luglio) con mezzi propri, lasciando a carico dei fortunati dotati di ubiquità solo i messaggi, ma senza chiedere mai di incrociare quei messaggi in dialoghi o dibattiti che dovrebbero essere, invece, le sole vere prove che interessano gli elettori.

La morale è disastrosa perché - nonostante il valore indiscutibile di alcuni - è meticolosamente antidemocratica. Il Pd sta dicendo che se Adinolfi ed io non siamo capaci di percorrere in una settimana la penisola, affittando stanze, formando centri, compilando liste, mobilitando notai e consiglieri comunali (quelli già non occupati full time dai “grandi” con presenza nazionale causa Ministero, Municipio e tv continua), non potremo mai chiedere a Rosy Bindi in che senso è laica e a Veltroni come mai apprezza il manifesto dei prudentissimi “coraggiosi” che osano schierarsi, niente di meno che con il Governatore della Banca d’Italia.

La conclusione di quanto detto è drammatica e necessaria. Siamo sicuri che tutti e quarantacinque i grandi esperti di regole del Pd volevano solo numeri (che sono possibili solo a chi muove una intera burocrazia di cui già dispone) e niente politica?

Siamo sicuri di volere il contrario esatto delle primarie americane e cioè niente dibattiti, niente politica, ma solo i cittadini che disciplinatamente si mettono in fila prima per firmare, poi per votare e basta? Così come è, la situazione appare incredibile ma anche assurda. C’è qualcuno che possa, nel nascente Pd o nel suo ex consiglio dei saggi riesaminare e cambiare queste regole folli (50 mila firme!) per tornare alla democrazia regolare (io parlo, tu giudichi, noi votiamo)?
C’è qualcuno che si rende conto che il pericolo (nel senso della partecipazione democratica) è di non poter partecipare?
Poiché questo non è un lamento ma una allarmata constatazione dei fatti, non vi sembra che una ragionevole via d’uscita potrebbe essere di poter fare l’intera raccolta di firme nelle varie regioni e in tutto il Paese via e-mail? C’è qualcuno che mi darà, ci darà una risposta?

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 21.07.07
Modificato il: 21.07.07 alle ore 9.15   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Luglio 22, 2007, 10:38:48 pm »

Notizie vere, notizie false

Furio Colombo


La notizia di una ipotesi di reato a carico dei due esponenti di vertice dei Ds D’Alema e Fassino, e del senatore Latorre giunge ai giornali e al pubblico con una originale deformazione che non dovrebbe passare sotto silenzio. Si fa credere che solo la scalata bancaria Bnl-Unipol sia al vaglio del giudice di Milano per le indagini preliminari Forleo. E che solo questa scalata sia oggetto di indagine e di annunci di ulteriori atti o inchieste della magistratura.

Molti ricorderanno benissimo - a differenza di alcuni grandi giornali - che, dopo le tentate scalate bancarie ed editoriali della scorsa estate a cui si riferisce la giudice Forleo, sono rimaste sul tavolo di quel giudice, tre diversi eventi, di cui uno riguardante la Rcs e la possibilità di catturare il Corriere della Sera, appare di particolare delicatezza politica. Tanto più che l’ombra di Berlusconi si vede distintamente alle spalle di alcune di quelle scalate, anche se, adesso, stranamente, non se ne parla. Evidentemente occorre essere certi che tutta la spinta negativa dell’opinione pubblica abbia tempo e spazio per investire D’Alema, Fassino e Latorre e che si crei uno spazio mediatico non stop esclusivamente per loro. Tanto più quando le notizie che li riguardano giungono misteriosamente prima ai giornali che alla presidenza delle Camere.

Credo sia molto importante notare che tutto ciò accade mentre sulla copertina di Panorama - proprietà Berlusconi - appare il volto debitamente turbato di Romano Prodi.

Il quale - a quanto pare (ma manca qualunque riscontro) - è stato iscritto sul registro degli indagati di una Procura, atto dovuto di un magistrato a causa dell’uso, per un evento sotto indagine, di un telefono cellulare di Prodi. Questo atto non significa incriminazione, non comporta l’avviso di garanzia (che è pubblico e che non c’è stato) ed è rigorosamente segreto. Il segreto non è mai stato un ostacolo per gli affiliati al clan Berlusconi. Ed ecco, in tutto il suo clamoroso e suggestivo atto di disinformazione, la copertina del maggiore settimanale politico italiano (e di Berlusconi) che in modo pesante comunica: Prodi indagato.

Particolare curioso. Proprio in questo numero di Panorama, proprio sotto questa copertina falsa, il senatore della Margherita Antonio Polito, mi rimprovera di credere ancora nella militanza antiberlusconiana. L’argomento di Polito, tra i più curiosi nella storia della democrazia, è: «Non vedete quanti ancora (e, anzi, di più) sono con Berlusconi?». Ho già risposto, e ripeto, che una simile vacua obiezione (più leggera di una piuma di colombo che Polito mi attribuisce come peso politico) in America non ha fermato i pochi democratici come Barak Obama, che si sono opposti alla guerra in Iraq contro due terzi dell’opinione Usa. Invece di usare lo stravagante argomento: «Non vedete che sono tutti dalla parte di Bush?», hanno insistito nella loro critica appassionata. E adesso sono la stragrande maggioranza.

Insisto sull’ombra letale di Berlusconi perché ha molta importanza in quello che sto per dire. Riguarda il nostro futuro, non solo i leader Ds, non solo la sinistra o l’Unione o la maggioranza. Riguarda l’integrità dell’Italia. Cercherò di spiegarmi, sapendo che non rappresento i Ds, non sono la voce di questo giornale, ma solo un punto di vista.

1 - Chiedo con passione e convinzione di stare in guardia dal rischio di qualunque alleanza anti-giudici cosiddetta “trasversale”. Il partito degli indagati, la casa madre di Dell’Utri e di Previti, ha molto da guadagnare in una simile alleanza. I Ds, la sinistra, l'Ulivo, l’Unione, la maggioranza no. Meno che mai il nascente Partito democratico.

2 - Chiedo, con lo stesso spirito e la stessa convinzione di stare alla larga dall’idea che il segreto sia meglio della diffusione di notizie anche sgradevoli. Il segreto, come dimostra la copertina del numero di Panorama in edicola, è un vantaggio prezioso per casa Berlusconi. Diffondono quando vogliono quello che vogliono e sottraggono quando vogliono ciò che preferiscono oscurare. Il ricatto diventerebbe il loro strumento abituale. Adesso lo usano prevalentemente tra le loro mura. Il segreto su notizie giudiziarie e intercettazioni diventerebbe la loro arma di intimidazione di massa.

Controprova: il conoscere già da tempo i passaggi ritenuti cruciali delle intercettazioni su D’Alema, Fassino, Latorre consente adesso, anche ai non esperti, di distinguere le ipotesi della giudice Forleo dalla natura e portata delle frasi in questione. Proprio a causa della mancanza di segreto manca, nonostante la forzatura di alcuni titoli di giornale, la deflagrazione desiderata. Quello che è accaduto ieri non è una bomba ma solo una notizia.

3 - Il rispetto per il terzo potere su cui si fonda la democrazia, il potere giudiziario (che non è come voleva l’ingegner Castelli una turbolenta corporazione di impiegati statali presuntuosi), è essenziale per l’Italia estranea al malaffare, come l’attacco continuo ai giudici è stata il carattere distintivo più tipico dell’Italia di Berlusconi. Quell’Italia è viva e attivissima, con buona pace di Polito. Affrontare un momento difficile che espone a ogni tipo di denigrazione mantenendo fermamente i riferimenti di accettazione, fiducia e rispetto in base ai quali la maggioranza dei cittadini ha votato il centrosinistra, vuol dire dimostrare che anche in un momento sfavorevole, i valori non cambiano. Vuol dire che ci si guarda bene dal fare causa comune con chi ha ben altri motivi per la lotta ai giudici, ben altre ragioni di circondarsi di segreto e molto di più da guadagnare nel diffondere l’idea che i giudici sono mentecatti.

