LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. => Discussione aperta da: Admin - Giugno 18, 2007, 10:44:23 pm



Titolo: Furio COLOMBO -
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2007, 10:44:23 pm
Stampa e libertà

Furio Colombo


Due lampi illuminano all’improvviso il cielo grigio delle notizie che, in disordine, fanno ossessivamente il giro del mondo, narrano sempre le stesse storie e poi spariscono. È accaduto il 13 giugno 2007, quando è stato pubblicato il temerario discorso di accusa di Tony Blair, Primo Ministro a fine carriera del Regno Unito (in Italia La Repubblica, 13 giugno). È accaduto il 14 giugno quando il New York Times ha pubblicato un testo di Patricia Cohen che - basandosi sul lavoro di economisti e politologi come Michael Mandelbaum, Joseph Stieglitz (il premio Nobel per l’economia) e Bruce Scott (economista di Harvard) - si domanda se valga ancora il legame ritenuto inscindibile (e anzi garanzia reciproca) fra capitalismo e democrazia. E dunque fra capitalismo e libertà delle notizie.

Il legame fra i due sorprendenti interventi è chiaro e - per l’Italia di oggi - di rilevanza immediata. La domanda è: c’è ancora - e serve a qualcuno o a qualcosa - la libertà di notizie, informazioni, comunicazioni, dunque la mitica e celebrata “libertà di stampa” ritenuta finora il cuore della democrazia?

Tony Blair, forse il più carismatico e certo, per qualche tempo, il più popolare leader della sinistra europea in molti decenni, si assume un compito che condivide con tutta la classe politica occidentale ma che, dimostra Blair, in questo periodo tormenta soprattutto la sinistra.

Il senso del discorso di Tony Blair ormai è noto e ha suscitato la sua parte di plauso (dai politici di ogni denominazione) e di condanna (da parte dei più autorevoli giornali inglesi) fra l’indifferenza infastidita di una vasta opinione pubblica che si sente estranea all’uno e all’altro lato della polemica (e questa è la vera notizia sullo stato delle cose).

Tony Blair attacca, condanna e disprezza la stampa che descrive come una belva che azzanna per nutrirsi di scandalo, utilizzando senza scrupoli il sangue delle persone che sono in vista perché si sono assunti la responsabilità della politica e sono da distruggere perché sono in prima fila ed hanno successo.

I politici dunque sono la vittima ideale della belva e la belva risponde ai suoi istinti ferini, non alla missione di informare. Sostiene Tony Blair che la notizia è un trucco per tendere trappole mortali ai politici.

Il lettore non farà fatica a cogliere curiose analogie con la situazione italiana di questi giorni. La stampa italiana ha scelto di ospitare con abbondanza tutti gli spunti possibili di intercettazioni telefoniche che contano, forse, sul piano del buon gusto e delle buone maniere ma niente dal punto di vista dei processi di cui queste intercettazioni sono storie laterali. E ha scelto di farlo lasciando scorrere tutto senza alcun filtro critico o almeno qualche “guida alla lettura” che distingua il giudizio morale e politico (conta o non conta una certa frase?) dal fastidio mediatico e dal disturbo del gusto. In realtà fra la storia italiana e la storia inglese c’è una importante differenza. Tony Blair attacca “la belva” non perché infastidito da sgarbi e critiche malevoli, ma a causa di un violento scontro frontale che segna un’epoca. Lo scontro, di cui Tony Blair è stato iniziatore e protagonista, si è compiuto sulle ragioni della guerra in Iraq.

Quelle ragioni, come è noto al mondo erano false. Ovvero era falsa tutta (tutta) la proposta, la argomentazione e la prova dei fatti (se vi fossero in Iraq armi di distruzione di massa puntate sul mondo e pronte ad entrare in azione in 45 minuti), mentre era ovviamente aperta al dibattito la questione politica (se Saddam fosse il tiranno contro cui usare subito la potenza del mondo).

Dunque c’è qualcosa di unico in ciò che Tony Blair, leader carismatico e popolare della sinistra europea, ha scelto di fare. Ha usato, con piena conoscenza di causa, argomenti che gli sono stati messi a disposizione dalla destra politica e militare del mondo per sostenere una guerra che si è rivelata un immenso errore militare e politico le cui conseguenze, fino alla guerra civile in Iraq, in Libano, in Palestina, fino al rischio di sopravvivenza dello Stato di Israele, sono ancora in corso, lontano da ogni possibile esito positivo.

Tony Blair, ha usato e giocato con la stampa in due modi. Come dimostra il recente libro americano The italian letter di Peter Eisner e Knut Royce, si è avvalso di un documento falso preparato in Italia nella redazione di un settimanale politico italiano, usando personaggi periferici del sottomondo spionistico per pronunciare il famoso discorso: «Ci possono distruggere in 45 minuti». E ha esercitato tutte le pressioni politiche disponibili ad un potere democratico per ottenere che la diffusione della falsa motivazione della guerra non fosse ostacolata o intercettata da argomenti critici al tempo in cui il leader Blair chiedeva per la sua guerra il sostegno della opinione pubblica inglese. È il periodo in cui uno scienziato che non voleva offrire il suo sostegno alla tesi dei «45 minuti per distruggere il mondo» si è tolto la vita. E il Direttore Generale della BBC, responsabile dei servizi giornalistici inglesi che non si erano sottomessi, è stato costretto alle dimissioni. È con un record tutt’altro che esemplare che Tony Blair si presenta alla tribuna di accusatore della stampa persecutrice dei politici.

La storia dimostra che invece - come è accaduto per George W. Bush negli Stati Uniti, per la stessa ragione (le false motivazioni di una guerra presentata come urgente e necessaria) - la vera salvaguardia della democrazia, e dunque della libertà delle notizie, sta nel tempo. Anche nella pienezza delle garanzie democratiche, un leader politico può imporre notizie false. Ma si tratta di un atto soggetto a scadenza. Evidentemente entrambi i leader hanno scommesso su una vittoria così rapida e clamorosa da trascinare l’opinione pubblica a ignorare la libertà di stampa. Brutta scommessa. Comunque, a causa del grave insuccesso, non ha funzionato. Adesso la stampa esige il risarcimento di un minimo di verità. Curiosamente Bush si è mostrato più cedevole del Primo Ministro inglese che ha scelto come difesa l’accusa ed esce di scena inseguito dalle denunce della stampa inglese che - a causa di quella accusa - gli ripetono e consegnano al futuro, con prove dettagliate, la sua fama di leader che mente.

* * *

Come si vede una garanzia contro la falsità della politica c’è, finché un Paese è democratico. Ma democrazia e capitalismo si sostengono a vicenda, come ci è stato sempre detto (i mercati vogliono la libertà come i partiti, per le stesse ragioni di competizione) oppure il capitalismo può, oggi, fare a meno della democrazia senza soffrirne, anzi sviluppandosi a ritmi sempre più stretti?

La domanda posta dall’intervento di Patricia Cohen sull’International Herald Tribune del 14 giugno ha molte motivazioni. Sono nei testi allarmati e dubbiosi di alcune grandi firme della politologia e dell’economia, ma anche nella constatazione del rapido e grandioso sviluppo economico di Paesi industriali e capitalistici tutt’altro che liberi, come la Cina e la Russia. Nella Russia di Putin, invece di fermarsi all’invettiva di Blair («la libera stampa è una belva») la belva viene uccisa. Il mondo momentaneamente appare costernato quando la belva ha il volto della coraggiosa giornalista Olga Politovskaia. Ma, dopo un po’, dimentica. La Cina conduce un controllo preventivo che - prima che portare alla morte - impedisce la nascita di una Olga Politovskaia. Ma intanto si sviluppa, si arricchisce - e arricchisce una parte dei suoi cittadini, lungo tappe successive di una espansione mai vista. Due studiosi americani, il politologo Scott e l’economista Stieglitz non pensano alla Cina ma all’Occidente quando dicono «è un errore pensare che tutto quel che ti serve per vivere in democrazia siano una costituzione e un voto» (Bruce Scott) e «abbiamo riflettuto su quanto sia facile, oggi, manipolare una elezione?» (Joseph Stieglitz). I due studiosi non si voltano indietro a ripensare il Cile, dove, sotto Pinochet, si sono fatte “riforme” (come quella delle pensioni, che viene raccomandata anche a noi, anche oggi, come quella della flessibilità del lavoro suggerita dai “Chicago Boys”, che a quel tempo non si chiamavano ancora “Neocon”). Li angoscia la impenetrabilità della Cina e della Russia capitalistica alla democrazia.

Ma li impressiona ancora di più la fragilità delle più grandi e celebrate democrazie. Da un lato si intravede la crepa dell’imbroglio (abbiamo appena parlato di Blair, ma per l’Italia si veda la denuncia ripetuta da Enrico Deaglio con il film dvd Gli imbroglioni, a proposito di molti punti strani e oscuri nelle elezioni politiche italiane del 2006; ma anche le prove di broglio denunciate da Leoluca Orlando dopo le recenti elezioni comunali a Palermo; ma anche la questione sollevata invano dagli interessati, di otto senatori forse spariti dalla lista di eletti alla “camera alta” italiana dopo contestati e mai discussi scrutinii delle ultime elezioni politiche). Dall’altra una stampa esangue che negli Usa ha risposto tardi (con le scuse formali e congiunte ai lettori dei direttori del New York Times e del Los Angeles Times e la pubblicazione, a cura di Frank Rich, delle notizie omesse per non dispiacere al governo di Bush). In Inghilterra si reagisce adesso. E in Italia si continua a sentire il fiato caldo del potente politico-editore Berlusconi sul collo di chi fa informazione. E si preferisce, anche adesso, non imbarcarsi in argomenti sbagliati o pericolosi, lasciando che siano Bruno Vespa o Minzolini a dirci, anche adesso, anche oggi, qual è il menù delle notizie del giorno.

Se Berlusconi dice che per togliere di mezzo Prodi lo strumento più adatto è il regicidio, cioè il delitto, ti dicono di non disturbare, ti avvertono che si tratta solo di “uno scherzo”.

Ricordate le violente accuse a questo giornale, definito, esclusivamente per le sue critiche politiche, “testata omicida” da tutta la stampa e le televisioni di proprietà o sotto controllo di Berlusconi? Se poi la Lega occupa i banchi del governo ostentando il giornale da statisti di quel Gruppo, che intitola “Fuori dalla balle”, compiendo dunque un gesto probabilmente non consentito in Guatemala, tutto viene narrato (e molto brevemente) come una ragazzata. Dice festosamente il Tg1 del 15 giugno: «È subito baruffa» notare la parola bonariamente goldoniana. Segue, regolare, per tutti coloro che si indignano, si scandalizzano, protestano, o anche solo si sentono imbarazzati, la raccomandazione «ad abbassare i toni».

La fine della storia è nell’iniziativa della nascente leader politica Brambilla, il nuovo cyborg di Berlusconi, che fonda un giornale “della libertà” nel giornale di Berlusconi e una televisione “della libertà” nella televisione di Berlusconi. Altrove democrazia e libertà di stampa rischiano il loro destino nel dramma. Da noi nel ridicolo.


Pubblicato il: 16.06.07
Modificato il: 17.06.07 alle ore 12.53   
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Titolo: Furio Colombo La paga
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2007, 04:52:58 pm
La paga
Furio Colombo


Un giovane tatuato e abbronzato di nome Fabrizio Corona attraversa l’inquadratura delle nostre televisioni e tutti gli spettatori sanno, di colpo, che è lui l’eroe del nostro tempo. Come fare a dirlo? Semplice. È ricco. Non ha mai lavorato. Ha colto con prontezza alcune buone occasioni (fotografare e poi ricattare), ha saputo farlo presto (da giovane) con le persone giuste (ricattabili) nel momento più adatto, mentre l’Italia, spaventata dal lavoro precario, dalle pensioni incerte e affascinata dalla ricchezza esentasse, guarda verso il solo valore a cui vale la pena di guardare: il danaro, purché sia molto. E se in mezzo c’è la disavventura della prigione, perché non prenderla come una «isola dei famosi», il luogo da cui passano brevemente (e per poco) con sfacciata spavalderia, tutti coloro che non sanno che farsene della buona reputazione e del vecchio e superato privilegio di essere incensurato, a confronto con una solida agiatezza?

Sono tutti coloro che non dovranno mai sedersi con Padoa-Schioppa per sapere se, quando, con quanto andranno in pensione, dopo trentacinque o quarant’anni di noiosissimo, ripetitivo e magari usurante lavoro e di versamento regolare (se nel tuo piccolo sei fortunato) dei contributi previsti dalla legge, che adesso tutti definiscono «inadeguati» ma che a te portavano via quasi metà della paga. Fabrizio Corona non è solo. Lui e la sua bella ragazza non vivono nel vuoto. Quando non insultano il giudice - un impiegato statale che ha osato interferire con la loro splendida vita - entrano in un’altra inquadratura, dove c’è Lele Mora e una corte di gente giovane, ricca, esentasse, un nuovo festoso presepio a bordo piscina in cui il nuovo Gesù bambino è un pacco di milioni. Per capire Lele Mora e Corona e la nuova Italia delle «Veline» che si presentano per approvazione fisica a certi portaborse di personaggi della Farnesina (ai tempi di Berlusconi) prima di arrivare in Rai, bisogna passare attraverso la sinistra «moderna» di Ichino e Tito Boeri.

Passare cioè attraverso un percorso in cui il duro giudizio per il lavoro (“fannulloni”) e l’irritazione per ogni esitazione a tagliare tasse e pensioni sta spostando tutto il peso, tutta la attenzione su qualunque modo non regolare di guadagnarsi la vita.

Ormai sappiamo che in ogni treno, invece di due ferrovieri ce ne può essere benissimo uno solo, e - per giunta - con un piede sempre su un pedale con cui dimostra di essere sveglio e attento. Se toglie il piede, interviene la direzione.

Ormai sappiamo che, da una parte della vita, una serie di nuove leggi molto lodate come “moderne” preferiscono definire il lavoro come una serie successiva di gabbie di precariato o, come dicono certe volte con linguaggio benevolo, “di lavoro a progetto”. E, dall’altra parte, coprono di vergogna gli anziani che vorrebbero staccare dopo 35 anni o 40 anni di effettivo lavoro; si fa del sarcasmo facile sul lavoro usurante (mimando timbri e sportelli) e si accusano i vecchi di bloccare, con la loro pretesa alla pensione - e magari a un po’ più di pensione - la strada ai giovani. Lo si rimprovera a loro, non a chi - in passato - ha governato male il paese, non a chi ha gestito male o liquidato o svenduto le imprese.

Allora l’immagine di Corona, che alla sua giovane età, circondato di ragazze svestite, con foto e ricatti e allegria e libera impresa ha già accumulato milioni (di cui si vanta senza che sia mai stato verificato il suo status fiscale) diventa l'immagine dell'eroe del nostro tempo. Non vorrai entrare nella gogna del precariato, passare la vita da fannullone ed affrontare una vecchiaia in cui ti ingiungono di restituire come un maltolto un po’ di anni di vita e un po’ di pensione?

* * *

Ho rispetto e attenzione per il prof. Ichino e per il prof. Boeri, e so benissimo che esistono i “fannulloni”. Esistono, quando è possibile (ma - diciamo la verità - meno che in altri settori e livelli sociali della vita) nel lavoro salariato e stipendiato. Perché ho detto «meno che in altri settori»? Credo che la risposta sia evidente: nel lavoro retribuito con paga o salario ci sono più controlli che per Tronchetti Provera. Dubito, per esempio, che ci siano “fannulloni” nel settore privato. E domando a Ichino: quanti “fannulloni” ci saranno nel settore pubblico della Agenzia delle Entrate se c’è stato, in un solo anno di attenzione di governo, un aumento così drammatico del gettito fiscale, un aumento grande abbastanza da cambiare in parte (disgraziatamente con infinita discussione ed estenuante indecisione) i piani prudenti di questo governo? Sappiamo tutti di disfunzioni del settore pubblico come le liste di attesa degli ospedali. Ma ogni indagine, anche privata e accurata, accerta clamorose colpe organizzative delle direzioni generali e delle Regioni. E anche una clamorosa insufficienza di personale e di fondi. Abbiamo tanti scandali di malasanità in Italia,ma non quello del personale sanitario che fa festa al bar mentre i pazienti attendono nelle famose liste di attesa.

E non abbiamo alcun sistema per identificare e premiare i bravi. Eppure i bravi ci sono. Sono gli impegnati, i volontari del proprio lavoro pubblico che restano in ore non pagate e tornano in giorni non previsti. Devono esserci, se in un sistema pubblico così disarticolato da sovrapposizioni di leggi, brusche variazioni di orientamento politico, strani regolamenti mai aboliti e sindacati accusati di tutto, la durata della vita umana in Italia è un po’ più lunga che in America.

Vorrei essere chiaro. Ogni contributo a migliorare uno Stato malandato e una burocrazia così ossessiva e radicata nel costume che - appena possibile - si riproduce, come un incubo da fantascienza, anche nel settore privato, è utile, importante, urgente, specie se viene da fonti esperte di strutture complesse e capaci di semplificazioni organizzative.

Ma ecco da dove viene un problema grave che - anche nei dibattiti di sinistra - sta inquinando la vita politica e persino i passaggi logici delle mille discussioni che si accendono su come cambiare il futuro. Si sovrappongono due leggende che cercherò di ripetere qui, e di chiarire.

La prima è un percorso soggettivo che addita individui colpevoli. Sono i “fannulloni” di Ichino, sono coloro che “pretendono” di andare in pensione troppo giovani (o secondo i loro comodi) nelle riflessioni di Tito Boeri. È strano come gli esperti e autorevoli “discussant” (come si dice nelle tavole rotonde anglosassoni) non vedano la futilità di disegnare la scena del lavoro e quella della fine del lavoro a partire dalla trovata di creare una gogna per il “fannullone” e una gogna per il lavoratore in fuga verso la pensione.

È strano, perché nessuno troverebbe di buon gusto dire che i commercianti fischiano Prodi e Visco perché non vogliono pagare le tasse. Diremmo subito che fischiano - santo cielo - perché pagano troppe tasse. Al piccolo imprenditore scontento diciamo che si deve prestare ascolto. È giusto. Ma ci intratteniamo volentieri con il mito del lavoratore “fannullone” e con il rito dell’operaio in cerca di via di fuga, attraverso la pensione, dalla ripetizione infinita degli stessi gesti quotidiani, come se si trattasse di intere categorie di profittatori ben accasati dentro fabbriche e uffici, sotto una pioggia di benefici a cui, anche adesso che la festa è finita, non intendono rinunciare.

Strano anche che questa “festa finita” non impedisca di promettere prontamente nuove, ulteriori facilitazioni alle imprese (giusto, se è possibile facciamolo subito) e consigli un rispettoso e attento ascolto dei fischi e dei boati dei commercianti, artigiani, professioni liberalizzate in rivolta (certo che si deve ascoltare, e sanare subito eventuali errori e ingiustizie).

Ma se si tratta di lavoratori che si allarmano (dopo decine di convegni e centinaia di telegiornali) sul crollo del sistema previdenziale e sul costo del lavoro, sempre eccessivo- ci dicono- dal 1950 ai giorni nostri, e se si allarmano e protestano, e se, protestando mettono in moto i sindacati, subito si parla, nell’ordine: di sindacati conservatori, di rigurgiti massimalisti, di politica di estrema sinistra o di sinistra antagonista. Eppure la difesa del lavoro non è mai stata di estrema sinistra o di sinistra antagonista, ma soltanto di sinistra. È sempre stata ben dentro le strutture democratiche nelle quali chi lavora vuole continuare ad avere diritto di rappresentanza e di parola. Questa sinistra infatti sa benissimo che accanto alle teorie totalmente liberista del Nobel Milton Friedman - che ispira economisti di destra come Martino e Tremonti,e anche un po’ di riformatori- ci sono le voci del Nobel Joseph Stieglitz, del docente di Princeton Paul Krugman e, in Italia, dell’amato e rimpianto Sylos Labini, che - in difesa del lavoro - hanno avuto a hanno ancora molto da dire.

Hanno da dire - soprattutto - che sul lavoro, e non sulla finanza, si fonda la democrazia e quella speciale forza della democrazia che viene dalla partecipazione e dal consenso.

* * *

C’è poi una seconda leggenda che circola negli infaticabili convegni economici sempre dedicati alla “festa finita” per le donne e gli uomini del lavoro quotidiano e del reddito fisso che credevano di meritare un po’ di pace, ma che alla “festa”(che adesso è finta) non sono mai stati invitati. Citerò la leggenda con le parole di Michele Salvati (Il Corriere della Sera, 30 giugno): «È l’alternativa statalista e socialdemocratica vicina alle posizioni del sindacato e delle grandi burocrazie, condivisa da coloro che ritengono che i problemi sociali si risolvono buttando soldi addosso. Insomma il “tassa e spendi” della nota caricatura della sinistra». Tutto ciò, secondo Salvati «sta nella pancia di buona parte del popolo di sinistra». Se intende dire che il popolo di sinistra è il popolo della gente che lavora e che dunque questa gente è un po’ ansiosa sulla continuazione del posto di lavoro e sulla pensione (che forse non non sarà tanto presto e non sarà tanto grande)ed è un po’ pessimista, e non partecipa alle effervescenze del “Billionare”, ha ragione. Ma potrebbe Salvati fare un esempio di governo “tassa e spendi” fra le democrazie industriali di oggi nel mondo? Potrebbe dirci se e quando, dai tempi del “New Deal” roosveltiano che ha posto fine alla grande depressione americana, causata da un mercato che non voleva regole, esistono (e dove) «coloro che ritengono che i problemi sociali si risolvono «buttando i soldi addosso»? Ha mai visto, in Italia, l’ospedale San Giacomo (Roma) o, in Usa, l’ospedale militare Walter Reid (Washington) dove i topi convivono con i feriti e i mutilati dell’Iraq? Perché parlare di un mondo che non esiste e intanto screditare ansie e fatti e realtà e paure del mondo del lavoro quotidiano che richiedono - se mai - grandi ripensamenti delle strutture organizzative, come ai tempi di Adriano Olivetti, piuttosto che gogna e sarcasmo per il “fannullone” (a proposito, si può essere fannulloni di propria iniziativa, dentro strutture bene organizzate, efficienti, ben dirette, che funzionano?) e ironia sul prendi e fuggi della pensione? Manca il quadro largo intorno al “fannullone”, subito diventato celebre, di Ichino. Ovvero la domanda “a monte” sulla organizzazione del lavoro e la sua efficienza in cui chi lavora è partner e non clown per la ricreazione dei riformisti doc.

Manca la realtà nel paesaggio di Michele Salvati. Nessuno tira i soldi addosso a nessuno, perché i soldi sono nei tesoretti di Corona e Fiorani e Lele Mora, veri monumenti al valor civile del nostro tempo. I costi del lavoro li stabiliscono loro. La pensione, magari un po’ eccessiva, l’hanno già accumulata. E il resto è vita, ben documentata da giornali e telegiornali.

I figli di quei poveri diavoli che adesso sono col cuore in gola in attesa di sapere se devono vergognarsi di andare in pensione prima dei sessantacinque anni (sempre che non siano stati già prepensionati a cinquanta anni dalle loro pregiate ditte in successive operazioni di “snellimento” che hanno risanato centinaia di aziende e zavorrato pesantemente l’INPS) adesso, quanto a modello per il futuro, sanno dove guardare. Certamente non vorranno cadere nella trappola del lavoro, della paga, della pensione. Se non ci occupiamo del destino di chi lavora che, alla fine, se tutto va bene va in pensione con un minimo di rispetto e di dignità, Fabrizio Corona sarà il nuovo modello per la prossima Italia.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 08.07.07
Modificato il: 08.07.07 alle ore 6.25   
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Titolo: L'altolà di Epifani «Pensioni, partiti fuori dalla trattativa»
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2007, 09:40:02 am
L'altolà di Epifani «Pensioni, partiti fuori dalla trattativa»

Troppe interferenze.

La trattativa sulllo scalone è «una maionese impazzita» 

 
ROMA — «Una maionese impazzita ». Altro non è, per Guglielmo Epifani, la trattativa sullo scalone Maroni. Così, quando si chiede al segretario della Cgil che si aspetta, allarga le braccia: «Lavoriamo per fare un buon accordo. E poi valutare. Se il governo ha una prospettiva, ripartire con un disegno. Un nuovo patto intergenerazionale, affrontando anche il problema degli anziani. Ma questo non è nelle mani del sindacato».

Fare l'accordo: sembra facile...
«Una cosa da dire alle forze politiche è che in questo Paese si sta smarrendo il confine fra responsabilità dei partiti e del sindacato. Questa vicenda è una maionese in cui non si capisce più chi fa che cosa. Se non si riconosce uno spazio di autonomia al confronto fra governo e sindacato ma ognuno interferisce in questa vicenda, diventando soggetto negoziale, allora è finita».

Con chi ce l'ha?
«Sono tutti i partiti a esprimere su questo o quell'altro aspetto un punto di vista. C'è chi ( Francesco Rutelli, ndr)
propone l'innalzamento dell'età delle donne, c'è chi ( Massimo D'Alema, ndr) sostiene che senza risorse è meglio tenersi lo scalone, chi ( Lamberto Dini, ndr) ha già deciso che voterà no all'intesa quale che sia. Tutto legittimo, ma questo rischia di rendere impossibile l'esito di questo negoziato. Causa ed effetto delle divisioni e della debolezza del governo. Per questo va usato il buonsenso ».

Purtroppo non se ne vede molto in giro.
«Con Dini trattammo due mesi in modo assolutamente riservato. Qui escono sui giornali ipotesi che neanche conosciamo. Sono stati annunciati incontri che non sono mai avvenuti, proposte mai avanzate. Bisogna uscirne assolutamente. Fuori c'è un Paese reale che alle volte ti colpisce».

Come ti colpisce?
«Faccio un esempio. Il 90% dei lavoratori avrebbe scelto la destinazione del Tfr, non si sarebbe rifugiato nel silenzio assenso. C'è stato un voto responsabile, in un senso o nell'altro, ed è un fatto importante».

Non la imbarazza l'accusa di corporativismo?
«Trovo una parte di queste critiche mossa da qualche interesse».

Lei si è fatta un'idea?
«In questo caso abbiamo fatto tutto lo sforzo per non concentrare l'attenzione sul tema del superamento dello scalone, che nella nostra piattaforma è al decimo posto. Prima vengono tante altre cose. L'aumento delle pensioni basse. La questione dei giovani, dal recupero dei contributi al riscatto della laurea. Per noi è sempre stato più importante, per esempio, difendere i 60 anni dell'età di vecchiaia delle donne».

Ma che accadrà quando l'aspettativa di vita sarà più lunga?
«Con il contributivo a regime tutto questo finirà. Non ci sarà più distinzione tra uomo e donna. Come vede, il nostro sforzo era di fare un'operazione tutt'altro che corporativa. Poi è successo che da mesi si dibatte solo sullo scalone».

Allora è falso che il governo Prodi prende ordini dal sindacato.
«Il governo di centrodestra provò a fare un accordo per dividere il sindacato isolando la Cgil. Prova che comunque aveva il sindacato al centro della sua strategia. Con questo governo, invece c'è stata difficoltà di costruire anche la stessa Finanziaria ».

Non era la Finanziaria che anche lei avrebbe fatto?
«All'inizio diedi quel giudizio positivo, ma poi ci siamo trovati con un aggravio fiscale anche sui lavoratori dipendenti e i pensionati. Se questo è dare ordini al governo…. Ne dico un'altra: avevamo accettato di aumentare dello 0,3% il prelievo contributivo in cambio di un sostegno alle pensioni dei lavoratori che stavano peggio e anche qui non si è ancora fatto nulla. Se questo è il sindacato corporativo…».

Non negherà che il pubblico impiego è stato difeso a oltranza.
«Abbiamo dato una totale disponibilità sulla produttività e sulla riorganizzazione. Il memorandum è rimasto fermo non per responsabilità nostra ».

Anche qui la colpa è del governo?
«L'iniziativa deve partire per forza dal governo che in alcuni passaggi non ha tenuto fede agli impegni presi. Si è fatta diventare una cosa importante, lo scalone, l'unica cosa centrale. In un paese che ha un allungamento così importante della vita media non dovrebbe porsi soltanto un problema di costi, ma di come organizzare la società. L'invecchiamento attivo degli anziani è un grande tema sociale e riformatore. Nei loro confronti non si fa nulla».

Che cosa si dovrebbe fare?
«Se si vuole affrontare la permanenza al lavoro non ci può essere solo la strada dell'obbligo. Ci dev'essere quella di creare le condizioni per questa permanenza. Per anni abbiamo parlato di flessibilità in uscita, di part-time, e non è stato fatto niente, niente… Abbiamo chiesto alle aziende di non mandare via i lavoratori negli ultimi cinque anni e non s'è fatto nulla…».

Come si creano queste condizioni?
«Con un progetto, mettendosi intorno a un tavolo, studiando le esperienze degli altri Paesi. Il tema della non autosufficienza è totalmente scomparso dall'agenda. Per i giovani, invece, ci vuole soprattutto formazione. Finora gli investimenti in questo campo non sono stati all'altezza. Infine, le imprese».

Che c'entrano loro?
«Non è che possono stare fuori e pontificare. C'è un problema di qualità della domanda di lavoro. Noi non abbiamo pochi ingegneri perché non si laureano, ma perché le aziende ne utilizzano pochi. Quando in Italia si parla del merito e lo si contrappone al bisogno, andrebbe ricordato che abbiamo precari che guadagnano 500 euro al mese, operai che ne guadagnano 1000 e ingegneri da 1.200 euro ».

Pensa che il sindacato non debba fare proprio nessuna autocritica? Le ricordo che Padoa-Schioppa è stato messo alla berlina perché non voleva più dare premi a pioggia nel suo ministero.
«Noi stessi contestammo quella parte dell'accordo nel quale si riconosceva l'aumento anche a chi era in distacco sindacale».


Sergio Rizzo
09 luglio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Furio Colombo: Il dolore e la brutta politica
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2007, 06:56:35 pm
Il dolore e la brutta politica

Furio Colombo


Una frase ha segnato la presenza di Bill Clinton in politica quando, durante le elezioni primarie del Partito democratico, era l’ultima ruota del carro, il candidato sconosciuto. Si era rivolto a lui, durante un dibattito, un signore di mezza età che gli aveva detto: «Ho cinquant’anni, sono ammalato. Troppo ammalato per restare in casa, ma non abbastanza per il ricovero d’urgenza in ospedale, troppo solo per provvedere a me stesso ma non abbastanza povero da meritare assistenza. Non chiedo niente ma volevo dirglielo».

La risposta di Clinton, mai più dimenticata dagli americani, era stata: «I feel your pain». Ovvero «il suo dolore lo sento come se fosse il mio».

È soltanto una frase di consolazione. Ma a volte la politica è anche consolazione, quando si propone lo scopo di interrompere isolamento e solitudine.

Saranno cambiati i tempi, oppure la situazione è sempre stata diversa in Italia. Il fatto è che in questi giorni puoi ascoltare la voce di parlamentari cattolici (cattolici osservanti, cattolici in latino, cattolici del centro sinistra) che entrano nell’Aula del dibattito e annunciano a voce deliberatamente alta: «Il testamento biologico porta sfiga».

L’affermazione è crudele, se vogliamo dirla tutta è il contrario della buona politica, che è fatta anche di solidarietà e connessione («nessuno è solo») e dovrebbe tendere a creare legami, non spinte brutali per scansare l’ostacolo.

Ormai, dopo tante discussioni «cattive» (nel senso di gelide, indifferenti, ostili, di irrisione verso coloro che lo sostengono) tutti sanno che cos’è il testamento biologico.

È il diritto consacrato dall’Articolo 32 della Costituzione Italiana, secondo comma, che dice «Nessuno può essere obbligato a subire un trattamento medico che non desidera». È il diritto per il quale, in Italia, si sono battuti per primi i Radicali di Marco Pannella e Marco Cappato e l’Associazione Luca Coscioni.

Quel diritto si è evoluto secondo il modello di quanto accaduto prima negli Stati Uniti e poi, a uno a uno, in tutti i Paesi dell’Unione europea (e anche in molti altri Paesi) che consente di annunciare, in anticipo, con documento scritto e affidato a persona di famiglia o di fiducia, la propria decisione di non voler essere tenuto artificialmente in vita oltre la soglia della vita cerebrale.

È accaduto in tutto il mondo civile. Ma non (non ancora) in Italia, dove l’opposizione di alcuni credenti (non importa se di destra o di sinistra) fa barriera e quando occorre - come abbiamo visto - oppone sarcasmo.

Per questo Andrea Boraschi e Luigi Manconi hanno scritto un libro che è un manuale del momento che stiamo attraversando in Italia. È un brutto momento, in cui il corpo di Piergiorgio Welby, già martoriato dalla malattia, viene lasciato, dopo morto, fuori dalla chiesa, con un atto di crudeltà inedita. È il momento in cui il medico Riccio, che, seguendo scrupolosamente il dettato della Costituzione e del suo dovere professionale e morale, ha posto fine al dolore inaudito di Welby morente e per questo ora viene rinviato a giudizio.

Il libro di Boraschi e Manconi ha il titolo drammatico Il dolore e la politica (editore “A buon diritto”) e ha raccolto quattro testi essenziali di Enzo Campelli, Ignazio Marino, Stefano Rodotà, Enza Lucia Vaccaro.

C’è in questa serie di scritti un senso di emergenza, quasi un muovere concitato all’interno di un territorio di libertà e di diritti civili che si restringe, e in cui alcuni politici ci dimostrano di voler ignorare, anzi di respingere, principi fondamentali non solo della nostra Costituzione ma anche di ogni ordinamento giuridico delle democrazie contemporanee.

Infatti il testamento biologico ha avversari molto potenti: il Vaticano attraverso l’esercizio del potere politico e dell’ossequio mediatico; e la Chiesa cattolica con il pesante strumento della dottrina.

Ma sono avversari tanto potenti (ed efficaci e abili e ricchi di risorse e di strumenti per la persuasione comune) quanto elusivi. Infatti, perché dicono no al testamento biologico che non è eutanasia, non viola e non intacca alcun principio morale o religioso, rappresenta un diritto che, infatti, nessuno contesta se il cittadino è cosciente, e può personalmente comunicare la propria decisione di rifiutare le cure?

Ciò che caratterizza il testamento biologico (come per il resto ogni altro testamento) è l’anticipazione. Si tratta, di decidere prima (in questo caso: rifiutando di essere tenuti in vita), per una circostanza o un tempo in cui il cittadino potrebbe non essere più in condizione di decidere.

Che cosa c’è di immorale o di offensivo per la religione cattolica in questa comunicazione preliminare di volontà?

Se si segue il percorso della esperienza medica, ma anche del cauto, scrupoloso, attentissimo lavoro legislativo, è importante leggere, in questo libro, il testo di Ignazio Marino. Sanno tutti che Marino è un medico di fama internazionale ed è il presidente della Commissione Sanità del Senato.

Da ciò che scrive apprendiamo con quanta competenza e con quanto senso di rispetto e di responsabilità il senatore Marino propone, affronta e avvia a soluzione giuridica di alto livello civile e morale, la questione del diritto legittimo di decidere in anticipo sulle proprie cure.

Ciò che la maggior parte dei cittadini non sa è lo stato d’assedio in cui lavora il medico presidente della Commissione Sanità del Senato italiano e autore della legge, un assedio che tiene inchiodata la commissione ad una impossibilità di decidere. Lo stato d’assedio è guidato da senatori che sono vere e proprie guardie vaticane. Non dichiarano aperti motivi per obbedire alla gerarchia religiosa, ma frappongono ostacoli di ogni genere, ora di procedura, ora di sostanza, ora di puro espediente (come l’introduzione di una norma che consente “obiezione di coscienza” ai medici, cioè il potere arbitrario di negare il diritto già espresso dal paziente a decidere sulle sue cure) pur di fermare una legge di ovvia moralità e di evidente accettabilità giuridica. Gli “obbedienti” - detti “neocon” dal linguaggio americano che definisce i fondamentalisti cristiani - non potrebbero condurre l’assedio da soli. Si avvalgono perciò di un tessuto di alleanze con senatori “laici” che partecipano all’assedio in base alla parola d’ordine “dobbiamo fare le leggi insieme”. In questo caso “fare” vuol dire tragicamente “non fare” .

È come abbandonare un’altra volta il corpo di Piergiorgio Welby fuori dalla Chiesa, che per lui è sbarrata. È come esporre tanti altri medici che non faranno “obiezione di coscienza” al rischio di essere rinviati a giudizio come il medico Riccio che - nella piena responsabilità della sua professione e missione medica - ha posto fine alla sofferenza inaudita di Welby.

Legalmente? Nei limiti e secondo le norme della Costituzione? Questo è il tema del contributo giuridico di Stefano Rodotà, forse il più bello e il più limpido tra i tanti interventi che abbiamo letto sull’argomento. Rodotà dimostra che, con il comportamento del medico Riccio e con la proposta di legge sul testamento biologico di Ignazio Marino, siamo con certezza e senza equivoci dentro il territorio della legalità e sotto la protezione delle garanzie costituzionali. Ma Rodotà si spinge più avanti. Disegna un mondo civile e legale e benevolo nel quale nessuna prescrizione autocratica può negare, cancellare o impedire il diritto dei cittadini.