4 - È proprio perché i fatti sono in chiaro e non sono mai stati oscurati che i cittadini conoscono l’ambito e i limiti della vicenda D’Alema, Fassino, Latorre. Sanno di potersi aspettare, altrettanto in chiaro, risposte civili di persone che non smuovono poteri e non giocano funzioni di governo per loro interessi di qualsiasi genere. Dunque la storia si evolverà come in ogni Paese democratico, rispettando tutte le regole per far valere le legittime ragioni. Non è poco nel Paese in cui Berlusconi ha tentato di sottrarsi a tutti i giudizi. Ma di meno, a chi ci ha votato, non si può dare.

Vorrei ricordare l’esempio di Bill Clinton che durante gli otto anni della sua presidenza (definita “comunista” dal suo avversario conservatore Jesse Helms per avere tentato di cambiare l’assicurazione sanitaria a favore dei poveri) ha dovuto affrontare diverse investigazioni e processi, tutti (meno uno) opera bene organizzata ma falsa della sua opposizione. Li ha attraversati senza alcuna distrazione dagli impegni di governo, senza alcun ritardo o posticipo o esenzione giudiziaria. Non ha mai neppure chiesto un rinvio. Ed è uscito integro da ciascuna prova.

I cittadini americani né allora né adesso si sono mai scostati da lui. Il suo rispetto, da capo dell’esecutivo, per le altre due parti del governo (il legislativo e il giudiziario) ha fermato per lui, e in quel Paese, l’onda pericolosa dell’antipolitica.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 22.07.07
Modificato il: 22.07.07 alle ore 17.36   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Luglio 24, 2007, 05:57:50 pm »

La mia lettera d’intenti

Furio Colombo


Scrivo questa “Lettera di intenti” per porre formalmente la mia candidatura alla Segreteria del Partito Democratico e sto per entrare in Senato da dove - per le note ragioni di rapporto numerico tra maggioranza e opposizione - non potrò uscire fino alla approvazione del Dpef e delle altre tre leggi che dovranno essere approvate entro questa settimana. Questa settimana è la stessa (e l’unica indicata) per la raccolta delle firme richieste per sostenere la lettera di candidatura. Penso che i lettori-elettori noteranno la situazione paradossale. Al momento per un senatore, date le regole indicate, non sembra esservi una facile soluzione. Ovviamente si aspettano chiarimenti.

LETTERA DI INTENTI

Dichiaro la mia candidatura a Segretario del Partito Democratico per contribuire, con la mia esperienza di vita, di professione e di impegni internazionali che mi hanno posto a contatto con altre tradizioni democratiche, a dare al nascente partito un nocciolo di idee che confermino e arricchiscano la natura e la radice democratica di questo partito.

Cerco un legame con i cittadini in un periodo della storia in cui solitudine e paura, più ancora della “antipolitica”, allontanano e separano gli elettori dalla partecipazione agli eventi politici.

2 - Affermo che il cuore del partito che intendo rappresentare è il lavoro, la dignità, il legame fondamentale che rappresenta con il vincolo di cittadinanza, con la Costituzione, con le leggi, con le altre persone.
Parlo del lavoro cercato dai giovani e che, quando c’è, il più delle volte è irrilevante per costruire un futuro.
Parlo del lavoro di coloro che stanno vivendo la loro esperienza di mestiere e di professione in un’epoca che tende a screditare e penalizzare il lavoro retribuito, tende a dichiarare esose anche le più legittime richieste di chi contribuisce con il proprio lavoro allo sviluppo e alla crescita del Paese, tende a prestare attenzione solo a chi, bene o male, ha già accumulato ricchezza.
Come avviene negli Stati Uniti, che pure sono considerati la casa madre dello sviluppo capitalistico, il Partito democratico dovrà essere il partito del lavoro. E ciò non in senso sindacale, ma nel profondo senso culturale e civile della tradizione democratica. Questo non vorrà mai dire essere ciechi e sordi alle esigenze di tutta la comunità in tutte le sue espressioni. Ma vuol dire sapere che la vita democratica di un Paese si fonda sul lavoro, le condizioni del lavoro, le garanzie del lavoro e la certezza che non saranno mai negati né la dignità del prestare la propria opera, né la certezza dei diritti a cui le controparti si sono di volta in volta impegnate verso che lavora e lavora bene.
Sarà chiaro a tutti che non si tratta di una affermazione di classe ma di una constatazione di buon senso. La tenuta, la rispettabilità, la crescita, lo sviluppo di un Paese si basano sulla partecipazione dei cittadini attraverso il lavoro. Se si restringe il numero di coloro che lavorano e tarda a sopraggiungere il contributo delle nuove generazioni, il vero problema non è attuariale o statistico, ma è la diminuzione della partecipazione politica dei cittadini che vuol dire fine della politica.
Il patto fra generazioni non si fonda sui numeri delle tabelle ma sul passaggio di esperienza e di responsabilità fra i più giovani e i più anziani. Il patto di solidarietà è intorno al lavoro, non agli sportelli degli uffici postali dove si pagano le pensioni.

3 - Affermo che non mi sembra sensato candidarsi per rappresentare una particolare fascia demografica di cittadini. Ciò finisce per prefigurare una sorta di confronto conflittuale: il tuo lavoro sbarra la strada al mio, la tua pensione toglie a me il pane di bocca.
Non è questo il fondamento che andiamo cercando per il nuovo Partito democratico. Ma se si insistesse sul dato generazionale, non avrei difficoltà a dire che a me tocca, allora, di candidarmi a nome di quegli italiani oltre i 70 anni, che non accettano di vedere screditato e svilito ciò che hanno fatto in decenni di lavoro perché sono diventati “vecchi”. Sono attualmente impegnato in Senato in cui molti non si imbarazzano a gridare insulti alla senatrice a vita Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la Medicina, e al presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro solo perché osano avere ed esprimere, alla loro età, e in una funzione (senatore a vita) che viene giudicata “un binario morto”, la loro persuasione politica.
Mi richiamo al nome e all’esempio di italiani come i due Senatori che ho nominato e di persone come Vittorio Foa o Pietro Ingrao per dire che ogni riferimento generazionale in questa candidatura è improprio e, sia pure involontariamente, offensivo.

4 - La scuola è un’altra grande ragione di questo impegno. Il nuovo Partito democratico dovrà dedicare alla scuola, dal primo contatto con i bambini che si affacciano alla vita sociale fino alla ricerca scientifica, la stessa attenzione, lo stesso rilievo, e lo stesso peso economico che un tempo si dedicava agli eserciti. Non può funzionare un Paese che non ponga la scuola, la formazione culturale e scientifica, la specializzazione al livello più alto della ricerca, al più alto livello di attenzione, di impegno di governo, di preparazione dei docenti e di fondi disponibili.
Il Partito democratico di cui parliamo dovrà essere in grado di riconoscere che la funzione, il livello, la qualità e il compenso degli insegnanti devono essere preoccupazione centrale del governare e percorso principale verso il futuro.
Una scuola di alto livello e funzionante in tutti i suoi gradi, dalla prima scuola materna alla più avanzata ricerca scientifica è il vero patto fra generazioni. Per questo il Pd crede fermamente nella Scuola pubblica.

5 - Ospedali e struttura sanitaria costituiscono, con la scuola e il lavoro, i vincoli essenziali di cittadinanza.
Quando il cittadino sa di poter contare su uno Stato presente e attivo nei momenti fondamentali della sua vita, dalla nascita dei bambini alla più pronta e bene organizzata prevenzione e cura delle malattie, al soccorso nelle emergenze, alla presenza assidua e competente nelle fasi finali della vita, allora il rapporto cittadino-Stato si apre alla fiducia, diventa leale e di reciproco sostegno. Ognuno farà la sua parte per uno Stato che c’è nei momenti difficili.

6 - La legalità, la giustizia, in un Paese senza segreti e che riconosce pienamente l’indipendenza della Magistratura, è ciò che distingue l’Italia democratica dal periodo di illegalità costante e di irrisione alle leggi e ai giudici del governo di Berlusconi, ed è naturale bandiera del Pd.
In questo specifico senso la contrapposizione netta a tutto ciò che ha rappresentato il governo Berlusconi non è un residuo sentimento del passato ma è progetto del nuovo partito: legalità che non accetta zone oscure e segreti, legalità che non ammette scorciatoie rispetto alle regole che vincolano tutti i cittadini, legalità che significa non ammettere e non tollerare l’inquinamento grave dei conflitti di interesse, specialmente quando quei conflitti, come nel caso di Berlusconi, riguardano la proprietà ingente di mezzi di informazione. Una situazione in cui il presidente del Consiglio è nello stesso tempo e nella stessa persona, concessionario e concedente dei diritti sull’uso delle frequenze televisive, come è avvenuto per il presidente Berlusconi che ha concesso al proprietario Berlusconi le autorizzazioni necessarie per le sue reti televisive, non dovrà e - a causa di una efficace legge sul conflitto di interessi - non potrà più ripetersi.
Quando si ricordano i gravi problemi creati al Paese, e alla sua immagine e credibilità internazionale, dalle leggi ad personam, le leggi vergogna, (e in particolare la Legge Gasparri sulle Comunicazioni, misurata sugli interessi di Mediaset e ora respinta dalla Unione Europea) non si esprime uno stato d’animo rancoroso e personale come tendono a far credere coloro che sono, per una ragione o per l’altra, inclini a dimenticare. Si parla di leggi, di rispetto, di interessi dello Stato ma anche di immagine rispettabile del Paese.

7 - Il Pd alla cui Segreteria mi candido è laico nel rispetto del dolore di Welby, del diritto ad amarsi delle coppie di fatto, della protezione di diritti civili elementari e fondamentali come il Testamento biologico. Mai, in nessuna circostanza, immagina avversioni o mancanza di attenzione per la sensibilità e la persuasione dei cittadini credenti che sono tanta parte della storia e della sua vita italiana. Ma intende chiedere, per chi è laico, la stessa attenzione e lo stesso rispetto.
Il Partito democratico che vorrei guidare non è una macchina del potere in più ma un insieme solidale di cittadini che intendono unirsi per dare, non per chiedere, per contribuire, non per profittare, soprattutto per portare il capitale del proprio lavoro e del proprio talento, che è la vera ricchezza e la vera forza di un Paese quando le regole sono chiare e pulite.


Pubblicato il: 24.07.07
Modificato il: 24.07.07 alle ore 13.50   
© l'Unità.
« Ultima modifica: Agosto 12, 2007, 07:02:03 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Agosto 12, 2007, 06:57:36 pm »

Perché Veltroni
Furio Colombo


Per farla breve, alle primarie o non si partecipa - e allora è bene avere un altro progetto - o si vota Veltroni. Questa conclusione non ha niente a che fare con giudizi su Rosy Bindi, che conosco e che ammiro, e su Enrico Letta, di cui ho solo notizie pubbliche che suggeriscono stima. E include un dispiacere per lo scarso ruolo finora concesso a persone politicamente nuove e diverse come Adinolfi e Grawronski, che spero abbiano il ruolo che meritano in tutto ciò che stiamo discutendo.

Ma fatemi esaminare per un momento l’alternativa, voltare le spalle, come ti dicono tanti, offesi o dalla immensa stupidità del regolamento o dalla sensazione di vedersi stringere intorno un cerchio di cose già viste, ascoltate, vissute che allontana e scoraggia.

È vero che vi sono molte ragioni per essere critici e persino allarmati. È anche vero che, se smettete di concentrare tutta l’attenzione verso la complicata e contraddittoria avventura del nuovo partito, e vi voltate a guardare l’intero paesaggio politico, non potete che avere paura. Stiamo vivendo in un momento sbagliato, interpretato in modo rozzo o falso o del tutto sfasato rispetto ai fatti, con parole goffe e proposte che si susseguono senza senso, buttate lì come se i cittadini fossero una discarica a cui destinare tutto ciò che non serve.

In questo momento sbagliato vi raggiungono rigurgiti di una protesta acida e cattiva, che impedisce ogni critica o dibattito su alcune leggi immensamente discutibili, chiamando assassini gli autori di quelle leggi. La mossa è barbara ma anche stupida, perché riguarda fatti tragici come morire sul lavoro, e paralizza tutto nella giusta colata di indignazione che riguarda esclusivamente la frase barbara e stupida. Se esiste un profittatore delle morti sul lavoro - ovvero della mancanza quasi completa di misure di prevenzione - non potrebbe essere meglio servito. Ma un intervento così assurdo racconta solitudine, abbandono, sfiducia, un paesaggio brado privo di appigli, di qualche idea di riferimento.

In questo momento sbagliato i media ci chiamano ad ascoltare le frasi umilianti, pre-naziste e dementi del sindaco illegale di Treviso, Gentilini che, da buon imbroglione ha aggirato il limite dei due mandati, fa il sindaco, con il titolo di pro-sindaco, per la terza volta, alle spalle di un poveretto - certo Gobbo - che si presta al gioco, e respira sulla sua città il fiato cattivo dei pregiudizi più rozzi e più antichi. Vuole fare “pulizia etnica” contro i gay della sua città e ciò che dice dovrebbe apparire un delirio da osteria se non fosse che Gentilini è stato eletto due volte e tenuto in carica, in questo terzo illegittimo mandato, da liberi cittadini italiani (anche se nelle interviste tv non se ne trova uno che offra faccia e nome a difesa di quel falso sindaco).

Ma accade questo: un “grande” della destra regolare, uno formato Angelillo (nel senso dei salotti e delle buone frequentazioni) vi dice (anzi scrive): «In Italia - a differenza che nel resto d’Europa - non esiste l’orrore della xenofobia per merito della fondamentale funzione democratica della Lega Nord» (Giulio Tremonti in “La politica”, lezione magistrale per i giovani di Forza Italia, Padova, 14 luglio). Tremonti sta parlando della stessa Lega Nord e dello stesso Gentilini che per gli immigrati da cacciare esigeva vagoni piombati, oppure fucili da caccia «per aprire con gli immigrati la stagione». Non nell’altro secolo. Ai nostri giorni.

In questi stessi giorni sbagliati, pagare le tasse «può servire a mantenere realtà parassitarie e a favorire il latrocinio» (versione cattolica di Famiglia Cristiana) oppure a sostenere «lo Stato predatore» (versione laica di Angelo Panebianco).

E sono i giorni sbagliati in cui, nel caos di Fiumicino, tra i bagagli scomparsi a migliaia dopo ore di attesa, a nessuno, ma proprio a nessuno è venuto in mente che, per prima cosa di un simile disastro collettivo devono rispondere amministratore delegato, direttore generale e titolari dei vari settori che hanno deciso organici, strutture, orari, turni, compensi e strumentazione, in un settore completamente privato e festosamente concorrenziale. No. Tutti, ma proprio tutti, da destra a sinistra e dalla stampa scritta alle efficaci inchieste televisive (che mostravano ogni volta centinaia di valige abbandonate), hanno denunciato con ira (nell’ordine): fannulloni, assenteisti, privilegiati, sindacalisti arroccati in pretese ormai cancellate dalla modernità, riposi indecenti, sieste alla messicana, crudele indifferenza di pigri lavoratori per le esigenze dei viaggiatori.

Che i viaggiatori paghino sempre di più (se a prezzo pieno) o sempre di meno (con la trovata dei voli voli “low cost” che riempiono gli aeroporti anche di notte perché non sai quando parti, e fanno saltare tutti i turni e gli organici del personale a terra, organizzati per un altro sistema); che le misure di sicurezza - comprese molte intorno ai bagagli - rallentino per forza, e a volte deraglino, i servizi di imbarco e consegna, è tutta realtà mai discussa e mai investigata dai nostri colleghi giornalisti. In molti credono ancora che la colpa sia tutta dei sindacati criminali.