Per questo il libro Il dolore e la politica è un manifesto di civiltà in un momento non luminoso della vita democratica italiana.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 12.07.07
Modificato il: 12.07.07 alle ore 8.47   
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Titolo: Furio COLOMBO - La scommessa
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2007, 12:17:27 am
Per il Partito Democratico
Furio Colombo


Chi avesse assistito nella mattina di venerdì 13 luglio al dibattito al Senato sul riordino dell’ordinamento giudiziario avrebbe notato subito un grave errore nel “manifesto per il Partito democratico” firmato da Rutelli, Chiamparino, Cacciari, Follini. Quel manifesto, pubblicato lo stesso giorno da Europa col titolo “Il coraggio delle riforme” dice: «È finita la lunga stagione in cui la coesione del centrosinistra è stata garantita dall’antagonismo verso Berlusconi».

Ecco la prova dell’errore.

Il senatore Gerardo D’Ambrosio si era appena alzato a parlare sulla legge che deve cancellare la nefanda “riforma Castelli” quando la senatrice Anna Cinzia Bonfrisco è scesa nell’emiciclo per urlare all’ex procuratore della Repubblica di Mani Pulite: «Delinquente, assassino, zitto assassino, questo è il tuo giorno!». Anna Cinzia Bonfrisco, pur essendo immensamente volgare nonostante capelli e trucco già pronti per una festa e un abito argento da pubblicità dei cioccolatini, non è matta. E infatti il senatore Schifani ha ingiunto a D’Ambrosio di chiedere lui scusa alla senatrice insultante. E Buttiglione le ha baciato la mano. Tutti hanno ricevuto gli ordini e il messaggio. La sera prima Berlusconi era in televisione, due “dirette” di Rai e di Sky (oltre al Tg 2). Dirette che non toccheranno mai a George W. Bush quando avrà lasciato la Casa Bianca e non toccheranno mai a Chirac, a Shroeder, persino al carismatico Tony Blair. Insomma, mai a nessuno, in Paesi di normale democrazia.

In Italia Berlusconi è tutt’ora in grado di stare, come vuole e quando vuole, al centro della scena. È in grado di prendersi la “diretta” e di incitare il Paese alla rivolta. Berlusconi in una piazza di Napoli ha mentito per due ore. Ha detto persino (citazione) «Ho fatto più di trenta riforme, 106 opere pubbliche e 12 codici». Proprio così. Ha detto «12 codici». E ha chiamato l’Italia alla rivolta. I suoi senatori ci stanno.

Invano i capigruppo Zanda dell’Unione e Russo Spena di Rifondazione difendono D’Ambrosio e invocano il ritorno alla ragione. La manifestazione indecente si porta via una buona ora nella triste storia di questo Senato. Ma il punto è stato fermamente segnato.

Berlusconi è (politicamente) vivo e combatte insieme a loro. Perché ripetere il grande errore di negarlo? A beneficio di chi? Non del Partito democratico.


***


Ma ecco ciò che sto per dire ai lettori di questo giornale, a coloro che mi seguono la domenica e che rispondono con e-mail di obiezioni e sostegno, approvazione e dissenso ai miei interventi: intendo candidarmi alla segreteria del nascente Partito democratico. Questo, vi è chiaro, non è l’annuncio del giornale l’Unità, che resta libero e aperto a tutte le candidature (speriamo molte). È l’annuncio di un candidato.

Immagino una prima legittima obiezione: ma non avevamo detto di fare spazio ai giovani? È una obiezione giusta è non c’è alcuna risposta logica se non questa: ognuno fa (deve fare) quello che può, quando può. Se lo fa bene, in una situazione che interessa tutti (o tanti) come questa, lo fa per passare il risultato agli altri. Che vuol dire: prima di tutto, per cambiare il gioco. O almeno per arricchirlo, se ci riesce, naturalmente.

La seconda obiezione è mia, nella forma di una incertezza. Si può partecipare alle elezioni primarie per la segreteria del Partito democratico, con una serie di regole che sembrano scritte per gli apparati dei partiti (i due “grandi”, Ds e Margherita), i soli ad essere presenti e a poter agire in fretta su tutto il territorio del Paese?

Vorrei ricordare che le elezioni primarie americane si svolgono nell’arco di molti mesi, Stato per Stato, luogo per luogo, quasi mai con coincidenza e sovrapposizione di date, e che ogni singolo episodio (vincere o perdere nel Vermont o in quale graduatoria ci si piazza nelle primarie del Maine) si riflette sia nel luogo sia nella opinione pubblica nazionale (nel 1980 Bush padre prevaleva su Reagan in alcune singole primarie, ma Reagan guadagnava sempre più favore nei sondaggi, anticipando i risultati delle votazioni successive).

Non dubito che gli addetti al disegno definitivo di percorsi e di regole - proprio perché scelti e nominati e insediati in base, devo pensare, a esperienza e buon senso - si porranno il problema più importante per questa nuova entità politica: come si nasce nel nuovo partito (dalla partecipazione alla candidatura) se non si è figlio di uno dei due partiti?

Intendo infatti rappresentare coloro che figli dei partiti non sono, non hanno alcun passato partitico da ricordare o da dimenticare. Intendo portare al centro dell’attenzione dei nuovi democratici lo squilibrio sociale nel quale vive il nostro Paese e la cui descrizione e interpretazione abbiamo affidato - chissà perché - soltanto agli uffici studi di banche e imprese, mostrando invece una sorta di istintivo fastidio, quasi una reazione allergica, se, quando parlano i sindacati.


***


Userò ancora per un momento il “manifesto” Rutelli-Chiamparino- Cacciari-Follini per indicare la diversità (e anche, se volete, l’estraneità) della mia candidatura rispetto a ciò che fino ad ora è stato detto e anche celebrato.

Dicono i nostri, fra l’altro, che «modernizzare l’Italia non è solo indispensabile ma può essere popolare». Affermo che la vera innovazione e modernità del Partito Democratico non è una gettata di cemento in più o in meno ma riconquistare, attraverso comunicazione chiara e immediata, attraverso il contatto continuo e l’ascolto, la partecipazione dei cittadini, che sono, o si sentono adesso, troppo lontani dai punti di decisione e troppo estranei ai modi in cui si decide. Vicenza è un capolavoro negativo, da non ripetere. Nessuno, mai, (tranne la finta rappresentanza istituzionale di un sindaco inadeguato) ha interpellato o ascoltato i cittadini di quella città sulla base Usa da costruire. Il mio modello sono i town meeting (assemblea di città o di villaggio) di Bill Clinton. S’intende che la decisione finale era responsabilità del presidente. Ma prima il presidente girava mezza America per spiegarsi e ascoltare, due atti essenziali di un governo moderno.

«Coesione sociale è il futuro», affermano i “coraggiosi” di Rutelli. Ma coesione sociale è un punto di arrivo, non di partenza. Sul terreno troviamo un’Italia spaccata e divaricata in cui gli operai vengono ammoniti a non pretendere troppo sulle pensioni, ma è “moderno” stare bene attenti alle “giuste richieste” delle imprese.

Aggiungono i “coraggiosi” che bisogna dare «potere alla creatività dei giovani, un ascensore sociale che torni a far salire talenti, merito, lavoro».

Traducendo dallo stretto politichese, io dirò (direi, se risulterà possibile candidarsi) che ci si deve impegnare nel sostegno - e rifinanziamento - della scuola pubblica e dei suoi insegnanti; che occorre motivare le banche a sostenere con prestiti sulla parola i giovani universitari che non hanno la protezione di una famiglia agiata, ma meritano il prestito (come negli Usa e in Inghilterra) in base ai voti; che il merito non conta niente nel mondo del precariato e della raccomandazione. E che dunque tutto ricomincia dalla squalifica del familismo professionale (i genitori fortunati a cui subentrano figli o nipoti fortunati) e dal ritorno di concorsi bene organizzati e tecnicamente irreprensibili.

Nel manifesto dei “coraggiosi” trovo una frase inspiegabile in un testo politico. È la seguente: «È urgente uscire dall’inverno demografico». Sono stupito e dirò perché. Il problema di governare è creare accesso alle scuole, anche quelle specialistiche, anche quelle costose; al lavoro, attraverso un disegno dei percorsi che non abbandoni i giovani alla solitudine (più soli, più poveri); alla casa, attraverso progetti e programmi che, da decenni, non esistono più. Tutto ciò è urgente, ed è responsabilità pubblica. I figli sono una splendida scelta privata su cui i politici, in un contesto politico, non hanno niente da dire.


***


Trovo strana, infine, e un po’ minacciosa, la frase finale (dunque, in senso retorico, la più importante) del manifesto Rutelli-Chiamparino-Cacciari-Follini che alcuni considerano fondativi del nuovo Partito Democratico. Trascrivo: «La maggioranza che ha vinto deve governare i cambiamenti. Sappiamo che potrà essere confermata solo se soddisferà le attese degli elettori. Altrimenti il Partito Democratico dovrà proporre una alleanza di centro sinistra di nuovo conio. Per non riconsegnare l’Italia alle destre. Ma soprattutto per non essere imprigionato dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra, né della paralisi delle decisioni».

Il problema grave posto da questa frase è che prefigura uno spostamento di scena in cui esce dalla inquadratura una parte della sinistra, arbitrariamente definita da un presunto vertice illuminato. Ed entra in scena una parte della destra, indicata con la elegante espressione «un centrosinistra di nuovo conio».

Sostengono gli illuminati che «Veltroni a queste ragioni si ispira». Non mi risulta. In ogni caso propongo di battermi per un Partito Democratico meno gassoso e più fondato sulle cose, non tante. Ma chiare e sempre spiegate.


***


Proverò a riassumere.

Il Partito Democratico a cui penso è perfettamente cosciente del perdurare della minaccia Berlusconi, che continua a essere visto, anche fuori dall’Italia, come l’incognita allo stesso tempo ridicola (vedi le sue domande parafasciste e un po’ insultanti per la folla di Napoli) e pericolosa per la nostra vita pubblica. Lo sbarramento a Berlusconi si realizza con la presentazione (già avvenuta) e il sostegno (di cui siamo in attesa) di una legge che ponga invalicabili ostacoli al conflitto di interessi.

Il Partito Democratico a cui penso si fonda sulla più rigorosa legalità, vuole sapere tutto dello spionaggio militare a cui sono stati sottoposti magistrati e giornalisti nei cinque anni del governo Berlusconi, e sull’intreccio di quello spionaggio con le intercettazioni private da parte di una grande impresa esente da conseguenze e sugli effetti mediatici di tutta l’operazione.

Quanto è stata deviata, inquinata, cambiata, avvelenata da quella vasta operazione illegale l’informazione su tutto ciò che sappiamo delle vicende italiane?

Il Partito Democratico in cui intendo impegnarmi propone come temi fondamentali i diritti civili, il lavoro, la scuola, la salute, la ricerca, l’ambiente, la casa. Tutto ciò nel quadro - rigorosamente confermato - della Costituzione italiana. Si tratta di settori e aspetti della vita a cui il mercato (grande e superiore eroe della modernità) non provvede o che preferisce ignorare quando il costo non ha immediata contropartita. Le grandi democrazie ci dicono che la contropartita è costituita dai due valori della fiducia e della partecipazione dei cittadini.

Il Partito Democratico di cui parlo capisce e si fa capire, in uno sforzo di comunicazione che non tollera zone d’ombra, segreti e cose non dette. Non vuole la solitudine disorientata dei cittadini con cui nessuno parla, spiega, ascolta prima di decidere.

Il Partito Democratico di cui stiamo parlando non sarà il congiungersi di due burocrazie di partito ma l’afflusso libero di cittadini decisi a essere protagonisti della vita pubblica e non spettatori passivi.

L’impegno è un paesaggio finalmente normale in cui la sinistra è a sinistra e la destra a destra, contando non sulla contaminazione o l’incrocio dei poli ma sulla chiarezza e sul riconoscimento reciproco, una volta espulsa l’illegalità e il conflitto di interessi dalla scena pulita della vita pubblica italiana.

Sinistra è lo spirito della tradizione solidaristica europea, dello schierarsi socialista e cristiano con i più deboli, della tolleranza “liberal” e multiculturale di impronta americana, tutti valori che sono il più vicino possibile alla pace, alla giustizia, alla eguaglianza almeno come punto di partenza. L’impegno è di restituire al cittadino laico lo stesso riguardo, rispetto e attenzione che viene dedicato al credente e alle gerarchie religiose del credente.

Per tutte queste ragioni chiederò, se sarà possibile - ai cittadini che si orientano a sostenere e dare vita e anima al Partito Democratico - di considerare la mia candidatura indipendente e laica che propongo nello stesso spirito con cui alcuni si candidano, in questo periodo, alle elezioni primarie americane. Lo spirito è dare un contributo di proposte e di esperienza, che altrimenti non ci sarebbe. Lo spirito è far sapere ai cittadini che voteranno in queste elezioni primarie che si apprestano a scegliere tra veri candidati e vere proposte alternative.

La vostra risposta di lettori sarà il primo modo di rendere possibile questa candidatura. Essa è soggetta, come già detto, a un chiarimento e a una condizione. Il chiarimento è che l’Unità, con questo articolo, ospita la mia intenzione. È un annuncio, non un “endorsement” (cioè quando i grandi quotidiani americani, sotto elezioni, dichiarano le loro scelte politiche ai lettori).

La condizione è che le regole consentano davvero la partecipazione di candidati senza apparato di partito e scorta di carica.


furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 15.07.07
Modificato il: 15.07.07 alle ore 14.40   
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Titolo: Re: Furio Colombo: Rutelli, Chiamparino, Cacciari, Follini ecco la prova dell'errore
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2007, 10:45:56 pm
Colombo: «Chiedo i voti degli antiberlusconiani»
Andrea Carugati


«Ma come? Sono i giorni dell’anniversario del “pestaggio cileno” di Genova, come scrivemmo su l’Unità, e il centrosinistra pensa di andare a cercare Berlusconi per fare delle cose insieme?».

La lettura dei giornali di ieri, con le parole di Nicola Latorre al Giornale (in cui il senatore Ds auspica un dialogo con Berlusconi sulle riforme costituzionali), ha ulteriormente convinto Furio Colombo della scelta di candidarsi alla guida del Pd. Soprattutto per dare voce, spiega Colombo, «a tutti quelli che pensavano di non andare a votare alle primarie e che mi stanno scrivendo che la mia decisione gli ha fatto cambiare idea. Da domenica ho ricevuto decine di lettere». A scrivere è quel popolo di lettori de l’Unità, molti del Nord, deluso dal fatto che non si sia ancora fatta una legge sul conflitto di interessi. Timoroso di una deriva centrista del Pd e del centrosinistra. Colombo sfoglia le sue mail e sorride: «Non è certo il momento di andare a cercare Berlusconi, mentre lui chiama le piazze alla ribellione contro il governo legittimo e fa insultare in Senato Rita Levi Montalcini e D’Ambrosio». «La mia candidatura significa questo: gran parte degli elettori ha capito benissimo che non si può abbassare la guardia sul pericolo Berlusconi e sul conflitto di interessi. Lo dicono i risultati delle amministrative: anche a Genova meno persone sono andate a votare per la sinistra, nonostante una buona candidata. Si sono astenuti perché non hanno più sentito l’impegno sulle cose incredibili che hanno marchiato l’Italia durante i 5 anni di Berlusconi». Ma al Nord non si era perso per le tasse? «Sono cose scritte dal Giornale che tutti abbiamo adottato come “La Verità”. Noi abbiamo questa specializzazione: prendere le ragioni della destra e dire che “non sono niente male, possiamo dirle anche noi”. È successo anche con la presunta incompatibilità tra sinistra cosiddetta “riformista” e “radicale”: lo dice Tremonti in tv e noi ci siamo persuasi che sia vero. Ma sulla giustizia sono stati tre moderati di centro a far quasi cadere il governo Prodi».

Colombo, dunque, scalda i motori. Nonostante le difficoltà per lanciare una candidatura entro il 30 luglio: servono almeno 2mila firme di sostegno, in almeno 5 regioni. «Queste regole bizzarre sono state scritte avendo in mente esclusivamente importanti leader dei due partiti. Forse pensavano, in buona fede, che nessun outsider si sarebbe candidato: mi dispiace». «Negli Usa- spiega Colombo- le primarie non si fanno lo stesso giorno in tutti gli stati: si dà il tempo ai vari candidati di avanzare con le loro idee di piccolo luogo in piccolo luogo. Clinton era sconosciuto: se avesse dovuto affrontare tutte le primarie lo stesso giorno non sarebbe mai diventato presidente». «Per fortuna- dice Colombo- la risposta spontanea che ho avuto fino ad ora mi fa sperare che troverò aiuto anche in realtà dove non avrei i mezzi per organizzarmi». In molte mail, infatti, agli incoraggiamenti seguono numeri di cellulare e promesse di collaborazione: «Qui a Correggio siamo pronti a rimboccarci le maniche», scrive Rossana.

Dai big della politica non sono arrivate telefonate. Neppure da Nanni Moretti. «Ma anche Clinton ha conquistato consensi mano a mano...». Con Prodi ne ha parlato? «No, perché sarebbe sembrato che cercassi una sponsorizzazione. Ma sono sicuro che ne pensa bene». E il ticket con Rosy Bindi proposto da Travaglio? «È una delle persone con cui mi sarebbe più facile fare un ticket. Il lavoro sui Dico è molto civile e non apprezzo che sia stato abbandonato». E Veltroni? «Trovo molto onorevole essere in competizione con lui. C’è un antico rapporto di amicizia: confido che prevarrà sugli eventi contemporanei. Non mi candido contro di lui, ma per completare il discorso: ad esempio per dire a Rutelli che non sono d’accordo a cancellare dall’inquadratura una parte della sinistra per mostrare una parte della destra».

Pubblicato il: 17.07.07
Modificato il: 17.07.07 alle ore 8.43   
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Titolo: Furio Colombo: Il direttore coraggioso
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2007, 10:15:14 pm
Il direttore coraggioso
Furio Colombo


«Si affolla la gara per le primarie». Così inizia il suo articolo Stefano Menichini, direttore di Europa, organo dei “coraggiosi” che suggeriscono di smontare il palco dell’attuale centrosinistra per rimontarlo un po’ più vicino a Berlusconi.

Curiosa apertura di un articolo dedicato da un quotidiano politico non a una “gara” ma alle elezioni primarie per la carica di segretario del nascente Partito democratico. Ancora più curiosa l’immagine che il direttore evoca per i suoi lettori. Si “affolla” una “gara” che sabato 14 luglio era di uno (Walter Veltroni), il 15 luglio era di due (Walter Veltroni e io) e lunedì 16 era di tre (quando si è aggiunta felicemente Rosy Bindi).

Dopo un’apertura così poco giornalistica (a lui tre persone che vorrebbero confrontare idee e progetti per un nuovo grande partito sembrano una folla), segue un elaborato in cui Menichini perde il filo forse perché cautamente assente dagli anni di Berlusconi in cui Padellaro e io, solo per l’ostinazione di dirigere un giornale antiberlusconiano, venivamo definiti terroristi, omicidi (”testata omicida” era la definizione che ci spettava, mentre Menichini era probabilmente a Lugano) querelati quasi una volta al giorno (mai sui fatti), citati a giudizio in cause civili milionarie dalla batteria di avvocati di casa Berlusconi-Previti- Dell’Utri.

Se il direttore di Europa, invece che in un dorato esilio (così si deve immaginare a causa della sua memoria totalmente sgombra da persone e fatti realmente accaduti dal 2001 al 2006) si fosse trovato a vivere in Italia avrebbe notato che questo giornale - si è accorto delle violenze cilene accadute al G8 di Genova (un ragazzo ucciso e centinaia di feriti nel modo più brutale) come debutto democratico del duo Fini-Berlusconi, molto prima delle rivelazioni giudiziarie e delle drammatiche confessioni di parti in causa;

- si è schierato con il Palavobis prima di sapere che invece di 400 o 4.000 partecipanti ci sarebbero stati 40.000 protagonisti di libertà (quella sì era una folla);

- ha lavorato a sostenere tutti gli eventi liberi e tutti i girotondi fino all’autoconvocazione, senza cestini pranzo e autobus pagati, di un milione di cittadini in Piazza San Giovanni;

- si è occupato giorno per giorno di ogni legge vergogna e di ogni Tv vergogna (direttori di grandi quotidiani che sedevano due ore in silenzio attorno al facondo monologante Berlusconi, sostenuto dal sorriso di Bruno Vespa, senza interromperlo mai);

- si è meritato sia ripetute minacce di morte (il giornale ha dato notizia solo di quelle pubbliche, le altre le ha girate alla Digos) sia lo spionaggio personale e quotidiano per cinque anni, pedinamenti inclusi, di quella parte o gruppo dirigente del Sismi che è adesso al centro di una vasta inchiesta giudiziaria.

Menichini mi accusa di «presunzione di superiorità morale». Diciamo che, con Padellaro e tutti i miei colleghi de l’Unità, abbiamo lavorato per la fine della clamorosa e vergognosa illegalità che dominava sotto Berlusconi. E Menichini no. Nessuno si sarebbe sognato di rimproverargli la sua prudente assenza dalla scena. Dopotutto Berlusconi, senza il Palavobis, senza Piazza San Giovanni, senza centinaia di girotondi, senza la mobilitazione di tanti cittadini altrimenti estranei ai partiti e alla politica, e senza l’Unità (il solo giornale politico europeo con 70mila copie vendute) avrebbe potuto durare dieci anni e anche più, continuare il massacro delle nostre libertà, il controllo totale delle televisioni e la immagine ridicola e penosa dell’Italia, nata il giorno del non dimenticato scontro con l’eurodeputato Schultz, che Berlusconi ha chiamato kapò.

Ma adesso è Menichini che un po’ bizzarramente fa l’elenco di ciò che noi, secondo lui, non avremmo fatto. Ci vuole coraggio, ma dopotutto Menichini fa parte dei “coraggiosi”. Sentite. Avremmo dovuto (noi, l’Unità e il suo direttore) in piena epoca berlusconiana tener testa a Prodi, sfidarlo a quelle primarie; avremmo dovuto andarci piano con Berlusconi. Dopotutto è stato scelto da metà del Paese. Pensate alla fortuna dei cittadini americani che nessuno ha ammonito ad andarci piano con Bush, neppure quando aveva il 70 per cento di gradimento. E infatti adesso il suo gradimento è al 34 per cento. Si chiama democrazia.

Io, personalmente, dovrei essere molto prudente nelle primarie, mi ammonisce Menichini. Vedessi mai che le vinco. «Berlusconi - dice lui con una gentile affermazione di stima nei miei confronti - lo affosserebbe in tre giorni». Con il Sismi dei tempi di Berlusconi e tutta la televisione ferreamente sotto controllo, pena il licenziamento immediato, è possibile. Ma se la vita italiana fosse normale, Menichini pensa davvero che l’uomo rifatto di Arcore sia così irresistibile? Se lo immagina Berlusconi eletto a plebiscito in Francia o anche solo in Costarica? Senza Vespa, senza Confalonieri, senza i ragazzi a gettone di Dell’Utri e la folla napoletana che, sono certo, non si lascerà umiliare una seconda volta da quelle domande tipo spot dei telefonini a cui bisogna rispondere in coro “siiii” e “noooo” come non si vede neppure in “Fascisti su Marte”?

Menichini si domanda perplesso come Padellaro, Travaglio, Flores, e io (per dire i peggiori) ce la faremmo mai a battere Berlusconi.

Semplice, Menichini: prima di tutto smettere di venerarlo, smettere di pensare che sia astuto, good looking, affascinante, moderno e invincibile.

Chiamiamo a testimone Veronica Lario. Lei - che lo ha visto da vicino - ha voluto farci sapere che, a differenza di ciò che credono alcuni della Margherita (e anche alcuni Ds) l’uomo rifatto di Arcore viene dal più profondo e umiliante passato italiano.

Bello però il titolo di Menichini: «Con quelli non vinceremo mai». Ce lo avevano già detto, a cominciare dal 2001 e nei giorni della rinascita de l’Unità, molti suoi colleghi, quando lui era a Lugano. Noi testardamente siamo andati avanti. Pazienza, Menichini. Per il momento Berlusconi non governa. Nonostante lo spionaggio, le accuse, le calunnie, le querele milionarie, non ci ha spaventato, non ci ha affascinato e non ha vinto. Per il futuro, perché non augurare buona fortuna a chi non smette di provare, e di dare il suo contributo per un po’ più di dignità e di libertà in Italia, sempre che Europa sia, oltre all’ Unità, l’altro giornale del Partito democratico?

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 18.07.07
Modificato il: 18.07.07 alle ore 7.50   
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Titolo: Furio Colombo Israele e Italia
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2007, 03:24:16 pm
Israele e Italia

Furio Colombo


«Qual è la politica estera italiana?», ha chiesto il 18 luglio l’Ambasciatore di Israele Gideon Meir, rispondendo con una domanda a una domanda del Corriere della Sera.

Ho posto la stessa domanda alla Commissione Esteri del Senato nel pomeriggio del giorno 17. La ragione di questo interrogarsi ansioso e tutt'altro che tranquillizzante, è stata provocata da una dichiarazione del ministro degli Esteri Massimo D'Alema nel corso di una Festa de l’Unità.

D’Alema ha detto: «Hamas è una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese. Hamas è un movimento popolare. Hamas è stato democraticamente eletto. Per l'Occidente non riconoscere un governo democraticamente eletto non è una grande lezione di democrazia».

Come si vede il tema è il Medio Oriente, i rischi della pace, la nuova e pericolosa condizione creata dalla spaccatura violenta avvenuta in modo sanguinoso (200 morti) fra Hamas e Al Fatah, che erano parte di un governo di unità nazionale. E, alla fine, il pericolo è per la sopravvivenza di Israele e la possibilità che ci sia mai, dopo questo drammatico percorso, uno Stato palestinese. E' chiaro a tutti ormai, che senza Israele non ci sarebbe mai stata neppure la rivendicazione di uno Stato palestinese (Giordania ed Egitto si erano già attribuite parti del territorio che avrebbe dovuto diventare Palestina). E senza la permanenza stabile e sicura di Israele e del suo “diritto alla pace” (parole di Prodi nel suo recente viaggio) non ci sarà mai alcuna patria dei palestinesi ma soltanto guerra senza fine.

Per questo ieri “Sinistra per Israele” ha detto in un comunicato: «Stupore per la presa di posizione del ministro degli Esteri e vice Presidente del Consiglio nel governo dell’Ulivo». È lo stesso stupore da me espresso alla Commissione Esteri del Senato e a cui il ministro ha risposto impegnandosi a parlare alle Camere sulla posizione Italiana in Medio Oriente il 24 luglio prossimo. Sarà, speriamo, un contributo di chiarezza lungo un percorso complicato e difficile in cui le cose dette e fatte in Israele dal presidente Prodi non sembrano coincidere con la recente affermazione del ministro degli Esteri. Resta comunque grande sia il rischio di sopravvivenza di Israele sia l'eventualità che, ancora una volta, i palestinesi siano usati dai nemici giurati di Israele come materiale sacrificabile pur di far danno e - se possibile - di “cancellare” quel Paese, secondo il proclama lanciato al mondo, dal presidente dell’Iran Ahmadinejad.

Può essere utile rivedere alcune ragioni.

1. Hamas è una organizzazione che è stata eletta sulla base di un programma di guerra, terrorismo e distruzione di Israele. Siamo sicuri che saremmo altrettanto gentili se il governo di uno Stato europeo fosse democraticamente eletto sulla base dell’impegno di mettere a ferro e fuoco lo Stato vicino? Non è per evitare simili pericoli che sono nate ed esistono ancora le Nazioni Unite?

2. Del programma terroristico e negazionista di Hamas si è detto: sono solo parole, linguaggio di disperati. Si è detto: diamo tempo e spazio e i leader di Hamas si dimostreranno statisti. Con questa speranza il presidente palestinese Abu Mazen aveva dato vita con Hamas ad un governo di unità nazionale. Ma Hamas, con un durissimo e improvviso colpo militare, ha fatto strage degli alleati palestinesi di Al Fatah, uccidendo lì casa per casa, e ha conquistato per sé la striscia di Gaza.

3. Il ministro degli Esteri italiano è stato il primo, un anno fa, a vedere il pericolo Hezbollah e a dare inizio alla costituzione di una efficace forza di pace ONU fra Libano e Israele, dopo la guerra dell’altra estate. La domanda è come sia possibile, un anno dopo, mentre tutti i pericoli intorno a Israele sono intatti, che lo stesso ministro si faccia sostenitore di un riconoscimento di Hamas senza chiedersi se l’evento “elezioni democratiche” che ha stabilito la prevalenza di Hamas, non sia stato sovvertito e cancellato dalla violenta e sanguinosa occupazione della striscia di Gaza e dallo sterminio, in poche ore, di tutti gli avversari politici e di molti innocenti. Possibile che una simile prova di violenza spietata non faccia differenza?

4. Il ministro degli Esteri italiano ha mostrato molte volte di saper lavorare cautamente a questioni complesse e pericolose in cui il lavoro diplomatico è simile alla paziente prudenza di chi cerca di disinnescare pericolose trappole esplosive.

Quale può essere oggi - dopo la visita di Prodi a Gerusalemme e la inequivocabile prova di sostegno dell'Italia alla democrazia israeliana - il senso della dichiarazione di fiducia verso Hamas da parte del ministro D'Alema mentre Hamas continua a confermare il suo impegno di distruzione di Israele, insieme a Hezbollah e al potente sponsor della fine di Israele, il Presidente iraniano? Quale può essere, in un difficile lavoro diplomatico svolto finora con attenzione ed esperienza, una improvvisa dichiarazione di preferenza per la più pericolosa delle parti in gioco? Dobbiamo pensare che il ministro D’Alema vorrà spiegare, chiarire, se necessario correggere, il più presto possibile.


Pubblicato il: 19.07.07
Modificato il: 19.07.07 alle ore 12.59   
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Titolo: Furio Colombo: Lettera aperta al Pd
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 12:05:25 am
Lettera aperta al Pd

Furio Colombo


Caro Partito democratico, ho appena ricevuto questa e-mail. Come devo rispondere?

Caro Furio, ho letto stamattina, su l’Unità, le regole per partecipare alle primarie. Sono fatte per impedire di parteciparvi a chiunque non faccia parte della casta. Peccato. Avrei votato per Lei. Se non me lo lasceranno fare non voterò per nessuno in questo giro. Poi vedremo. Un saluto affettuoso a Lei, e ai lavoratori de l’Unità (Padellaro in testa). Grazie per le cose che ci scrivi.
Saverio B.

La lettera mi è sembrata affettuosa e pessimista. Avevo esaminato il regolamento.
Francamente mi era sembrato strano perché è pieno di dettagli tecnici che sembrano studiati come prove da Harry Potter, poco rapporto con i contenuti della politica e una serie di ostacoli ben congegnati. Ne superi uno e te ne presentano un altro. Poi mi sono accorto che - come con le pensioni - gli stessi numeri si possono aggregare in tanti modi. Poiché, naturalmente, ho pensato alle semplicissime primarie americane (vai, ti iscrivi, ti presenti, parli poi gli elettori giudicano, alcune riflessioni non festose sono inevitabili. Credo di poter dire che non si conosce, nel mondo democratico alcuna organizzazione politica che - prendendo la lodevole iniziativa di indire elezioni primarie - decida di trasformare quelle elezioni in uno sport estremo, una sorta di arduo pentatlon in cui devi vincere gare diverse in luoghi diversi e con diverse modalità, solo per poter cominciare a parlare.

Confesso che devo all’articolo di Andrea Carugati (l’Unità del 20 luglio) la piena comprensione della strana prova che avete creato e che chiede a chi si candida di organizzare, iniziare, portare a termine con successo, una serie di operazioni che fanno parte di uno strano gioco organizzativo ma non hanno niente a che fare le qualità e il lavoro del candidato. Cito dall’articolo di Carugati queste scene da film dell’orrore: «L’aspirante candidato dovrà schierare una squadra minima di 125 candidati: 5 per ognuno dei 25 collegi scelti. Ogni lista di collegio richiede un minimo di 100 firme per essere ammessa alla gara. Dunque la quota minima di firme per le liste è 2500. Tutto ciò non basta per essere votato in tutta Italia ma solo in quei 25 collegi. Negli altri 450 la sua candidatura non esisterà».

Attenzione, cittadini e lettori, alla frase che segue: «Per esistere in tutta Italia l’aspirante candidato dovrà mettere in campo una lista per ogni collegio, e dunque raccogliere quasi 50 mila firme. Chi non fosse in grado di competere con questi numeri resta al palo».

Uno come Mario Adinolfi (il giovane “new entry” messo finalmente in onda su SKY TG 24 la sera del 19 luglio) e uno come me, che “new entry” non è né nella vita né nella politica ma, come Adinolfi, non ha apparato, macchine, segreteria, sostegno logistico e corrispondenti in ogni luogo, potrebbe lamentare che tutto è stato fatto per offrire un passaggio a pochi grandi. Carugati, da giornalista più attento di altri colleghi, infatti precisa: «A Santi Apostoli (sede del Partito democratico ancora senza volto, ndr) ti spiegano che non sono previsti “aiutini” dal quartier generale Pd né per raccogliere firme né per aprire una stanza. Ognuno si deve arrangiare. Si presuppone che i candidati abbiano dietro di sé una struttura».

Eppure la questione dell’apparato è la prova vistosa che chi è senza apparato e potere organizzativo e logistico non solo non vince ma non deve neppure provare, è una fantasiosa stranezza, che richiama i tragici indovinelli nel finale della “Turandot” (”Popolo di Pechino, la legge è questa!”). Ma non è il peggio.
Il peggio, lo avrete notato, è nel non detto e anzi nel deliberatamente non voluto. Per esempio non è previsto un solo confronto fra candidati, non è richiesto un solo dibattito.
Benché, per fortuna, si siano finora candidate persone di qualità, meritevoli di partecipare alla guida di un grande partito, l’augurio non è “vinca il migliore”. L’augurio è: “vinca il più forte”.
Quello che ha un migliore sistema di trasporto, di comunicazioni, di strutture locali a disposizione e può in pochi giorni fondare e gestire la sua presenza a Marsala e a Pavia, ad Aosta e a Sant’Agata di Militello, a Salerno e a Bressanone.

Dunque il Pd si sta manifestando come una vasta rete turistica da percorrere entro breve tempo (30 luglio) con mezzi propri, lasciando a carico dei fortunati dotati di ubiquità solo i messaggi, ma senza chiedere mai di incrociare quei messaggi in dialoghi o dibattiti che dovrebbero essere, invece, le sole vere prove che interessano gli elettori.

La morale è disastrosa perché - nonostante il valore indiscutibile di alcuni - è meticolosamente antidemocratica. Il Pd sta dicendo che se Adinolfi ed io non siamo capaci di percorrere in una settimana la penisola, affittando stanze, formando centri, compilando liste, mobilitando notai e consiglieri comunali (quelli già non occupati full time dai “grandi” con presenza nazionale causa Ministero, Municipio e tv continua), non potremo mai chiedere a Rosy Bindi in che senso è laica e a Veltroni come mai apprezza il manifesto dei prudentissimi “coraggiosi” che osano schierarsi, niente di meno che con il Governatore della Banca d’Italia.

La conclusione di quanto detto è drammatica e necessaria. Siamo sicuri che tutti e quarantacinque i grandi esperti di regole del Pd volevano solo numeri (che sono possibili solo a chi muove una intera burocrazia di cui già dispone) e niente politica?

Siamo sicuri di volere il contrario esatto delle primarie americane e cioè niente dibattiti, niente politica, ma solo i cittadini che disciplinatamente si mettono in fila prima per firmare, poi per votare e basta? Così come è, la situazione appare incredibile ma anche assurda. C’è qualcuno che possa, nel nascente Pd o nel suo ex consiglio dei saggi riesaminare e cambiare queste regole folli (50 mila firme!) per tornare alla democrazia regolare (io parlo, tu giudichi, noi votiamo)?
C’è qualcuno che si rende conto che il pericolo (nel senso della partecipazione democratica) è di non poter partecipare?
Poiché questo non è un lamento ma una allarmata constatazione dei fatti, non vi sembra che una ragionevole via d’uscita potrebbe essere di poter fare l’intera raccolta di firme nelle varie regioni e in tutto il Paese via e-mail? C’è qualcuno che mi darà, ci darà una risposta?

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 21.07.07
Modificato il: 21.07.07 alle ore 9.15   
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Titolo: Furio Colombo. Notizie vere, notizie false
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 10:38:48 pm
Notizie vere, notizie false

Furio Colombo


La notizia di una ipotesi di reato a carico dei due esponenti di vertice dei Ds D’Alema e Fassino, e del senatore Latorre giunge ai giornali e al pubblico con una originale deformazione che non dovrebbe passare sotto silenzio. Si fa credere che solo la scalata bancaria Bnl-Unipol sia al vaglio del giudice di Milano per le indagini preliminari Forleo. E che solo questa scalata sia oggetto di indagine e di annunci di ulteriori atti o inchieste della magistratura.