Nei giorni sbagliati in cui la gang del debito mondiale (mutui americani sulle case resi facilissimi da interessi dell’uno per cento poi improvvisamente non più pagabili dai contraenti quando gli interessi salgono al 5 per cento, buttando sul lastrico i compratori e gettando nel panico le borse del mondo in una serie di scosse violente, pericolose che durano ancora) il settimanale L’Espresso mette alla gogna i tre sindacalisti Epifani, Angeletti, Bonanni, che hanno l’imperdonabile colpa di aver tenuto testa, a nome di chi lavora, nella infinita disputa sulle pensioni. Ci hanno detto che i tre sindacalisti predoni stavano rubando il pane ai più giovani (che nessuno assume se non come precari e dunque senza contributi pensionistici, e che certo saranno bloccati ancora più a lungo se gli anziani andranno in pensione più tardi) proprio nei giorni in cui i petrolieri stanno organizzando alla grande il “cartello” che ha portato alle stelle, a partire dal primo giorno di ferie, il prezzo della benzina. I petrolieri dicono «non esiste alcun cartello» benché i loro prezzi siano tutti uguali, ma nessuno infierisce. E i quotidiani registrano la autorevole notizia. I petrolieri infatti sono credibili. Non sono né scaricabagagli negli aeroporti né sindacalisti. Come gli organizzatori del grande scandalo dei debiti inesigibili in tutti i mercati del mondo (e finiti in chissà quanti fondi pensione) sono uomini seri e rispettabili del mondo del business.

***

Ma nel paesaggio Piranesi del mondo politico ed economico in cui abbiamo l’avventura di vivere, ci sono altre rovine che di tanto in tanto ci vengono indicate come la “cosa nuova”, il futuro di cui siamo in attesa. Una è il grande centro, una sorta di eco-mostro della politica sulle cui macerie si arrampicano con qualche strana e incomprensibile ambizione “nuovi” leader. È materiale usato, il grande centro, fatto di vecchio che invoca il vecchio, di fallimento in vena di celebrazione, di niente con fanfare e discorsi, una voglia di potere così genuina e smodata che non si veste più di nulla. Annuncia se stesso e basta. Ma si sa che il potere vuoto, che si propone come “tagliatore di ali” di ogni cosa che, per qualsiasi ragione, dia segni di vita, uno scopo deve darselo. Il suo scopo è la restaurazione. Sarà una restaurazione tragica in un Paese ridotto come una Cecenia del diritto e della legalità: spese in libertà, evasioni, disfunzioni, condoni, violazioni di ogni genere, ovvero il frutto del minuzioso attivismo distruttivo dei cadetti di Berlusconi.

Volete sapere quali sono le parole chiave di questo paesaggio post-berlusconiano, una volta issato il bandierone finto (ma non privo di convenienze per chi si è “posizionato” bene) del grande centro? Eccole, a cura di Giulio Tremonti (Padova, 24 luglio): autorità, responsabilità, valori, identità, ordine. Come vedete si tratta di contenitori vuoti in cui possono abitare con agio il pugno di ferro, la decisione dall’alto, il “Dio, Patria, famiglia” del passato fascista (quello delle vacanze al confino), una buona dose di sciovinismo-nazionalismo-xenofobia anch’esso stagionato in vecchie botti ben conservate, e l’ordine, che una volta sistemati autorità e valori, fa sempre comodo, non sempre e non necessariamente con le buone maniere, perché, lo sanno tutti, siamo un popolo riottoso. E un conto è evadere ordinatamente le tasse o violare le leggi scortati da batterie di avvocati, parcheggiandosi al Billionaire. Un conto è pretendere di partecipare al proprio destino.

***

Brutto paesaggio, d’accordo. Ma perché Veltroni? Ecco le ragioni che vi propongo.

Primo. Per finire al più presto questa fase infelice di regole stupide fatte per allontanare chi aveva alzato la testa in direzione di questo possibile nuovo partito.

Secondo. Perché queste regole non sono soltanto stupide, sono anche un ostacolo perché qualcosa cominci a vivere quella vita di fatto che è la vera vita di una naturale aggregazione politica detta partito.

Terzo. Perché con regole arbitrarie e preliminari sono stati eliminati personaggi della vita democratica italiana come Pannella e Di Pietro che avrebbero portato discussione; e perché con il marchingegno delle liste “collegate” vengono messi in condizione di affanno non solo gli “esterni” alla macchina politica, come Adinolfi e Gawronski, ma persino Rosy Bindi se non ha coltivato già da prima una sua macchina di consenso locale.

Quarto. Perché ci siano presto, invece di regole inventate da ragionieri dei due partiti sul modo di fare e di collegare le liste, veri dibattiti. Intendo dibattiti aperti, coraggiosi che non escludano temi impossibili, che cerchino i più giovani e i meno collegati, che tentino ponti con coloro che, per ora, non ci stanno. Scopo: dimostrare che questo non è un mega-congresso camuffato di Ds e Margherita e non è un cavallo di troia a bordo del quale possano entrare, non notati, Opus Dei e Teocon. Che si notino e si discutano, e tutto avvenga consapevolmente in una piazza libera piena di voci libere.

Quinto. Veltroni sa benissimo che non produrrà magicamente né i pacs né il testamento biologico. Sa che quanto gli dicono “destra” e “fare insieme” (intendendo mitici accordi con una opposizione urlante) gli cambiano continuamente le carte in tavola. Una volta la destra è Berlusconi, protezionista e fautore delle frontiere chiuse; una volta destra è il Fini della “Camera dei taxi e delle corporazioni”, una volta è l’ardito Gasparri che si batte con le unghie e con i denti per Mediaset come se fosse la patria; una volta è la Confindustria che vuole pieno liberismo, continua flessibilità e cuneo fiscale, ma solo per cominciare. Per dopo ha ben altre richieste da fare. Ma poiché tutto questo Veltroni lo sa, sa anche che cosa è impossibile, almeno in questo momento, in questa Italia disastrata. Saperlo, e comportarsi con realismo è un modo per non abbandonare, come propongono alcuni con coraggio malpiazzato, l’Italia a quella destra multipla e alquanto pericolosa che abbiamo appena descritto.

Sesto. Perché Veltroni ha già vissuto con successo altre primarie le ha già vissute con l’esito che tutti conoscono, governando, con tante componenti e tante ali, con realismo, buonsenso, un certo rischio e una certa audacia, lo Stato-città di Roma, sembra giusto che meriti di nuovo fiducia.

Settimo. Perché resta poco tempo per salvare il salvabile di una politica pulita e onesta. Se ci sono o quando ci saranno altre forze pronte - là fuori - ad unirsi sarà un gran bene. Ma intanto è urgente accantonare il marchingegno che - con un po’ d’incoscienza - è stato messo in piedi per farci giocare. È urgente tornare a comunicare, tornare a fare argine al peggio, tornare a dare segni di guida alla politica. È bene andare in fretta all’ultima casella e dichiarare finita la parte gioco, comprese le sue pretese e le sue finzioni.

Per quanto tempo si può restare in apnea?

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 12.08.07
Modificato il: 12.08.07 alle ore 14.30   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Agosto 26, 2007, 09:45:05 pm »

La borsa e la vita

Furio Colombo


Il debito per la casa, il precariato nel lavoro, le tasse giuste. Che cosa hanno in comune queste tre bandiere della modernità e - secondo alcuni - del vero e disinibito riformismo? Tutte e tre appaiono democratiche. Vediamo. Lo scossone pauroso delle Borse (un panico domato solo per il momento) ha svelato la sua causa - il debitore non è più legato al debito, può comprarsi una casa con un prestito che forse non può pagare. Questo fatto crea movimento e animazione fra i meno abbienti. Perché all´improvviso ottieni un prestito che - dal punto di vista del vecchio capitalismo - non ti spetta. Non hai «collaterali» (altri beni) o garanzie (qualcuno o qualcosa che, all´occorrenza, paga per te). Ma niente paura. Non c´è alcun legame personale o fisico fra chi ha dato i soldi e chi li riceve. È passata una merce del tutto nuova al mondo. Dal lato del debitore cresce il debito se cresce (come succede abbastanza spesso) il tasso di interesse ovvero il costo del denaro.

Il creditore invece si libera subito del tradizionale fardello dei soldi prestati e dal secolare grattacapo di riaverli indietro puntuali e con gli interessi. Come? Semplice. Vendendoli. Questi debiti infatti sono cifre che entrano in infinite combinazioni contabili. Passano di azienda in azienda, di gruppo in gruppo, di bilancio in bilancio cambiando di valore mentre attraversano il mondo e le Borse del mondo in cui quelle somme diventano azioni vendute e comprate dall´ultimo destinatario, l´investitore. A questo punto il primo debitore e l´ultimo creditore sono lontanissimi e non si conosceranno mai.