Molti ricorderanno benissimo - a differenza di alcuni grandi giornali - che, dopo le tentate scalate bancarie ed editoriali della scorsa estate a cui si riferisce la giudice Forleo, sono rimaste sul tavolo di quel giudice, tre diversi eventi, di cui uno riguardante la Rcs e la possibilità di catturare il Corriere della Sera, appare di particolare delicatezza politica. Tanto più che l’ombra di Berlusconi si vede distintamente alle spalle di alcune di quelle scalate, anche se, adesso, stranamente, non se ne parla. Evidentemente occorre essere certi che tutta la spinta negativa dell’opinione pubblica abbia tempo e spazio per investire D’Alema, Fassino e Latorre e che si crei uno spazio mediatico non stop esclusivamente per loro. Tanto più quando le notizie che li riguardano giungono misteriosamente prima ai giornali che alla presidenza delle Camere.

Credo sia molto importante notare che tutto ciò accade mentre sulla copertina di Panorama - proprietà Berlusconi - appare il volto debitamente turbato di Romano Prodi.

Il quale - a quanto pare (ma manca qualunque riscontro) - è stato iscritto sul registro degli indagati di una Procura, atto dovuto di un magistrato a causa dell’uso, per un evento sotto indagine, di un telefono cellulare di Prodi. Questo atto non significa incriminazione, non comporta l’avviso di garanzia (che è pubblico e che non c’è stato) ed è rigorosamente segreto. Il segreto non è mai stato un ostacolo per gli affiliati al clan Berlusconi. Ed ecco, in tutto il suo clamoroso e suggestivo atto di disinformazione, la copertina del maggiore settimanale politico italiano (e di Berlusconi) che in modo pesante comunica: Prodi indagato.

Particolare curioso. Proprio in questo numero di Panorama, proprio sotto questa copertina falsa, il senatore della Margherita Antonio Polito, mi rimprovera di credere ancora nella militanza antiberlusconiana. L’argomento di Polito, tra i più curiosi nella storia della democrazia, è: «Non vedete quanti ancora (e, anzi, di più) sono con Berlusconi?». Ho già risposto, e ripeto, che una simile vacua obiezione (più leggera di una piuma di colombo che Polito mi attribuisce come peso politico) in America non ha fermato i pochi democratici come Barak Obama, che si sono opposti alla guerra in Iraq contro due terzi dell’opinione Usa. Invece di usare lo stravagante argomento: «Non vedete che sono tutti dalla parte di Bush?», hanno insistito nella loro critica appassionata. E adesso sono la stragrande maggioranza.

Insisto sull’ombra letale di Berlusconi perché ha molta importanza in quello che sto per dire. Riguarda il nostro futuro, non solo i leader Ds, non solo la sinistra o l’Unione o la maggioranza. Riguarda l’integrità dell’Italia. Cercherò di spiegarmi, sapendo che non rappresento i Ds, non sono la voce di questo giornale, ma solo un punto di vista.

1 - Chiedo con passione e convinzione di stare in guardia dal rischio di qualunque alleanza anti-giudici cosiddetta “trasversale”. Il partito degli indagati, la casa madre di Dell’Utri e di Previti, ha molto da guadagnare in una simile alleanza. I Ds, la sinistra, l'Ulivo, l’Unione, la maggioranza no. Meno che mai il nascente Partito democratico.

2 - Chiedo, con lo stesso spirito e la stessa convinzione di stare alla larga dall’idea che il segreto sia meglio della diffusione di notizie anche sgradevoli. Il segreto, come dimostra la copertina del numero di Panorama in edicola, è un vantaggio prezioso per casa Berlusconi. Diffondono quando vogliono quello che vogliono e sottraggono quando vogliono ciò che preferiscono oscurare. Il ricatto diventerebbe il loro strumento abituale. Adesso lo usano prevalentemente tra le loro mura. Il segreto su notizie giudiziarie e intercettazioni diventerebbe la loro arma di intimidazione di massa.

Controprova: il conoscere già da tempo i passaggi ritenuti cruciali delle intercettazioni su D’Alema, Fassino, Latorre consente adesso, anche ai non esperti, di distinguere le ipotesi della giudice Forleo dalla natura e portata delle frasi in questione. Proprio a causa della mancanza di segreto manca, nonostante la forzatura di alcuni titoli di giornale, la deflagrazione desiderata. Quello che è accaduto ieri non è una bomba ma solo una notizia.

3 - Il rispetto per il terzo potere su cui si fonda la democrazia, il potere giudiziario (che non è come voleva l’ingegner Castelli una turbolenta corporazione di impiegati statali presuntuosi), è essenziale per l’Italia estranea al malaffare, come l’attacco continuo ai giudici è stata il carattere distintivo più tipico dell’Italia di Berlusconi. Quell’Italia è viva e attivissima, con buona pace di Polito. Affrontare un momento difficile che espone a ogni tipo di denigrazione mantenendo fermamente i riferimenti di accettazione, fiducia e rispetto in base ai quali la maggioranza dei cittadini ha votato il centrosinistra, vuol dire dimostrare che anche in un momento sfavorevole, i valori non cambiano. Vuol dire che ci si guarda bene dal fare causa comune con chi ha ben altri motivi per la lotta ai giudici, ben altre ragioni di circondarsi di segreto e molto di più da guadagnare nel diffondere l’idea che i giudici sono mentecatti.

4 - È proprio perché i fatti sono in chiaro e non sono mai stati oscurati che i cittadini conoscono l’ambito e i limiti della vicenda D’Alema, Fassino, Latorre. Sanno di potersi aspettare, altrettanto in chiaro, risposte civili di persone che non smuovono poteri e non giocano funzioni di governo per loro interessi di qualsiasi genere. Dunque la storia si evolverà come in ogni Paese democratico, rispettando tutte le regole per far valere le legittime ragioni. Non è poco nel Paese in cui Berlusconi ha tentato di sottrarsi a tutti i giudizi. Ma di meno, a chi ci ha votato, non si può dare.

Vorrei ricordare l’esempio di Bill Clinton che durante gli otto anni della sua presidenza (definita “comunista” dal suo avversario conservatore Jesse Helms per avere tentato di cambiare l’assicurazione sanitaria a favore dei poveri) ha dovuto affrontare diverse investigazioni e processi, tutti (meno uno) opera bene organizzata ma falsa della sua opposizione. Li ha attraversati senza alcuna distrazione dagli impegni di governo, senza alcun ritardo o posticipo o esenzione giudiziaria. Non ha mai neppure chiesto un rinvio. Ed è uscito integro da ciascuna prova.

I cittadini americani né allora né adesso si sono mai scostati da lui. Il suo rispetto, da capo dell’esecutivo, per le altre due parti del governo (il legislativo e il giudiziario) ha fermato per lui, e in quel Paese, l’onda pericolosa dell’antipolitica.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 22.07.07
Modificato il: 22.07.07 alle ore 17.36   
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Titolo: FURIO COLOMBO
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2007, 05:57:50 pm
La mia lettera d’intenti

Furio Colombo


Scrivo questa “Lettera di intenti” per porre formalmente la mia candidatura alla Segreteria del Partito Democratico e sto per entrare in Senato da dove - per le note ragioni di rapporto numerico tra maggioranza e opposizione - non potrò uscire fino alla approvazione del Dpef e delle altre tre leggi che dovranno essere approvate entro questa settimana. Questa settimana è la stessa (e l’unica indicata) per la raccolta delle firme richieste per sostenere la lettera di candidatura. Penso che i lettori-elettori noteranno la situazione paradossale. Al momento per un senatore, date le regole indicate, non sembra esservi una facile soluzione. Ovviamente si aspettano chiarimenti.

LETTERA DI INTENTI

Dichiaro la mia candidatura a Segretario del Partito Democratico per contribuire, con la mia esperienza di vita, di professione e di impegni internazionali che mi hanno posto a contatto con altre tradizioni democratiche, a dare al nascente partito un nocciolo di idee che confermino e arricchiscano la natura e la radice democratica di questo partito.

Cerco un legame con i cittadini in un periodo della storia in cui solitudine e paura, più ancora della “antipolitica”, allontanano e separano gli elettori dalla partecipazione agli eventi politici.

2 - Affermo che il cuore del partito che intendo rappresentare è il lavoro, la dignità, il legame fondamentale che rappresenta con il vincolo di cittadinanza, con la Costituzione, con le leggi, con le altre persone.
Parlo del lavoro cercato dai giovani e che, quando c’è, il più delle volte è irrilevante per costruire un futuro.
Parlo del lavoro di coloro che stanno vivendo la loro esperienza di mestiere e di professione in un’epoca che tende a screditare e penalizzare il lavoro retribuito, tende a dichiarare esose anche le più legittime richieste di chi contribuisce con il proprio lavoro allo sviluppo e alla crescita del Paese, tende a prestare attenzione solo a chi, bene o male, ha già accumulato ricchezza.
Come avviene negli Stati Uniti, che pure sono considerati la casa madre dello sviluppo capitalistico, il Partito democratico dovrà essere il partito del lavoro. E ciò non in senso sindacale, ma nel profondo senso culturale e civile della tradizione democratica. Questo non vorrà mai dire essere ciechi e sordi alle esigenze di tutta la comunità in tutte le sue espressioni. Ma vuol dire sapere che la vita democratica di un Paese si fonda sul lavoro, le condizioni del lavoro, le garanzie del lavoro e la certezza che non saranno mai negati né la dignità del prestare la propria opera, né la certezza dei diritti a cui le controparti si sono di volta in volta impegnate verso che lavora e lavora bene.
Sarà chiaro a tutti che non si tratta di una affermazione di classe ma di una constatazione di buon senso. La tenuta, la rispettabilità, la crescita, lo sviluppo di un Paese si basano sulla partecipazione dei cittadini attraverso il lavoro. Se si restringe il numero di coloro che lavorano e tarda a sopraggiungere il contributo delle nuove generazioni, il vero problema non è attuariale o statistico, ma è la diminuzione della partecipazione politica dei cittadini che vuol dire fine della politica.
Il patto fra generazioni non si fonda sui numeri delle tabelle ma sul passaggio di esperienza e di responsabilità fra i più giovani e i più anziani. Il patto di solidarietà è intorno al lavoro, non agli sportelli degli uffici postali dove si pagano le pensioni.

3 - Affermo che non mi sembra sensato candidarsi per rappresentare una particolare fascia demografica di cittadini. Ciò finisce per prefigurare una sorta di confronto conflittuale: il tuo lavoro sbarra la strada al mio, la tua pensione toglie a me il pane di bocca.
Non è questo il fondamento che andiamo cercando per il nuovo Partito democratico. Ma se si insistesse sul dato generazionale, non avrei difficoltà a dire che a me tocca, allora, di candidarmi a nome di quegli italiani oltre i 70 anni, che non accettano di vedere screditato e svilito ciò che hanno fatto in decenni di lavoro perché sono diventati “vecchi”. Sono attualmente impegnato in Senato in cui molti non si imbarazzano a gridare insulti alla senatrice a vita Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la Medicina, e al presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro solo perché osano avere ed esprimere, alla loro età, e in una funzione (senatore a vita) che viene giudicata “un binario morto”, la loro persuasione politica.
Mi richiamo al nome e all’esempio di italiani come i due Senatori che ho nominato e di persone come Vittorio Foa o Pietro Ingrao per dire che ogni riferimento generazionale in questa candidatura è improprio e, sia pure involontariamente, offensivo.

4 - La scuola è un’altra grande ragione di questo impegno. Il nuovo Partito democratico dovrà dedicare alla scuola, dal primo contatto con i bambini che si affacciano alla vita sociale fino alla ricerca scientifica, la stessa attenzione, lo stesso rilievo, e lo stesso peso economico che un tempo si dedicava agli eserciti. Non può funzionare un Paese che non ponga la scuola, la formazione culturale e scientifica, la specializzazione al livello più alto della ricerca, al più alto livello di attenzione, di impegno di governo, di preparazione dei docenti e di fondi disponibili.
Il Partito democratico di cui parliamo dovrà essere in grado di riconoscere che la funzione, il livello, la qualità e il compenso degli insegnanti devono essere preoccupazione centrale del governare e percorso principale verso il futuro.
Una scuola di alto livello e funzionante in tutti i suoi gradi, dalla prima scuola materna alla più avanzata ricerca scientifica è il vero patto fra generazioni. Per questo il Pd crede fermamente nella Scuola pubblica.

5 - Ospedali e struttura sanitaria costituiscono, con la scuola e il lavoro, i vincoli essenziali di cittadinanza.
Quando il cittadino sa di poter contare su uno Stato presente e attivo nei momenti fondamentali della sua vita, dalla nascita dei bambini alla più pronta e bene organizzata prevenzione e cura delle malattie, al soccorso nelle emergenze, alla presenza assidua e competente nelle fasi finali della vita, allora il rapporto cittadino-Stato si apre alla fiducia, diventa leale e di reciproco sostegno. Ognuno farà la sua parte per uno Stato che c’è nei momenti difficili.

6 - La legalità, la giustizia, in un Paese senza segreti e che riconosce pienamente l’indipendenza della Magistratura, è ciò che distingue l’Italia democratica dal periodo di illegalità costante e di irrisione alle leggi e ai giudici del governo di Berlusconi, ed è naturale bandiera del Pd.
In questo specifico senso la contrapposizione netta a tutto ciò che ha rappresentato il governo Berlusconi non è un residuo sentimento del passato ma è progetto del nuovo partito: legalità che non accetta zone oscure e segreti, legalità che non ammette scorciatoie rispetto alle regole che vincolano tutti i cittadini, legalità che significa non ammettere e non tollerare l’inquinamento grave dei conflitti di interesse, specialmente quando quei conflitti, come nel caso di Berlusconi, riguardano la proprietà ingente di mezzi di informazione. Una situazione in cui il presidente del Consiglio è nello stesso tempo e nella stessa persona, concessionario e concedente dei diritti sull’uso delle frequenze televisive, come è avvenuto per il presidente Berlusconi che ha concesso al proprietario Berlusconi le autorizzazioni necessarie per le sue reti televisive, non dovrà e - a causa di una efficace legge sul conflitto di interessi - non potrà più ripetersi.
Quando si ricordano i gravi problemi creati al Paese, e alla sua immagine e credibilità internazionale, dalle leggi ad personam, le leggi vergogna, (e in particolare la Legge Gasparri sulle Comunicazioni, misurata sugli interessi di Mediaset e ora respinta dalla Unione Europea) non si esprime uno stato d’animo rancoroso e personale come tendono a far credere coloro che sono, per una ragione o per l’altra, inclini a dimenticare. Si parla di leggi, di rispetto, di interessi dello Stato ma anche di immagine rispettabile del Paese.

7 - Il Pd alla cui Segreteria mi candido è laico nel rispetto del dolore di Welby, del diritto ad amarsi delle coppie di fatto, della protezione di diritti civili elementari e fondamentali come il Testamento biologico. Mai, in nessuna circostanza, immagina avversioni o mancanza di attenzione per la sensibilità e la persuasione dei cittadini credenti che sono tanta parte della storia e della sua vita italiana. Ma intende chiedere, per chi è laico, la stessa attenzione e lo stesso rispetto.
Il Partito democratico che vorrei guidare non è una macchina del potere in più ma un insieme solidale di cittadini che intendono unirsi per dare, non per chiedere, per contribuire, non per profittare, soprattutto per portare il capitale del proprio lavoro e del proprio talento, che è la vera ricchezza e la vera forza di un Paese quando le regole sono chiare e pulite.


Pubblicato il: 24.07.07
Modificato il: 24.07.07 alle ore 13.50   
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Titolo: Furio Colombo: Perché Veltroni
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2007, 06:57:36 pm
Perché Veltroni
Furio Colombo


Per farla breve, alle primarie o non si partecipa - e allora è bene avere un altro progetto - o si vota Veltroni. Questa conclusione non ha niente a che fare con giudizi su Rosy Bindi, che conosco e che ammiro, e su Enrico Letta, di cui ho solo notizie pubbliche che suggeriscono stima. E include un dispiacere per lo scarso ruolo finora concesso a persone politicamente nuove e diverse come Adinolfi e Grawronski, che spero abbiano il ruolo che meritano in tutto ciò che stiamo discutendo.

Ma fatemi esaminare per un momento l’alternativa, voltare le spalle, come ti dicono tanti, offesi o dalla immensa stupidità del regolamento o dalla sensazione di vedersi stringere intorno un cerchio di cose già viste, ascoltate, vissute che allontana e scoraggia.

È vero che vi sono molte ragioni per essere critici e persino allarmati. È anche vero che, se smettete di concentrare tutta l’attenzione verso la complicata e contraddittoria avventura del nuovo partito, e vi voltate a guardare l’intero paesaggio politico, non potete che avere paura. Stiamo vivendo in un momento sbagliato, interpretato in modo rozzo o falso o del tutto sfasato rispetto ai fatti, con parole goffe e proposte che si susseguono senza senso, buttate lì come se i cittadini fossero una discarica a cui destinare tutto ciò che non serve.

In questo momento sbagliato vi raggiungono rigurgiti di una protesta acida e cattiva, che impedisce ogni critica o dibattito su alcune leggi immensamente discutibili, chiamando assassini gli autori di quelle leggi. La mossa è barbara ma anche stupida, perché riguarda fatti tragici come morire sul lavoro, e paralizza tutto nella giusta colata di indignazione che riguarda esclusivamente la frase barbara e stupida. Se esiste un profittatore delle morti sul lavoro - ovvero della mancanza quasi completa di misure di prevenzione - non potrebbe essere meglio servito. Ma un intervento così assurdo racconta solitudine, abbandono, sfiducia, un paesaggio brado privo di appigli, di qualche idea di riferimento.

In questo momento sbagliato i media ci chiamano ad ascoltare le frasi umilianti, pre-naziste e dementi del sindaco illegale di Treviso, Gentilini che, da buon imbroglione ha aggirato il limite dei due mandati, fa il sindaco, con il titolo di pro-sindaco, per la terza volta, alle spalle di un poveretto - certo Gobbo - che si presta al gioco, e respira sulla sua città il fiato cattivo dei pregiudizi più rozzi e più antichi. Vuole fare “pulizia etnica” contro i gay della sua città e ciò che dice dovrebbe apparire un delirio da osteria se non fosse che Gentilini è stato eletto due volte e tenuto in carica, in questo terzo illegittimo mandato, da liberi cittadini italiani (anche se nelle interviste tv non se ne trova uno che offra faccia e nome a difesa di quel falso sindaco).

Ma accade questo: un “grande” della destra regolare, uno formato Angelillo (nel senso dei salotti e delle buone frequentazioni) vi dice (anzi scrive): «In Italia - a differenza che nel resto d’Europa - non esiste l’orrore della xenofobia per merito della fondamentale funzione democratica della Lega Nord» (Giulio Tremonti in “La politica”, lezione magistrale per i giovani di Forza Italia, Padova, 14 luglio). Tremonti sta parlando della stessa Lega Nord e dello stesso Gentilini che per gli immigrati da cacciare esigeva vagoni piombati, oppure fucili da caccia «per aprire con gli immigrati la stagione». Non nell’altro secolo. Ai nostri giorni.

In questi stessi giorni sbagliati, pagare le tasse «può servire a mantenere realtà parassitarie e a favorire il latrocinio» (versione cattolica di Famiglia Cristiana) oppure a sostenere «lo Stato predatore» (versione laica di Angelo Panebianco).

E sono i giorni sbagliati in cui, nel caos di Fiumicino, tra i bagagli scomparsi a migliaia dopo ore di attesa, a nessuno, ma proprio a nessuno è venuto in mente che, per prima cosa di un simile disastro collettivo devono rispondere amministratore delegato, direttore generale e titolari dei vari settori che hanno deciso organici, strutture, orari, turni, compensi e strumentazione, in un settore completamente privato e festosamente concorrenziale. No. Tutti, ma proprio tutti, da destra a sinistra e dalla stampa scritta alle efficaci inchieste televisive (che mostravano ogni volta centinaia di valige abbandonate), hanno denunciato con ira (nell’ordine): fannulloni, assenteisti, privilegiati, sindacalisti arroccati in pretese ormai cancellate dalla modernità, riposi indecenti, sieste alla messicana, crudele indifferenza di pigri lavoratori per le esigenze dei viaggiatori.

Che i viaggiatori paghino sempre di più (se a prezzo pieno) o sempre di meno (con la trovata dei voli voli “low cost” che riempiono gli aeroporti anche di notte perché non sai quando parti, e fanno saltare tutti i turni e gli organici del personale a terra, organizzati per un altro sistema); che le misure di sicurezza - comprese molte intorno ai bagagli - rallentino per forza, e a volte deraglino, i servizi di imbarco e consegna, è tutta realtà mai discussa e mai investigata dai nostri colleghi giornalisti. In molti credono ancora che la colpa sia tutta dei sindacati criminali.

Nei giorni sbagliati in cui la gang del debito mondiale (mutui americani sulle case resi facilissimi da interessi dell’uno per cento poi improvvisamente non più pagabili dai contraenti quando gli interessi salgono al 5 per cento, buttando sul lastrico i compratori e gettando nel panico le borse del mondo in una serie di scosse violente, pericolose che durano ancora) il settimanale L’Espresso mette alla gogna i tre sindacalisti Epifani, Angeletti, Bonanni, che hanno l’imperdonabile colpa di aver tenuto testa, a nome di chi lavora, nella infinita disputa sulle pensioni. Ci hanno detto che i tre sindacalisti predoni stavano rubando il pane ai più giovani (che nessuno assume se non come precari e dunque senza contributi pensionistici, e che certo saranno bloccati ancora più a lungo se gli anziani andranno in pensione più tardi) proprio nei giorni in cui i petrolieri stanno organizzando alla grande il “cartello” che ha portato alle stelle, a partire dal primo giorno di ferie, il prezzo della benzina. I petrolieri dicono «non esiste alcun cartello» benché i loro prezzi siano tutti uguali, ma nessuno infierisce. E i quotidiani registrano la autorevole notizia. I petrolieri infatti sono credibili. Non sono né scaricabagagli negli aeroporti né sindacalisti. Come gli organizzatori del grande scandalo dei debiti inesigibili in tutti i mercati del mondo (e finiti in chissà quanti fondi pensione) sono uomini seri e rispettabili del mondo del business.

***

Ma nel paesaggio Piranesi del mondo politico ed economico in cui abbiamo l’avventura di vivere, ci sono altre rovine che di tanto in tanto ci vengono indicate come la “cosa nuova”, il futuro di cui siamo in attesa. Una è il grande centro, una sorta di eco-mostro della politica sulle cui macerie si arrampicano con qualche strana e incomprensibile ambizione “nuovi” leader. È materiale usato, il grande centro, fatto di vecchio che invoca il vecchio, di fallimento in vena di celebrazione, di niente con fanfare e discorsi, una voglia di potere così genuina e smodata che non si veste più di nulla. Annuncia se stesso e basta. Ma si sa che il potere vuoto, che si propone come “tagliatore di ali” di ogni cosa che, per qualsiasi ragione, dia segni di vita, uno scopo deve darselo. Il suo scopo è la restaurazione. Sarà una restaurazione tragica in un Paese ridotto come una Cecenia del diritto e della legalità: spese in libertà, evasioni, disfunzioni, condoni, violazioni di ogni genere, ovvero il frutto del minuzioso attivismo distruttivo dei cadetti di Berlusconi.

Volete sapere quali sono le parole chiave di questo paesaggio post-berlusconiano, una volta issato il bandierone finto (ma non privo di convenienze per chi si è “posizionato” bene) del grande centro? Eccole, a cura di Giulio Tremonti (Padova, 24 luglio): autorità, responsabilità, valori, identità, ordine. Come vedete si tratta di contenitori vuoti in cui possono abitare con agio il pugno di ferro, la decisione dall’alto, il “Dio, Patria, famiglia” del passato fascista (quello delle vacanze al confino), una buona dose di sciovinismo-nazionalismo-xenofobia anch’esso stagionato in vecchie botti ben conservate, e l’ordine, che una volta sistemati autorità e valori, fa sempre comodo, non sempre e non necessariamente con le buone maniere, perché, lo sanno tutti, siamo un popolo riottoso. E un conto è evadere ordinatamente le tasse o violare le leggi scortati da batterie di avvocati, parcheggiandosi al Billionaire. Un conto è pretendere di partecipare al proprio destino.

***

Brutto paesaggio, d’accordo. Ma perché Veltroni? Ecco le ragioni che vi propongo.

Primo. Per finire al più presto questa fase infelice di regole stupide fatte per allontanare chi aveva alzato la testa in direzione di questo possibile nuovo partito.

Secondo. Perché queste regole non sono soltanto stupide, sono anche un ostacolo perché qualcosa cominci a vivere quella vita di fatto che è la vera vita di una naturale aggregazione politica detta partito.

Terzo. Perché con regole arbitrarie e preliminari sono stati eliminati personaggi della vita democratica italiana come Pannella e Di Pietro che avrebbero portato discussione; e perché con il marchingegno delle liste “collegate” vengono messi in condizione di affanno non solo gli “esterni” alla macchina politica, come Adinolfi e Gawronski, ma persino Rosy Bindi se non ha coltivato già da prima una sua macchina di consenso locale.

Quarto. Perché ci siano presto, invece di regole inventate da ragionieri dei due partiti sul modo di fare e di collegare le liste, veri dibattiti. Intendo dibattiti aperti, coraggiosi che non escludano temi impossibili, che cerchino i più giovani e i meno collegati, che tentino ponti con coloro che, per ora, non ci stanno. Scopo: dimostrare che questo non è un mega-congresso camuffato di Ds e Margherita e non è un cavallo di troia a bordo del quale possano entrare, non notati, Opus Dei e Teocon. Che si notino e si discutano, e tutto avvenga consapevolmente in una piazza libera piena di voci libere.

Quinto. Veltroni sa benissimo che non produrrà magicamente né i pacs né il testamento biologico. Sa che quanto gli dicono “destra” e “fare insieme” (intendendo mitici accordi con una opposizione urlante) gli cambiano continuamente le carte in tavola. Una volta la destra è Berlusconi, protezionista e fautore delle frontiere chiuse; una volta destra è il Fini della “Camera dei taxi e delle corporazioni”, una volta è l’ardito Gasparri che si batte con le unghie e con i denti per Mediaset come se fosse la patria; una volta è la Confindustria che vuole pieno liberismo, continua flessibilità e cuneo fiscale, ma solo per cominciare. Per dopo ha ben altre richieste da fare. Ma poiché tutto questo Veltroni lo sa, sa anche che cosa è impossibile, almeno in questo momento, in questa Italia disastrata. Saperlo, e comportarsi con realismo è un modo per non abbandonare, come propongono alcuni con coraggio malpiazzato, l’Italia a quella destra multipla e alquanto pericolosa che abbiamo appena descritto.

Sesto. Perché Veltroni ha già vissuto con successo altre primarie le ha già vissute con l’esito che tutti conoscono, governando, con tante componenti e tante ali, con realismo, buonsenso, un certo rischio e una certa audacia, lo Stato-città di Roma, sembra giusto che meriti di nuovo fiducia.

Settimo. Perché resta poco tempo per salvare il salvabile di una politica pulita e onesta. Se ci sono o quando ci saranno altre forze pronte - là fuori - ad unirsi sarà un gran bene. Ma intanto è urgente accantonare il marchingegno che - con un po’ d’incoscienza - è stato messo in piedi per farci giocare. È urgente tornare a comunicare, tornare a fare argine al peggio, tornare a dare segni di guida alla politica. È bene andare in fretta all’ultima casella e dichiarare finita la parte gioco, comprese le sue pretese e le sue finzioni.

Per quanto tempo si può restare in apnea?

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 12.08.07
Modificato il: 12.08.07 alle ore 14.30   
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Titolo: Furio Colombo - La borsa e la vita
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2007, 09:45:05 pm
La borsa e la vita

Furio Colombo


Il debito per la casa, il precariato nel lavoro, le tasse giuste. Che cosa hanno in comune queste tre bandiere della modernità e - secondo alcuni - del vero e disinibito riformismo? Tutte e tre appaiono democratiche. Vediamo. Lo scossone pauroso delle Borse (un panico domato solo per il momento) ha svelato la sua causa - il debitore non è più legato al debito, può comprarsi una casa con un prestito che forse non può pagare. Questo fatto crea movimento e animazione fra i meno abbienti. Perché all´improvviso ottieni un prestito che - dal punto di vista del vecchio capitalismo - non ti spetta. Non hai «collaterali» (altri beni) o garanzie (qualcuno o qualcosa che, all´occorrenza, paga per te). Ma niente paura. Non c´è alcun legame personale o fisico fra chi ha dato i soldi e chi li riceve. È passata una merce del tutto nuova al mondo. Dal lato del debitore cresce il debito se cresce (come succede abbastanza spesso) il tasso di interesse ovvero il costo del denaro.

Il creditore invece si libera subito del tradizionale fardello dei soldi prestati e dal secolare grattacapo di riaverli indietro puntuali e con gli interessi. Come? Semplice. Vendendoli. Questi debiti infatti sono cifre che entrano in infinite combinazioni contabili. Passano di azienda in azienda, di gruppo in gruppo, di bilancio in bilancio cambiando di valore mentre attraversano il mondo e le Borse del mondo in cui quelle somme diventano azioni vendute e comprate dall´ultimo destinatario, l´investitore. A questo punto il primo debitore e l´ultimo creditore sono lontanissimi e non si conosceranno mai.

Ma la nuova democrazia della Borsa (l´ingresso è aperto a tutti, compreso il debitore insolvente e l´investitore azzardato) da Hong Kong a Zurigo li rende uguali nel momento del panico. Quando? Quando, come è appena accaduto (e forse non è ancora finito di accadere) il costo del denaro sale, il compratore in debito della casa perde la casa, (e poiché come abbiamo visto, siamo ai piani bassi della scala sociale, perde tutto) e l´investitore che si è fidato di certi fondi molto moderni, che hanno incartato e rivenduto il debito, perde tutto ciò che ha investito.

Il panico di chi perde la casa non lo vede nessuno, o compare soltanto nelle pagine dei "drammi sociali". Il panico di Borsa invece non solo ha una grande importanza psicologica perché scuote come un vento furioso l´albero della cuccagna (come è la Borsa per i veri giocatori e i veri investitori che hanno buone informazioni e sanno quando comprare e quando vendere) e non sai mai come quel vento malevolo potrebbe propagarsi. Ma chiama in causa le banche, la loro capacità di riserva e di solvenza, perché è nelle banche che è cominciata tutta la storia. È per questo che sentite notizie "tranquillizzanti" sull´immissione, da parte delle banche centrali, di grandi quantità di denaro "sul mercato". Nonostante il tono festoso dei telegiornali, la notizia non riguarda noi tutti, che rischiamo il danno della inflazione e dei prezzi che salgono, ma nessun vantaggio.

E non riguarda quei poveretti che, a causa del costo del danaro più alto non possono più pagare la rata del mutuo e devono restituire la casa. Riguarda il rapporto fra grandi banche e grandi investitori, al fine, ragionevole certo, di rasserenarli e di far continuare, regolare e tranquilla, la loro vita d´affari. Però qualcuno ha pagato ed è caduto senza rete: ha pagato chi ha perso la casa: ha pagato l´ultimo investitore, che ha comprato l´ultimo debito presentatogli lungo la elegante catena detta delle "cartolarizzazioni". Se era un piccolo investitore, se non aveva abilmente diversificato e se, come Pinocchio, aveva messo tutti i suoi risparmi nelle mani del Gatto e della Volpe (spesso con nomi illustri di grandi fondi di investimento), ha perso tutto.

Per questo il Premio Nobel per l´Economia Joseph Stieglitz si è indignato e ha detto al New York Times che ciò che sta accadendo in Borsa è una grande truffa. Ha detto che i soldi dovrebbero indirizzarsi verso chi ha pagato, all´inizio o alla fine, l´intera operazione, che nei passaggi intermedi ha prodotto ricchezza non più rintracciabile. Appello inutile. Nessuno, né governi né esperti, gli ha risposto. È probabile che abbiano pensato, con un po´ di disprezzo: «Ma come è vecchio questo signor Stieglitz che va in cerca di paracaduti e rifugi e rimborsi per chi è stato sfortunato». Fortuna e sfortuna sono personaggi a pieno titolo del mercato. C´è chi diventa ricco e chi no. È la vita. La vecchia ostinazione socialistoide ad aiutare chi resta indietro mette piombo sulle ali dello sviluppo. Dunque grandi "flussi di liquidità" al mercato che va. E chi ha perso la casa o i risparmi si faccia una ragione. Se è giovane, ne ricavi la giusta lezione. Che è: qualcuno, anche se non sei tu, trae sempre beneficio dal rischio.

* * *

Anche il lavoro precario, ovvero la nuova moderna forma di prestazione d´opera che garantisce un facile e agile flusso di scambi di lavoro e denaro tra parti diverse (chi ha bisogno di un po´ di lavoro e chi ha bisogno di un po´ di denaro) ha la caratteristica che ormai domina il mercato. I contraenti non si conoscono ed è bene che non si conoscano. Il "prodotto" (in questo caso il lavoro) viene "sdrammatizzato": se la casa non è più il sogno grande e caro di una famiglia ma soltanto un frammento di cartolarizzazione (e peggio per chi non si è svegliato nel nuovo, dinamico clima) allo stesso modo smettiamola di fare del lavoro il punto di riferimento di una vita. Anzi, più si cambia e più sei libero. E anche qui si creano spersonalizzazioni e distanze da cui il mercato trae un grande vantaggio. Le persone molto meno. Però è il mercato il protagonista del momento, non le persone, dunque smettiamola con le lagne. Una prova della spersonalizzazione del lavoro precario è stata data in una lettera inviata a la Repubblica (22 agosto) dai genitori di un intelligente e sensibile bambino tetraplegico, che dunque ha assoluto bisogno, a scuola (ha 10 anni), di un insegnante di sostegno. Raccontano i genitori che, nel nuovo mondo del precariato, quell´insegnante cambia continuamente, di anno in anno e anche di trimestre in trimestre, benché il bambino sia giunto alla quinta elementare sempre nella stessa scuola. Vedete la distanza, che resta grande e diventa più grande? La scuola dal bambino, il bambino dall´insegnante, l´insegnante dal piccolo allievo che ha bisogno di lui, ma anche dalla scuola di cui lui, l´insegnante, ha bisogno ma che lo riassegna continuamente, perché nessuno conosce e vuol conoscere nessuno.

E nessuno ha tempo o mani libere o anche solo attenzione per occuparsi della disperazione del bambino. Direte: ma è scuola pubblica. Vero, ma è immersa nella cultura del nostro tempo che dice: chiunque vale chiunque altro. Tu hai, in un dato momento, una casella libera, e la riempi con il materiale umano che hai sottomano in quel momento, senza badare a chi c´era prima e a chi viene dopo.

Strano che di tanto in tanto i teorizzatori entusiasti del "mercato libero del lavoro" sfoderino come una lama la parola "merito". Nel migliore, nel più pulito dei casi, il merito premia il migliore fra i figli di coloro che hanno già una professione da condividere o una azienda da lasciare in eredità. Ho detto: "nel migliore dei casi". Ma il caso tipico è che, qualunque cosa valga il figlio, è lui (o lei) che si prende lo studio o l´azienda. Il famoso caso Ikea, in cui il fondatore e titolare del Gruppo ha accantonato i figli per lasciare l´azienda ai suoi manager migliori, resta rarissimo. Una bella pagina sulla spersonalizzazione e il precariato come nuova natura del lavoro, si trova in un articolo di Claudio Magris (Corriere della Sera, 18 agosto), sul labirinto dei numeri verdi, voci elettroniche che si alternano a voci umane in un intrico di rimbalzi verso il niente e verso il vuoto. Perché la voce umana del call center dovrebbe prendersi cura di te visto che, nella sua vita di lavoro, non conta più della voce elettronica?

Ma la parola "merito" dà i brividi quando l´utente viene improvvisamente e inaspettatamente a contatto con una voce intelligente, informata, partecipe, di quelle voci che, a volte, dal centralino di un´ambulanza o di un servizio essenziale, confortano un anziano, aiutano un bambino, salvano una vita.
Perché ho detto che provo un brivido alla parola "merito"? Perché al momento di dare una sfoltita all´organico di quel precariato perfetto che sono i centralini dei servizi e i call center, la voce umana, intelligente, partecipe, non farà alcuna differenza. Va via quando deve andar via, col prossimo taglio dei costi (che, nel mondo del lavoro precario, viene sempre) senza badare al mitico "merito". Esattamente come (ci dicono i genitori che hanno scritto l´ angosciata lettera a la Repubblica) è avvenuto per il piccolo scolaro tetraplegico. Il più bravo e abile degli insegnanti, che aveva elaborato un programma speciale in base a un di più di conoscenza, di preparazione, di buon lavoro, è stato spazzato via come gli altri, come quelli che a mala pena si erano occupati del caso.

Ecco dunque il vero esito del precariato. Diventa precario non solo chi lavora, ma anche gli allievi, gli utenti, coloro che hanno bisogno di un servizio, diventano precari anche gli assistiti e i malati. Il nuovo film di Michael Moore (Sicko, alterazione della parola "sick", malato) dimostra che, in un mondo ospedaliero di costi continuamente tagliati, i pazienti diventano tutti precari, anch´essi senza diritti, senza identità, senza altro riferimento che non sia il mercato. Ecco perché c´è da restare almeno perplessi quando ti dicono che questa è la modernità, la riforma, il vero futuro. E ti buttano in mezzo la parola "merito" benché nessuno di noi, in questi nostri giorni, sarebbe in grado di indicare il tale o tal altro giovane di qualunque professione o mestiere che sta dove sta, in una bella carriera, "per merito". Forse ho scarse conoscenze di persone di valore. Qualche lettore vorrà aiutarmi, e citare casi diversi?