Ma la nuova democrazia della Borsa (l´ingresso è aperto a tutti, compreso il debitore insolvente e l´investitore azzardato) da Hong Kong a Zurigo li rende uguali nel momento del panico. Quando? Quando, come è appena accaduto (e forse non è ancora finito di accadere) il costo del denaro sale, il compratore in debito della casa perde la casa, (e poiché come abbiamo visto, siamo ai piani bassi della scala sociale, perde tutto) e l´investitore che si è fidato di certi fondi molto moderni, che hanno incartato e rivenduto il debito, perde tutto ciò che ha investito.

Il panico di chi perde la casa non lo vede nessuno, o compare soltanto nelle pagine dei "drammi sociali". Il panico di Borsa invece non solo ha una grande importanza psicologica perché scuote come un vento furioso l´albero della cuccagna (come è la Borsa per i veri giocatori e i veri investitori che hanno buone informazioni e sanno quando comprare e quando vendere) e non sai mai come quel vento malevolo potrebbe propagarsi. Ma chiama in causa le banche, la loro capacità di riserva e di solvenza, perché è nelle banche che è cominciata tutta la storia. È per questo che sentite notizie "tranquillizzanti" sull´immissione, da parte delle banche centrali, di grandi quantità di denaro "sul mercato". Nonostante il tono festoso dei telegiornali, la notizia non riguarda noi tutti, che rischiamo il danno della inflazione e dei prezzi che salgono, ma nessun vantaggio.

E non riguarda quei poveretti che, a causa del costo del danaro più alto non possono più pagare la rata del mutuo e devono restituire la casa. Riguarda il rapporto fra grandi banche e grandi investitori, al fine, ragionevole certo, di rasserenarli e di far continuare, regolare e tranquilla, la loro vita d´affari. Però qualcuno ha pagato ed è caduto senza rete: ha pagato chi ha perso la casa: ha pagato l´ultimo investitore, che ha comprato l´ultimo debito presentatogli lungo la elegante catena detta delle "cartolarizzazioni". Se era un piccolo investitore, se non aveva abilmente diversificato e se, come Pinocchio, aveva messo tutti i suoi risparmi nelle mani del Gatto e della Volpe (spesso con nomi illustri di grandi fondi di investimento), ha perso tutto.

Per questo il Premio Nobel per l´Economia Joseph Stieglitz si è indignato e ha detto al New York Times che ciò che sta accadendo in Borsa è una grande truffa. Ha detto che i soldi dovrebbero indirizzarsi verso chi ha pagato, all´inizio o alla fine, l´intera operazione, che nei passaggi intermedi ha prodotto ricchezza non più rintracciabile. Appello inutile. Nessuno, né governi né esperti, gli ha risposto. È probabile che abbiano pensato, con un po´ di disprezzo: «Ma come è vecchio questo signor Stieglitz che va in cerca di paracaduti e rifugi e rimborsi per chi è stato sfortunato». Fortuna e sfortuna sono personaggi a pieno titolo del mercato. C´è chi diventa ricco e chi no. È la vita. La vecchia ostinazione socialistoide ad aiutare chi resta indietro mette piombo sulle ali dello sviluppo. Dunque grandi "flussi di liquidità" al mercato che va. E chi ha perso la casa o i risparmi si faccia una ragione. Se è giovane, ne ricavi la giusta lezione. Che è: qualcuno, anche se non sei tu, trae sempre beneficio dal rischio.

* * *

Anche il lavoro precario, ovvero la nuova moderna forma di prestazione d´opera che garantisce un facile e agile flusso di scambi di lavoro e denaro tra parti diverse (chi ha bisogno di un po´ di lavoro e chi ha bisogno di un po´ di denaro) ha la caratteristica che ormai domina il mercato. I contraenti non si conoscono ed è bene che non si conoscano. Il "prodotto" (in questo caso il lavoro) viene "sdrammatizzato": se la casa non è più il sogno grande e caro di una famiglia ma soltanto un frammento di cartolarizzazione (e peggio per chi non si è svegliato nel nuovo, dinamico clima) allo stesso modo smettiamola di fare del lavoro il punto di riferimento di una vita. Anzi, più si cambia e più sei libero. E anche qui si creano spersonalizzazioni e distanze da cui il mercato trae un grande vantaggio. Le persone molto meno. Però è il mercato il protagonista del momento, non le persone, dunque smettiamola con le lagne. Una prova della spersonalizzazione del lavoro precario è stata data in una lettera inviata a la Repubblica (22 agosto) dai genitori di un intelligente e sensibile bambino tetraplegico, che dunque ha assoluto bisogno, a scuola (ha 10 anni), di un insegnante di sostegno. Raccontano i genitori che, nel nuovo mondo del precariato, quell´insegnante cambia continuamente, di anno in anno e anche di trimestre in trimestre, benché il bambino sia giunto alla quinta elementare sempre nella stessa scuola. Vedete la distanza, che resta grande e diventa più grande? La scuola dal bambino, il bambino dall´insegnante, l´insegnante dal piccolo allievo che ha bisogno di lui, ma anche dalla scuola di cui lui, l´insegnante, ha bisogno ma che lo riassegna continuamente, perché nessuno conosce e vuol conoscere nessuno.

E nessuno ha tempo o mani libere o anche solo attenzione per occuparsi della disperazione del bambino. Direte: ma è scuola pubblica. Vero, ma è immersa nella cultura del nostro tempo che dice: chiunque vale chiunque altro. Tu hai, in un dato momento, una casella libera, e la riempi con il materiale umano che hai sottomano in quel momento, senza badare a chi c´era prima e a chi viene dopo.

Strano che di tanto in tanto i teorizzatori entusiasti del "mercato libero del lavoro" sfoderino come una lama la parola "merito". Nel migliore, nel più pulito dei casi, il merito premia il migliore fra i figli di coloro che hanno già una professione da condividere o una azienda da lasciare in eredità. Ho detto: "nel migliore dei casi". Ma il caso tipico è che, qualunque cosa valga il figlio, è lui (o lei) che si prende lo studio o l´azienda. Il famoso caso Ikea, in cui il fondatore e titolare del Gruppo ha accantonato i figli per lasciare l´azienda ai suoi manager migliori, resta rarissimo. Una bella pagina sulla spersonalizzazione e il precariato come nuova natura del lavoro, si trova in un articolo di Claudio Magris (Corriere della Sera, 18 agosto), sul labirinto dei numeri verdi, voci elettroniche che si alternano a voci umane in un intrico di rimbalzi verso il niente e verso il vuoto. Perché la voce umana del call center dovrebbe prendersi cura di te visto che, nella sua vita di lavoro, non conta più della voce elettronica?

Ma la parola "merito" dà i brividi quando l´utente viene improvvisamente e inaspettatamente a contatto con una voce intelligente, informata, partecipe, di quelle voci che, a volte, dal centralino di un´ambulanza o di un servizio essenziale, confortano un anziano, aiutano un bambino, salvano una vita.
Perché ho detto che provo un brivido alla parola "merito"? Perché al momento di dare una sfoltita all´organico di quel precariato perfetto che sono i centralini dei servizi e i call center, la voce umana, intelligente, partecipe, non farà alcuna differenza. Va via quando deve andar via, col prossimo taglio dei costi (che, nel mondo del lavoro precario, viene sempre) senza badare al mitico "merito". Esattamente come (ci dicono i genitori che hanno scritto l´ angosciata lettera a la Repubblica) è avvenuto per il piccolo scolaro tetraplegico. Il più bravo e abile degli insegnanti, che aveva elaborato un programma speciale in base a un di più di conoscenza, di preparazione, di buon lavoro, è stato spazzato via come gli altri, come quelli che a mala pena si erano occupati del caso.

Ecco dunque il vero esito del precariato. Diventa precario non solo chi lavora, ma anche gli allievi, gli utenti, coloro che hanno bisogno di un servizio, diventano precari anche gli assistiti e i malati. Il nuovo film di Michael Moore (Sicko, alterazione della parola "sick", malato) dimostra che, in un mondo ospedaliero di costi continuamente tagliati, i pazienti diventano tutti precari, anch´essi senza diritti, senza identità, senza altro riferimento che non sia il mercato. Ecco perché c´è da restare almeno perplessi quando ti dicono che questa è la modernità, la riforma, il vero futuro. E ti buttano in mezzo la parola "merito" benché nessuno di noi, in questi nostri giorni, sarebbe in grado di indicare il tale o tal altro giovane di qualunque professione o mestiere che sta dove sta, in una bella carriera, "per merito". Forse ho scarse conoscenze di persone di valore. Qualche lettore vorrà aiutarmi, e citare casi diversi?

* * *

In questo deserto compare un nuovo precario: il contribuente. Scoppia all´improvviso la polemica delle tasse, che fa del maxievasore Valentino Rossi una specie di eroe e di simbolo. Anche qui la distanza e la spersonalizzazione è grande e paurosa. Tu non sei nessuno e il fisco fa quello che vuole. Oppure: tu sei bravo e furbo e tieni in scacco il fisco come vuoi e quanto vuoi e basta un po´ meno celebrità di Rossi per restare al coperto anche dopo decenni di ricchezza rampante.

A confronto con ogni altro Paese si cade nel ridicolo quando Bossi e la Lega dichiarano lo sciopero fiscale nel Paese celebre nel mondo per la sua inclinazione diffusa a evadere in tutto o in parte il pagamento delle tasse.
Rimpiango che qualche autorevole americano, che spesso ci ammonisce sulla strada giusta in politica estera, non abbia ritenuto di far sapere, a Bossi, a Calderoli, a Tremonti, ma anche al cardinale Bertone, che cosa succede se un cittadino americano di qualsiasi livello e rango economico, invece di pagare, nel giorno e nell´ora stabilita dalla legge, si mette a riflettere in pubblico su che cosa sia la tassazione giusta. Segue immediato intervento dello Stato che vuole i soldi dovuti, puntuali e subito e non ha alcun interesse alla riflessione. È uno dei pochi casi in cui le istituzioni americane non tollerano cauzioni o dilazioni o condoni.

Ogni democrazia rispettabile e con un minimo di memoria storica sa che non esiste una tassazione giusta. Esistono Parlamenti eletti che confrontano, esaminano, valutano, decidono, con decisioni che si chiamano leggi. Esistono governi che, da un lato, sono fermi nelle loro decisioni; e dall´altro comunicano bene e in modo inequivocabilmente chiaro con i cittadini-contribuenti. Ma non buttiamo sulla scena il rapporto tra tasse alte e servizi impeccabili. Per esempio negli Stati Uniti il trasporto di massa, la scuola pubblica, gli ospedali (vedi Sicko di Moore) nonostante la tassazione "perfetta", sono molto inferiori a ciò che dovrebbero garantire le tasse, che pure nessuno si azzarda a discutere. E sono molto peggiori che in Italia. In quella stessa America la proposta di organizzare un "Tax day" o maxi protesta contro le tasse decise dal legittimo Parlamento, come propone Gianni Alemanno, stroncherebbe la sua carriera politica e quella di tutti gli altri membri del Parlamento disposti ad associarsi a quella goliardica proposta. Tutto questo in America. Direte: che cosa c´entra con le primarie del Partito democratico in Italia? C´entra, c´entra. Ha detto giustamente Francesco Rutelli (sia pure con intenzioni politiche diverse): «Che primarie saranno se non affronteremo i problemi più importanti del Paese?». Per quel che ne so Veltroni è d´accordo. Le primarie, e anzi l´intera vita e identità del Partito democratico, cominciano qui.
colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 26.08.07
Modificato il: 26.08.07 alle ore 8.26   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Settembre 03, 2007, 02:33:44 pm »

Il distacco

Furio Colombo


Dove tace la sinistra, parla un grande banchiere. Ecco che cosa ha detto al «New York Times» del 31 agosto: «L’Italia, come la Germania, il Giappone, la Francia, è uno dei Paesi più pessimisti. Un sondaggio recente rivela che l’80 per cento dei cittadini di quei Paesi si aspetta un futuro peggiore. Sembra evidente che il problema sociale più grave con cui questi Paesi si misurano è la combinazione del capitalismo di mercato con la globalizzazione. Ciò rende la ricchezza di alcuni sempre più grande mentre la gran parte dei cittadini vive in un mare di ansia per tre grandi gruppi di problemi: la certezza, o qualche forma di continuità del posto di lavoro, la scuola dei figli, l’inclusione di un numero crescente di immigrati». Il banchiere si chiama Felix Rohatyn, è stato il numero uno della Banca d’affari Lazard Frères di New York, è stato ambasciatore americano in Francia, è stato l’uomo che - negli anni Settanta - ha salvato New York dalla bancarotta con grande e celebrata perizia finanziaria e senza lacrime e sangue. Ovvero senza licenziamenti di massa. In altre parole un liberal, della cui competenza e capacità di vedere le cose in grande avrà bisogno il prossimo presidente degli Stati Uniti, se sarà un democratico. La lezione di Rohatyn, come quella di altri grandi economisti che il mondo delle notizie italiano continua a ignorare, è: non perdetevi nei dettagli. Succedono cose grosse nel mondo: cercate di vederle, per governare. La vicenda dei lavavetri in Italia è umiliante per la sua piccolezza. Diciamo che saranno alcune centinaia in tutto il Paese di cui, come constata ogni giorno ciascuno di noi, la stragrande maggioranza rassegnati e gentili, pronti a rinunciare. Eppure la tv di Stato ci mostra l’assessore Cioni mentre, come un governatore inglese dell’altro secolo, assegna benevolmente un posto fisso a un anziano marocchino che ripetutamente ringrazia la telecamera. Alcuni sindaci di sinistra coraggiosamente si schierano a testuggine per salvare le loro città e il Paese dal nuovo pericolo.

Nessuno gli racconta che anche adesso, mentre Cioni tuona a Firenze per la salvezza dell’Italia spalleggiato dai più autorevoli editorialisti italiani, anche adesso, a New York, all’angolo di Canal Street con West Broadway, non si passa al semaforo senza una piccola transazione con il lavavetri del posto che, in quella città, è povero come in Italia, ma americano. E tutto ciò dopo che New York è stata governata dal famoso sindaco repubblicano Giuliani detto “tolleranza zero”. E tutto ciò sotto il governo del sindaco repubblicano Bloomberg che di recente, senza imbarazzo ha detto a una tv newyorchese: «Dopotutto si tratta di una piccola impresa».

Ma, da noi, il Corriere della sera dedica un vibrato editoriale al «vuoto valoriale» (è scritto proprio così, «vuoto valoriale») di chi, nella stampa italiana, (leggi: «l’Unità», «il Manifesto») cinico o cieco o sovietico, non vede il problema dei lavavetri e non crede che, nel Paese della ‘ndrangheta, la legalità cominci con tre mesi di carcere, comminati da un assessore che sembra uscito da un film di Vanzina, e comunque decide al di fuori della Costituzione.

Forse esistono degli occhiali speciali per ingigantire problemi così piccoli, non solo al punto da istituire una giustizia sommaria dei semafori, ma anche per dividere l’Italia in due, fra il «pieno valoriale» dell’assessore Cioni e il «vuoto valoriale» di chi si stupisce e vorrebbe spiegazioni.

Evidentemente alcuni di noi, sbagliando, si ostinano a non rendersi conto che la vera illegalità, una enormità che avrebbe dovuto far trasalire un Paese civile da destra a sinistra, sono le parole di un capo partito potente (perché ex ministro e perché sostenuto in tanti modi da Berlusconi) quando annuncia: «Contro le tasse prenderemo il fucile».

Ma che cosa volete che sia la minaccia delle armi contro le leggi del suo Paese da parte di un leader politico che ha governato e potrebbe ancora governare, a confronto con la spugna dei lavavetri? Il «pieno valoriale» del vice direttore Pier Luigi Battista e dei suoi sindaci (non uno dei quali si è accorto di Bossi) sta nel gettarsi, a proprio rischio e pericolo, contro le spugne. Bossi avrà anche straparlato, ma dalla sua parte c’è Berlusconi e non si conoscono protagonisti della vita pubblica italiana che vogliamo esporsi al rischio di indispettirlo. Berlusconi non sarà più presidente del Consiglio, ma certo resta uno di buona memoria per il futuro. E anche nel presente è un editore in grado, quando vuole, di bloccare carriere o anche solo notizie su chi non gli piace.