* * *

In questo deserto compare un nuovo precario: il contribuente. Scoppia all´improvviso la polemica delle tasse, che fa del maxievasore Valentino Rossi una specie di eroe e di simbolo. Anche qui la distanza e la spersonalizzazione è grande e paurosa. Tu non sei nessuno e il fisco fa quello che vuole. Oppure: tu sei bravo e furbo e tieni in scacco il fisco come vuoi e quanto vuoi e basta un po´ meno celebrità di Rossi per restare al coperto anche dopo decenni di ricchezza rampante.

A confronto con ogni altro Paese si cade nel ridicolo quando Bossi e la Lega dichiarano lo sciopero fiscale nel Paese celebre nel mondo per la sua inclinazione diffusa a evadere in tutto o in parte il pagamento delle tasse.
Rimpiango che qualche autorevole americano, che spesso ci ammonisce sulla strada giusta in politica estera, non abbia ritenuto di far sapere, a Bossi, a Calderoli, a Tremonti, ma anche al cardinale Bertone, che cosa succede se un cittadino americano di qualsiasi livello e rango economico, invece di pagare, nel giorno e nell´ora stabilita dalla legge, si mette a riflettere in pubblico su che cosa sia la tassazione giusta. Segue immediato intervento dello Stato che vuole i soldi dovuti, puntuali e subito e non ha alcun interesse alla riflessione. È uno dei pochi casi in cui le istituzioni americane non tollerano cauzioni o dilazioni o condoni.

Ogni democrazia rispettabile e con un minimo di memoria storica sa che non esiste una tassazione giusta. Esistono Parlamenti eletti che confrontano, esaminano, valutano, decidono, con decisioni che si chiamano leggi. Esistono governi che, da un lato, sono fermi nelle loro decisioni; e dall´altro comunicano bene e in modo inequivocabilmente chiaro con i cittadini-contribuenti. Ma non buttiamo sulla scena il rapporto tra tasse alte e servizi impeccabili. Per esempio negli Stati Uniti il trasporto di massa, la scuola pubblica, gli ospedali (vedi Sicko di Moore) nonostante la tassazione "perfetta", sono molto inferiori a ciò che dovrebbero garantire le tasse, che pure nessuno si azzarda a discutere. E sono molto peggiori che in Italia. In quella stessa America la proposta di organizzare un "Tax day" o maxi protesta contro le tasse decise dal legittimo Parlamento, come propone Gianni Alemanno, stroncherebbe la sua carriera politica e quella di tutti gli altri membri del Parlamento disposti ad associarsi a quella goliardica proposta. Tutto questo in America. Direte: che cosa c´entra con le primarie del Partito democratico in Italia? C´entra, c´entra. Ha detto giustamente Francesco Rutelli (sia pure con intenzioni politiche diverse): «Che primarie saranno se non affronteremo i problemi più importanti del Paese?». Per quel che ne so Veltroni è d´accordo. Le primarie, e anzi l´intera vita e identità del Partito democratico, cominciano qui.
colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 26.08.07
Modificato il: 26.08.07 alle ore 8.26   
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Titolo: Furio COLOMBO - La scommessa
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2007, 02:33:44 pm
Il distacco

Furio Colombo


Dove tace la sinistra, parla un grande banchiere. Ecco che cosa ha detto al «New York Times» del 31 agosto: «L’Italia, come la Germania, il Giappone, la Francia, è uno dei Paesi più pessimisti. Un sondaggio recente rivela che l’80 per cento dei cittadini di quei Paesi si aspetta un futuro peggiore. Sembra evidente che il problema sociale più grave con cui questi Paesi si misurano è la combinazione del capitalismo di mercato con la globalizzazione. Ciò rende la ricchezza di alcuni sempre più grande mentre la gran parte dei cittadini vive in un mare di ansia per tre grandi gruppi di problemi: la certezza, o qualche forma di continuità del posto di lavoro, la scuola dei figli, l’inclusione di un numero crescente di immigrati». Il banchiere si chiama Felix Rohatyn, è stato il numero uno della Banca d’affari Lazard Frères di New York, è stato ambasciatore americano in Francia, è stato l’uomo che - negli anni Settanta - ha salvato New York dalla bancarotta con grande e celebrata perizia finanziaria e senza lacrime e sangue. Ovvero senza licenziamenti di massa. In altre parole un liberal, della cui competenza e capacità di vedere le cose in grande avrà bisogno il prossimo presidente degli Stati Uniti, se sarà un democratico. La lezione di Rohatyn, come quella di altri grandi economisti che il mondo delle notizie italiano continua a ignorare, è: non perdetevi nei dettagli. Succedono cose grosse nel mondo: cercate di vederle, per governare. La vicenda dei lavavetri in Italia è umiliante per la sua piccolezza. Diciamo che saranno alcune centinaia in tutto il Paese di cui, come constata ogni giorno ciascuno di noi, la stragrande maggioranza rassegnati e gentili, pronti a rinunciare. Eppure la tv di Stato ci mostra l’assessore Cioni mentre, come un governatore inglese dell’altro secolo, assegna benevolmente un posto fisso a un anziano marocchino che ripetutamente ringrazia la telecamera. Alcuni sindaci di sinistra coraggiosamente si schierano a testuggine per salvare le loro città e il Paese dal nuovo pericolo.

Nessuno gli racconta che anche adesso, mentre Cioni tuona a Firenze per la salvezza dell’Italia spalleggiato dai più autorevoli editorialisti italiani, anche adesso, a New York, all’angolo di Canal Street con West Broadway, non si passa al semaforo senza una piccola transazione con il lavavetri del posto che, in quella città, è povero come in Italia, ma americano. E tutto ciò dopo che New York è stata governata dal famoso sindaco repubblicano Giuliani detto “tolleranza zero”. E tutto ciò sotto il governo del sindaco repubblicano Bloomberg che di recente, senza imbarazzo ha detto a una tv newyorchese: «Dopotutto si tratta di una piccola impresa».

Ma, da noi, il Corriere della sera dedica un vibrato editoriale al «vuoto valoriale» (è scritto proprio così, «vuoto valoriale») di chi, nella stampa italiana, (leggi: «l’Unità», «il Manifesto») cinico o cieco o sovietico, non vede il problema dei lavavetri e non crede che, nel Paese della ‘ndrangheta, la legalità cominci con tre mesi di carcere, comminati da un assessore che sembra uscito da un film di Vanzina, e comunque decide al di fuori della Costituzione.

Forse esistono degli occhiali speciali per ingigantire problemi così piccoli, non solo al punto da istituire una giustizia sommaria dei semafori, ma anche per dividere l’Italia in due, fra il «pieno valoriale» dell’assessore Cioni e il «vuoto valoriale» di chi si stupisce e vorrebbe spiegazioni.

Evidentemente alcuni di noi, sbagliando, si ostinano a non rendersi conto che la vera illegalità, una enormità che avrebbe dovuto far trasalire un Paese civile da destra a sinistra, sono le parole di un capo partito potente (perché ex ministro e perché sostenuto in tanti modi da Berlusconi) quando annuncia: «Contro le tasse prenderemo il fucile».

Ma che cosa volete che sia la minaccia delle armi contro le leggi del suo Paese da parte di un leader politico che ha governato e potrebbe ancora governare, a confronto con la spugna dei lavavetri? Il «pieno valoriale» del vice direttore Pier Luigi Battista e dei suoi sindaci (non uno dei quali si è accorto di Bossi) sta nel gettarsi, a proprio rischio e pericolo, contro le spugne. Bossi avrà anche straparlato, ma dalla sua parte c’è Berlusconi e non si conoscono protagonisti della vita pubblica italiana che vogliamo esporsi al rischio di indispettirlo. Berlusconi non sarà più presidente del Consiglio, ma certo resta uno di buona memoria per il futuro. E anche nel presente è un editore in grado, quando vuole, di bloccare carriere o anche solo notizie su chi non gli piace.


***


Come vedete, con tutta questa inesistente questione, che ha occupato pagine doppie e quadruple di grandi quotidiani (e ringraziate il cielo che non c’era «Porta a Porta», altrimenti anche il criminologo sarebbe apparso accanto a un compatto schieramento politico destra-sinistra) siamo caduti in una piccolissima fenditura della realtà.

Sulla scena grande, quella occupata dagli adulti, Montezemolo ha annunciato la «emergenza fiscale». Si tratta di una denuncia grave e drammatica e - invece di ridicolizzarla - vorremmo avere l’autorità di chiedere quando, come, perché, rispetto a quale altro Paese si è creata questa “emergenza” che - tutto fa pensare nelle parole di Montezemolo - è unica al mondo. Montezemolo conosce bene, come lo conosco io, Felix Rohatyn. Sa che nel testo del «New York Times» che ho appena citato, uno degli uomini di finanza più influenti del mondo, esaminando il contesto della vita economica internazionale, dice: «L’Europa avrebbe difficoltà ad accettare un capitalismo senza vincoli come in America, perché il nostro sistema è troppo speculativo e permette una accumulazione senza limiti della ricchezza, un tipo di accumulazione rispetto a cui l’Europa prova disagio. L’improvvisa accumulazione di ricchezza degli “hedge funds” in così poco tempo, in così poche mani, è vista da molti con disgusto».

E poi racconta ai suoi lettori americani che in certi Paesi europei «un capitalismo più frenato (vuol dire più tassato, ndr) permette servizi e interventi sociali che negli Stati Uniti non esistono». Forse il presidente della Confindustria ricorderà che Felix Rohatyn è stato in prima fila fra gli economisti americani che più si sono battuti contro il famoso drastico taglio delle tasse ai ricchi che è stato il fiore all’occhiello del governo Bush. Forse si ricorderà che Felix Rohatyn è stato fra coloro che hanno denunciato il terribile destino toccato alla città di New Orleans (tutta la parte povera di quella città è stata distrutta dall’uragano Kathrina e non è stata mai ricostruita) per mancanza di fondi federali, a causa del famoso taglio.

Vorrei fare amichevolmente una proposta a Montezemolo. Propongo di invitare il banchiere americano (che, come è noto, conosce bene il nostro Paese) a partecipare con noi a un incontro con una sola domanda: «Ma in Italia, rispetto a tutte le altre grandi democrazie industriali, esiste davvero una emergenza fiscale, tenuto conto di tutti gli aspetti in cui, nelle varie legislazioni, si compone un bilancio, si deducono spese, si ottengono sostegni e vantaggi, si cancellano debiti e si ottengono remissioni e sconti»?

C’è qualcosa che non va, o almeno qualcosa da chiarire se, il 29 agosto, il presidente della Confindustria, nella sua lettera a piena pagina al «Corriere della Sera», chiede una tregua fiscale, e il giorno dopo, sullo stesso giornale, a partire da pag. 1, l’economista di sinistra Nicola Rossi interviene con un articolo dal titolo: «La tregua fiscale? Non basta». È come se fosse esplosa in tutte le teste, in tutte le coscienze, in tutto il Paese, dal grande imprenditore all’ultimo contribuente in busta paga, la persuasione che le tasse sono solo una rapina per finanziare la politica. Gira e rigira, anche le nobili e grandi denunce sui privilegi di chi legifera e di chi governa sono andate a finire nel pentolone cannibalesco della Lega. Ed è anche per questo, forse, che Valentino Rossi, con i suoi 126 milioni di euro sottratti - a quanto ci dicono - al fisco, appare meno ma molto meno deplorevole del barbiere di Montecitorio.

È come se ci si fosse dimenticati che, nonostante problemi gravi e disservizi ingiustificabili, le tasse tengono in vita in Italia una vasta rete di sostegno pubblico che gli americani in visita nel nostro Paese non considerano né inutili né spregevoli, dagli ospedali ai treni. In America molti ospedali sono chiusi ai poveri, i treni quasi non esistono, e molti giornali americani stanno denunciando proprio in questi giorni ritardi e confusione sempre più grave per gli aerei di linea a causa della grande quantità di jet privati che in molti aeroporti americani hanno la precedenza.

Leggete, infatti, i due editoriali del «New York Times» del 30 agosto. Nel primo si analizza un dato di cui si vanta la Casa Bianca: le famiglie con il reddito più basso, nel 2006 hanno guadagnato qualche centinaio di dollari in più all’anno. La ragione di questo piccolo apparente incremento, spiega il quotidiano, è che molti anziani tornano a fare lavori occasionali perché i più giovani della famiglia guadagnano troppo poco e non ce la fanno.

Il secondo editoriale lancia un nuovo allarme sulle cure mediche negli Stati Uniti. Sempre più aziende hanno tagliato l’assistenza sanitaria. Sempre meno persone sono in grado di pagare i 1000 dollari mensili dell’assicurazione privata. Coloro che non hanno alcuna assistenza medica - nel Paese più ricco del mondo - erano 36 milioni di uomini, donne, bambini negli anni Novanta (quando Clinton ha tentato invano di far approvare il suo progetto «comunista» di assistenza per tutti). Erano diventati 44 milioni nel 2005. Hanno superato i 46 milioni nel 2006 (ultimo dato). Il giornale ricorda le due cause: il drastico taglio di tasse a favore dei redditi alti (che, tra l’altro, ha diminuito gli incentivi alle donazioni a favore degli ospedali, donazioni che, negli Usa, sono esenti dalle tasse) e la totale flessibilità concessa alle imprese, che possono assumere anche a tempo indeterminato senza alcuna assicurazione. Pesa anche la abolizione di fondi federali, statali e cittadini per le strutture ospedaliere.

Il danno sociale è immenso. E questo afferma il «New York Times» come drammatico avvertimento al prossimo presidente degli Stati Uniti. Il Paese che forma più ricchezza nelle mani di alcuni, crea, allo stesso tempo, più rischio di malattia (poiché manca la prevenzione e ogni rete di protezione) per tutti gli altri cittadini. Quanto il rischio sia grave lo dimostra, adesso, l’annuncio dei due ultimi giganti dell’industria Usa: General Motors e Ford stanno annunciano tagli drastici alle loro residue assicurazioni sanitarie, perché gli affari vanno male.


***


Tutto ciò ci dice - con voce molto autorevole - che non è saggio spingere un Paese a una rivolta basata sul distacco, ciascuno per se, alcuni forti abbastanza da esigere ciò che vogliono, altri disposti al ricatto politico, altri ancora pronti a partecipare a una rivolta che stroncherà tutti i servizi.

La rivolta delle tasse è una grande trovata di destra. La rivolta contro i lavavetri è un piccolo servizio (acclamato non so perché dalla grande stampa) tributato alla cultura fascistoide della Lega. Una emergenza c’è. È nel distacco, nella solitudine, nel rischio di una cultura che rende sempre più vasti i due fenomeni.

Già adesso è un aspetto della vita americana, dove le tasse sono più basse ma si chiudono le porte degli ospedali. Per questo a Venezia George Clooney, l’attore, ha detto a chi gli chiedeva del suo Paese: «Voglio un presidente democratico, non uno ricco». E a chi gli chiedeva del nostro Paese (in cui vive per molti mesi all’anno) George Clooney ha detto «Almeno voi avete gli ospedali aperti per tutti». Ha dichiarato, in modo insolito e sorprendente, di avere fiducia in Walter Veltroni. Evidentemente lo associa alle figure che spera di veder prevalere nelle primarie Usa. E lo vede lontano dalla rissa umiliante sui lavavetri. Mi domando che cosa penserà l’intelligente attore e regista americano dell’Italia che ammira appena gli diranno che il ceto privilegiato del Paese dichiara «emergenza fiscale» due giorni dopo che il peggior leader xenofobo d’Europa Umberto Bossi ha chiamato i suoi fedeli alla rivolta fiscale contro l’Italia, il paese in cui Bossi è uno dei capi della opposizione.

George Clooney e molti italiani continuano ostinatamente a condividere la speranza di uscire presto dall’incubo di una politica così squallida per approdare a un poco di civiltà.

Pensano che così finirà l’epoca triste della solitudine e del distacco.


colombo_f senato.posta.it




Pubblicato il: 02.09.07
Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01   
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Titolo: Nando Dalla Chiesa - Ma io dico: tolleranza dieci
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2007, 02:36:05 pm
Ma io dico: tolleranza dieci
Nando Dalla Chiesa


Sapete che c’è? Che di questa tolleranza zero non se ne può più. Della formula magica, dello scongiuro, dell’esorcismo. Del suo significato, dei totem mentali che evoca. Se posso esprimere la mia modesta opinione, vorrei tessere invece le lodi più sperticate della tolleranza dieci. Sissignori. Tolleranza dieci. O quindici, o venti, secondo i casi. Anzitutto perché sono contro la tolleranza cento, o novanta. Quella, per intendersi, che vige in Italia verso tanti fenomeni di illegalità. Per esempio quella invalsa per anni davanti ai clan di Scampia, finché non si mossero tutti insieme il ministro dell’Interno, il presidente della Repubblica e la commissione antimafia.

O quella che vige per lunghi periodi davanti alla mafia o la ‘ndrangheta se non vengono commessi stragi o omicidi “eccellenti”. O quella osservata per intere legislature nei confronti dell’evasione fiscale o delle devastazioni ambientali. O, scendendo di piano, quella praticata di fronte alla trasformazione di alcune nostre città o aree urbane in autentici suk. O all’illegalità dal basso che diventa principio alternativo di autoregolazione sociale. Non voglio alcuna tolleranza cento o novanta, a nessun livello. Non mi piace mai, per chiarirsi, ciò che è abusivo. Perché una società che si assuefa all’abusivismo perde il senso dei confini tra diritto e prepotenza. Perché accettando la piccola illegalità per “spirito di tolleranza”, si promettono ospitalità e impunità crescenti a illegalità sempre nuove e a chi le sfrutta. E si abbassa la qualità civile del vivere quotidiano; che non è mai una buona premessa per educare a un decente spirito pubblico le nuove generazioni. E infatti, per restare ai temi di cui si discute in questi giorni, credo che se in Italia, unica nell’Europa occidentale, è cresciuto - in tante forme - un accattonaggio così diffuso, questo non è avvenuto (o non è avvenuto principalmente) perché abbiamo la cultura cattolica dell’accoglienza o perché c’è una forte influenza della cultura solidale della sinistra. Ma semplicemente perché la nostra è una civiltà mirabilmente cialtrona, che non ha il senso di quei confini e ha un basso spirito pubblico. Prova ne sia che l’accattonaggio e i suk si sono sviluppati, eccome, anche a Milano, ossia nella prima città italiana che, volendo adottare la parola d’ordine di Rudolph Giuliani sindaco di New York, ha sposato l’ideologia della tolleranza zero, facendone una specie di dea protettrice, sorta di nuova “madonnina” laica.

Il che mi aiuta a spiegare perché ripudio oltre la (mai decantata ma praticatissima) tolleranza cento anche la (decantatissima) tolleranza zero. Quale può essere infatti l’efficacia di questa ricetta nel nostro contesto? Presto detto. Siccome siamo cialtroni, discontinui, abituati a funzionare solo nelle emergenze; siccome abbiamo nel nostro dna di governo non il “rigore democratico” bensì il “lassismo autoritario”, da noi ogni invocazione di tolleranza zero si traduce in una breve tornata di intolleranza repressiva, nella iniezione nel corpo sociale di una elevata ostilità verso qualche categoria sociale (sempre debole), e poi nella ripresa in grande stile dei suk e degli stessi fenomeni di illegalità diffusa che si è promesso con grida manzoniane di debellare. Risultato? Il fenomeno resta. E in aggiunta ci ritroviamo più rancorosi e meno aperti culturalmente. È come prendere una medicina tossica che non ci guarisce. Che lascia in circolo solo il veleno. Insomma, la formula magica gonfia i muscoli, riscuote consensi, ma è un po’ come se drogasse la cultura pubblica, il senso civico diffuso.

C’è poi una seconda ragione che la rende indigesta. Ed è che essa viene costantemente e selettivamente rivolta solo verso i più deboli. A volte partendo da ragioni reali, che meritano ogni attenzione. Ma sempre lasciando, insopprimibile, il disagio di vedere che è sempre verso gli ultimi, mai verso i forti, che si diventa - vedi come le parole si richiamano - ultimativi. Sempre lasciando la sensazione agra di avere costituito quasi una comunità di maramaldi.

E infine c’è una terza ragione, perfino più profonda, di diffidenza verso la formula magica newyorkese. E sta tutta nel principio di ragionevolezza che - giustamente - chiamiamo ogni giorno a governare le nostre relazioni sociali. Anche quando vogliamo intervenire contro l’illegalità diffusa, non sarebbe cioè male ricordare che, in fondo, ogni relazione di cui si intesse la nostra vita si costruisce su un certo grado di tolleranza. A partire da un convenzionale minimo di dieci, appunto. Che è poi la modicissima quantità che praticano, consapevolmente o meno, i più intransigenti. Dalla vita coniugale e di condominio su su fino a quella delle nazioni. Per ragioni di quieto vivere, nobili e meno nobili. Per comprensione innata del valore delle differenze. Per spirito di adattamento reciproco. Per la consapevolezza che è utile capire e “assorbire” le ragioni dell’altro. Per la necessità di transigere se si vogliono garantire accettabili equilibri di convivenza a ogni livello. La vita sociale è insomma una infinita sequenza di mediazioni. Che fa sì che anche per i comportamenti che condanniamo fermamente ci sia una riserva fisiologica di comprensione. A volte sollecitata dagli stessi protagonisti (non deboli) di quei comportamenti. Forse che anche gli avversari più incalliti dell’evasione fiscale non sono disposti ad accettare che ci possano essere, nei conteggi aziendali, errori in una misura plausibile (facciamo il dieci per cento?) o che uno o due scontrini evasi non valgano a far chiudere un negozio? Forse che anche chi è contro l’abusivismo edilizio non è disposto ad accettare intorno a sé una piccola violazione delle regole, una veranda, un ripostiglio, perfino una baracca, purché non sconvolgano le armonie o il paesaggio? Quanto tolleriamo di ciò che è illegale, villano, diseducativo, cercando di stabilire un ponte, un’intesa, con i bisogni o le abitudini dell’altro? Come rielaboriamo le nostre visioni di ciò che è giusto o ingiusto, tollerabile o intollerabile, in base alle culture circostanti? O, passando alle grandi arene della vita pubblica, non si accetta forse, per amore di quiete politica, di pace sociale, che diventi capo del governo chi, in base alle leggi della Repubblica, sarebbe semplicemente ineleggibile? Non si transige perfino sui diritti umani per coltivare le relazioni internazionali? Non si cerca (anche troppo, altro che tolleranza dieci...) di “capire la cause” della evasione fiscale, della raccomandazione, della violenza negli stadi, perfino della mafia che dà i posti di lavoro e fornisce dei modelli di successo?

Anche le persone più rigorose e severe sanno che la tolleranza zero fa perdere di vista le complessità sociali, la ragionevolezza, la stessa efficacia delle proprie strategie, impedisce di costruire soluzioni proficue dei conflitti. Che è cioè merce per persone poco intelligenti. Quale è dunque la ragione che ci porta a precluderci questa quota di tolleranza, modica ma essenziale alla funzionalità del sistema, verso alcune categorie sociali? Perché a loro, e solo a loro, non si applicano i canoni di comportamento che sono la fisiologia della nostra società? Ci sono due spiegazioni possibili. Che non si escludono tra loro. Perché consideriamo queste categorie fuori dalla nostra società. Perché queste categorie non votano. E solo a dirlo passa un brivido per la schiena...

www.nandodallachiesa.it



Pubblicato il: 02.09.07
Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01   
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Titolo: Furio Colombo Alta intolleranza
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2007, 05:21:23 pm
Alta intolleranza

Furio Colombo


Giuliano Amato. Conoscete un uomo più incline al dialogo e alla valutazione di opposte ragioni? Bene, dimenticatelo. O almeno così lui ci chiede di fare con le risposte sprezzanti che dedica a chi gli dà torto, nell’intervista pubblicata il 5 settembre da Repubblica (autore Massimo Giannini). Il tema, come il lettore che non avesse letto l’intervista immagina, sono i lavavetri. Lo svolgimento del tema, come ormai tutti sanno, va in due direzioni opposte. In una si vedono i lavavetri, mendicanti e venditori (magari un po’ ostinati) di fiori come il primo gradino di una scala che sale su fino al delitto, alla banda, alla criminalità organizzata. E propone la mitica e e disumana “tolleranza zero” dell’ex sindaco di New York (senza sapere che il bravo leader repubblicano, ora che è candidato alle elezioni presidenziali, sta cercando disperatamente di far dimenticare quella vecchia, gelida immagine di sceriffo).

Nell’altra direzione si vede, si constata, si dice, specialmente se si ha qualche esperienza del mondo, che i lavavetri sono lavavetri e i criminali sono criminali. E che nessun esperto ha mai scoperto e indicato un filo che leghi le due carriere. Ora, per ragioni che certo sono valide ma che non conosciamo, il ministro dell’Interno ha deciso che la Repubblica italiana è fondata sulle persuasioni personali dell’assessore Cioni di Firenze, dislocate non tanto lontano dalle persuasioni del sindaco leghista di Treviso Gentilini, benché Cioni vanti un bel pedigree di sinistra.

La persuasione di Cioni - che adesso è di Amato - è il rovescio della regola d’oro americana.

Quella regola dice: «È permesso tutto ciò che non è proibito». Amato e Cioni sentenziano: «E’ proibito tutto ciò che non è permesso». E poiché non permettono più nulla, né una spugna né un fiore, l’esperienza insegna che il risultato sarà, come qualunque prete della Caritas ma anche qualunque carabiniere semplice potrebbero spiegare, meno mite e assai più illegale. Nel migliore dei casi più decoro urbano e più furti, perché è difficile che gli ex lavavetri vadano a sistemarsi in Telecom o in Alitalia (data anche la situazione). Qui, però, devo fermarmi.

Mi sto accorgendo che - dal punto di vista del nuovo Giuliano Amato - così come rivelato dall’intervista di Giannini a pag 3 di Repubblica - con la mia breve argomentazione, sono già caduto nella “sociologia d’accatto”. Definizione (sono parole mie): «E’ sociologia d’accatto ogni argomentazione che, benché fondata su testi e maestri di qualche valore, non coincide con la visione Amato-Cioni».

Non conosco l’assessore Cioni di Firenze, di cui ho solo ascoltato qualche frase un po’ spiccia e sgarbata alla radio. Ma conosco Giuliano Amato, la persona, il docente, l’amico. E non so spiegare. E’ vero che quella intervista in cui un intellettuale come Amato definisce “d’accatto” anche il dissenso di Asor Rosa, comincia con la più curiosa delle domande nella storia del giornalismo italiano. Non ci crederete ma la domanda è questa: «Ministro Amato, mentre voi preparate un pacchetto di misure urgenti contro la criminalità, politici e intellettuali ex o post comunisti, si baloccano con Cesare Beccaria, filosofeggiando sui delitti e sulle pene, sdottoreggiano sull’uomo buono rovinato dalla società. Non le pare che ci sia un certo deficit culturale nel modo in cui la sinistra ragiona e affronta i temi della sicurezza»?

Un certo deficit culturale esiste certamente se uno dei più noti giornalisti italiani formula in questo modo la prima domanda di un’importante intervista con il ministro dell’Interno su una questione che divide e contrappone parti altrettanto preoccupate e altrettanto rispettabili di ogni società democratica. Potremmo dire che questa domanda è un’attenuante non da poco. O almeno una parziale spiegazione a tutto il resto dell’intervista.

Purtroppo però Giuliano Amato - che abbiamo visto in passato ascoltare, considerare e correggere con rispettosa pazienza persino le dichiarazioni di Bossi - ha questo da dire, in sequenza, da chi si scosta dalla sua dottrina e da quella di Cioni.

Cito: «Il dibattito era ed è burattinesco. Emergono, con toni vibranti, dilemmi che sono assolutamente senza senso e che nascondono un problema non dichiarato».

«Chiedersi se il problema siano i lavavetri o la ‘ndrangheta è una domanda del tutto priva di senso».

«Facciamola finita con certe banalizzazioni sociologiche».

«Se qualcuno mi viene a dire che non c’è solo il problema della microcriminalità, io gli rispondo che ho già imparato alle elementari che due più due fa quattro».

«In queste osservazioni si annida quella tara culturale che affligge una parte della sinistra».

Il disorientamento è grande. Quando sarà iniziata la trasformazione di Giuliano Amato che, per la sua accortezza e finezza e delicatezza era stato definito in passato “il dottor Sottile”? Certo, sono brutti tempi, ma lui, fino ad ora aveva resistito abbastanza bene. Quando sarà scoppiata l’emergenza che all’improvviso, a partire dal Cioni di agosto, ha travolto l’Italia, dove uno solo dei grandi delitti d’estate è stato compiuto, a quel che si sa, da criminali non italiani? E’ vero, in ogni sondaggio di ogni giornale o tv, l’ottanta per cento dei cittadini dà ragione a Cioni e al nuovo intollerante Giuliano Amato. Vorrei ricordare che questo è il percorso che ha portato al ritorno della pena di morte in America. Furor di popolo. La democrazia è cattiva quando i leader si defilano.

Pubblicato il: 06.09.07
Modificato il: 06.09.07 alle ore 9.52   
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Titolo: SICUREZZA: AMATO INVITA ALLA PACATEZZA
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2007, 12:37:55 pm
2007-09-07 11:22

SICUREZZA: AMATO INVITA ALLA PACATEZZA

 ROMA - "Sono stupefatto per i toni e gli argomenti di critiche che trattano il richiamo al rispetto della legalità come un'oppressiva svolta a destra, condendo questa assurdità con l'immagine di figure sociali marginali colpite da misure liberticide e autoritarie che nessuno ha proposto o intende proporre". Lo ha detto il ministro dell'Interno, Giuliano Amato uscendo dal Viminale. "Un po' più di pacatezza, almeno in questa fase in cui nessuno conosce davvero gli interventi che stiamo studiando - ha aggiunto - non guasterebbe".

"Il senso del mio richiamo - ha detto ancora il ministro - é che applicare leggi democratiche, promuovendo quei cambiamenti necessari a un maggiore rispetto delle regole e una maggiore certezza della pena, serve a prevenire la richiesta di leggi non democratiche e a difendere diritti e libertà di tutti i cittadini, a cominciare dai più deboli, che la sicurezza non possono garantirsela da soli. Le nostre misure serviranno a questo". 

da ansa.it


Titolo: Furio COLOMBO - Sicurezza è...
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2007, 10:01:18 pm
Sicurezza è...

Furio Colombo


Se dico che, girando per una città italiana, ho più paura, da pedone, di attraversare una strada sulle strisce bianche di quanta ne abbia, da guidatore, di sostare a un semaforo dotato di lavavetri, credete che il ministro dell’Interno Amato si irriterà di nuovo (il riferimento è alla sua intervista con Massimo Giannini, la Repubblica, 5 settembre)? Hanno mai visto Amato e i sindaci-sceriffo, quel lampo di determinazione che si accende negli occhi del guidatore italiano (automobilista o motociclista) quando decide di tagliare la strada al pedone come se fosse un impegno d’onore?

Se scrivo che, nel nuovo pacchetto sulla legalità urbana non trovo alcun accenno al mare di tavolini di un mare di nuovi ristoranti che invadono e occupano le città italiane al punto da ostruire il traffico persino delle ambulanze (ne ha parlato invano Rita Bernardini, segretaria dei Radicali Italiani, con qualche ipotesi sulla legalità del nuovo denaro affluito improvvisamente nella ristorazione italiana) credete che darò prova di mancanza di «cultura di governo« (vedi il fondo di Europa del 6 agosto che inizia: «Pensavamo che le reazioni isteriche alle iniziative di Amato e dei sindaci sulla sicurezza derivassero solo da arretratezza ideologica di una parte della sinistra... »)?

Se affermo che non vedo il rapporto fra il «pacchetto sicurezza», clamorosamente annunciato, e la vita italiana (a meno che si vogliano istituire nuclei di polizia di famiglia per prevenire i soli delitti orrendi fra mogli, mariti, fidanzati, figli, e finti rapimenti che hanno funestato la nostra estate) nel senso che la sicurezza richiede uomini e mezzi che non sono indicati nel «pacchetto» e non vedo il rapporto tra il pugno di ferro della sicurezza e la spugna dei lavavetri (che, a Roma, vendono anche la Repubblica e Il Messaggero), dite che è un segno di estremismo leninista?

Chiedo scusa ai lettori se torno sull’argomento “lavavetri”. Lo so anch’io che avremmo ben altro di cui occuparci e che non c’è - e non c’è mai stato finora - un “delitto dei lavavetri”, ne c’è mai stata una simile esasperazione su un problema modesto, quanto a sicurezza dei cittadini. Però devo riconoscere che tutto ciò rivela quanto grande sia la solitudine e isolamento sia dei cittadini sia degli immigrati. Ma c’è un vuoto tra chi sta cercando di suonare l’allarme e chi non capisce perché. Dunque è inevitabile cercare un po’ di chiarezza.

Certo, è difficile cercare chiarezza, quando manca del tutto un sistema di comunicazione costante e coerente fra governo e cittadini, quando le decisioni sembrano prese all’improvviso in base a umori e voci, e non segue mai una spiegazione.

Per esempio, dopo il mitico “pacchetto sicurezza” per cui una parte del governo (incluso il ministro della Difesa!) si è improvvisamente riunito, non è seguito alcun comunicato o conferenza stampa. I telegiornali hanno continuato a ripetere: «Stando a quel che si è saputo», «secondo quanto è trapelato». Il ministro dell’Interno ha fatto sapere nei dettagli ciò che pensa di chi gli dà torto (giudizi da professore irato) ma non ha fatto sapere né in generale né in particolare quali sono i punti e quali sono le ragioni del “pacchetto sicurezza”. E perché adesso, con questa drammatica risonanza.

Abbiamo lasciato dire alla destra che il Paese non ne può più delle tasse, fino a quando l’ultimo elettore di Prodi si è persuaso che non ne possiamo più delle tasse. E come se non bastasse, il ministro dell’Economia fa sapere - come se avesse davvero spinto alle stelle le tasse - che di tagliarle non se ne parla. «Prima bisogna mettere a posto i conti pubblici». Poiché gli estranei al mestiere dell’economia non sanno di quali conti si parla, la strada è libera per Tremonti, Brunetta e altri finti economisti di Berlusconi.

Gli autori dell’Italia a crescita zero denunciano la nostra “miserabile crescita” di quasi due punti come un fallimento. E indicano un’unica strada salvifica che essi non hanno mai percorso: il taglio drastico delle tasse. Vuol dire, ovviamente, tagliare scuole e ospedali (più difficile toccare le Forze Armate, che sono più grintose dei medici e degli insegnanti). La novità è che tutta la sinistra, adesso chiede il taglio delle tasse, come se fosse vero che il governo di Prodi non ha fatto altro che aumentare le tasse. È sottinteso, ma non detto, che tale taglio riguarda soprattutto le imprese, il solo gruppo che si sia ben organizzato a tal fine. I lavoratori sono troppo contenti di avere ancora il posto di lavoro, si trovano le tasse già prelevate in busta paga e sono i soli legittimamente a temere (come francesi, tedeschi, belgi, scandinavi) che, se tocchi le tasse, tocchi anche - forse malamente - alcuni diritti essenziali come scuola o salute.

Per questo non esiste in Europa un movimento popolare per il taglio delle tasse, come è esistito in America il famoso movimento della «Proposizione tredici», che - negli anni Settanta - ha vinto un referendum che ha portato la California, senza polizia e senza servizi sociali al disastro, dalle bande armate dei ghetti alla penuria di energia elettrica, durato per anni, fino al ritorno delle tasse (ma senza più l’inclusione di un minimo di assistenza sanitaria ai poveri).

Esiste, naturalmente, la cultura leghista, quella che sega le panchine per impedire che i senza dimora, come in tutto il mondo, vi dormano. Attenzione, non è una cultura solo leghista. Sindaci di sinistra adesso si attrezzano sia a segare le panchine che a punire con la giusta severità i lavavetri. E adesso leader di sinistra si apprestano a chieder tagli di tasse senza dirci in quale visione della vita, del funzionamento delle istituzioni e del continuare intatto dell’assistenza questi tagli sono possibili e perché. Sulla parola di quale economista questi tagli fanno bene all’economia e alla ripresa del Paese? Se sì, come mai Zapatero e Sarkozy non hanno mai sbandierato necessità e urgenza di eliminare le tasse - o promesso di farlo - nei loro Paesi ben funzionanti?

***

È appena arrivato in Italia il film di Michael Moore, «Sicko» (Malato) sul rapporto fra medicina e pazienti in America. È una delle pagine più dolorose e più vergognose di quel Paese: quasi 50 milioni di americani sono del tutto privi di assistenza medica. Tutto era garantito, un tempo, dalla forza dei sindacati, dal posto di lavoro che durava una vita e dalle aziende che dedicavano una certa parte del profitto alle assicurazioni, garanzie mediche e pensioni in cambio della pace sociale. A un certo punto la destra ha deciso: prima si attaccano i sindacati, poi il lavoro, infine ci si libera delle costose assicurazioni sulla salute.

E infatti Ronald Reagan ha iniziato con la spallata ai sindacati, ordinando il licenziamento in un giorno solo di tutti i controllori di volo in sciopero. Poi sono seguiti, prima con Reagan e poi con Bush padre, i tagli delle tasse che hanno quasi immediatamente smantellato il sistema medico. Quasi contemporaneamente le aziende hanno messo in movimento due manovre: sempre più precariato e sempre meno “fringe benefits” che, ai tempi dei sindacati, voleva dire pensioni e cure mediche.