***


Come vedete, con tutta questa inesistente questione, che ha occupato pagine doppie e quadruple di grandi quotidiani (e ringraziate il cielo che non c’era «Porta a Porta», altrimenti anche il criminologo sarebbe apparso accanto a un compatto schieramento politico destra-sinistra) siamo caduti in una piccolissima fenditura della realtà.

Sulla scena grande, quella occupata dagli adulti, Montezemolo ha annunciato la «emergenza fiscale». Si tratta di una denuncia grave e drammatica e - invece di ridicolizzarla - vorremmo avere l’autorità di chiedere quando, come, perché, rispetto a quale altro Paese si è creata questa “emergenza” che - tutto fa pensare nelle parole di Montezemolo - è unica al mondo. Montezemolo conosce bene, come lo conosco io, Felix Rohatyn. Sa che nel testo del «New York Times» che ho appena citato, uno degli uomini di finanza più influenti del mondo, esaminando il contesto della vita economica internazionale, dice: «L’Europa avrebbe difficoltà ad accettare un capitalismo senza vincoli come in America, perché il nostro sistema è troppo speculativo e permette una accumulazione senza limiti della ricchezza, un tipo di accumulazione rispetto a cui l’Europa prova disagio. L’improvvisa accumulazione di ricchezza degli “hedge funds” in così poco tempo, in così poche mani, è vista da molti con disgusto».

E poi racconta ai suoi lettori americani che in certi Paesi europei «un capitalismo più frenato (vuol dire più tassato, ndr) permette servizi e interventi sociali che negli Stati Uniti non esistono». Forse il presidente della Confindustria ricorderà che Felix Rohatyn è stato in prima fila fra gli economisti americani che più si sono battuti contro il famoso drastico taglio delle tasse ai ricchi che è stato il fiore all’occhiello del governo Bush. Forse si ricorderà che Felix Rohatyn è stato fra coloro che hanno denunciato il terribile destino toccato alla città di New Orleans (tutta la parte povera di quella città è stata distrutta dall’uragano Kathrina e non è stata mai ricostruita) per mancanza di fondi federali, a causa del famoso taglio.

Vorrei fare amichevolmente una proposta a Montezemolo. Propongo di invitare il banchiere americano (che, come è noto, conosce bene il nostro Paese) a partecipare con noi a un incontro con una sola domanda: «Ma in Italia, rispetto a tutte le altre grandi democrazie industriali, esiste davvero una emergenza fiscale, tenuto conto di tutti gli aspetti in cui, nelle varie legislazioni, si compone un bilancio, si deducono spese, si ottengono sostegni e vantaggi, si cancellano debiti e si ottengono remissioni e sconti»?

C’è qualcosa che non va, o almeno qualcosa da chiarire se, il 29 agosto, il presidente della Confindustria, nella sua lettera a piena pagina al «Corriere della Sera», chiede una tregua fiscale, e il giorno dopo, sullo stesso giornale, a partire da pag. 1, l’economista di sinistra Nicola Rossi interviene con un articolo dal titolo: «La tregua fiscale? Non basta». È come se fosse esplosa in tutte le teste, in tutte le coscienze, in tutto il Paese, dal grande imprenditore all’ultimo contribuente in busta paga, la persuasione che le tasse sono solo una rapina per finanziare la politica. Gira e rigira, anche le nobili e grandi denunce sui privilegi di chi legifera e di chi governa sono andate a finire nel pentolone cannibalesco della Lega. Ed è anche per questo, forse, che Valentino Rossi, con i suoi 126 milioni di euro sottratti - a quanto ci dicono - al fisco, appare meno ma molto meno deplorevole del barbiere di Montecitorio.

È come se ci si fosse dimenticati che, nonostante problemi gravi e disservizi ingiustificabili, le tasse tengono in vita in Italia una vasta rete di sostegno pubblico che gli americani in visita nel nostro Paese non considerano né inutili né spregevoli, dagli ospedali ai treni. In America molti ospedali sono chiusi ai poveri, i treni quasi non esistono, e molti giornali americani stanno denunciando proprio in questi giorni ritardi e confusione sempre più grave per gli aerei di linea a causa della grande quantità di jet privati che in molti aeroporti americani hanno la precedenza.

Leggete, infatti, i due editoriali del «New York Times» del 30 agosto. Nel primo si analizza un dato di cui si vanta la Casa Bianca: le famiglie con il reddito più basso, nel 2006 hanno guadagnato qualche centinaio di dollari in più all’anno. La ragione di questo piccolo apparente incremento, spiega il quotidiano, è che molti anziani tornano a fare lavori occasionali perché i più giovani della famiglia guadagnano troppo poco e non ce la fanno.

Il secondo editoriale lancia un nuovo allarme sulle cure mediche negli Stati Uniti. Sempre più aziende hanno tagliato l’assistenza sanitaria. Sempre meno persone sono in grado di pagare i 1000 dollari mensili dell’assicurazione privata. Coloro che non hanno alcuna assistenza medica - nel Paese più ricco del mondo - erano 36 milioni di uomini, donne, bambini negli anni Novanta (quando Clinton ha tentato invano di far approvare il suo progetto «comunista» di assistenza per tutti). Erano diventati 44 milioni nel 2005. Hanno superato i 46 milioni nel 2006 (ultimo dato). Il giornale ricorda le due cause: il drastico taglio di tasse a favore dei redditi alti (che, tra l’altro, ha diminuito gli incentivi alle donazioni a favore degli ospedali, donazioni che, negli Usa, sono esenti dalle tasse) e la totale flessibilità concessa alle imprese, che possono assumere anche a tempo indeterminato senza alcuna assicurazione. Pesa anche la abolizione di fondi federali, statali e cittadini per le strutture ospedaliere.

Il danno sociale è immenso. E questo afferma il «New York Times» come drammatico avvertimento al prossimo presidente degli Stati Uniti. Il Paese che forma più ricchezza nelle mani di alcuni, crea, allo stesso tempo, più rischio di malattia (poiché manca la prevenzione e ogni rete di protezione) per tutti gli altri cittadini. Quanto il rischio sia grave lo dimostra, adesso, l’annuncio dei due ultimi giganti dell’industria Usa: General Motors e Ford stanno annunciano tagli drastici alle loro residue assicurazioni sanitarie, perché gli affari vanno male.


***


Tutto ciò ci dice - con voce molto autorevole - che non è saggio spingere un Paese a una rivolta basata sul distacco, ciascuno per se, alcuni forti abbastanza da esigere ciò che vogliono, altri disposti al ricatto politico, altri ancora pronti a partecipare a una rivolta che stroncherà tutti i servizi.

La rivolta delle tasse è una grande trovata di destra. La rivolta contro i lavavetri è un piccolo servizio (acclamato non so perché dalla grande stampa) tributato alla cultura fascistoide della Lega. Una emergenza c’è. È nel distacco, nella solitudine, nel rischio di una cultura che rende sempre più vasti i due fenomeni.

Già adesso è un aspetto della vita americana, dove le tasse sono più basse ma si chiudono le porte degli ospedali. Per questo a Venezia George Clooney, l’attore, ha detto a chi gli chiedeva del suo Paese: «Voglio un presidente democratico, non uno ricco». E a chi gli chiedeva del nostro Paese (in cui vive per molti mesi all’anno) George Clooney ha detto «Almeno voi avete gli ospedali aperti per tutti». Ha dichiarato, in modo insolito e sorprendente, di avere fiducia in Walter Veltroni. Evidentemente lo associa alle figure che spera di veder prevalere nelle primarie Usa. E lo vede lontano dalla rissa umiliante sui lavavetri. Mi domando che cosa penserà l’intelligente attore e regista americano dell’Italia che ammira appena gli diranno che il ceto privilegiato del Paese dichiara «emergenza fiscale» due giorni dopo che il peggior leader xenofobo d’Europa Umberto Bossi ha chiamato i suoi fedeli alla rivolta fiscale contro l’Italia, il paese in cui Bossi è uno dei capi della opposizione.