Nell’America di oggi quasi ogni nuovo posto di lavoro non prevede né pensione né cure mediche. Il mercato ha spostato il suo interesse altrove, le persone da sole sono troppo deboli per trattare. È accaduto che il Partito democratico, storico sostenitore dei sindacati, si è persuaso che un mercato più libero da ogni vincolo è un bene per tutti. È stato un bene, a volte immenso, solo per alcuni.

Nel suo film Michael Moore ci fa vedere, con la sua indignazione americana, che cosa è successo agli altri, con e senza lavoro, con e senza quel che resta delle assicurazioni sanitarie,anziani ai margini della vita ma anche giovani in piena attività. Quel film mostra il cuore del mondo-mercato. Senza governo, senza freni, (quasi) senza tasse, con le borse gravate di fondi truccati e truffaldini, moltissimi cittadini sono solo pedine di un gioco che per loro è sempre perdente.

***

Non so se Michael Moore sia “sinistra radicale”, comunista o post-comunista. Non credo. Lui dice di essere soltanto cattolico. Ma fa vedere bene il legame tra lavoro, mercato, tasse, assistenza medica. Vogliamo dire i quattro punti cardinali di una democrazia industriale? E ci dimostra dove è in agguato l’illegalità contro la quale chi vuol difendere i cittadini dovrebbe voler combattere. È il grande gioco di privarti dei tuoi diritti, dalla sicurezza del lavoro alla sicurezza della salute (e il passaggio cruciale è di sgombrare l’orizzonte dalle tasse), usando i sondaggi delle tue stesse opinioni e usando il sostegno del tuo stesso voto.

Ecco dove la parola sicurezza balza al centro dell’attenzione - o dovrebbe - oltre alla grande lotta di tutti, istituzioni e cittadini, alla criminalità organizzata e alla corruzione. Diranno - con la collaborazione delle grandi testate - che queste sono le fastidiose, marginali posizioni della “sinistra radicale” o “estremista”.

Come vedete, anche se fanno finta di non saperlo, non è vero. Si può far finta di credere che Massimo Cacciari, Giancarlo Caselli, Cesare Salvi siano personaggi da barricata estremista. Si può far finta che Alberto Asor Rosa sia uno stalinista irredimibile. Si può far finta che questo articolo e il suo autore non ci siano. Più difficile sarà far finta di non aver visto che decine di migliaia di persone nel pomeriggio di sabato 8 settembre si sono autoconvocate in molte piazze italiane richiamate da Beppe Grillo. Sono tutte persone che non si sentono rappresentate né dal cast fisso di «Porta a Porta» né dai sindaci-sceriffo, e si sono perdute nel silenzio quasi assoluto di un governo laborioso ma introverso e nella giungla di un’incomprensibile disputa sulle tasse e di un’altra incomprensibile disputa sui lavavetri, mentre l’Italia è sempre immersa in una illegalità immensa e potente, completa di “leggi vergogna” ereditate intatte da Berlusconi. Quelle decine di migliaia di persone si sono riunite in tante assemblee contro la politica così come la vedono recitata nel cast fisso di «Porta a Porta». Erano solo cittadini che un tempo venivano a dare coraggio al centrosinistra in Piazza San Giovanni o al Circo Massimo a Roma. Adesso, lasciati soli, fanno da soli intorno al vocione di Beppe Grillo. «Ma quando mai un comico ha dovuto mettersi a fare il leader»?», ha chiesto lo stesso Beppe Grillo al suo popolo. Per fortuna c’è chi si ostinerà a portare tutte (tutte) queste valige dentro il Partito democratico. Per impedire che voli via col vento frivolo di Europa.

Pubblicato il: 09.09.07
Modificato il: 09.09.07 alle ore 7.01   
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Titolo: Furio COLOMBO - La scommessa
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2007, 09:58:27 pm
Nati l’11 Settembre

Furio Colombo


C’è un tratto tipico della conversazione politica italiana che forse deriva dalla tradizione contadina degli «stornelli a dispetto». È la tendenza ad argomentare cercando un nemico, ad appoggiare la mia adesione e sostegno e partecipazione a qualche cosa, con la negazione sprezzante di un’altra. C’è una colpa da rinfacciare e quella colpa regge il peso retorico ma anche logico di tutto ciò che diremo di favorevole e buono. «Non come quelli che hanno detto (o fatto o osato o ingannato)» resta la tipica trave di sostegno di una argomentazione che, per completarsi, ha sempre bisogno di una rivelazione a contrasto: la vera storia, non quella che ci hanno raccontato.

Giovanna Pajetta, nel suo libro Nati l’11 settembre: i bambini, le famiglie, la scuola nei sei anni che hanno sconvolto il mondo, non si distrae mai, non perde tempo a crearsi un avversario.

Ha un solo fine, lo dichiara fin dal titolo e lo segue. Come i bambini di cui parla, l’autrice è di fronte a ciò che ha visto senza altra spiegazione che la paura, la sorpresa, l’orrore. E le interessano non i misteriosi mandanti ma le vittime, non il disvelarsi possibile di altri scenari ma quello scenario, che è lo scherno di milioni di televisioni che ripetono la stessa scena milioni di volte, per un tempo che continua a non finire mai. In questo senso il lavoro di Giovanna Pajetta è un appassionato e appassionante lavoro che ha prima di tutto questo grande pregio: tenta di interrompere l’ipnosi, forza la serratura di un incubo che tiene bloccati i bambini, li segna mentre crescono senza poter dimenticare, rende gli adulti un po’ meno incapaci di fare da guida nel nuovo mondo del terrore.

Fa strada, nelle prime pagine del libro, la voce insieme sicura e distorta di un undicenne che sa e che ha visto. È una voce sicura perché Massimiliano sa quello che sa, e gli bastano poche parole per dirlo. L’evento si è mangiato l’immaginazione. È troppo più grosso e lui taglia corto. È una voce distorta perché il bambino si ripara dall’impossibile attraverso una artificiosa pretesa di freddezza, di controllo. È così e basta.

La narrazione continua poi usando, come in un mixaggio televisivo, voci adulte e voci di bambini (ex bambini, alcuni, dato il passaggio del tempo dall’evento alla scrittura del libro) , voci di cronaca e voci di ricordo, genitori, psicologi, insegnanti, testimoni. Il punto di riferimento sono sempre i bambini, ma questa non è una trovata benevola o affettuosa. È un modo straordinario per dire: badate che ciò è accaduto per sempre. E anche se è stupefacente il modo in cui i bambini tentano di cambiare le carte in tavola e di convivere con l’impossibile, questo libro dimostra che l’11 settembre, anche se ha finito (o quando avrà finito) di essere uno strumento di gestione del consenso e dissenso politico, resta una cicatrice sul volto di un vastissimo schieramento di infanzia del mondo.

In tutto il libro di Giovanna Pajetta sono 140 pagine, ma lo scopo è enorme, ed è uno scopo raggiunto. Lo scopo è questo: dimostrare che niente, neppure la bomba atomica, ha mai colpito in un tempo così breve una massa così vasta in un modo profondo che non si può cancellare.

È stata importante e abile anche l’attenzione che l’autrice ha dedicato agli episodi di terrorismo generati dall’attacco alle Torri Gemelle. Irrompono in queste pagine i bambini di Beslan, la scuola tenuta in ostaggio con le bombe appese dovunque in uno spettacolo di orrore vero come un disastro ferroviario, ma condotto e narrato per fasi successive sempre più spaventose dalla psicopatia che ha invaso la politica.

In un certo senso Beslan, per niente investigato dal giornalismo colto e sospettoso sempre in guardia verso gli americani, è un evento (meglio, una serie di eventi) molto più misterioso delle Torri Gemelle. Non sappiamo davvero chi, non sappiamo davvero perché, non abbiamo alcuna ricostruzione seria su cui discutere, non ci sono state vere inchieste, veri processi, neppure un tentativo di riorganizzare le spaventose sequenze e di spiegare il numero così alto di morti bambini, e le vere modalità di quelle morti.

La bambina Greta - che a pag. 65 del libro - racconta la stretta di terrore improvviso che l’ha colta al momento di entrare a scuola, parla a nome dei bambini che hanno trasferito all’instante il terrore in famiglia, in classe, nel vivere quotidiano. Hanno capito che non parliamo di guerre, non ci sono eserciti, i salvatori, se ci sono, è per caso. «È proprio il mondo di Greta che viene attaccato» spiega il libro con le parole del padre della bambina.

Ecco ciò che fa in ogni pagina, in ogni storia, il libro di Giovanna Pajetta. Segue le fenditure naturali della paura, dell’angoscia, del naturale bipolarismo dei bambini fra grandi ansie ed euforie festose. E constata che proprio lì è andato a scolare il liquido infetto della paura di New York e di Beslan e di Madrid e di Londra. La famosa risposta che i bambini più coraggiosi a un certo punto si danno da soli: «No, io so che questo è impossibile», la famosa rassicurazione che i più incerti finiscono per accettare dagli adulti, qui non funziona. Quello che è successo è un cambiamento profondo e totale, come lo scoperchiamento di un pozzo al fondo del quale ogni bambino vede con certezza l’incertezza, anzi la paura, anzi il terrore, che pensavamo materia per genitori, educatori e psichiatri. E invece è realtà quotidiana perfettamente possibile e dunque ragionevolmente probabile. Questo è il marchio: la ragione è dalla parte della paura e non può rassicurare nessuno. E quando la narrazione della Pajetta si stempera in altre vicende, in tormenti locali, in colpi di orrore vicini a casa che non hanno avuto l’esposizione immensa del terrore globale, ci si rende conto che comunque la storia (ovvero la vita, e soprattutto quella dei più giovani) è cambiata per sempre, si è rotta in un punto - la fiducia nella ragionevolezza che prevale - non riparabile. Tutto ciò a causa di una concausa molto meno esplorata delle possibili spiegazioni alternative di ciascun evento tragico.

Sto parlando della solitudine, del silenzio oppure dei bla-bla-bla della politica, che non riguarda nessuno e consola a malapena coloro che parlano affacciandosi al video, finestra sempre più triste. Sto parlando dei circoli chiusi, dei partiti assenti, dei leader queruli o afasici ma sempre lontani. Solitudine o paura, in un mondo presidiato solo un po’ da adulti-genitori, adulti-insegnanti, qualche volta adulti che curano ma mai adulti che rappresentano un autorità credibile, sono il vero tema di questo libro e la vera ragione per leggerlo è il ritratto molto attendibile di un Paese spaventato, parte di un mondo spaventato che è il nostro presente.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 11.09.07
Modificato il: 11.09.07 alle ore 8.24   
© l'Unità


Titolo: Furio COLOMBO - La scommessa
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2007, 04:40:18 pm
Chi distrugge la politica

Nando Dalla Chiesa


«Maestà il popolo ha fame, manca il pane». «Dategli le brioches!». Viene in mente il celebre dialogo del dignitario di corte con Maria Antonietta vedendo le misure che i leader politici italiani propongono di adottare dopo la giornata di sabato scorso, passata alle cronache come il Vaffa-day di Beppe Grillo. Che cosa chiedono gli italiani che si sono sentiti rappresentati da quelle piazze? Chiedono che i «rappresentanti» vengano scelti dai loro «rappresentati»; che non è, ammettiamolo, un princìpio così bizzarro in una democrazia, ma anzi è il fondamento della democrazia. Mentre abbiamo una legge elettorale che proprio di questo ha fatto piazza pulita: la possibilità del cittadino di scegliersi chi lo rappresenta in Parlamento. Una legge che, tra i deputati e i senatori, ha aumentato i funzionari di partito del 250 per cento. E che ha giocato un ruolo cruciale nell´alimentare la rabbia popolare.

Chiedono ancora, gli italiani che si sono sentiti rappresentati da quelle piazze, che in parlamento non siedano più i condannati per i reati più diversi, compresi i più gravi. Per dire forte e chiaro che le istituzioni parlamentari sono incompatibili con il crimine o con l´illegalità.

E la politica come risponde a chi chiede di potere votare e di non avere condannati in parlamento? Diminuiamo i ministri. Ottimo. Come le brioches. Perché il numero dei ministri e dei sottosegretari poteva e doveva essere tenuto a bada all´atto della formazione del governo, quando partiti e correnti si scatenarono nel rivendicare posti e postazioni di controllo. Ma le richieste di sabato scorso sono chiare, fondatissime, non consentono fughe. Perché sono, appunto, il «pane» della democrazia. E attendono risposte. Quali? Per esempio, più che parlare di ridurre i ministri (che va sempre bene, per carità), il partito democratico avrebbe un´arma straordinaria per dimostrare di avere inteso il messaggio del popolo dei blog. Potrebbe dire: purtroppo la legge elettorale l´hanno voluta quelli del centrodestra, ma noi nella democrazia ci crediamo per davvero; dunque là dove possiamo decidere autonomamente si torna alla libera scelta dei propri rappresentanti. E quindi sapete che vi diciamo? Che, alleluia, il 14 ottobre per le primarie si torna alla preferenza; e le liste bloccate le buttiamo finalmente alle ortiche perché non fanno parte della nostra cultura. E poi vi diciamo pure che avete ragione a non volere condannati per gravi reati in parlamento. In effetti, come si fa a chiedere sacrifici e rischi a magistrati e forze dell´ordine quando tra quelli che fanno le leggi ci sono anche coloro che le hanno violate?

È stupefacente la difficoltà che ha la politica nel rispondere del proprio operato. Mostra la coda bagnata, fa annunci e promesse a raffica. Ma di facciata. A volte si esercita in truffe semantiche (come quando il finanziamento dei partiti venne sostituito con i rimborsi elettorali). Di più: spesso, addirittura, proprio avendo la coda bagnata, asseconda senza dignità le pulsioni demagogiche che inevitabilmente si scatenano dentro i moti di rabbia e di contestazione. Magari immaginando che per mostrarsi «vicini ai cittadini» basti andare in tivù a ridere e ballare e a far da spalla al comico di turno (che politico simpatico, lui sì che è come noi).

Già, perché mentre opta per le brioches la politica evita anche di difendere se stessa rinunciando a combattere i luoghi comuni. Perciò (guarda che mi tocca fare... ma qui bisogna sapere andare controcorrente sia rispetto ai partiti sia rispetto alla piazza...) dico che essa, mentre è chiamata a cambiare il cuore delle regole, deve anche sentire la responsabilità di dare ai cittadini informazioni corrette sulla «materia infiammabile» di questi mesi. Che mentre deve bonificare radicalmente i territori inquinati, dalle prebende a pioggia e incontrollate agli attici di favore, deve sapere difendere o spiegare ciò che va difeso o spiegato. Giusto per «pulire» il campo. Perché non diventi tutto uno stesso mazzo di vergogne. Ad esempio i famosi viaggi gratis dei parlamentari. Che esprimerebbero, si dice, un privilegio di deputati e senatori di fronte alla società civile. Ma perché non dire che è proprio la società civile che beneficia di quei viaggi gratis, ossia le centinaia e centinaia di circoli, associazioni, scuole, cineforum, biblioteche, riviste, che sanno di potere invitare un parlamentare per dare slancio e forza alle loro iniziative senza dovere pagare il costo di un aereo o di un treno? Perché non dire, anzi, che questo privilegio rientra esattamente nei calcoli di chi organizza e invita, il quale mai - altrimenti - potrebbe permettersi di sopportare i costi del convegno o del dibattito o del cineforum? Perché far credere al cittadino che questo privilegio venga usato per farsi crociere personali quando in più anni l´unico desiderio che io e tanti altri abbiamo avuto è stato quello di festeggiare l´arrivo delle vacanze estive con una settimana di sosta a casa, provvidenziale riposo dopo un anno passato a viaggiare in frenesia (fine delle votazioni in aula-partenza-dibattito serale-rientro all´alba)?

Naturalmente si può discutere se questo sia giusto o no. Probabilmente non lo è. Fatto sta che (salvi, accidenti!, gli aerei di Stato per usi di svago) questo è l´uso che centinaia di parlamentari fanno di quel «privilegio»: metterlo al servizio, farne una forma di finanziamento indiretto, della democrazia diffusa, della società civile.

Oppure ancora, altro esempio: perché continuare a presentare come una forma di moralizzazione politica la abolizione del Senato? Davvero crediamo che i nostri padri costituenti non sapessero o capissero nulla di politica e di meccanismi istituzionali? O forse nel tempo non si è mostrata ancora più lungimirante la loro previsione? Quella cioè che fosse necessaria una doppia lettura delle leggi per metterle al riparo dalle consorterie ambientali o dagli stati emotivi di massa? Forse che nella società dei media non è ancora maggiore il pericolo che un evento o una campagna d´opinione scatenino istinti e sentimenti, travolgendo il buon senso e portando una camera a votare un provvedimento del quale essa si potrebbe vergognare dopo una settimana? Non dice nulla il caso della cura Di Bella? E davvero pensiamo che se fosse stato rispettato lo spirito del bicameralismo (il «raffreddamento» invece della corsa forsennata), sarebbe passata una legge sciagurata come quella dell´indulto?

O infine, per andare alla terza richiesta del «popolo di Grillo». Perché non dire che il tetto dei due mandati parlamentari, oltre a cozzare con il principio della libera scelta degli elettori (lo stesso, si badi, invocato contro le liste bloccate) può abbassare proprio la qualità dei rappresentanti? Un conto è diffidare dei senza mestiere che si installano per una vita in parlamento. Altro è precludere alle istituzioni di potersi servire anche a lungo di persone di qualità. Ricordo, per capirsi, la delusione che provai quando Stefano Rodotà mi annunciò che non si sarebbe più ricandidato. La prima cosa che pensai fu che il parlamento perdeva qualcosa. E, se può servire la mia esperienza, devo dire (ora che non sono più parlamentare) che, delle tre legislature che ho fatto, quella in cui ho potuto dare il massimo al Paese è stata la terza. Perché quando sulla scena si scatenano i poteri forti dell´ economia e dei media è utile, decisivo perfino, avere almeno parlamentari di esperienza.

Ecco. Ho fatto solo tre esempi. Per dire che spesso si scelgono bersagli falsi. Agnelli sacrificali, alternativamente, per deviare la rabbia o per esasperarla. E per dire che chi fa politica con passione ha dieci volte il dovere di spiegarlo. E magari di dire pure che la proposta di rendere ineleggibili i condannati non è nata sabato scorso ma è già stata presentata e portata al voto in commissione (perdendo) nella scorsa legislatura da un gruppo di senatori. Giustissimo firmarla e presentarla di nuovo. Ma dei parlamentari - non complici, non accidiosi - ci avevano già pensato prima. Così come quaranta parlamentari, non altri, convocarono la famosa manifestazione di piazza Navona nel 2002 per una legge «uguale per tutti». Il rischio insomma è sempre lo stesso. Ed è un rischio micidiale. Che la rabbia monti cieca, spenda tempo ed energie contro totem sbagliati, metta nello stesso mazzo tutti i politici (in un dibattito su Radio Popolare sono stato perfino accusato di avere per portavoce un pregiudicato...), inietti in circolo nuovi veleni dai quali risorgerà, più forte di prima, la politica più cinica. Pronta a flettersi quando arriva la piena, e altrettanto pronta a rialzarsi con baldanza quando la piena è passata. Nel frattempo il finanziamento pubblico sarà stata abolito per dar vita ai rimborsi elettorali, le preferenze saranno state abolite per dar vita alle liste bloccate, il ministero dell´agricoltura sarà stato abolito per fare nascere quello delle Politiche agricole. La rabbia e l´inganno. Il «sono tutti uguali», il «nessuno fa niente». Che è la ricetta ideale perché, dentro la politica, i rapporti tra innovatori e conservatori restino identici. Poi, passata la marea, i conservatori rialzeranno orgogliosamente la propria bandiera sulle mura della città. Ma davvero deve sempre andare così?

www.nandodallachiesa.it

Pubblicato il: 14.09.07
Modificato il: 14.09.07 alle ore 13.11   
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Titolo: Furio COLOMBO - La scommessa
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2007, 07:37:27 pm
La scommessa
Furio Colombo


Non vi preoccupate. Il prof. Galli della Loggia non si affaccerà al balcone del suo editoriale per dire sdegno e protesta per «il tempo dei maiali» proclamato dal vicepresidente del Senato Calderoli. Ovvero la dignitosa ed equilibrata proposta di un’alta carica dello Stato di utilizzare i maiali come deterrente alla costruzione di luoghi di preghiera per gli immigrati (molti di essi sono già cittadini italiani) di religione islamica.

Il prof. Galli della Loggia è diversamente occupato. Che cosa volete che sia una dichiarazione pericolosa e oscena di un personaggio che ha già provocato personalmente - poco tempo fa - una ventina di morti in Libia, in una sanguinosa rivolta anti-italiana, rispetto alla impudenza del ministro Padoa-Schioppa che ha osato nominare un esperto (forse il più esperto in quel campo, in tutto il Paese) consigliere di amministrazione della Rai?

«La nomina di Fabiano Fabiani continua ad accendere le polemiche e a dividere la politica italiana», hanno aperto per giorni i giornali radio, le agenzie, un bel po’ di telegiornali.

Infatti le notizie della settimana politica sono state due, la nomina di Fabiani (so che non lo sto aiutando con questo articolo, ma è impossibile evitare l’argomento) e i maiali di Calderoli. Per rendere più chiara la gerarchia presso i media italiani di queste due notizie e metterle in prospettiva, farò un passo indietro.


***


Siamo a Torino, alla festa de l’Unità, lunedì 10 settembre, e stiamo discutendo sullo stato delle informazioni nel nostro Paese. La mia proposta alla folla che ci ascolta in questa «ultima festa» (ma io ho sostenuto che non può essere l’ultima, perché l’Unità continua e regge bene, resta il solo giornale politico d’Europa che stampa e vende decine di migliaia di copie) è la seguente: «Nel giornalismo italiano l’agenda di ciò che conta e ciò che non conta è ancora dettata da Berlusconi, dai suoi interessi e dal suo capriccio.

Da questa agenda nessuno si discosta perché Berlusconi è un potente editore sempre in grado di vendicarsi. Ma anche perché interessi e capriccio di Berlusconi segnano ogni settimana, anche adesso, la vita politica del Paese e dunque pesano sul modo in cui compaiono e scompaiono le notizie.

Un collega de La Stampa che partecipava al dibattito, con lodevole lealtà, ha difeso sia la categoria che il suo giornale, facendoci notare che sarebbe assurdo dire che, in un Paese libero, sono tutti berlusconiani. Naturalmente aveva ragione, anche se è stato inevitabile fargli notare che molti non berlusconiani hanno dovuto a suo tempo lasciar perdere sul licenziamento in tronco di Enzo Biagi, e sui vari allontanamenti di cui hanno patito Santoro, Luttazzi, Sabina Guzzanti e tanti altri.

Ma ho pensato che sarebbe stato più utile rischiare una scommessa. La scommessa che ho fatto con i presenti era questa: vi preannuncio che, di fronte alla notizia dell’ex consigliere Rai Petroni che resiste, si oppone, si appella per la terza volta al Tar, tutte le fonti di stampa italiane saranno caute e gentili, come i giornali americani non fanno mai neppure quando sono in discussione i candidati alla Corte Suprema. Petroni è la pedina di Berlusconi per bloccare la Rai. Berlusconi non gradirebbe giudizi un po’ rudi. Scandalo, fermezza e severità ci saranno. Ma per Fabiani.

E quanto al presidente Petruccioli, già si insinua che sia patologicamente legato alla poltrona solo perché non si è dimesso subito, una insinuazione sgradevole che però non tocca il Petroni tuttora aggrappato al posto e al Tar. Immaginate, ho detto, a chi mi ascoltava, il furore e il sarcasmo se Petroni fosse stato di centrosinistra? Quanto ci si sarebbe divertiti (con il concorso di tutti i vignettisti) per uno di sinistra che non se ne vuole andare? Del resto tutti ricordiamo gli sberleffi dedicati a Biagi e al «Bella Ciao» di Santoro.

E poiché - con la lealtà di categoria - il collega de La Stampa resisteva, ho potuto dirgli, senza sapere da giornalista, ma sapendo da lettore italiano: «Basterà un’occhiata a ciò che scriverà domani Augusto Minzolini. Come per caso, incontrerà Berlusconi e lo citerà tra virgolette. Citerà e ambienterà l’apoteosi di Petroni e la condanna con sprezzo della nomina di Fabiani».

Poiché si è trattato di una scommessa in pubblico (stimo Minzolini, so che nel suo legame esclusivo con Berlusconi non delude mai) sono contento di avere vinto. Il testo di Minzolini apparso martedì 11 settembre sul grande quotidiano italiano a proposito della Rai, corrispondeva quasi frase per frase alla mia profezia (aggiungete qui un po’ di umorismo) del giorno prima. Ma ancora non sapevo nulla di Ernesto Galli della Loggia.


***


Il professore di Perugia, oltre un anno dopo la presunta fine del capo carismatico della CdL (che però si sta reincarnando in Michela Vittoria Brambilla), scrive un testo scrupolosamente ligio ai dettami di Forza Italia e ne rappresenta lo specifico percorso politico: negare rispetto e credibilità a decisioni e persone che siano fuori dallo spazio del passato governo. Quel passato governo, noi all’Unità, (da soli, lo riconosco) lo avevamo chiamato regime. Perché è difficile non considerare regime un governo che deliberatamente organizza i pestaggi cileni di Genova (dopo che lo sparo che ha ucciso Carlo Giuliani avrebbe suggerito in qualunque democrazia una tregua); che si libera del più autorevole e credibile giornalista italiano su richiesta pubblica ed esplicita del primo ministro; che accusa in modo ripetuto, pesante, brutale i giudici dei processi per reati che lo riguardano (ricorderete la definizione di malati mentali); che definisce “Kapò”, ovvero caposquadra di un campo di sterminio, un eurodeputato tedesco che si era permesso di accennare, nel Parlamento di Strasburgo, alle origini oscure della ricchezza di Berlusconi; che irrompe in un’assemblea di imprenditori per insultare liberamente, a lungo, in diretta uno di quegli imprenditori per qualche sgarbo o violazione di regole nel club “potere privato più governo”, ovvero gigantesco conflitto di interessi.

Al centro di quel conflitto di interessi c’era la Rai, caso clamoroso denunciato come uno scandalo dalla stampa inglese e americana, dai media del mondo.


***


Nella Rai governata dal conflitto di interessi di Berlusconi è successo di tutto: dalla presenza del primo ministro proprietario e controllore, concessionario e concedente delle frequenza su tutte le reti, alle notizie false dette e ripetute in tutti i programmi, incluso il varietà e lo sport. Dalle nomine più fantasiose e audaci di totali incompetenti e di amici personali del padrone all’insediamento di un direttore generale “incompatibile”, dunque illegale e illegittimo per il quale la Corte dei Conti ha multato chi ha preso quella decisione e la Rai per cinquanta milioni di euro.

Ma all’improvviso il professore di Perugia nota la nomina di Fabiano Fabiani, ex direttore del telegiornale Rai, ex direttore centrale Rai, ex vicedirettore generale Rai, a consigliere di amministrazione della Rai al posto dello sfiduciato Petroni. E si è lanciato in una accanita contestazione annunciata sin dal titolo del clamoroso editoriale: “Il patto stracciato”.

Avrà lasciato di stucco anche la destra che (vedi la legge Gasparri scritta per Mediaset dal ministro italo-berlusconiano delle Comunicazioni) non ha mai saputo o creduto o pensato che dove vige il dominio assoluto del conflitto di interessi, vi possano essere patti da rispettare. Ma Galli della Loggia a questa obiezione risponde senza imbarazzo: «Ciò che va bene per Berlusconi non va bene per Prodi». Evidentemente intende dire: Prodi non può perché non è il padrone di niente. Ma persino arrivare a questo punto non basta. Occorre dimostrare che la nuova nomina è una nomina di partito. E qui entra in campo la mia scommessa con il collega della Stampa, giorni prima, alla Festa dell’Unità, prima di leggere Minzolini (a cui Berlusconi confida la sua ira, la sua dichiarazione di guerra e proclama “mai più il dialogo” come se ci fosse mai stato un dialogo). E prima di conoscere l’editoriale di Galli della Loggia che stiamo discutendo. Sentite questa frase, che è il cuore dell’argomentazione: «Fino a ieri la Rai costituiva uno dei pochi ambiti in cui si era riusciti a stabilire un accordo di tipo istituzionale tra maggioranza e opposizione sulla base di un comune rispetto di un comune modus operandi». Se la sente l’autore di spiegare questa frase a Enzo Biagi? O alla Corte dei Conti? O di provare a spiegarlo a coloro che non si sono arresi al violento strappo illegale del conflitto di interessi che ha consentito a una sola persona di governare insieme Rai e Mediaset, stesse notizie, stessi messaggi, stessa faccia, stessa voce e stentorei discorsi in onda a tutte le ore su tutti gli schermi del Paese?

Qualche lettore adesso mi chiederà: e la barbara dichiarazione del vice presidente del Senato italiano che propone di insediare dovunque i maiali per spingere via gli immigrati stranieri che vogliono pregare? Niente paura, soffici titolazioni e dichiarazioni sull’evento sono durate meno di un giorno. Dopo tutto, maiali o non maiali, si tratta di una persona solidamente insediata nell’area di rispetto imposta da Berlusconi. E poi, ammettiamolo, il vice presidente del Senato è un’istituzione. E finora non vi sono stati segni di dissociazione o condanna al Senato. Che cosa volete che scrivano i giornali?

Purtroppo mi sembra di dover dire: ho vinto la scommessa. Lo faccio notare con triste orgoglio al collega della Stampa. Tutto ciò avrebbe dovuto sollevare un tumulto di reazioni nella folla degli illustri commentatori che animano il Paese. Ma i commentatori vogliono commentare. E se dispiaci a Berlusconi non è tanto facile.

Non lo era allora e non lo è adesso. Tanto che anche adesso se lo fai sei un ingombro. Pensate, c’è ancora qualcuno che è in attesa del dialogo.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 16.09.07
Modificato il: 16.09.07 alle ore 7.15   
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Titolo: Furio Colombo. Rai e Senato, la vera storia
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2007, 04:14:29 pm
Rai e Senato, la vera storia

Furio Colombo


Se non ci fosse Blob, unico programma chiave della televisione italiana (gli eventi non li commenta, li fa vedere) gli italiani non saprebbero quale impulso ha gettato Loretta Goggi contro Mike Buongiorno, durante una litigata dal vivo sul palco di Miss Italia. Blob c’era e tutti hanno visto tutto e capito quel poco che c’era da capire.

Purtroppo Blob non c’era al Senato quando la Camera Alta italiana si è riunita intorno al ministro dell’Economia Padoa-Schioppa per ascoltare le ragioni della sostituzione di un consigliere di Amministrazione della Rai e la nomina di un nuovo consigliere.
O almeno questo era il mite ordine del giorno, una questione di routine nella vita - a momenti ben più drammatica - di una Repubblica parlamentare.
Perché allora, nel corso di una concitata e confusa manifestazione di rabbiosa incontinenza verbale, scritta, stilistica, procedurale, mentre si passavano freneticamente di mano mozioni di quattro, cinque pagine, spazio uno, cinquemila parole, la destra ha perduto per un voto (l’ormai celebre voto Storace) e la sinistra ha perduto al punto da ritirare la sua sterminata mozione che non è stata votata, e poi l’Unione si è limitata a sostenere, insieme alla destra, frammenti divelti da una mozione ribelle, fuoriuscita (forse un segno simbolico per il prossimo futuro) dal centrosinistra, in cui si dichiarava, insieme alla destra, scontento e disprezzo per ciò che avviene comunque, alla Rai, le cose fatte, quelle non fatte, l’Isola dei famosi e i telegiornali, le presenze di lungo corso e i nuovi arrivi, il tutto unito da una euforia distruttiva sorprendente, visto che tutti quei pezzi di politica rappresentati in Senato, tutti, hanno il loro pezzo di rappresentanza dentro la Rai (vedi la sgridata del leader Fini al libero giornalista Mazza).

Come vedete da queste righe, in tanti sono caduti nella trappola del finto dibattito in cui ciascuno ha posizionato battaglioni o pattuglie intorno alle fragili mura della Rai per dire: se si tratta di fare peggio di come si è fatto finora (ovvero pesare il più possibile con la forza dei partiti dentro il servizio pubblico) noi siamo qui e siamo pronti. E nessuno si sogni di ignorare neppure coloro che rappresentano quasi niente per cento del voto popolare o di trascurare qualcuno dei nuovi venuti dalle frantumazioni sulla destra del centrodestra e sulla destra del centrosinistra. La scena è confusa? Sì è confusa. Lo è al punto che chi sta in quell’Aula, se non ha partecipato al progetto dei trucchi, degli effetti speciali, delle frasi scritte a rovescio - che si leggono solo nello specchio di qualche ricatto di potere - non capisce niente neppure dall’Aula.


* * *

Che cosa sto cercando di fare ad uso dei lettori, nel mio piccolo? Ho raccolto i frammenti della più brutta discussione mai avvenuta nella mia esperienza in Parlamento (brutta nel senso di cieca, inutile, senza politica) prima che passassero le donne delle pulizie.

Ma devo far precedere l’inventario da un paio di precisazioni.


Una è che quel dibattito, anche se fosse stato di buon livello e senza segnali di frantumazione a destra della maggioranza, non solo non era necessario o dovuto ma era del tutto inutile. Si trattava di un capriccio della opposizione che intendeva mettere sotto accusa una decisione (la rimozione del Prof. Petroni, la nomina di Fabiano Fabiani nel Consiglio di Amministrazione Rai) che era un fatto compiuto, dovuto, legale, non discutibile dal punto di vista giuridico perché compiuto all’interno di una legittima (e dovuta) responsabilità. Il ministro ha deciso ché poteva e doveva decidere. La decisione è apparsa subito ovviamente normale (un competente nominato in un’area di competenza) tanto che persino gli oppositori più aspri hanno dedicato minuti a spiegare che non discutevano la persona. E solo il senatore avvocato Schifani ha portato in Aula un articolo del Corriere della Sera del marzo 2005 per citare un inciso in cui Fabiani - che nella sua vita non ha mai rilasciato interviste - veniva indicato dall’articolista come “simpatizzante” di Prodi, cosa che - secondo il sen. avv. Schifani - dovrebbe squalificare chiunque.

Il dibattito, o voto in una Camera del Parlamento era dunque non solo pretestuoso (la decisione era competenza esclusiva del ministro dell’Economia che ha la responsabilità di far funzionare tecnicamente un ente di cui lo Stato è azionista di riferimento). Ma quello stesso ministro non ha alcuna competenza o responsabilità per discutere di programmi o di organigrammi della Rai. Il fatto è che - voto o non voto - quel dibattito non poteva avere alcuno sbocco né giuridico né politico. E infatti ha prodotto soltanto caos.

Ma - seconda precisazione - il caos è il grande, continuo contributo politico della Casa delle Libertà. Lo era anche al tempo del loro governo, irrazionale e improduttivo (salvo le convenienze personali del proprietario Berlusconi). Ma era, almeno, festoso perché continuamente celebrato da uno schieramento di giornalisti pensatori, da Vespa a Socci e di autorevoli opinionisti, da Panebianco a Galli della Loggia. In quella festa si perdeva almeno il senso del lutto per il crollo della politica che adesso invece attanaglia il Paese. Perché se è vero che nessuno più parla al Paese per mentire, come Berlusconi, nessuno parla al Paese, comunque: niente spiegazioni, niente indicazioni di percorso, e - al posto delle bugie - niente ragioni per volere o fare insieme qualcosa. O almeno per sostenerla. Solo uno strano silenzio che isola e allarma. E spinge, a volte, come si sta constatando, a sentimenti vendicativi.


* * *

Quanto ai reperti di quel brutto giorno al Senato, può essere utile citarne qualcuno, ricordando che la discussione, voluta dall’opposizione, intendeva contrastare e svilire solo la nomina del consigliere Fabiani. Ecco parte del testo di una risoluzione: «Noi impegniamo il governo a determinare l’immediato azzeramento e il conseguente rinnovo del Consiglio di amministrazione Rai. Ad adottare tutte le iniziative urgenti e necessarie per evitare che si possa procedere a nuove nomine. A mettere in campo le iniziative necessarie a consentire che tutte le nomine già approvate siano “rivisitate” dopo l’approvazione del piano industriale». È il testo delle cose dette dalla Casa delle Libertà in cerca di tanto meglio-tanto peggio, desiderosa di oblio per l’immenso danno realizzato dentro la Rai dal gigantesco conflitto di interessi di Berlusconi, che con una mano colonizzava la Rai e con l’altra triplicava il valore di Mediaset? No. Su tutta questa parte della questione Rai non una parola. Sul fatto che la Rai è un frammento teleguidato dalla famosa legge Gasparri-Berlusconi che consente controllo totale dei media e della pubblicità non una parola. Il testo parzialmente citato che - come Grillo - vuole “mandare tutti a casa”, ma, a differenza di Grillo, è un “tutti” meno le leggi e gli interessi di Berlusconi, è di due di noi, due importanti senatori dell’Unione, Manzione e Bordon.

Ma sentite come l’Unione, ovvero la maggioranza che sostiene Prodi e il governo e il ministro dell’Economia che ha preso quell’unica decisione che gli compete, senza alcun titolo per essere coinvolto in una discussione sul vasto orizzonte editoriale-aziendale-politico della Rai. Sentite con quali argomenti e quale documento la nostra maggioranza ha pensato di tener testa a coloro che avevano licenziato in tronco Enzo Biagi più una importante lista di proscrizione, a coloro che avevano definito “criminoso” opporsi alla autorità padronale di Berlusconi, e hanno inventato questo dibattito pur di non lavorare alle leggi in attesa, in modo da aggravare il senso di impotenza e di stallo del governo: «La prima serata è in gran parte appaltata a società che producono programmi commerciali... l’assetto industriale resta rigido e disfunzionale, con modelli produttivi pesantemente sovrastrutturati... queste carenze rendono arduo misurarsi con le nuove tendenze del pubblico... ».

Ma l’assemblea, riunita giovedì 20 settembre a Palazzo Madama, era il Senato della Repubblica, in cui la maggioranza di centrosinistra che sostiene il governo (e quell’unico ministro in Aula che si è preso, pensate, la sfacciata responsabilità di nominare Fabiano Fabiani nel Consiglio di amministrazione della Rai) doveva tener testa alla spallata della destra che sventolava carte per dimostrare che Fabiani non era post fascista, non era leghista, non era nel libro paga di Berlusconi e dunque era indegno di accostarsi alla Rai? O era un convegno fra tanti - solo meno colto e più caotico - su “Ombre e luci del servizio pubblico radiotelevisivo”?


* * *

Ma noi, la maggioranza che avrebbe il dovere politico di respingere l’attacco pretestuoso della Casa delle Libertà con un grande “Amarcord” di ciò che è stata quell’azienda in tempi di programmazioni Rai organizzate in modo da non disturbare i buoni programmi (e la buona pubblicità) di Mediaset, ai tempi dei licenziamenti di regime, ai tempi dei telegiornali taroccati per non far sentire agli italiani le gaffe di Berlusconi che intanto facevano il giro del mondo, ha scelto invece di unirsi agli avversari per attaccare da ogni lato il Titanic già un po’ inclinato della televisione pubblica, senza sostare un momento a pensare al regalo immenso che, ancora una volta, il Parlamento italiano stava facendo a Mediaset.

Che poi la situazione, grazie anche alle tipiche maniere del ceto berlusconiano, ai discorsi stentorei di Schifani (che esige dai suoi di essere applaudito, come Petrolini, ogni 5-6 secondi, qualunque cosa dica, il segnale lo dà quando alza la voce e subito fior di professori, avvocati, giudici in aspettativa e futuri imprenditori fanno crepitare gli applausi) agli scherzetti del Hobbit-gigante Calderoli, l’uomo dei maiali da lanciare contro gli islamici, alla vendetta personale di Storace che non perdona così poco fascismo nelle fila dei sui ex amici di pestaggi giovanili e poi di cariche istituzionali, sia precipitata nel caos, è stata una cosa buona, anzi l’unica cosa buona della giornata, saggio colpo di mano, all’ultimo istante, della senatrice Finocchiaro. L’Unione ha potuto ritirare il suo brutto testo privo di luce politica l’opposizione ha perso la sua modesta occasione causa vendetta privata di uno di loro. I due senatori distaccati Manzione e Bordon si sono persino visti votati da quasi tutta l’Aula un paio di paragrafi altrettanto privi di senso politico quanto il testo dell’Unione. Nessuno ha discusso della libertà dei mezzi di informazione ancora profondamente feriti e intimiditi da Berlusconi. E la conclusione triste, lettori, è che nessuno è stato peggiore dell’altro. Quella gara, quel giorno, non si poteva vincere.
colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 23.09.07
Modificato il: 23.09.07 alle ore 13.05   
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Titolo: Furio Colombo - Politica, ultimo appello
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2007, 04:24:45 pm
Politica, ultimo appello
Furio Colombo


Via dal video, tutti e subito. Mi riferisco alla folla di volti e di voci della politica che sono presenti dovunque a tutte le ore. Proverò a dimostrare perché questo può essere il primo, vigoroso taglio al costo della politica. Non è soltanto un simbolo. Ecco le ragioni.

Aula del Senato italiano, giorno 27 settembre, ore 9,30. Il senatore Marconi (Udc) chiede di parlare «sull’ordine dei lavori», espediente per rallentare il lavoro, già lentissimo della “Camera alta”. Il senatore si dedica a una dettagliata recensione del programma Porta a Porta della sera prima, analizza i difetti vistosi, dal punto di vista dell’oratore, di quella serata televisiva e dedica un giudizio particolarmente severo alla performance di Antonio Di Pietro, che è personalità televisiva e non solo ministro della Repubblica, o così appare nel discorso di critica televisiva. Senato italiano, 27 settembre, ore 9,50. Chiede di parlare il senatore Calderoli. Poiché il tema della mattina sono i conti dello Stato e poiché il sen. Calderoli, quando non è un leghista sarcastico e crudele, è un estroso inventore di espedienti per confondere i dibattiti in aula, tutti prestano la dovuta attenzione.

Anche il senatore Calderoli, però, dedica il suo intervento a una vicenda televisiva. Oggetto della sua critica, ben organizzata e serrata, non è Porta a Porta con Vespa, ma Ballarò, con Giovanni Floris, ospite d’onore Clemente Mastella. Anche il giudizio di Calderoli sul programma esaminato è drastico e negativo come i più fermi corsivi di Aldo Grasso. Il giudizio riguarda il trattamento piuttosto insolito che è stato dedicato al ministro della Giustizia, circondato da una folla ostile nel mezzo di uno studio televisivo, più gogna che dibattito. Molti in aula concordano. Il problema è: c’è, e se c’è, dove passa il confine fra televisione e politica, fra ministro (certamente trattato male) e personalità televisiva, che affronta gli stessi rischi dei partecipanti all’Isola dei famosi?

Mi sembra di vedere una grande confusione in cui non si capisce se la cattiva politica genera cattiva televisione o il contrario.

E se persino la politica non cattiva, quando diventa show gladiatorio, a disposizione degli umori del pubblico, non diventi spettacolo indecoroso.

* * *

I lettori sanno che da anni provo e riprovo a lanciare lo stesso messaggio: non andare a Porta a Porta, il talk show politico in cui un conduttore abile conduce il suo non disinteressato programma dove vuole e, nonostante la sensazione di appagamento (quasi due ore in video, quasi ogni sera) dei suoi ospiti, li conduce alla brutta figura. Avevo torto e avevo ragione. Avevo torto nell’affermare che tutti i mali della comunicazione erano accatastati a Porta a Porta. Forse è stato vero sotto Berlusconi. Ma è diventato chiaro, in quest’ultima stagione difficile e infelice della vita politica italiana, che nessuno show è migliore di un altro. E dopo il caso Mastella diventa difficile avere preferenze. Ma avevo ragione quando insistevo nel dire: guardate che in nessun Paese democratico l’impegno principale è di andare ogni sera (ogni sera) in televisione. Ci sarà un motivo se altrove, dalla Spagna agli Stati Uniti, non avviene. E infatti quando è stato sollevato il problema della casta - problema che non è in esclusiva italiano - i destinatari erano tutti in scena, tutti noti, tutti costantemente presenti nella retina oculare e nel retro pensiero degli italiani, dopo anni di ininterrotta "performance" televisiva di un cast che si fa presto a identificare come casta. Accanto al libro di Stella e Rizzo che si moltiplicava nelle librerie, in televisione c’era, e c’è, un presepio vivente di voci e volti impressi, ormai, nel vissuto italiano. Ce n’è abbastanza per far divampare, da una legittima denuncia, un immenso incendio che non accenna a spegnersi. E quando fa irruzione in tv il faccione di Grillo, lo schermo è già stabilmente affollato di volti fissi, come le figure da abbattere nel tiro a segno di un luna park. Non resta che indicare le sagome da colpire.

Ho detto e ripeto: questo affollamento visivo continuo di politici in televisione è un grave fenomeno esclusivamente italiano. Infatti, oltre ai reality show politici che vediamo sul piccolo schermo quasi ogni sera (a cui si aggiungono le apparizione festose degli stessi politici in programmi, diciamo così, di divertimento o "leggeri") c’è l’esibizione continua delle stesse teste parlanti, che compaiono implacabili in ogni telegiornale allo scopo di dire, una dopo l’altra, frasi incomprensibili. Ancora più incomprensibili se dette - in sovrapposizione alle immagini - dalla voce disinteressata dello speaker, che con giusto distacco, pronuncia schegge di un parlato senza riferimenti e senza senso. Anche questo è un fenomeno unicamente italiano, così dannoso da essere visto ragionevolmente da molti come il luogo di nascita dell’antipolitica.

* * *

Se dunque l’antipolitica, nel suo ceppo più pericoloso e aggressivo e virulento nasce dal fiume incontenibile del cast/casta della politica in televisione, sembra naturale affermare che arginando, anzi bloccando questo fiume si compie un gesto importante che non è un puro simbolo. Al contrario si elimina un potente irritante. Non si può certo dire che la televisione generi il problema. Di certo lo ricorda, lo evoca, lo ripete, lo ostenta, e non è una cosa da poco. Più che una esibizione è una provocazione. Figuriamoci una provocazione che si ripete ogni giorno e ogni sera, sempre con gli stessi partecipanti uniti dal legame ambiguo di contrapposizione e colleganza, di somiglianza, di reclamo di inconciliabile diversità ma anche di intesa bonaria, di convivenza, distruzione, scontro finale.

Mi sento di dire questo. Nessuna delle trasformazioni, cambiamenti o riforme della politica, del suo ingombro, del suo costo, può essere fatto in tempo reale, come sembrano esigere le nuove voci dell’antipolitica. Ciò è comprensibile. Le grandi ondate di protesta giungono fatalmente in momenti di estrema esasperazione in cui non è ragionevole aspettarsi pazienza, meno che mai la pazienza di accettare lunghi intervalli di promesse e di attesa. Lo prova il fatto che gli esperti autori della Casta Stella e Rizzo hanno denunciato sul loro giornale che "i costi della politica non scendono", (Corriere della Sera 25 settembre) e lo hanno fatto meno di tre mesi dopo la pubblicazione del loro libro-denuncia. Certo gli autori sanno che la dimensione o incisività di eventuali tagli immediati appariranno fatalmente piccoli, inadeguati, ridicoli, perché nessuno potrebbe realizzare istantaneamente un taglio drastico e visibile nella casa della politica senza fare amputazioni improvvisate o puri annunci. Ma sopratutto manca un criterio guida, come invece avviene nelle aziende, in cui si conoscono prodotti, costi, missione.

La politica e i suoi costi si espandono in un modo che mima la natura. Si espandono al modo di una foresta di rampicanti e di piante voraci. Occorrerà un lavoro autorevole profondo e molto esteso per ricondurla a un disegno sensato in cui i costi non siano privilegi, i tagli non siano mutilazioni di funzioni necessarie e le riduzioni abbiano senso oltre lo scopo, ovviamente prevalente, del risparmio.

* * *

Eppure qualcosa di ben visibile e certamente utile può essere fatto subito con conseguenze mediatiche (dunque di percezione) molto forti. E conseguenze che avranno altre conseguenze, prima fra tutti il mutamento del modo di comportarsi in pubblico e dunque di fare politica. È la scomparsa istantanea e completa del protagonismo mediatico dei politici. So che nessuno accetterà, ma è un peccato. Il ritiro immediato, generale e spontaneo verrebbe visto come un atto di austerità che anticipa le restrizioni e rinunce ancora non fatte e diventa simbolo forte e vistoso di quella operazione di rientro nei limiti che non è facile né rapido persino se ci fossero buone intenzioni.

Se è vero che l’esibizione continua di un cast fisso di politici in televisione, dai talk show ai telegiornali, è una delle grandi cause dell’antipolitica perché si trasforma in una overdose di parole, dunque di annunci, fatalmente sconnessi dai fatti, è per forza anche vero l’effetto immediato - sorprendente e benefico - di un black out auto-imposto.

Non si tratta di un ritiro ma di una rinuncia per lasciare spazio al giornalismo e alla responsabilità giornalistica di interpretare e rappresentare, sfidando le televisioni pubbliche italiane, privandole del volontariato politico, a ritrovare il senso di buona conduzione professionale che altri colleghi del mondo democratico non hanno mai perduto.

Entrino in campo i professionisti dell’informazione e si elimini l’occupazione politica degli spazi-notizia, che al momento - e ogni sera, e in ogni telegiornale - sono autogestiti dagli interessati, cioè dagli stessi politici. Finisca il gioco del protagonismo fisso che genera più sentimenti antipolitici delle auto blu e degli aerei di Stato con figli e amici, perché ingombra lo spazio dei cittadini e stimola gogna e vendetta.

Non si tratta di chiedere ai politici di scomparire. Si tratta di lasciar cadere ciò che ormai appare - molto più del barbiere di Montecitorio - il più arrogante dei privilegi, quello di occupare quasi tutti gli spazi dell’ informazione. Occorrerà rinegoziare la presenza dei politici nei media in modo molto più austero e deliberatamente autolimitato, restituendo il resto dello spazio all’opinione pubblica e agli interpreti professionali dell’opinione pubblica.

Questo dunque è l’appello, forse l’ultimo appello prima che l’ondata sia troppo forte. Via dal video per iniziare un’epoca profondamente diversa, civile, rispettosa, ansiosa di comunicare ai cittadini, fine dell’invasione del loro tempo. Ma c’è anche un vantaggio molto importante per i protagonisti della politica: la fine della complicità con i conduttori Tv, che usano i politici come animali da circo. Porterà subito un po’ più di rispetto al difficile lavoro della politica.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 30.09.07
Modificato il: 30.09.07 alle ore 7.37   
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Titolo: Furio Colombo. Il caro estinto
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2007, 11:24:39 am
Il caro estinto

Furio Colombo


Che cosa distingue la televisione politica di questi giorni, del dopo Grillo e del dopo Casta, dalle sorprendenti incursioni popolari sia di piazza che di tv, al tempo di «Mani pulite»? Credo di poter dire che, adesso, c´è un´aria funebre.

Sto pensando ad AnnoZero di Santoro di giovedì scorso (su giustizia, ingiustizia e magistrati perseguitati). Ma gli altri talk show politici pur essendo più cauti e conformisti, non sono meno lugubri. Sono processi a un cadavere.

Del resto provo quella sensazione di inopportuna esibizione nel luogo sbagliato quasi ogni giorno al Senato. I nostri avversari cantano e ballano un po´ barbaramente e credono di farlo intorno alla salma o al corpo morente del loro odiato nemico (odiato perché, fino all´ultimo respiro, pretende di far pagare le tasse). Invece partecipano, sia pure in modo sgangherato, a una cerimonia funebre collettiva.

Torno per un istante ad AnnoZero. Il senso cupo, da «day after» del programma di giovedì 7 ottobre, era dato dalle parole estreme dei giudici (Forleo, De Magistris), dalle parole estreme di voci e volti diversi e dolenti dei «testimoni» (storie, esperienze presentate come esemplari), dal grido, che mi pareva senza speranza, dei giovani automobilitati in Calabria, dagli applausi così intensi e rabbiosi proprio perché terminali. Ti diranno che simili trasmissioni sono deliberatamente caotiche, che i pezzi sono fuori posto, che i percorsi sono guidati dai temi da sostenere, che l´enfasi era eccessiva. È possibile.

Ma nessuna «errata corrige» ti potrebbe sottrarre al senso di fine, di capolinea, potrebbe dirti se c´è giustizia dopo questa giustizia, se c´è ceto politico e classe dirigente dopo questi personaggi, se c´è vita (vita pubblica, vita insieme) dopo questa vita bloccata dal muro dei carichi pendenti di un mondo finito che viene prima, e non sgombera.

Ma le sedute quotidiane al Senato sono anche più cupe e più tristi perché il senso di ultimo giorno che ispirano (votare all´improvviso ogni cosa che nega o ne disfa un´altra pur di giocare scherzi, segnare disprezzo, bloccare la piccola, lentissima macchina, accreditarsi un punto al costo di bruciare nel niente ore, giorni, settimane, mesi ormai) quel senso di ultimo giorno e di applauso alla salma avviene non nel tempo libero della televisione ma nelle mattine e nei pomeriggi di lavoro di una camera della Repubblica.

Con un pauroso aumento dei costi si discute a vuoto, per tempi lunghissimi, di riduzione dei costi, che ciascuno attribuisce esclusivamente alla parte avversa, ma mai che ci si fermi a domandarci: i costi di quale politica, per fare che cosa, al servizio di chi?

Con una immensa spesa di energia, tempo, fatica, persino talento, ogni volta che il lavoro parlamentare sta per cominciare, il convoglio viene spinto in una piazzola di sosta, che dura un giorno o una settimana muovendo nel vuoto dibattiti feroci e senza scopo, senza destinatari, senza un qualsiasi punto di possibile conclusione.

Pensano davvero, i senatori della Casa delle Libertà che ci sia un popolo disposto a battersi per il generale Speciale, la cui unica battaglia, tutta privata, riguarda la sua carriera?

Quando giovedì scorso in Senato, il presidente di turno, Calderoli, ha interrotto il confuso dibattito a vuoto per annunciare che era morto il soldato italiano D´Auria, ferito a morte in Afghanistan nel blitz inglese per liberarlo, in quel minuto quel gruppo di uomini e donne che costano molto e si costringono a vicenda a non lavorare (quasi fermi ormai da un anno) hanno sentito nel soffio gelido di morte - e nel minuto di silenzio - che qualcosa di vero, di reale e di tragico li stava sfiorando. Più vero dell´inutile e umiliante dibattito su quel personaggio da opera buffa che è il generale Speciale. Ancora più tragica la missione di quel caduto italiano perché di essa non sappiamo niente, non ci hanno detto niente, non abbiamo voluto sapere niente. Mentre noi siamo qui a ripetere il rito di qualcosa che è proprio finito.

Loro dicono che è finito Prodi. Ma, come in una "funeral home" californiana, esibiscono il loro leader imbellettato, finto, e col sorriso fissato dal truccatore per promettere un´altra vita. Anche l´improvvisato abbraccio fra il ministro Di Pietro e il leader post-fascista Fini, non vi sembra uno di quegli improbabili gesti di conciliazione-disperazione tipico dei funerali?

Solo che in questo funerale, evocato in modo particolarmente suggestivo dalle luci basse, le voci con effetto di rimbombo o di eco (un difetto tecnico ma efficacissimo) e gli applausi disperati della trasmissione "AnnoZero", non c´era neppure la salma. Della cosidetta seconda Repubblica sembra che non sia rimasto niente.


* * *


Ecco perché il profilarsi nel confuso orizzonte del Partito democratico disturba il caro estinto al punto da fargli dichiarare (a lui, mentre ci guarda col sorriso fisso) che "tutto comincia con il 14 ottobre".

Il 14 ottobre è il giorno delle primarie che dovranno eleggere il segretario e leader del nuovo partito, non il salvatore. Soltanto qualcuno vivo e normale, che ha già dato una buona prova di tenere la casa in ordine e che ha come programma di non restare inchiodato in un punto a rivedere per sempre lo stesso blob del passato.

Lo dico per coloro che, per tante buone ragioni, si sono scostati a sinistra, con la stessa persuasione di alcuni grandi americani degli anni Sessanta (Norman Mailer, Leonard Bernstein, Leroy Jones, James Baldwin) che stavano più vicino alle Pantere nere che a Martin Luther King, e non volevano votare per Kennedy (e poi altri di loro per Carter, per Clinton) perché dicevano: sono troppo moderati, sono uguali ai repubblicani. Ma quando si sono trovati di fronte a Nixon, a Reagan, a Bush padre, a Bush figlio, hanno potuto constatare l´immensa diversità di mondi, di visione della vita e del destino degli esseri umani. Lo dico per coloro che si mantengono scettici e separati mentre muore un´intera epoca di vita pubblica, e l´intravedere una nascita sta scuotendo e buttando all´aria tutti i progetti e le certezze acquisite degli officianti della ripetizione infinita dei riti di fine stagione.

Lo dico perché noto la differenza tra lo scompiglio di chi prende male questa nascita perché la prende sul serio, e l´incertezza o freddezza o disincanto di tanti per cui sarebbe più naturale partecipare a un buon lavoro di costruzione.

Si può fare un elenco di errori anche gravi, è vero, nella nascita di questo partito, dal regolamento cervellotico alla esclusione di persone e valori che sarebbero stati un bel contributo (penso a Pannella, penso a Di Pietro, prima dell´incomprensibile abbraccio con Fini). Ma bastano questi errori per disinteressarsi di tutto in un momento estremo?

È il momento in cui il Paese (mentre nel bunker Prodi e Padoa Schioppa cercano di mantenere onorato e credibile ciò che resta della Repubblica) potrebbe voltare per sempre le spalle al caro estinto. L´alternativa è il suo ritorno con frasi registrate del tremendo già detto, il sorriso fisso del truccatore e la officiante Michela Brambilla col reggicalze e tutto.



Pubblicato il: 07.10.07
Modificato il: 07.10.07 alle ore 19.09   
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Titolo: Furio Colombo - Il Pd e le macerie italiane
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2007, 11:54:17 pm
Il Pd e le macerie italiane

Furio Colombo


Nasce il Pd ed è vita nuova. La vita nuova è cominciata con impeto. Più di tre milioni di cittadini hanno votato e forse non è fuori luogo rivolgere un pensiero a Storace. Come ha fatto il premio Nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini.

Infatti, se il volgare intervento di Storace, prima contro la nostra collega al Senato, poi contro il capo dello Stato ha svelato, per contrasto, a Rita Levi Montalcini «quanto è buona l’Italia», tuttavia l’atto di teppismo, in tutta la sua bassezza, non è una «svista» o un «errore» come bonariamente ci dicono dalla «Casa delle Libertà». No, il gesto di Storace è un gesto politico attentamente calcolato per dire ai suoi ex compagni di partito: «attenzione, io posso richiamare in strada i fascisti». «Attenzione perché qui intorno (lui intende la “zona Storace” che fino a poco fa ha condiviso con An, ma da cui da tempo An ha cominciato a prendere igieniche distanze) i fascisti ci sono, con la stessa cultura e gli stessi “valori” di quel passato». Storace del revisionismo se ne frega (credo che sarebbero parole sue). Gli importa poco che ci sia a sinistra chi si prende cura di schermare il fascismo, e di precisare ad ogni occasione l’inclinazione delinquenziale dei partigiani. Quanti saranno stati motivati ad andare a votare per il nascente Partito Democratico dalla «iniziativa Storace» contro la decenza, la Costituzione, la democrazia?

Lui, Storace, non è materiale da museo. Lui è qui, adesso, molto attivo, molto impegnato e poiché si è finalmente separato da An, di cui evidentemente non può più sopportare la mania di rispettare le regole, cerca una base e tenta un colpo: l’adunata dei veri fascisti.

Intendiamoci, l’idea non è nuova. Aveva sfiorato anche Alessandra Mussolini quando se ne era andata da An sbattendo la porta perché An le pareva insopportabilmente staccata dal passato, quel passato. Ricorderete che la signora si era subito associata con alcuni arnesi che negano la Shoah o affermano - dopo sei milioni di morti - di non avere notizie sicure di quell’evento.

Alcuni di loro, credo con imbarazzo di Fini, hanno pensato bene di unirsi, il 13 ottobre, al corteo An di Roma con croci celtiche, saluto romano e altri inequivocabili simboli di un’idea di «ordine pubblico» e di «sicurezza» molto diversa dal dibattito che, con le stesse parole, si svolge nella cultura democratica.

Pensate che anche alcuni coloriti partecipanti a quella sfilata non abbiano indotto alcuni di noi, magari disorientati e incerti, ad unirsi al voto?

Ma, l’ambizione di Storace è più ardita e diversa. Il suo «outing» con la deliberata provocazione tipica del gerarca prima maniera (insulto alla donna che per giunta è colta, democratica ed ebrea) è un segnale per dire «fascisti, a noi!». Per questo gli importano poco i giudizi severi dei suoi ex colleghi. Per questo inveisce contro il Presidente della Repubblica. Lo stanno disturbando con le loro fisime democratiche mentre lui sta facendo lavoro politico. Infatti quando lui dice «destra» non intende la Borsa o il tasso di interesse, o le priorità delle imprese o la prevalenza del mercato. Intende «quella destra» che col mercato non aveva niente a che fare, se mai con i fasci e le corporazioni. E il consenso lo otteneva, come lui ha cercato di fare se Rita Levi Montalcini fosse stata sola e l’Italia in cauto silenzio, in modo più sbrigativo.

Perché parlarne oggi? Perché oggi è il 16 ottobre, giorno che ricorda per sempre la caccia agli ebrei di Roma nelle strade del ghetto, la cattura di più di mille di essi nel cuore di questa città . Ricorda che quasi nessuno di essi è tornato. Perché il 15 ottobre il Corriere della Sera ha spiegato e documentato il ruolo dei fascisti e dei delatori italiani in quella notte di indimenticabile orrore (solo la comunità di Sant’Egidio, ogni anno, conferma il ricordo con una fiaccolata in silenzio, dedicata a tutti i negazionisti).

Perché quando sfilano i giovani con il saluto romano e la croce celtica, celebrano quel passato e lo celebrano dalla parte di coloro che hanno arrestato e deportato uomini, donne, vecchi e bambini nella notte romana, e in tutta Europa, aiutati da delatori e collaboratori fascisti, nel vasto silenzio di tutti gli altri.

Perché, rivolgendosi in quel modo, con quelle parole e quella conferma di brutte intenzioni sia alla signora Levi Montalcini (di cui si deprecano persino gli anni, che invece in tribù meno barbare sono ragione di prestigio e di festa) sia al Capo dello Stato, la ragione era: chi deve intendere intenda, fra un saluto romano e un atto di vandalismo alle tombe. Qui - ci dice Storace - si sta costruendo un progetto politico.

Perché parlarne oggi? Perché oggi è il giorno di nascita, con tanti cittadini e nel migliore dei modi, del Partito Democratico, che è la casa della Costituzione e del tesoro di democrazia e di difesa risoluta della democrazia accumulato nell’Italia resa libera dalla Resistenza in questi decenni.

Prendiamo atto del progetto Storace; prendiamo atto che le sue parole, il suo modo di esprimersi e ogni sua battuta sono un manifesto politico.

Nonostante ciò, la prima buona notizia è che è nato il nuovo Partito Democratico, che su fatti come questi non si distrae.

La seconda buona notizia è che in questo impegno, sulla scena politica e parlamentare italiana oggi, per fortuna, non siamo né isolati né soli.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 16.10.07
Modificato il: 16.10.07 alle ore 12.56   
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Titolo: Furio COLOMBO -
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2007, 09:11:02 am
Una giornata particolare

Furio Colombo


Sembra impossibile ma ciascuno purtroppo - anche senza volerlo - sta facendo la sua parte così come gli era stata assegnata dal capo-comico Berlusconi. Prima di offrire una mia lista di personaggi e interpreti della commedia triste mi preme una precisazione: non sto dando giudizi, non ne ho alcun diritto. Non mi riferisco in alcun modo alle intenzioni personali. A volte nobili, a volte meno (se non altro perché non chiare) dei vari protagonisti. Non giudico le persone, mi limito a contestare la coincidenza quasi perfetta di una serie di iniziative politiche. Osservando la scena si nota (per parte mia con stupore o dolore o allarme) che alcuni pezzi del centrosinistra, che è stato annunciato dai quattro milioni di votanti volontari nelle primarie per Prodi, sostenuto da diciannove milioni di elettori nelle ultime elezioni politiche, da cinque milioni di lavoratori nel referendum su impiego, pensioni, previdenza, dai tre milioni e mezzo che hanno partecipato alle primarie del Partito Democratico, alcuni pezzi del centrosinistra vanno a collocarsi - indipendentemente da ciò che pensano di fare - esattamente dove il copione di Berlusconi li aspettava, fuori dal loro schieramento in posizione vistosa e simbolica di protesta. Si possono avere le intenzioni più miti quando si riunisce una folla per marciare come forma di ammonimento a un governo. Ma il simbolo chiave resta il dissenso. Naturale che Berlusconi osservi le mosse e dica: siamo quasi pronti.

La mattina del frizzante sabato 20 ottobre si apre con una netta dichiarazione di Giorgio Cremaschi, il Segretario Fiom, dunque sinistra pura. Dice «questo governo non è meglio di Berlusconi, nessuna differenza. Anzi, è peggio».

Caratteristica della frase è una clamorosa ambivalenza. Sembra incoraggiare la diffusa opposizione a sinistra nei confronti della legge Biagi, che era solo un tassello del progetto Berlusconi di accodarsi alla destra del mondo per liquidare l’intralcio del lavoro e le pretese dei lavoratori. Invece porta un clamoroso tributo a Berlusconi. Dichiararlo uguale o migliore di Prodi vuol dire sdoganarlo in pubblico, vuol dire liquidare illegalità e conflitto di interessi, ricchezza immensa, oscura e manovre anche più oscure - perché su scala internazionale - di quella ricchezza. Vuol dire proclamare, mentre è alla testa del gruppo di operai più agguerrito, che è Prodi che si deve combattere, non Berlusconi. Poteva l’uomo di Arcore aspettarsi di più? Cinque anni di contrasto appassionato e civile contro il berlusconismo - contrasto che era già stato tante volte disapprovato, come ricorderete, dalla sinistra moderata, ora è svilito e ridicolizzato dalla sinistra più militante.

Intanto Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, che quando era in questo giornale (dopo essere stato un bravo e innovatore condirettore) diceva spesso a Padellaro e a me di non esagerare nei titoli contro Berlusconi (ricordate il famoso incubo della “demonizzazione” e la ricorrente domanda: «ma cosa farete dopo, senza Berlusconi?» problema, che - come vedete - non si pone) finalmente ha trovato un nemico. Si chiama Prodi, e lui allegramente lo sfotte in una spensierata conversazione su Il Riformista (20 ottobre). Dice di averlo trovato «cupo, triste» e di avergli dato appuntamento per la manifestazione anti-legge Biagi «alle tre, davanti a Feltrinelli, vedessi mai». Dunque apprendiamo che finalmente «Prodi è cupo e triste» dunque sulla porta e si può cominciare a scherzare pubblicamente su di lui. Un punto segnato, ma da chi? Di nuovo siamo in perfetta coincidenza con il copione Berlusconi e non c’è bisogno di fare il processo alle intenzioni (che sono certo le migliori del mondo del lavoro) per notare che, di nuovo, l’uomo di Arcore, l’uomo dello stalliere mafioso Mangano, degli associati Previti e Dell’Utri, del clamoroso licenziamento in tronco di giornalisti e comici, l’uomo del controllo assoluto dei media non poteva desiderare di più. Lui ha scritto le parti in commedia di gente che spinge troppo a sinistra e finisce per rompere. Qui invece, gli compaiono Cremaschi con rabbia e Sansonetti ringiovanito e festoso per dire: «ok, Prodi, basta così. Adesso ci pensiamo noi». Non è esattamente il copione ma dubito che Berlusconi sarà deluso di questa variazione.

Infatti, ci pensano come? Osserviamo bene la scena. Ma, prima cosa, devo spiegare ai lettori perché ho scritto, poche righe più sopra “legge Biagi”. So benissimo che non si chiama così, che è la legge 30 sul precariato. So che a chiamarla “legge Biagi” era stato lo scherzo macabro di Maroni (l’autore della legge) e di Berlusconi, del suo sottosegretario sacconi e di Berlusconi che con quella legge speravano di mettersi in coda alle destre del mondo che ne avevano abbastanza del costo del lavoro, qualunque costo che non siano la delocalizzazione in Romania o gli acquisti del già fatto in Cina al prezzo di centesimi invece che di euro o di dollari. Ricordiamo tutti che la strada è stata aperta, nel mondo industriale avanzato, da Ronald Reagan quando, pochi giorni dopo il suo insediamento, ha risolto una vertenza licenziando senza liquidazione tutti i controllori di volo d’America, e assumendo, subito e da solo, una nuova generazione di bravi e sottomessi lavoratori senza diritti. Questo, come tanti esperti ci dicono, a cominciare dal moderatissimo ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, non era il disegno di Biagi. Marco Biagi (che intanto era minacciato, aveva chiesto più volte la scorta, era stato giudicato un rompiballe dal ministro dell’Interno Scajola, che avrebbe dovuto proteggerlo) aveva disegnato solo la prima arcata di un ponte. Ma il suo ponte, la sua visione, erano ben più vasti. C’era bisogno di garanzie, contrappesi, sostegni per non fare entrare l’Italia nell’era di Reagan descritta così accuratamente da Michael Moore con la frase: «Diritti? Nessuno».

Dunque Marco Biagi, che non aveva alcuna protezione, stato ucciso come D’Antona, mentre il suo lavoro era tutt’altro che finito, perché i criminali, oltre che criminali, sono anche stupidi e ciechi.

Berlusconi e Maroni hanno colto la palla al balzo. Invece di commettere l’errore pesante e volgare commesso contro Olga D’Antona («si tratta di un regolamento di conti interno alle sinistre») si sono impossessati di un disegno non finito, non rivisto, carte e appunti di un lungo e complesso lavoro in corso, lo hanno trasformato in legge per la parte che gli interessava e gli hanno dato il nome del giurista assassinato.

Berlusconi, come in ogni altra circostanza aveva il solito scopo: spaccare l’Italia come prerequisito della sua concezione di governo.

E allora, ecco qua, ancora una volta ci è riuscito in pieno. Una parte della coalizione di sinistra se ne va per le piazze. Nel più mite dei casi dicono: ci si può fidare di questo governo? E anche chi non lo dichiara suggerisce il motto di Cremaschi « né con Berlusconi, né con Prodi ». Poiché Berlusconi, con tutta la sua ricchezza, la sua televisione e la sua generosa campagna acquisti è una presenza immanente, è il protagonista autofinanziato della vita italiana (e, a giudicare dalle frequenti e misteriose vacanze con Putin, non solo italiane) la frase vuol dire « con Berlusconi », non perché questa sia l’intenzione ma perché, se gli sgombrate il campo, questo ricco signore avrà la vita ancora più facile.

Quanto alla spaccatura - progetto chiave di Berlusconi - eccola - la manifestazione in piazza (invece che il lavoro dentro il governo e in Parlamento) ha suggerito di raccogliere la palla al balzo sul versante della presunta offesa al professore ucciso senza scorta.

E così, persone in perenne trasferta e ansiose di fare la cosa giusta nella politica, un assortimento di tipi che costituiscono la scorta fissa di Berlusconi e persino protagonisti insospettabili della politica pulita, come Pannella, si riuniscono per dire bene di quella colonna spezzata a cui viene attribuito ancora e ancora il nome di Marco Biagi, come se non fossero esistiti da un lato Milton Friedman, che ha aperto la strada al regime del lavoro selvaggio (basta verificare le condizioni, le garanzie, i sostegni del lavoro retribuito in America, ormai stabilmente privo di pensioni e assicurazioni mediche) e dall’altro Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Paul Krugman, grandi dell’economia che si contrappongono a Friedman per descrivere il danno che il capitalismo fa a se stesso quando svilisce o sottomette il lavoro. L’idea di fondo è di intimidire ciò che resta del centro-sinistra, minacciando di accostare alle brigate rosse chi difende il lavoro. O di farlo apparire, nel più mite dei casi, un ottuso conservatore, nemico della libertà. Che è, guarda caso, libertà di licenziare.

Tanta vitalità berlusconiana, e tanta e precisa coincidenza con i ruoli auspicati dallo stratega di Forza Italia (che altrimenti porterebbe a casa ben poco, con la Brambilla) dà una scossa alla impaziente flottiglia ancorata sulla destra del porto del centrosinistra (bombardato da Grillo, da Cremaschi, eletto a rappresentante esclusivo della Casta, mentre i cassieri della Casa delle Libertà si divertono a gridare Casta allo schieramento di Prodi quando non stanno insultando i senatori a vita). E ormai non puoi dire quale bandiera isseranno, e quando, i nuovi corsari del gruppo Dini. O dove imprimeranno il loro segno i due Zorro Mansione e Bordon, e a quali vedove e orfani e contadini oppressi stanno per portare soccorso.

A quanto pare l’importante è disarcionare al più presto l’unico vero male d’Italia, il Don Chisciotte Prodi e il suo Sancho Panza Padoa Schioppa.

Dopo essere scampato alla “demonizzazione”, che in tanti ci hanno così vivamente sconsigliato, come se fosse non solo impolitico ma anche immorale dire tutto il conflitto di interessi di Berlusconi e la vera natura dei suoi interessi e legami e alleati ora Berlusconi evita anche l’altro pericolo di cui ci hanno parlato tanto: il berlusconismo senza Berlusconi. Niente paura, Berlusconi è vivo e lotta insieme a molti, un po’ di qua e un po’ di là. Non è un lieto fine. Ma è tutto vero oppure ho fatto un brutto sogno?

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 21.10.07
Modificato il: 21.10.07 alle ore 8.12   
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Titolo: Vincenzo Vasile - L'equilibrio vestito di rosso
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2007, 09:14:44 am
L'equilibrio vestito di rosso

Vincenzo Vasile


Le avete ascoltate le interviste tv durante il corteo di ieri? Non si erano mai contati tanti simpatizzanti e sponsor di destra per la sinistra radicale. Piazza San Giovanni, presentata come l’epicentro del terremoto che potrebbe abbattere Prodi, ha profondamente deluso, invece, le aspettative di chi scommette sulle fibrillazioni del governo. Tranne la ineffabile «precaria» che ha issato lo slogan masochista «ridateci Berlusconi», il senso politico della manifestazione è stato minuziosamente recintato da gran parte dei dirigenti delle forze che hanno promosso l’evento: non una manifestazione contro il governo, né tanto meno una spallata.