George Clooney e molti italiani continuano ostinatamente a condividere la speranza di uscire presto dall’incubo di una politica così squallida per approdare a un poco di civiltà.

Pensano che così finirà l’epoca triste della solitudine e del distacco.


colombo_f senato.posta.it




Pubblicato il: 02.09.07
Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Settembre 03, 2007, 02:36:05 pm »

Ma io dico: tolleranza dieci
Nando Dalla Chiesa


Sapete che c’è? Che di questa tolleranza zero non se ne può più. Della formula magica, dello scongiuro, dell’esorcismo. Del suo significato, dei totem mentali che evoca. Se posso esprimere la mia modesta opinione, vorrei tessere invece le lodi più sperticate della tolleranza dieci. Sissignori. Tolleranza dieci. O quindici, o venti, secondo i casi. Anzitutto perché sono contro la tolleranza cento, o novanta. Quella, per intendersi, che vige in Italia verso tanti fenomeni di illegalità. Per esempio quella invalsa per anni davanti ai clan di Scampia, finché non si mossero tutti insieme il ministro dell’Interno, il presidente della Repubblica e la commissione antimafia.

O quella che vige per lunghi periodi davanti alla mafia o la ‘ndrangheta se non vengono commessi stragi o omicidi “eccellenti”. O quella osservata per intere legislature nei confronti dell’evasione fiscale o delle devastazioni ambientali. O, scendendo di piano, quella praticata di fronte alla trasformazione di alcune nostre città o aree urbane in autentici suk. O all’illegalità dal basso che diventa principio alternativo di autoregolazione sociale. Non voglio alcuna tolleranza cento o novanta, a nessun livello. Non mi piace mai, per chiarirsi, ciò che è abusivo. Perché una società che si assuefa all’abusivismo perde il senso dei confini tra diritto e prepotenza. Perché accettando la piccola illegalità per “spirito di tolleranza”, si promettono ospitalità e impunità crescenti a illegalità sempre nuove e a chi le sfrutta. E si abbassa la qualità civile del vivere quotidiano; che non è mai una buona premessa per educare a un decente spirito pubblico le nuove generazioni. E infatti, per restare ai temi di cui si discute in questi giorni, credo che se in Italia, unica nell’Europa occidentale, è cresciuto - in tante forme - un accattonaggio così diffuso, questo non è avvenuto (o non è avvenuto principalmente) perché abbiamo la cultura cattolica dell’accoglienza o perché c’è una forte influenza della cultura solidale della sinistra. Ma semplicemente perché la nostra è una civiltà mirabilmente cialtrona, che non ha il senso di quei confini e ha un basso spirito pubblico. Prova ne sia che l’accattonaggio e i suk si sono sviluppati, eccome, anche a Milano, ossia nella prima città italiana che, volendo adottare la parola d’ordine di Rudolph Giuliani sindaco di New York, ha sposato l’ideologia della tolleranza zero, facendone una specie di dea protettrice, sorta di nuova “madonnina” laica.

Il che mi aiuta a spiegare perché ripudio oltre la (mai decantata ma praticatissima) tolleranza cento anche la (decantatissima) tolleranza zero. Quale può essere infatti l’efficacia di questa ricetta nel nostro contesto? Presto detto. Siccome siamo cialtroni, discontinui, abituati a funzionare solo nelle emergenze; siccome abbiamo nel nostro dna di governo non il “rigore democratico” bensì il “lassismo autoritario”, da noi ogni invocazione di tolleranza zero si traduce in una breve tornata di intolleranza repressiva, nella iniezione nel corpo sociale di una elevata ostilità verso qualche categoria sociale (sempre debole), e poi nella ripresa in grande stile dei suk e degli stessi fenomeni di illegalità diffusa che si è promesso con grida manzoniane di debellare. Risultato? Il fenomeno resta. E in aggiunta ci ritroviamo più rancorosi e meno aperti culturalmente. È come prendere una medicina tossica che non ci guarisce. Che lascia in circolo solo il veleno. Insomma, la formula magica gonfia i muscoli, riscuote consensi, ma è un po’ come se drogasse la cultura pubblica, il senso civico diffuso.

C’è poi una seconda ragione che la rende indigesta. Ed è che essa viene costantemente e selettivamente rivolta solo verso i più deboli. A volte partendo da ragioni reali, che meritano ogni attenzione. Ma sempre lasciando, insopprimibile, il disagio di vedere che è sempre verso gli ultimi, mai verso i forti, che si diventa - vedi come le parole si richiamano - ultimativi. Sempre lasciando la sensazione agra di avere costituito quasi una comunità di maramaldi.

E infine c’è una terza ragione, perfino più profonda, di diffidenza verso la formula magica newyorkese. E sta tutta nel principio di ragionevolezza che - giustamente - chiamiamo ogni giorno a governare le nostre relazioni sociali. Anche quando vogliamo intervenire contro l’illegalità diffusa, non sarebbe cioè male ricordare che, in fondo, ogni relazione di cui si intesse la nostra vita si costruisce su un certo grado di tolleranza. A partire da un convenzionale minimo di dieci, appunto. Che è poi la modicissima quantità che praticano, consapevolmente o meno, i più intransigenti. Dalla vita coniugale e di condominio su su fino a quella delle nazioni. Per ragioni di quieto vivere, nobili e meno nobili. Per comprensione innata del valore delle differenze. Per spirito di adattamento reciproco. Per la consapevolezza che è utile capire e “assorbire” le ragioni dell’altro. Per la necessità di transigere se si vogliono garantire accettabili equilibri di convivenza a ogni livello. La vita sociale è insomma una infinita sequenza di mediazioni. Che fa sì che anche per i comportamenti che condanniamo fermamente ci sia una riserva fisiologica di comprensione. A volte sollecitata dagli stessi protagonisti (non deboli) di quei comportamenti. Forse che anche gli avversari più incalliti dell’evasione fiscale non sono disposti ad accettare che ci possano essere, nei conteggi aziendali, errori in una misura plausibile (facciamo il dieci per cento?) o che uno o due scontrini evasi non valgano a far chiudere un negozio? Forse che anche chi è contro l’abusivismo edilizio non è disposto ad accettare intorno a sé una piccola violazione delle regole, una veranda, un ripostiglio, perfino una baracca, purché non sconvolgano le armonie o il paesaggio? Quanto tolleriamo di ciò che è illegale, villano, diseducativo, cercando di stabilire un ponte, un’intesa, con i bisogni o le abitudini dell’altro? Come rielaboriamo le nostre visioni di ciò che è giusto o ingiusto, tollerabile o intollerabile, in base alle culture circostanti? O, passando alle grandi arene della vita pubblica, non si accetta forse, per amore di quiete politica, di pace sociale, che diventi capo del governo chi, in base alle leggi della Repubblica, sarebbe semplicemente ineleggibile? Non si transige perfino sui diritti umani per coltivare le relazioni internazionali? Non si cerca (anche troppo, altro che tolleranza dieci...) di “capire la cause” della evasione fiscale, della raccomandazione, della violenza negli stadi, perfino della mafia che dà i posti di lavoro e fornisce dei modelli di successo?

Anche le persone più rigorose e severe sanno che la tolleranza zero fa perdere di vista le complessità sociali, la ragionevolezza, la stessa efficacia delle proprie strategie, impedisce di costruire soluzioni proficue dei conflitti. Che è cioè merce per persone poco intelligenti. Quale è dunque la ragione che ci porta a precluderci questa quota di tolleranza, modica ma essenziale alla funzionalità del sistema, verso alcune categorie sociali? Perché a loro, e solo a loro, non si applicano i canoni di comportamento che sono la fisiologia della nostra società? Ci sono due spiegazioni possibili. Che non si escludono tra loro. Perché consideriamo queste categorie fuori dalla nostra società. Perché queste categorie non votano. E solo a dirlo passa un brivido per la schiena...

www.nandodallachiesa.it



Pubblicato il: 02.09.07
Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: [1] 2 3 ... 11
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!