Piuttosto, la rappresentazione di temi obiettivi e valori che provengono dalla piattaforma programmatica della coalizione di centrosinistra. Una spinta potente certo, ma non per fare cadere il governo: Prodi vada avanti.

Si potrà discutere all’infinito se abbia pesato su questo esito realistico lo sfogo giornalistico dello stesso presidente del Consiglio sui pericoli immanenti di rendersi strumento del “complottone”; o su quanto abbia inciso la levata di ingegno di un padre nobile della caratura di Pietro Ingrao, che alla vigilia della manifestazione ha evocato - invece delle modifiche del protocollo del Welfare, che porrebbero questa sinistra in rotta di collisione con il sindacato e con la maggioranza di coloro che hanno risposto alla consultazione - temi alti e questioni grandi come «la fine della guerra in Iraq e le rivendicazioni di libertà e di riscatto dei lavoratori».

In ogni caso si è trattato certamente di una profonda e meritoria correzione in extremis dei toni e delle velleità che stavano dietro alle prime intenzioni dei promotori, angustiati da un’irrimediabile vocazione minoritaria, e ancora caoticamente coinvolti nelle traversie della futuribile Cosa Rossa; e si è trattato di una tardiva presa d’atto del risultato del referendum nei posti di lavoro, e fors’anche di un effetto indotto dal successo delle primarie del Partito democratico.

Naturalmente una gestazione così confusa e contraddittoria ha avuto i suoi effetti negativi: per genericità e spirito ultra-identitario sembrava, per la verità, la manifestazione di una forza di opposizione; e invece almeno quattro ministri hanno legami più o meno profondi con questa piazza; e non è un caso che essi abbiano avuto qualche difficoltà a motivare la loro assenza e insieme la loro solidarietà. Romano Prodi tira, dunque, un sospiro di sollievo, promette di “ascoltare”, anzi di continuare ad ascoltare, “quel popolo”. Ma non è affatto detto che il premier possa superare con uno sforzo soggettivo, con uno scatto di reni volontaristico i vincoli finanziari e politici che finora hanno impedito risposte più soddisfacenti. E per paradosso tanta gente in corteo forse diventa parallelamente anche un problema - da interpretare, da rappresentare, da dirigere - per chi finora può essersi illuso di svolgere il proprio ruolo di ala sinistra della coalizione, limitandosi ad attizzare ai margini del campo di gioco il fuoco sotto il crogiolo dei delusi e degli insoddisfatti.

Pubblicato il: 21.10.07
Modificato il: 21.10.07 alle ore 8.09   
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Titolo: Furio COLOMBO - Notte della vergogna
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2007, 11:12:56 pm
Notte della vergogna

Furio Colombo


Annotate la data perché se è importante ricordare ciò che onora un Paese, è anche più importante non dimenticare le date della vergogna, persone, circostanze e situazioni che disonorano tutti. È accaduto, durante una notte lunga e confusa, litigiosa e violenta, al Senato della Repubblica italiana. Come molti sanno è un luogo di gloriosa tradizione ma, di recente, mal frequentato. È un luogo rischioso per una signora di 98 anni Premio Nobel per la Medicina e senatrice a vita che si è avventurata nell’Aula dopo le nove di sera del 25 ottobre per adempiere al diritto-dovere del suo seggio e votare la legge n. 1819 detta «Interventi urgenti in materia economico-finanziaria».

Ecco che cosa è accaduto: quando la senatrice Levi Montalcini è entrata in Aula è esploso un urlo di rabbia e un coro di invettive da tutto il lato del Senato occupato dai senatori della Casa delle Libertà. Forse non tutti hanno partecipato al coro osceno, ma quasi nessuno se ne è dissociato. La ragione della rabbia? Da tempo è in corso al Senato una campagna di intimidazione violenta per impedire che i senatori a vita partecipino alle votazioni. Benché tale loro diritto sia stabilito in modo esplicito dalla Costituzione.

I nostri oppositori della Casa della Libertà sono sotto stretti ordini. Berlusconi aspetta la spallata, ovvero un tonfo della maggioranza al Senato. Berlusconi non ama aspettare. La spallata non arriva. E i senatori a vita sono un ostacolo.

Come il fascismo insegna, la violenza serve. Alcuni senatori a vita preferiscono non esporsi più nell’Aula del Senato che dovrebbe onorarli. La notte del 25 ottobre la senatrice Levi Montalcini ha sfidato uno dei locali peggio frequentati di Roma. Prima sono venuti gli insulti e si può capire la rabbia: quell’esile signora quasi centenaria, entrando in Senato ha fatto cadere la possibilità della spallata notturna.

Ma c’era una ragione in più a motivare stizza, rancore e violenza dei peggiori esponenti della casa della volgarità, rigidamente agli ordini di Berlusconi. Quella notte un buon numero di articoli della legge in votazione e degli emendamenti a quella legge riguardavano stanziamenti (modesti, purtroppo) per la ricerca scientifica.

A dare il segnale del mobbing ha provveduto subito il senatore Castelli. Ha trattato l’argomento così (i lettori potranno verificare sul sito del Senato): «la Levi Montalcini è venuta a incassare il premio dei suoi voti per il governo di centrosinistra». Da scienziata, la Nobel Levi Montalcini lavora tutt’ora alla Fondazione «European Brain Research Institute». È uno dei centri di eccellenza del mondo a cui il governo italiano ha rinnovato un modesto sostegno.

Ma per capire l’evento è necessaria la scena. L’ex ministro della Giustizia della Repubblica italiana ha dedicato foga, rabbia, volgarità e tutti gli argomenti che vengono in mente a un uomo come lui, gettandoli contro la signora che il Presidente Ciampi aveva nominato senatore a vita come forma alta di onore per qualcuno che ha onorato l’Italia nel mondo. In quell’Aula è stata trattata da tutta una parte del Senato come una ladra.

Ma questo è solo l’inizio di una notte di umiliazione e vergogna per tutti coloro che, in Senato, non sono a disposizione (letteralmente giorno e notte) di Berlusconi.

Prende infatti la parola il senatore Nitto Palma per ammonire col dito e sgridare (lui, Nitto Palma) la Nobel Levi Montalcini con questo argomento «Cara signora, lei se lo è andata a cercare. Invece di stare al di sopra delle parti (espressione che significa la intimidazione: “rinunci al suo diritto”, ndr) si è messa a votare. Dunque non si aspetti gli onori di casa».

Tra le varie voci maschili e femminili del mobbing fascistoide, spicca il “ritorno di Storace” al quale non dispiace ripetere alcune delle frasi apparse sul suo sito e ripetute pubblicamente. Ecco il più tipico dei suoi signorili argomenti: «come era contenta e come ringraziava la signora Levi Montalcini quando riceveva i contributi della Regione Lazio, ai miei tempi». Inutile sottolineare la profonda volgarità della frase, ancora più grande se si ricorda dove e contro chi è stata pronunciata.

Rita Levi Montalcini guardava incuriosita e senza timore lo strano aggregato di esseri stralunati detto “Casa delle libertà” che stava conducendo l’aggressione. Forse stava pensando a quanto possa essere elementare e primitiva la macchina del cervello umano, che lei ha studiato così a lungo.

Poi la signora si è alzata e ha chiesto di intervenire. Non una parola per i teppisti dello strano e mal frequentato locale di Roma detto Senato. Con voce appena un po’ emozionata ha detto grazie al governo e alla maggioranza per il contributo, per quanto modesto, alla ricerca scientifica. E ha annunciato che per quel punto della legge non avrebbe votato.

Lezione inutile, direte. Ma la notte è andata avanti nella incupita frustrazione della spallata che non è venuta. Il padrone sarà stato deluso. Ma è gente che ci riprova. Non alla spallata, un obiettivo finora sempre mancato. Ma gli insulti. Sono - alcuni di loro - gente molto impegnata nel peggio, con il privilegio di non avere un’immagine da salvare. La Casa delle libertà e la sua sottocasa detta “la Lega” non avrà scrupoli. Se qualcuno dei senatori a vita oserà ancora presentarsi a votare, sa che cosa lo aspetta.

Nella notte della vergogna in Senato alcune voci sono intervenute a difesa. Ma il timore di rendere impossibile la continuazione dei lavori e dunque la votazione, ha prodotto una conclusione triste. Il Senato non ha condannato la violenta e volgare messa in scena per intimidire (invano, per fortuna) la signora del premio Nobel che onora il Senato. La vergogna è grande e una domanda pesa come un macigno: è possibile che debba funzionare così il Senato, nella democratica Repubblica italiana nata dalla Resistenza, ai nostri giorni?

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 27.10.07
Modificato il: 27.10.07 alle ore 9.47   
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Titolo: Furio Colombo - Nel giorno del Pd
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 05:48:35 pm
Nel giorno del Pd

Furio Colombo


Tutto o niente. È in questo paesaggio aspro e quasi privo di vie d’uscita che nasce il Partito Democratico sabato 27 ottobre a Milano, nel padiglione 16 della Fiera, Prodi sul palco che parla del presente, Veltroni del futuro. Due discorsi esemplari. Ma adesso viene il fare.

Tutto o niente. Qui nessuno può restare a mezz’aria e farsi giudicare «così così» o «non male». Questa è la scommessa finale per quella parte democratica e antifascista di italiani che hanno accettato di arrivare fin qui. Tutto vuol dire fare differenza nella vita e nella politica. Tutto vuol dire che niente può restare come adesso, un tempo fermo e pericoloso. Alla fine della giornata di nascita del Partito democratico vi sono state amarezze, dissensi, contraddizioni. Almeno così ha fatto sapere Rosy Bindi, con alcune ragioni politiche (le sue), con alcune ragioni che suonano vere.

Eppure non ci sarà un secondo appello e neppure una uscita di sicurezza. Questo non potrà essere un percorso esitante. Anche per chi si dichiara per prima cosa moderato, non c’è niente di moderato nel senso di cauto, di limitato, nel senso di «un po’ più, un po’ meno». Questa volta è tutto o niente, perché la politica rischia di finire qui, l’antipolitica è brutale, la scena è ingombra di macerie del berlusconismo che non finisce e delle macerie di un’altra Repubblica, che nessuno ha ancora spazzato. Anzi è in corso un recupero celebrativo di salme, di nomi, di riti, fascismo incluso.


Il cumulo delle delusioni è grandissimo, il compito è quasi impossibile. Cancellare tutto come su una lavagna, per cominciare da capo. Si può fare?

Io qui racconto un primo giorno di vita, un po’ l’ho vissuto e un po’ me lo invento. Lo faccio come si fa, decenni dopo, con certi eventi della storia. Lo faccio per mettere insieme fatti veri e speranza, attesa e promessa, ciò che è accaduto e ciò che vogliamo che accada.


* * *


È una sala vasta quella in cui è nato, sabato 27 ottobre a Milano il Partito Democratico che ha proclamato segretario Walter Veltroni, dopo il discorso di Prodi. È una folla molto grande questa assemblea di migliaia di persone, che certificano, confermano, annunciano. Non è una festa. È un incontro di emergenza. Infatti non c’è nessuno, qui dentro, che non si renda conto che stiamo ancora camminando al buio lungo un percorso incerto di cui non siamo in grado di inventariare e misurare i formidabili ostacoli.

Ciò che hanno detto Prodi e Veltroni i lettori lo sanno o lo leggono in questo stesso giornale: sopratutto hanno detto di sapere bene da che punto stiamo partendo. È un punto di pericolo. Hanno detto con chiarezza dove tentiamo di andare. C’è fervore, passione, c’è la piena persuasione di fare la cosa giusta un momento prima che sia troppo tardi. Il dove andare è semplice e immensamente difficile: una normale repubblica democratica libera dalle lobby degli affari e dei gruppi di interessi, libera dal governatore miliardario che, con la forte persuasione della sua ricchezza, è impegnato in una frenetica campagna acquisti di pezzi della Repubblica, dovunque l’acquisto possa produrre squilibrio e danno. Questo lo aggiungo io. Sto dicendo ai lettori lo spirito, l’impegno, la motivazione con cui ho partecipato alla giornata di Milano, che è la stessa con cui, nelle primarie, mi sono unito alla «sinistra per Veltroni». C’è un’Italia pulita che ha eletto Prodi, poi ha scelto Veltroni, e che vuole continuare a tenere indietro l’Italia illegale, anzi a permettere che si espanda l’Italia legale, rimuovendo il blocco elettorale, il blocco mediatico, il blocco del continuo flusso del voto di scambio, il blocco dell’ uso ridicolo o sprezzante delle istituzioni, il blocco degli interessi di alcuni.

Questo non vuol dire che l’Italia dei cittadini sia spaccata alla maniera desiderata da Berlusconi e - in una certa misura - imposta dai suoi sottopadroni, dai suoi giornalisti, dai suoi giornali (anche qui non c’è una demarcazione precisa, i giornalisti di stretta osservanza berlusconiana sono più dei giornali che fanno capo ad Arcore). Il compito immane è liberare il paese dal sortilegio mediatico che, con grande bravura, Berlusconi e i suoi hanno imposto al Paese. Il sortilegio è questo: ogni corteo che si mette in strada per qualsiasi ragione o motivazione viene dirottato fra i nemici di Prodi e persuaso che Prodi è il nemico. O almeno che non c’è differenza fra Prodi e Berlusconi.

Persino la questione della «casta», che è supremamente rappresentata dalla vasta legione straniera di ex, dentro le mura della Casa delle libertà, è stata afferrata e trasformata con bravura in insulto continuo contro la coalizione dell’Ulivo. Il vorace populismo berlusconiano riesce infatti a impossessarsi di ogni accusa che lo riguarda per poi usarla con efficacia contro l’avversario, come in un horror di fantascienza.

Aiuta, spesso, il silenzio del governo dell’Unione, e la loquacità incontenibile - e ben sostenuta dai media- di Berlusconi e dai suoi cloni. Aiuta la continua pioggia acida di annunci, premonizioni e celebrazioni di crolli che finora non sono avvenuti. Aiuta un senso di solitudine che è palpabile dove prima c’erano i militanti Ds.


* * *


Qualcosa è iniziato e farà differenza. Cercherò di raccontarlo così: una voce chiara, che è libera dagli assillanti, continui gravami di governo, parlerà per la parte del Paese che si è messa in cammino verso la ricerca necessaria, però un po’ folle, di una nuova politica. Quella voce si impegna a non essere mai ambigua, mai ambivalente, mai schermata, mai politichese.

Certamente non tutti, nella vivace e piena vita democratica a cui ci aspettiamo di partecipare, saranno sempre d’accordo su tutto. Non comincia una stagione di unanimismo, ma di partecipazione. Il requisito è che il filo della comunicazione non si aggrovigli e non si spezzi mai. Nelle vicende della politica è importante sapere tutto in tempo, avere spazio per contribuire, tempo per dissentire. . È molto più importante che non sapere, sapere dopo, avere solo la possibilità di adeguarsi o staccarsi. In altre parole, non è della voce unica che va in cerca il Pd ma della voce chiara che mantenga sempre vivo il progetto e il disegno a cui si lavora, così che la partecipazione, in tutte le sue forme, sia possibile e sia cercata sempre. Così che le proposte si conoscano, superando la barriera del blocco mediatico e del costante gioco al massacro.

Quel blocco e quel gioco si fondano sulla maledizione dei talk show, quasi tutti una anomalia e una eccezione italiana rispetto a tutto il mondo democratico. Infatti, solo in Italia i protagonisti eletti della politica vengono esibiti come materiale di spettacolo, a volte con regole truccate e con esiti pre-concordati, come hanno dimostrato le trascrizioni di telefonate fra un noto giornalista tv e un noto leader politico di destra.

Finisce da questo momento l’esclusiva di cui ha goduto fino ad ora Berlusconi: decidere a quale gioco si gioca oggi, quale evento domina la giornata, quale denuncia diventerà titolo nei due terzi dei giornali e nei «lanci» di apertura dei Tg.

D’ora in poi - senza mai adottare lo stesso linguaggio che incoraggia disprezzo - per ogni notizia falsa ci sarà una risposta precisa.

Finisce anche l’altra esclusiva: inventare, se occorre anche dal niente (giornali e giornalisti complici non mancano) una «emergenza» che costringe a tenere a bada per tutto il tempo i pitt-bull dalla Casa delle libertà, con il loro carico di finte denunce, di numeri falsi, di allarme fra i cittadini. In questi casi (che sono quasi quotidiani) montagne di energie si sprecano, disperdendo intanto la guida e la credibilità.

Tutto ciò non può accadere se una grande forza politica propone e conduce il suo disegno in modo che si rovesci la sequenza che ha segnato per anni la politica italiana: dove si va, che cosa si fa, di che cosa si discute, lo decide alla giornata, e secondo i propri interessi, Silvio Berlusconi, da solo. O almeno, così è stato fino ad oggi.

Ma la affollata assemblea di Milano, che annuncia la nascita del Pd, disegna anche lo spazio e il profilo di un nuovo territorio politico, o meglio inizia a tracciare quel disegno. Si può essere in ansia: sarà abbastanza grande questo territorio? Sarà abbastanza grande da accogliere quei milioni di cittadini che hanno detto in tutti i modi la loro speranza, hanno portato nella nuova casa un carico di storia e un carico anche più grande di motivazioni e di attesa? La domanda riguarda il lavoro in corso, il lavoro che comincia adesso, dopo la posa della prima pietra, dopo l’evento di sabato mattina. Ha una grande importanza per svelare il volto del nuovo partito. È importante affinché finisca il tipo di dichiarazione politica che fa oscillare la nuova immagine tra centro (vecchio o nuovo) e sinistra, non tanto nel senso ideologico del passato, quanto con riferimento agli impegni fondamentali del neonato Pd: lavoro, scuola, protezione della salute, precariato, pensioni, pace, Europa, difesa dello stato laico, decisioni su Stato e mercato.

È importante perché consente alle forze politiche impegnate nelle stesse battaglie e animate dalle stesse attese e tensioni, di sapere bene, con evidenza e chiarezza, con chi si misurano, si confrontano, si alleano. Più netto sarà il nuovo profilo, più facile e naturale, ritrovarsi e capirsi, scoraggiando o rendendo inutile la manovra e l’espediente come politica.


* * *


Il nostro Paese finora è stato sfortunato, e la sua sfortuna continua persino quando è al lavoro un governo onesto che sta alacremente riparando i danni peggiori. È il danno di una politica che, quando non è avvelenata e non è teatro, è troppo piccola. Qui sta la vera sfida accettata sabato mattina dalla assemblea del Pd e dal suo segretario che ha assunto ieri il suo impegno: allargare il cerchio, aprire i percorsi, sfondare l’assedio di un nanismo claustrofobico, disegnare uno spazio politico molto più ambizioso e più grande. Così grande da restituire le giuste dimensioni ai personaggi della destra italiana, protezionista, corporativa o non del tutto (non tutti) separata da un brutto passato. Sono dimensioni piccole, sono figure bonsai che non compaiono neppure sul fondale europeo, che non dovrebbero più essere in grado di tenere in ostaggio il Paese Italia.

Tutto ciò potrà iniziare adesso, subito, un’ora dopo l’investitura di Milano. Stando attenti a lasciar crescere la nuova vita politica dalla parte giusta, dalla parte di chi finora ha dato impegno, presenza, voto, stando attenti a non esibire di nuovo nomenklature, come in un museo che non chiude mai. Questo è un inizio, ed è bene che sia vissuto come un inizio da chi finora ha lavorato alla costruzione nuova.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 28.10.07
Modificato il: 28.10.07 alle ore 12.21   
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Titolo: Furio COLOMBO - Quell'elogio del giornalismo
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2007, 12:25:50 am
Quell'elogio del giornalismo

Furio Colombo


Lucia Annunziata, editorialista de La Stampa e già direttore del Tg3, non ascolta Radio Radicale.

È un peccato, e poiché la stimo, la prego di farlo e le spiego il perché.

Varie volte al giorno quella radio trasmette uno spot in cui due attori interpretano rispettivamente Bruno Vespa, il noto conduttore di Porta a Porta, e Salvo Sottile, il noto assistente di Gianfranco Fini. Le voci sono teatrali ma le parole sono tratte dai verbali giudiziari. È la famosa telefonata, diventata pietra miliare nelle scuole di comunicazione (perfetto esempio di ciò che non si fa), in cui i due iscritti all’ordine dei giornalisti italiani discutono sul come creare intorno a Fini, allora ministro degli Esteri del governo Berlusconi, la migliore, la più adatta e favorevole trasmissione possibile.

Il conduttore offre amichevolmente tutti gli aggiustamenti immaginabili, finché, attraverso il portavoce Sottile, il ministro Fini (che, ci viene detto dai due, sta assistendo alla conversazione) accetta la composizione del gruppo «come un vestito tagliato su misura» (parole di Vespa).

Ho parlato diffusamente dello spot di Radio Radicale perché ha il merito di avere racchiuso in alcune battute, rigorosamente vere, un’intera epoca del giornalismo italiano. È l’epoca descritta dall’Economist, da Der Spiegel, dallo Zeit, da Indro Montanelli, quando ci ha raccontato come e perché ha lasciato la direzione de Il Giornale, da Enzo Biagi quando ha ricevuto la celebre raccomandata con ricevuta di ritorno perché accusato di «giornalismo criminoso».

Storie passate? Certo, per fortuna. Ma non è passato il conflitto di interessi. Sarà noioso ricordarlo, ma la vasta proprietà Berlusconi non è insediata nel campo dell’alluminio o dell’ottica (in quelle dimensioni una simile ricchezza a disposizione di un politico che guida assalti quotidiani a un governo farebbe paura comunque) ma sta proprio al centro di tutti i tipi di comunicazione italiana e, in parte, anche europea. Dunque, nel nostro Paese il potere, un potere molto pesante, è seduto sul giornalismo.

Tutto ciò è una replica a quanto Lucia Annunziata ha scritto - con vigore indignato - contro le poche e precise affermazioni sui media fatte da Walter Veltroni a Milano nel suo discorso di investitura. Riassumo le parole di Veltroni con quel tanto di parzialità che i lettori mi riconoscono: «Oggi è importante per un leader politico andare poco in televisione perché si entra in un paesaggio alterato in cui fai solo spettacolo». Veltroni ha anche accennato alla stampa scritta che monta intorno a ogni evento un “prima” e un “dopo” (anticipazioni e retroscena) che portano qualsiasi notizia e qualunque dichiarazione nella direzione voluta di volta in volta, a piacere.

Lucia Annunziata sa tutto questo perché ha fatto la giornalista in America, ha studiato giornalismo ad Harvard. In Usa ha imparato perché, nei mesi scorsi, i direttori di due grandi giornali, il New York Times e il Los Angeles Times, hanno chiesto scusa ai lettori per avere diffuso come vere notizie preparate da centri politici non giornalistici. Lucia Annunziata lo sa perché conosce la vicenda di Judith Miller, l’autorevole notista politica del New York Times che ha lavorato a una lunga campagna di disinformazione attraverso il suo giornale ignaro (notizie false ricevute da una fonte ritenuta ineccepibile) finché la brutta vicenda è stata rivelata non da inchieste giornalistiche ma da un’inchiesta giudiziaria.

Per questo, con stima e rispetto, mi sento di ritenere priva di fondamento (e - ho appena dimostrato - non solo nella vita giornalistica italiana) la frase finale dell’articolo domenicale di Lucia Annunziata: «Nella recente ondata di antipolitica è stata messa in discussione la credibilità dei politici, non dei media. Ed è attraverso i media che in questi mesi di tensione le élite di questo Paese stanno tenendo aperta una linea di contatto con i cittadini».

Saranno i retroscena abili e gustosi di Augusto Minzolini, sarà Porta a Porta e i tanti programmi simili, a garantire questo contatto? E ancora: potrebbe esserci un disordine così intenso e anarcoide nel rapporto fra cittadini e politica senza il ruolo attivo e interessato di televisioni e giornali che stanno al gioco o conducono il gioco? Infine: accade tutto ciò per un periodo così prolungato nelle democrazie su cui non grava un gigantesco conflitto di interessi nel cuore del sistema delle comunicazioni?

Pubblicato il: 30.10.07
Modificato il: 30.10.07 alle ore 11.34   
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Titolo: Furio COLOMBO - Delitto e castigo
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2007, 11:20:19 pm
Delitto e castigo

Furio Colombo


Appena il tempo di improvvisare discorsi irresponsabili da parte di Fini e Berlusconi, e subito le squadre di picchiatori mascherati sono entrate in azione come se fossero mosse da un’incontenibile indignazione per un evento atroce appena accaduto. Invece quel delitto è solo un pretesto. Con maschere e bastoni (per ora solo bastoni) erano già pronti. Ed erano pronti anche i discorsi irresponsabili di due che hanno già governato per cinque anni e fino a poco fa, e sono stati quasi sempre impegnati a danneggiare le istituzioni, spiare gli avversari politici, senza lasciare una traccia di civiltà umana e politica.

Le loro migliori energie sono state investite nelle Commissioni d’inchiesta Mitrokhin e Telecom Serbia, dotate di fondi copiosi, di testimoni chiave incriminati per calunnia e di clamorosi delitti internazionali (il caso Litvinenko). Ricordate una Commissione del passato governo che abbia mai lavorato su legalità e integrazione degli immigrati?

Ma rivediamo i dolorosi eventi di questi giorni e cerchiamo di capire perché non riusciremo a uscirne con dignità, civiltà e realismo.

* * *

Al centro della scena c’è un episodio spaventoso. Soltanto il massacro di Erba è così orrendo, o quello del piccolo Samuele, o la strage di Novi Ligure, o lo scempio della ragazza di Garlasco. Oppure, tornando indietro nel tempo, la mattanza a cui è scampata per caso al Circeo Donatella Colasanti, e il più recente crimine provocato dal suo mancato assassino di allora, Angelo Izzo, di nuovo assassino, di nuovo in carcere.

E la spaventosa messa a morte di Pasolini, lo scioglimento nell’acido del figlio dodicenne di un pentito di mafia. Tutto ciò scatena una impressione altrettanto grande: ferocia, follia. E provoca lo stesso strenuo desiderio di giustizia e di punizione.

Questa volta però intorno alla scena c’è un Paese spaccato. Una parte politica chiede vendetta contro l’altra. Ciò che è accaduto in una buia, maledetta stradina di Tor di Quinto a Roma, una signora italiana massacrata da un vagabondo rumeno mentre rincasa - è un delitto politico.

Infatti non è lo spaventoso abbattersi della bestialità di un essere umano che fa scempio di un altro essere umano, come accade da millenni lungo il percorso di immenso pericolo che chiamiamo vita e che è frequentato da una folla di Abele e Caino, non identificati fino al un momento in cui scatta il delitto.

No. Benché ci sia sangue vero, dolore vero, vera disperazione, tanto più grande quanto più è evidente la squallida e solitaria abiezione dell’assassino di Tor di Quinto, inerte agente di morte caduto come un masso dell’autostrada sulla povera vittima, nonostante tutto ciò, viene furiosamente invocato il teatro dei simboli. Un macabro sventolio di bandiere che non c’entrano col dolore, l’orrore, il pericolo, si mette in marcia accanto al cadavere di una signora morta ammazzata alla periferia di una grande città del mondo.

È un’armata agguerrita che parte dalla disgrazia-delitto, dalla spaventosa e generale angoscia e umiliazione e disorientamento per la bestiale natura dell’evento. Ma il corteo non si muove per recarsi sul posto e alleviare il dolore, non si muove per unirsi ad altri cortei che tentano, con sforzo, speranza, preghiera, di diminuire sia il pericolo che il senso del pericolo. Non si riunisce per pensare una strategia (umana, dunque imperfetta, dunque quasi impossibile però necessaria) per limitare un po’ il cerchio della percezione del rischio, per allargare lo spazio in cui ci si sente un po’ più sicuri. No, queste bandiere garriscono e questa folla è in marcia, senza badare alla signora assassinata, al dolore della famiglia. Sono qui riunite al solo scopo di abbattere il governo Prodi.

* * *

È un obiettivo modestissimo, a confronto col cadavere martoriato. Non tanto perché si presta alla domanda-ritorsione: avete governato fino a un momento fa con una specifica e celebrata legge sulla immigrazione, avete governato per cinque anni, «36 riforme, 12 codici» (cito Berlusconi nel comizio di Napoli) e con una larghissima maggioranza. Dove eravate quando persone come il presunto assassino di Giovanna andava, veniva, tornava? Dove sono le vostre “misure” salvavita dei cittadini, di cui non si trova traccia?

Una simile domanda sarebbe altrettanto meschina quanto la marcia squallida e inutile delle bandiere della vendetta. (E non stiamo neppure parlando di quel nodo di odio che è la vendetta intesa come lavacro, dunque morte in cambio di morte; ma di vendetta politica: dare l’assalto a un governo perché un cadavere è una buona occasione). Una simile domanda è altrettanto meschina per due ragioni.

La prima è il rispetto che bisogna avere per le parole pronunciate accanto alla donna morente, con immensa nobiltà, dalla madre e dal marito della vittima: «Siamo gente capace di distinguere. Sappiamo bene che rumeni, rom, gli stessi italiani non sono tutti uguali. Quello che è stato fatto a Giovanna poteva essere compiuto anche da uno del nostro Paese. Siamo preoccupati che si faccia di tutta un’erba un fascio e che quanto accaduto possa essere strumentalizzato».

La seconda ragione è che l’emergenza, che è nei fatti ma soprattutto in quel fenomeno potentissimo che è la percezione dei fatti, può essere fronteggiata con efficacia e con decenza solo da un Paese unito, ovvero da tutti coloro che sono responsabili sia di guida politica che di guida d’opinione di un Paese, affinché si blocchi la tentazione non nobile di usare i cadaveri come strumento di lotta politica. Affinché ci si renda conto che il gioco delle parti (una buona, una cattiva) in casi e momenti come questo è sterile, paralizzante. Serve alle manifestazioni, serve come anticipo di una campagna elettorale. Ma non serve all’angosciosa richiesta (che coinvolge sia i cittadini sia gli immigrati) di essere - o almeno di sentirsi - un po’ meno in pericolo.

In questo momento i cittadini, con il loro disorientato stordimento, invece di diventare target di spot elettorali, dovrebbero diventare partecipi di un più vasto e civile progetto in cui non si scacciano gli immigrati come nemici, non si bastonano come prede di una caccia selvaggia, ma si affronta tutta la criminalità, italiana e importata, come un immenso problema comune. Tutto ciò richiede dimensioni che per ora non si intravvedono nella vita pubblica italiana. Tutto ciò richiede una generosa e civile capacità di dire: il dolore è più importante della bandiera. E i cittadini vengono prima dei punti da segnare per un partito.

* * *

Tutto ciò - è bene ricordarlo - avviene nel Paese disastrato Italia, sul fondale in un mondo in pericoloso sbandamento economico, mentre crepe allarmanti si intravvedono in strutture economiche internazionali che abbiamo sempre immaginato come pilastri. Le Borse del mondo continuano a cedere, il costo del petrolio continua a salire.

Tutto ciò avviene sul fondale di strani venti di guerra, raffiche di vento gelido che spazzano via attese e speranze di pace fra l’influenza americana e quella russa. Vengono pronunciate frasi come l’annuncio di impianto di “scudo spaziale” di Bush ai confini della Russia e l’affermazione di Putin che paragona questa minaccia alla crisi dei missili di Cuba. Entrambi descrivono un mondo fuori equilibrio, sbilanciato sul bordo di zone oscure, da cui possono venire soltanto rischi più grandi.

Tutto ciò avviene mentre nessuno dei focolai di guerra già accesi nel mondo si è spento (Iraq, Afghanistan), mentre il Medio Oriente resta accanto a tutti i suoi pericoli, intatti e moltiplicati. Si vede il martirio della Birmania, tormentata e depredata per decenni dai generali; riprende il terrore in Somalia, ormai terra senza governo disputata fra bande; continua il genocidio che dura da anni in Darfur, regione del Sudan, vittime, a centinaia di migliaia, donne e bambini.

Tutto ciò avviene all’interno di un’Europa senza luce e senza fiducia, con una moneta - l’euro - troppo forte e governi troppo deboli. Ha un volto pallido questa Europa, difficile da identificare, senza cause o progetti o ragioni di impegno, il volto di qualcuno desideroso di stare alla larga dai grandi problemi. Alla larga anche da un problema grande e urgente come l’immigrazione, e il modo in cui farlo fluire, sapendo che è una ricchezza, senza farsi inondare. L’Europa distribuisce ai suoi membri regole automatiche di comportamento che negano la Storia. Pensate a questa, tanto cara alla Casa delle Libertà, al solo scopo di spingere alla frantumazione fra destra e sinistra dentro la maggioranza di Prodi: «Espulsioni per chi ha commesso reati. E anche per chi non ha fonti certe di sostentamento». La seconda parte della disposizione è staccata dalla realtà per molte clamorose ragioni.

Una è che anche i giovani cittadini europei - certo i giovani italiani - trascorrono anni in cerca di “una fonte certa di sostentamento”. E, per esempio, ne risulterebbe privo il giovane immigrato individuato come “senza lavoro” mentre è impegnato, con mille sacrifici, nel tentativo di dar vita ad un’impresa. Ma come non pensare che, con una simile regola, sarebbero stati espulsi dagli Stati Uniti Garibaldi e Meucci (mentre tentavano di sopravvivere a Staten Island, periferia di New York, fabbricando candele) e le famiglie povere Cuomo e Scalia, molto prima che un Cuomo diventasse governatore di New York e uno Scalia diventasse giudice della Corte Suprema americana?

Ecco dove dovrebbe finire il gioco un po’ macabro del lucrare politicamente su un grave e impressionante delitto. Nella grande responsabilità comune. Eppure credo di poter predire ai nostri lettori che il giorno 5 novembre alle ore 17, noi, maggioranza (con l’angosciosa speranza di restare maggioranza) entreremo in aula al Senato per ascoltare, fin dal primo minuto e per ogni ora e giorno di seduta, il lungo urlo, colmo di insulti, che la Casa delle Libertà e i partiti associati chiamano opposizione. E niente altro.

Quanto alla sicurezza, avremo un diluvio di informazioni sulle colpe di Veltroni, di Amato, di Prodi. E non una parola su un realistico, civile «che fare». Il delitto è ciò che è accaduto a Tor di Quinto, un delitto tremendo. Il castigo è non avere una opposizione normale. Per questa triste ragione il delitto continua.

Pubblicato il: 04.11.07
Modificato il: 04.11.07 alle ore 8.25   
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Titolo: Furio Colombo - Verità e realtà
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2007, 07:43:39 am
Verità e realtà

Furio Colombo


Il «non c’è più» che proviamo e diciamo nel momento della scomparsa di Enzo Biagi nasce dal pauroso senso di vuoto per la perdita di un grande amico. Ma in questo caso il vuoto è più vasto e riguarda tutto il giornalismo, tutta la vita pubblica italiana. Non - non solo - nel senso di avere perduto il giornalista, bravo, severo, rapidissimo, esatto, implacabile, innovatore. Non solo perché se ne va il professionista che in tutta la sua lunga vita non ha perso un evento e non ha commesso un errore, di fatto o di giudizio. Nel suo percorso non ci sono, infatti, tortuosità o cancellature, non una. Il suo lavoro è sempre stato un paginone fitto di note, chiare subito. E confermate dopo, dal punto giusto in cui questo reporter si è sempre trovato (e poi ritrovato, ad ogni rivisitazione del suo, del nostro passato).

Ma questa perdita avviene adesso, nel peggior periodo del giornalismo e della vita pubblica italiana. È affettuoso e celebrativo dire, accanto al feretro di una persona amata e ammirata: «come lui ce ne sono più». La nostalgia dolorosa è sempre accanto alla perdita di chi è stato caro specialmente se ha avuto un ruolo e un peso nella nostra vita.

Enzo Biagi era una pianta robusta che si è estesa fino a questi giorni. Ma aveva le sue radici salde e profonde in un terreno diverso, in un tempo finito.

Quel tempo è stato segnato per sempre dalla la tragedia italiana, tra fascismo e antifascismo, e ha dato ragioni, motivazioni, necessità di scegliere. È stato il grande dono che molti hanno ricevuto dalla lotta vittoriosa al fascismo e che qualcuno (non tutti, non tanti, in una generazione) ha custodito come un tesoro per tutta la vita.

Ecco ciò che ci fa apparire Enzo Biagi così grande e importante alla fine del suo percorso. Perché la sua incorruttibile e non negoziabile intransigenza è divenuta cruciale in un’epoca triste e modesta della vita italiana in cui tutto è negoziabile, e una buona, conveniente negoziazione copre e cancella il vecchio argomento che una volta, un po’ enfaticamente, si chiamava dovere professionale.

Il lavoro giornalistico, a parte nuovi eroi del nostro tempo che invocano ancora nome e prestigio della professione, ma sono star della società dello spettacolo, con regole, priorità, colpi di scena e performance ambientate nello spettacolo, non nelle regole del giornalismo (che sono severe, strette, imperiose e non violabili a piacere), il lavoro giornalistico è reso nano dal sovrapporsi di un vasto potere economico. È un fatto recente. Infatti il potere economico ha sempre avuto influenza e interessi da far pesare. Ma aveva anche la necessità, di fronte all’opinione pubblica democratica, di salvare il decoro, mostrandosi accanto, non sopra il giornalismo, non come sfacciato regolatore delle notizie vere, false o da cancellare.

Ciò è accaduto in Italia - con una sorta di anticipazione profetica - quando un pesante potere economico dotato di tutti gli strumenti di persuasione negoziale, si è improvvisamente spostato dall’editoria (che stava comunque già trasformando in una struttura neo-feudale) alla vita politica e al governo. Sono mosse pesanti e drammatiche, che hanno urtato e tentato di abbattere, uno dopo l’altro, i due riferimenti più alti del giornalismo italiano, Indro Montanelli e Enzo Biagi. La storia esemplare vuole che uno dei due uomini liberi si sia trovato più vicino alla destra e l’altro alla sinistra. Ma, come ormai ci dicono in molti, queste sono definizioni d’altri tempi. Forse è vero, perché in tutti e due i casi è stata la forza intatta delle due persone e la loro inflessibile integrità a svelare il nuovo paesaggio, la nuova condizione di dominio delle informazioni.

Noi, qui all’Unità, Padellaro ed io e tutti i colleghi, possiamo vantarci di avere avuto amicizia, consiglio e sostegno ininterrotto da questi due uomini liberi, di averlo avuto molto più spesso che da parti politiche contigue. Ed è qui, adesso, che ci sentiamo orgogliosi di avere realizzato, nelle dimensioni limitate di un quotidiano di antica tradizione politica, morto e poi risorto, la lezione di Biagi: mai tacere un fatto vero, mai zittire una voce, per quanto irritante.

La vita di Enzo Biagi è stata una vita di buon lavoro, impegnata a dare volto alla realtà, a non negarla mai, quando è benevola, quando è spiacevole, quando è intollerabile. È questa la parola che va messa al centro del ricordo vero e non solo ideale di Biagi: rappresentazione dei fatti come dovere, e non importa se i responsabili di quei fatti se ne dispiacciono e vorrebbero negoziare le loro finte notizie. La parola chiave non è la mitica verità, troppo spesso scritta con la maiuscola. La parola chiave è la semplice realtà, ciò che è realmente accaduto e che non sarà mai censurato.

Il fatto che i venditori di finte notizie (potenti e anche minacciosi fino al punto di toglierti il tuo lavoro benché tu sia stimato, ammirato, famoso) abbiano avuto tanto successo, e siano riusciti ad aprire, accanto a ciò che chiamavano giornalismo, un vivace mercato del falso di immagine, del falso prestigio, di falsi eventi, dando a questo mercato del falso una impetuosa corsia di preferenza anche nella grande stampa (oltre al dominio quasi completo della televisione) tutto ciò ha reso più grande ed eccezionale la figura e il senso del lavoro di Enzo Biagi, che a narrare la realtà non ha mai rinunciato.

I lettori di questo giornale ricorderanno che si è tentato di tutto per zittire chi ha tenacemente seguito “il percorso Biagi”, fino al punto di accusare di contiguità con il terrorismo ogni narrazione scrupolosa di ciò che stava accadendo. Ma, ti dice e ti lascia detto Enzo Biagi, tu continui lo stesso, almeno finché resta un giornale libero per farlo. Il resto sono giochi, come accorrere ad affollare certe trasmissioni tv per farsi vedere, non importa con chi.

Enzo Biagi non partecipava ai giochi, che sono parte del mondo dello spettacolo, e anche questo è un insegnamento da tenere vivo e tenere caro. È il nostro immenso debito di giornalisti e di amici.

Pubblicato il: 07.11.07
Modificato il: 07.11.07 alle ore 10.31   
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Titolo: Furio Colombo - Ai tempi del Papa Re
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2007, 04:48:13 pm
Ai tempi del Papa Re

Furio Colombo


Qualcuno ricorda lo scorso 20 settembre? Quel giorno - anniversario della conquista di Roma, che ha cessato di essere capitale dello Stato Pontificio per diventare capitale d´Italia - i Radicali di Marco Pannella hanno invitato i cittadini a incontrarsi a Porta Pia, il luogo in cui le truppe italiane sono entrate nella "Città Santa" nel 1860. A molti sarà sembrata una inutile e dispettosa celebrazione di un passato morto e sepolto, una manifestazione simile e opposta a quella di anziani nobili che quello stesso giorno assistono ogni anno a una messa di cordoglio.

Personalmente rimpiango di non essere andato a Porta Pia la mattina del 20 settembre. Ho saputo in questi giorni, nell´Aula del Senato, iniziando a votare la Legge finanziaria 2007-2008 della Repubblica italiana, che quell´evento non riguardava un´eco retorica del passato, non era una trovata retro. Riguardava i cittadini italiani di oggi, vicende politiche di cui siamo testimoni e che stiamo vivendo.

Infatti, la mattina del giorno 7 novembre, quando è circolato fra i banchi di destra e sinistra l´emendamento 2/800 a firma dei senatori Angius, Montalbano, Barbieri che cancellava la esenzione degli immobili della Chiesa cattolica dal pagamento della tassa Ici se quegli edifici sono usati non per fini religiosi o di carità ma per scopi commerciali (nel lucroso parco turistico di Roma e intorno a Roma) subito si è levato da ogni parte dell´aula un forte vento di irritazione, di ostilità e anche di sdegno.

Inutile ricordare che la fine di un simile privilegio (aprire un confortevole albergo a tariffe correnti e con una rete internazionale di contatti che assicura il flusso continuo di presenze) viene chiesto all´Italia dalla Commissione Europea per ragioni di violazione grave delle regole di concorrenza. Inutile ricordare che negli Stati Uniti provvede non il Parlamento, ma la denuncia del fisco all´autorità giudiziaria, a perseguire chi usa la religione (che è esente da tasse) a scopi commerciali (che non lo sono mai), ed è noto che seguono conseguenze gravi e condanne pesanti e tutt´altro che infrequenti, a chi ha usato la religione per coprire il commercio.

Sono cose che accadono in tutto il mondo civile, democratico, rispettoso, in ambiti diversi, della religione e della legge. Persino in Messico e nelle Filippine.

Ma non in Italia.

E infatti nel Senato italiano è scattata una reazione ferma e istantanea, come se fosse in gioco un grave e vistoso problema morale con cui le persone perbene non vogliono avere niente a che fare. Il problema grave c´era, ma rovesciato. Si voleva stabilire che, di fronte alla legge, e dunque alle tasse, tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi doveri.

Invece è stato deciso, bocciando subito e in modo quasi unanime l´emendamento del diavolo (far pagare le tasse all´albergatore ecclesiastico) oppure astenendosi, che è bene, se non altro per prudenza, stare alla larga dalla tentazione blasfema.

Conta, per capire e valutare l´evento, il contesto storico e politico di questi giorni.

Sono giorni difficili, una società frantumata che stenta a trovare riferimenti unificanti e comuni. Un´Italia dove ogni gruppo o corporazione di interessi si scontra con un altro o contro i cittadini (negando di volta in volta assistenza, servizi, persino risposte che orientino). E in questo momento, in questa Italia, il Papa decide di incitare i farmacisti (notare: solo i farmacisti italiani) alla obiezione di coscienza, ovvero all´obbligo religioso di rifiutare ai pazienti "le medicine immorali", benché regolarmente prescritte dai medici. Un´altissima autorità introduce un criterio estraneo a un Paese moderno, alla democrazia e contro la scienza. Il Papa comanda, dal suo altissimo pulpito, la disubbidienza civile ai responsabili di quel punto di raccordo e fiducia comune che sono le farmacie, ancora più rilevanti e delicate dei doveri d´ufficio di un pubblico ufficiale.

È in queste condizioni che si è tuonato nel Senato italiano in difesa devota e assoluta della Chiesa cattolica italiana come se la Chiesa fosse minacciata da un Emiliano Zapata in agguato sulle colline di Roma, invece di essere implacabile e infaticabile parte che attacca, conquista e impone.

Alla fine solo undici senatori, e chi scrive, hanno votato l´obbligo di far pagare le tasse alla Chiesa quando la Chiesa si occupa non di Religione ma di commercio. Dunque hanno votato come avrebbero votato deputati e senatori inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, americani.

Ha ragione il Cardinale Ruini: «la Chiesa vince». Per questo rimpiango di non avere almeno partecipato a quel simbolo mite di dignità italiana che è stato il ricordo radicale di Porta Pia.

* * *

Perché rivangare oggi queste storie "anticlericali"?

Una ragione è certo la svolta della Santa Sede che, per quel che riguarda l´Italia, ha deciso di scendere direttamente in politica. S´intende che il fenomeno della cosiddetta "ingerenza" vaticana nella vita politica italiana non dipende solo dall´irruenza vaticana (qualunque predicatore ha diritto di essere irruente) ma piuttosto dalla spontanea e volenterosa sottomissione italiana, una vera e propria corsa, dalle alte autorità ai cittadini prudenti, ad accettare tutto. Proprio per questo ricordare simbolicamente la data del 20 settembre per celebrare uno sdoppiamento dei poteri (potere temporale finalmente diviso dal potere spirituale) non è fuori posto e non è contro la Chiesa. Al contrario, tende a restituire alla Chiesa tutta la sua diversa autorità, presenza, competenza, fuori e lontano dal cortile della politica.

Una riflessione sul 20 settembre, se fatta con un po´ di serenità ma anche con un po´ di coraggio (si rischia facilmente la stizzosa aggressività dei finti credenti) ci porta forse a dire che il 20 settembre ha liberato non solo Roma ma anche la Chiesa dal regno e dal governo pontificio, che era una maschera di ferro saldata sulla religiosità dei credenti e persino sulla cultura religiosa di coloro che, per tante ragioni, hanno interesse vero e profondo a inoltrarsi nel misterioso territorio della fede.

Purtroppo un mare di finti credenti prendono continuamente la zelante iniziativa di portare il Papa in processione, una processione senza pace e senza sosta, dentro la politica, dentro le leggi, dentro la scienza, persino dentro le intricate e sgradevoli proteste fiscali. E ci sono anche pattuglie di veri credenti che pensano davvero, non saprei dire perché, che la processione anche un po´ fanatica dei finti credenti che spingono il Papa in ogni vicolo della vita pubblica e anche del comportamento personale e privato dei cittadini, giovi davvero alla fede.

Giova, certo, alle conversioni di convenienza, molto frequenti nella vita politica italiana, dove essere visti vicino al Papa (qualunque sia la vita realmente vissuta) viene considerata una eccellente raccomandazione. Avete notato quante persone in vista, nell´Italia di questi giorni, confidano improvvisamente ai giornali conversioni e vampate di fede come se fossero materia di pubblico interesse?

In tal modo la doppia scorta di finti credenti e di alcuni veri credenti priva il Papa e le sue parole e la sua predicazione, di vera attenzione, vero rispetto e vera discussione.

La cultura cattolica, già così viva in un Paese che va da Don Milani a Padre Turoldo, da Pasolini al Cardinale Martini, da Giorgio la Pira a Don Ciotti, da Padre Balducci a don Puglisi, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, da Dossetti ad Alex Zanotelli (e stiamo parlando solo dell´Italia contemporanea, solo di pochi esempi) diventa una cultura del monologo senza risposte, di un Papa solitario, issato dai media sui cittadini muti tramutati in folla. E il monologo continua attraverso tutti i telegiornali, ora dopo ora, rete dopo rete, fino al punto assolutamente strano e bizzarro, di aprire con il Papa telegiornali nazionali in ore di massimo ascolto, in giorni e occasioni in cui non vi è alcun annuncio o notizia o evento che giustifichi tale "apertura", dando così un colpo mortale a tutte le possibili gerarchie di valori della comunicazione, provocando una omologazione triste fra Tg che aprono con il Papa e chiudono con Valentino Rossi.

* * *

Tutto ciò avviene - sia concesso di dirlo anche a chi non è parte in causa - con un prezzo molto pesante per Chiesa e dottrina intesi in senso religioso, o anche solo culturale e non politico.

Il Papa, infatti, diventa omologo non solo di Bush e Blair e Putin, come mai era avvenuto ai tempi di un uso più parsimonioso della sua immagine e della sua parola. Il Papa sta diventando, omologo dei leader politici nazionali. Gli viene attribuita dunque forzosamente una statura alquanto modesta. Come fanno i veri credenti, pur fra la concitazione entusiasta dei finti credenti, a vedere senza allarme il costante abbassamento di livello, di tono, di rilevanza, lo spreco quotidiano che induce a includere immagine e frammento di parole del Papa - ormai rese uguali a quelle di ogni altra "personalità televisiva" - in tutti (tutti) i telegiornali?

Non solo si disperde la sacralità. Si disperde l´interesse, il senso, perché il messaggio, qualunque cosa valga, evapora fra le mille finestre aperte di una comunicazione ovviamente priva di rispetto, priva di senso del più alto e del più basso, del triviale e del sacro, di ciò che importa e di ciò che è irrilevante, della salvezza e del lancio dell´ultimo film.

Possibile che sia accettabile e anzi desiderata l´immagine del Papa come "personalità televisiva" che, fatalmente, prende posto nel gruppo di tutte le altre personalità televisive?

* * *

Altro grave problema - ed è strano che tocchi ai non credenti parlarne - è che non esiste alcuna legittima e autorevole sede per considerare e discutere le parole, i concetti, gli insegnamenti, le raccomandazioni, le prescrizioni del Papa. Infatti poiché il capo della Chiesa sceglie di parlare non alla Chiesa ma a tutti, attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa, è naturale immaginare (sarebbe meglio dire: sapere) che vi saranno voci, posizioni, pensieri, decisioni diverse, anche profondamente diverse.

Ma prima ancora che io faccia in tempo ad aggiungere che sono e saranno opinioni "rispettosamente diverse", viene la bordata violenta dei difensori del Papa. Ci dicono che la sua parola deve restare indiscutibile sempre anche per i non credenti, persino se parla di sport.

Cattivi difensori. Perché bloccano il capo della Chiesa cattolica in un omaggio forzato e obbligatorio che allarga l´area dei finti credenti (che si sentono incoraggiati a rinnovare i loro teatrali slanci di adesione pubblica), aumentando sorprendentemente il numero di persone (specialmente se note) che si accostano ai sacramenti (si dice così?) in caso di presenza di telecamere o di «Dagospia».

E privano la parte intelligente e pensosa del Paese Italia, e dell´ex regno del Papa Re, di riflessione, scambio di idee, confronto intelligente e civile su temi che, oltre che di fede, sono anche di vita e di morte quotidiana nei suoi aspetti più difficili e drammatici.

Proprio per questo il ricordo, senza provocazione e senza alcuna intenzione polemica, del passaggio di Roma da territorio del Papa a città italiana e capitale del nuovo Paese, è utile oggi più che mai, per evocare la diversità fra Chiesa spirituale e Chiesa-regno, fra il Papa teologo e il Papa regnante, fra la predicazione ai credenti e l´emanazione di una legge erga omnes. È un atto di vero composto rispetto verso la Chiesa, come votare no al commercio travestito da religione.

A chi scrive sembra evidente che, fuori dalla irrefrenabile euforia dei finti credenti, il rispetto più profondo della Chiesa è tra coloro che non credono che sia bene trattare il Papa come "personalità televisiva", la predicazione come legge, la divisione tra Stato e Chiesa come mai avvenuta.

Ci sarà un teologo non euforico, non impegnato a far contenti i finti credenti, per dare un tono rispettoso alla discussione (discussione, non concitata, preventiva condanna) che non c´è mai, o meglio che non c´è più? O avremo di nuovo, ma in tutto il Paese, il tempo fermo e chiuso della messa all´indice, della condanna preventiva, del pensiero laico giudicato "immorale", del governo del Papa Re?


Pubblicato il: 11.11.07
Modificato il: 11.11.07 alle ore 15.03   
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Titolo: Furio COLOMBO - Quel tempo allegro della Pop Art
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2007, 09:04:21 am
Quel tempo allegro della Pop Art

Furio Colombo


La Pop Art torna a Roma nella più contraddittoria e dunque nella più straordinaria ambientazione che si potesse desiderare per una rivisitazione di arte apparentemente non compatibile col passato, le scuderie del Quirinale. Reperti e immagini che al Moma, al Downtown Guggenheim, al Ps1 o nelle gallerie Gagosian o Marlborough di New York appaiono come finestre aperte sulla rapida e mobile realtà circostante, più ricca di premonizioni e di annunci che di memoria, nelle scuderie appaiono a prima vista come una delegazione di alieni giunti in un luogo della storia (per quanto accuratamente trasformato in neutro museale) di solito più adatta a una celebrazione che a una sorpresa.

Ma la Pop Art è ancora una sorpresa o è diventata essa stessa materiale da museo? La mostra delle scuderie, così come è stata organizzata, accetta due volti che di solito compaiono, e vengono discussi, in contesti e occasioni diverse, la Pop Art americana, la Pop Art italiana.

È vero che, tra le due Pop Art storiche si inseriscono (e si vedono al Quirinale) alcuni interventi estranei ai due percorsi. Diciamo che qui si dà vita a un terzo percorso in cui spicca, si nota, si ricorda un solo artista, David Hochney. Ma David Hochney lo guardiamo col senno di poi, lo vediamo dal punto di vista della sua solida e gradevole fama di oggi, e tendiamo a perdere il senso e anche il valore delle sue prime sperimentazioni.

Spiegherò subito perché trovo dubbia l’idea di aprire il percorso della mostra romana, con il vistoso allestimento luminoso di Martial Raysse. E trovo dubbia l’idea di disseminare il percorso della mostra con occasionali presenze di una Pop Art apolide. Sono opere la cui forza e il cui senso, non dipende da questa mostra e, nonostante le date di produzione, non si situano in un prima o in un dopo delle altre opere esposte.

Tutto ciò mi serve per dire qualcosa che ho già avuto occasione di dire e di scrivere. Fuori dai confini vasti, artisticamente e commercialmente imperiosi, della Pop Art americana, esiste un solo riscontro, una sorta di allegra e giovane risposta nel mondo, ed è la Pop Art italiana. Non esiste un dialogo europeo o occidentale con la Pop Art americana - esiste, in tempo reale sottomissione o antagonismo. Molti artisti, in Europa reagiscono come contro un attacco, e non riconoscono il tipo di cultura, anzi lo deridono - altri imitano, sperando di non uscire dal mercato.

Il caso italiano - che nella mostra delle scuderie si vede bene - è diverso ed è unico. La Pop Art italiana dialoga intensamente con quella americana, in un caso rarissimo di rapporto transnazionale tra gruppi di artisti. E caso unico di un doppio fenomeno: l’originalità evidente della Pop Art italiana. Ma anche un gesto di riconoscimento e di simpatia, una sorta di costante proposta e costante risposta forse mai prima accaduto nel mondo dell’arte, fra due laboratori indipendenti e lontani.

In questa storia insolita c’è la funzione unica della Biennale di Venezia e per i suoi riconoscimenti che, in quel tempo, erano di grandissimo prestigio. E anzi segnavano e confermavano (la rivelanza mondiale) di un artista. Quel riconoscimento è toccato nel 1959 a Mark Rotkho (a Rotkho è dedicata, in questi giorni, una straordinaria mostra a Roma, Palazzo delle Esposizioni), nel 1964 a Robert Rauschnberg. Tra le due date, le due opere, i due artisti, c’è la storia della rapida e vitale evoluzione dell’arte americana al centro del ’900 una sorta di vorticosa porta girevole al centro di un secolo in cui miracolosamente entra il meglio del prima ed esce il meglio del dopo.

La Biennale di Venezia consente di dare piena visibilità allo sguardo italiano verso l’America - forse è un’occasione rara e fortunata che l’Italia, durante il passaggio degli anni Cinquanta agli anni Sessanta, abbia potuto esibire tanto talento nella pittura e scultura giovane. Forse è un privilegio italiano che i vitalissimi giovani protagonisti degli anni Sessanta siano stati preceduti di poco da artisti del peso e delle diversità di Mimmo Rotella e di Piero D’Orazio (e subito prima i grandi italiani da Boccioni a De Chirico alla scuola romana). Certo è che i nuovi dell’arte italiana al tempo della Pop Art non hanno debiti di imitazione (nella mostra si vede bene) hanno una straordinaria vocazione alla convivenza senza sottomissione, alla esplosione creativa senza imitazione intrattengono un fitto dialogo alla pari con l’arte americana, mentre si verifica il più intenso e proficuo scambio di viaggi, trasferimenti, presenze, come Schifano e Tano Festa a New York, Cy Twombly a Roma, e gallerie d’arte si scambiano opere e culture fra i due paesi.

La Pop Art americana affronta il suo colorato ed estremo consumismo. La Pop Art italiana fronteggia la storia, e soprattutto lavora a rappresentare l’invasione dell’arte dei secoli nel presente italiano - inventa modi eleganti e arguti di citare il passato per non essere colonizzati dal passato. Ma si tratta di artisti grandi abbastanza da rispondere alla minaccia di occupazione con una grazia creativa che ha lasciato la sua traccia, da quegli anni e fino ai nostri giorni. Inevitabile collocare qui i nomi di Mario Schifano, Tano Festa, Giosetta Floroni, Mario Ceroli (a cui è dedicata una bellissima e ampia retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni, accanto a Rotkho). Ma anche Fabio Mauri, in una fase sorprendente e festosa della sua lunga vita di artista tutta segnata da momenti diversi e altrettanto creativi - in cui Mauri sembra anticipare la serie delle figure danzanti di Larry Rivers, così come Giosetta Fioroni anticipa, nel suo «Carpaccio» la fiera delle figure - citazione con cui Jean Claude Basquiat ha illustrato le pareti di una discoteca di New York, dieci anni dopo.

Muoversi attraverso la Mostra Pop Art è come attraversare un festoso paesaggio immagine di un tempo di pericolo e promesse, di rischi e scommesse, di delitti e miracoli vissuti da giovani. Ma la diversità del tempo e del luogo impongono una domanda: che cosa sono adesso queste citazioni di vita, di oggetti, di gesti di moda, di corpi (le labbra, le mani) di volti celebri? Se erano profezie, la profezia si è realizzata? Erano documento? Di che cosa? L’esperimento è ancora valido o è scaduto? Questa è una mostra o un archivio?

Forse una prima risposta può essere questa: la Pop Art è un ponte di barche che collega due parti di terraferma incomunicabili e diverse. Di là c’è il tempo della vecchia economia, del lavoro di massa, delle fasi relativamente ludiche della storia (la durata nel tempo produce un senso di stabilità e un’idea di società verticale relativamente ordinata). Di qua c’è una landa avventurosa, dove l’avventura è occasione e pericolo, costruzione e distruzione, le promesse, audaci e incredibili, attraversano il cielo, portando più annunci che fatti, e ben poca permanenza e stabilità, dove la durata, di oggetti, idee, progetti e gerarchie è sempre brevissima. Sappiamo poco di che cos’è l’arte (o l’architettura o la città o il manufatto desiderabile) in questo mondo afghanizzato in cui sono elusive sia la pace che la guerra, e l’una si scioglie continuamente nell’altra, lasciando sempre un eccesso di scorie, detriti, macerie. E allora accade che la Pop Art proprio la Pop Art così volubile, giocosa e decisa a non essere presa sul serio, ci appaia un punto fermo, un’ultima testimonianza, l’argine di un periodo sicuro subito prima di avventurarsi in un vasto territorio di sabbie mobili.

Le barche sono ancora il ponte e parlano ancora di una festa finita. Ma neppure il miracolo dell’arte allegra può risalire il tempo all’indietro - il tempo è questo. E non ci resta che osservare, ricordare, invidiare. Invidiare noi stessi. Credo che questo atteggiamento si chiami nostalgia.

Pubblicato il: 13.11.07
Modificato il: 13.11.07 alle ore 9.20   
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Titolo: Furio COLOMBO - Gli ebrei, il fascista e il Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2007, 11:57:31 pm
Gli ebrei, il fascista e il Cavaliere

Furio Colombo


Bisogna dare a Francesco Storace il merito di avere strappato il sipario su un’Italia ambigua e trasversale. In questa Italia si oppongono alle coppie di fatto moltissimi partner di celebri coppie di fatto, si corre in piazza a celebrare i valori della famiglia subito dopo avere spaccato la propria famiglia, si celebrano con voce incrinata dall’emozione «le nostre gloriose Forze armate» e intanto si abbandonano al loro destino i soldati contagiati dall’uranio impoverito. È il Paese in cui «veri liberisti» si precipitano a dare manforte alla corporazione dei tassisti e a quella dei farmacisti che non tollerano mercato e concorrenza.

In questo Paese abituato a non chiamare mai le cose col nome giusto, Storace si dichiara fascista e se ne vanta. Non solo, ma arruola una portavoce che promette di continuare a proclamarlo ogni giorno «con la bava alla bocca».

Si tratta della stessa signora abituata a mostrare il dito per far capire il suo gentile diverso parere. Dunque una bella coppia. Ai due va un apprezzamento sincero, dopo l’estenuante periodo in cui il vero genuino sentimento veniva coperto da gravi e preoccupati giudizi sulla Resistenza, «che ha spaccato l’Italia». Dalla esortazione a cercare insieme «ciò che - nel triste passato italiano - ci unisce invece che ciò che ci divide»; dalla predicazione secondo cui tutti i combattenti sono uguali (anzi devono avere la stessa pensione) compresi quei combattenti che, nel tempo libero, si dedicavano a consegnare a truppe d’occupazione straniere i concittadini ebrei; dalla nuova definizione di «guerra civile» invece di lotta di liberazione. Finalmente un fascista torna a essere fascista, si presenta e si raccomanda come tale. Fine delle ipocrisie.

La sincerità dei due - che un po’ ricorderebbe Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, celebre coppia mediatico-combattentistica di Salò, se solo Storace fosse all’altezza - è immediatamente provata dalla rivelazione della data di nascita di questa nuova destra: è il giorno in cui Gianfranco Fini, sulla soglia del Museo della Shoah, a Gerusalemme, ha dovuto scegliere tra fascismo e Israele. E ha scelto Israele. Ha definito il fascismo «male assoluto» a causa delle leggi razziali e della loro meticolosa esecuzione in Italia. E ha accettato di rendersi conto in pubblico dell’orrore di quelle leggi.

Storace e i camerati ritrovati hanno deciso che il troppo è troppo. E hanno riportato ciò che resta del fascismo italiano nel posto che gli compete, fin dai tempi in cui i giovani fascisti si facevano vedere, nelle università italiane, con la kefiah, non tanto per dichiarare amore per gli Arabi quanto per dire il loro disprezzo e la loro coerente ostilità verso un piccolo Stato creato dalle Nazioni Unite e divenuto patria degli Ebrei.

Hanno anche restituito alla storia un pezzo mancante e finora nascosto, salvo che dai negazionisti. Questa destra non rinnega il passato, non rinnega le leggi razziali, non rinnega la sua brutta storia. Dunque è fatalmente nemica di Israele.

In quel loro giorno di festa non erano soli Storace, la sua portavoce con la bava alla bocca e i camerati ritrovati. Con loro - accanto al catafalco di ciò che resta del fascismo e anzi del peggior fascismo - c’era, esultante, celebrativo, fastoso, Silvio Berlusconi.

Berlusconi è un uomo estroverso, espressivamente irruente e ha celebrato la festa non da visitatore ma da protagonista, dato anche il rilievo di un simile personaggio nella vita italiana, come miliardario, come proprietario di metà dele televisioni e di buona parte dell’editoria italiana (con forte influenza sulla parte dei media che in questo momento non ha in mano), come capo effettivo di tutta l’opposizione italiana. Con l’eccezione di quei partner o membri della Casa delle liberà, che diranno di non riconoscersi nella festa di ritorno al fascismo (finora nessuno l’ha fatto, dunque, si direbbe, sono tutti d’accordo), ciò che è accaduto con il patto Storace-Berlusconi è la dichiarazione esplicita di fascismo accettato e accasato nel cuore del centrodestra italiano.

Berlusconi è uno che fa offerte importanti sottobanco, e dunque le fa anche più volentieri alla luce del sole. O meglio, del sole che sorge. Ha offerto casa, alleanza e ministeri in un suo prossimo governo, che lui dice imminente. In questo modo - anche se lo negherà - Berlusconi ha approvato tutto, compresa la ragione per cui il movimento è nato: contro Israele. E contro ogni invito a rinnegare il passato, leggi razziali e camerati tedeschi (nazisti) inclusi.

Ovvio che l’indignazione di molti italiani, e di molti italiani ebrei, non riguarda Storace, che si presenta in linea con il suo passato. Riguarda Berlusconi. Negherà. E si affiderà alla sua ricca e potente macchina di propaganda. Ma non potrà cancellare questo triste momento della verità.

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Pubblicato il: 14.11.07
Modificato il: 14.11.07 alle ore 9.08   
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Titolo: Furio COLOMBO - Moratoria
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2007, 12:50:57 am
Moratoria

Furio Colombo


Intorno al concetto che questa parola esprime, si è formata, nell’opinione di molti italiani e di molti giornali, una sorta di benevola e paziente compiacenza. La parola è moratoria, i proponenti di questa parola sono i Radicali, nel senso del partito di Pannella-Bonino. Il senso della parola e della proposta è sospendere l’esecuzione della pena di morte in ogni Paese del mondo, dunque anche nei Paesi che prevedono la pena di morte per legge, ma senza cambiare la legge.

Si proclama solo la sospensione, e questa proclamazione viene dalle Nazioni Unite con un atto dell’Assemblea generale. In questo modo ciascun governo è vincolato, ma non deve né decidere né abrogare.

Rivediamo la sequenza. Prima viene la caparbia insistenza dei Radicali: fermare le esecuzioni capitali nel mondo. Dobbiamo accettare di riconoscere che un impegno così drammatico, una bandiera così estrema non hanno mai provocato vibrazioni emozionate e risposte adeguatamente impegnate, considerato il rischio e la difficoltà quasi utopistici dell’impresa. C’è stata piuttosto tolleranza, nel senso amichevole e comprensivo della parola, ma più con l’inclinazione a vedere la moratoria come l’ultima trovata dei Radicali, che come uno straordinario e comune impegno internazionale.

Non che non si sia lavorato bene per far arrivare la proposta “moratoria” a destinazione. Ma più per lealtà verso amici del governo e per dovere verso un impegno preso, verso una missione che dà senso e volto al Paese.

Ora, se è bene ciò che finisce bene, e se è giunto il momento di effusive e soddisfatte congratulazioni reciproche, magari con il rischio di dimenticare come e dove tutto comincia (la fastidiosa, ininterrotta insistenza dei Radicali) e con la naturale tendenza a fotografare l’inquadratura finale (successo dell’Italia e della sua arrischiata proposta) con i protagonisti del momento in primo piano, allora è anche il momento di una riflessione, come dire, educativa, su questa vicenda.

Non si tratta, infatti, di un azzardo andato a buon fine, di una scommessa audace vinta per buona fortuna, per caso o anche per occasionale bravura. Si tratta di un modo di affrontare alcuni grandi e gravi problemi senza rinunciare, per quanto grandi siano le difficoltà. Ma anche con estremo realismo.

Se infatti questa vicenda è esemplare, lo è per l’incrocio di tenacia quasi ossessiva - se vogliamo un eccesso di slancio ideale - e di realismo astuto e altrettanto tenace.

Per capire, può essere utile ricordare la questione "Guerra in Iraq" e l’unico vero tentativo di evitarla. Vediamo perché.

Ci si stava avvicinando a un conflitto, che sarebbe stato disastroso. Infuriavano due polemiche: una, enorme, sulla pace e la guerra, dunque il pacifismo contro la proposta chirurgica dell’intervento militare. L’altra, più politica, sulle ragioni di quella guerra: se esistevano o no le armi di distruzione di massa che avrebbero giustificato la guerra come azione di emergenza di una polizia mondiale.

È maturata in quei giorni, proposta da Marco Pannella ai parlamentari italiani, ai governi del mondo e alle Nazioni Unite, un progetto giudicato subito da molti velleitario e impossibile: rimuovere il dittatore Saddam Hussein senza investire di guerra e di distruzione l’interno paese Iraq. Solo dopo abbiamo saputo, in modo certo e senza equivoci, con prove e testimonianze non confutate, che l’assurdo progetto era sul punto di compiersi.

Una parte della diplomazia araba è stata fermata dal precipitare dell’azione militare un momento prima di realizzare l’evento che avrebbe evitato uno dei più disastrosi conflitti della storia contemporanea: la rimozione definitiva e senza sangue del dittatore iracheno, senza passaporti di innocenza e senza rischi personali per la sua vita. Diplomazia, nel suo senso più alto, invece di guerra. Non attraverso invocazioni e gesti esemplari, però privi di conseguenze, come le famose "campane di Basilea" narrate da Louis Aragon, che suonavano e celebravano la pace mentre in tutta Europa scoppiava la prima Guerra Mondiale. Piuttosto studiando, e trovando, con tenacia, intelligenza e astuzia, un altro percorso. Un progetto che stava per riuscire.

Per la moratoria sulla pena di morte nel mondo, Pannella e Bonino e tutto il gruppo Radicale italiano e transazionale, hanno seguito la stessa strada. Prima viene la proposta non rinunciabile, no alla pena di morte. Poi viene il modo di confrontarsi con le potenze (la potenza di molti stati tra cui la Cina, gli Stati Uniti) che praticano la pena di morte. Quando si è portatori di testimonianza, di convinzione, ma non di forza, il passaggio è identificato nell’ambito naturale delle Nazioni Unite, per carattere e missione non conflittuale.

Il metodo è nel proporre non il cambiamento della legge degli altri ma la richiesta (si potrebbe dire: la preghiera) di sospendere l’applicazione della legge. Ovvero la sospensione delle esecuzioni, la salvaguardia - sia pure temporanea - della vita umana. Questa volta la ostinata proposizione e riproposizione del progetto contro la pena di morte di Pannella si è saldata con l’impegno del governo italiano (in particolare Prodi e D’Alema, ciò che per l’Iraq non era accaduto ai tempi di Berlusconi e Fini) e poi con l’Unione Europea, e poi di un numero sempre più grande di Paesi membri e titolari di voto della Nazioni Unite, sta raggiungendo il suo risultato finale e in questo senso esemplare: non la nobile intenzione destinata a restare nell’aria, ma il progetto concreto, costruito ostinatamente pezzo per pezzo, passaggio per passaggio, che entra ora nella sua fase finale e diventa riferimento civile del mondo. Quando si renderà, come è giusto onore all’Italia, per avere fatto strada all’opinione del mondo contro la pena di morte, sarà indispensabile ricordare come tutto questo è nato, come si è svolto e come è arrivato a prevale su difficoltà immense. Si dica e si ricordi che ha avuto inizio, al di fuori delle grandi potenze lungo il percorso della persuasione che si espande e che contribuisce ad alzare il livello di civiltà di tutti. E’ ciò che è accaduto.

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Pubblicato il: 16.11.07
Modificato il: 16.11.07 alle ore 9.51   
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Titolo: Furio Colombo - Classe e azione di classe
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2007, 06:30:01 pm
Classe e azione di classe

Furio Colombo


Non sempre la classe è un principio marxista. Per esempio nel diritto americano la parola classe serve a identificare un gruppo - a volte vastissimo - di cittadini che sono stati colpiti da una stessa ingiustizia o danno o negazione di diritto, da parte di un’unica parte ritenuta colpevole. La legge e la pratica dei tribunali americani ammettono tutti quei cittadini a partecipare alla causa non nel senso che ciascuno dovrà presentarsi in tribunale con un suo avvocato, ma perché, una volta dichiarata colpevole e responsabile la parte che ha causato il danno o violato il diritto, tutti coloro che quel danno o quella violazione hanno subito, beneficeranno dell’esito favorevole del processo.

Ora, con un emendamento molto discusso, molto denigrato, però approvato l’altro ieri dal Senato, la «class action» o azione di classe, entra anche nel diritto italiano. Per capire la portata civile e democratica di un simile cambiamento della legge, potrà essere utile leggere - o rileggere - il bel libro-documento di Felice Casson «La fabbrica dei veleni. Storie e segreti di Porto Marghera» (Sperling & Kupfer).

Casson è stato l’implacabile e appassionato pubblico ministero di quel processo: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi di discariche tossiche. Tutto ciò a opera del Petrolchimico di Porto Marghera, difeso tenacemente dal patto di silenzio sottoscritto dalle maggiori industrie chimiche mondiali per tenere segreta la pericolosità estrema del cloruro di vinile. Tutto in questo libro esemplare dimostra che, a parte pochi eroi, dal medico della fabbrica al pubblico accusatore, la tragedia delle vittime è stata una storia di isolamento e di solitudine all’interno di un territorio avvelenato ben presidiato da chi non voleva responsabilità o grane. A quel tempo, in Italia, la «class action» non c’era. Ora c’è. Da un giorno.

Il Presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, senza sorridere, ha definito ieri la “class action” approvata al Senato tra le urla, l’ira, (in un caso persino il pianto) dei senatori di Forza Italia, una «legge all’amatriciana».

Immagino che la maggior parte dei cittadini sia stata colta di sorpresa dal viso cupo dell’imprenditore capo. E si sia posta la domanda: che cosa è la “class action” e perché dovrebbe spingere alla indignazione il rappresentante delle imprese italiane?

Chi ha deciso di battersi per l’introduzione della “class action” nei codici italiani (il senatore Manzione dell’Unione) lo ha fatto in un momento favorevole dal punto di vista di ciò che un po’ tutti sappiamo. Infatti possiamo arrivare senza linguaggio giuridico e senza molte complicazioni a capire di che cosa si tratta. Basta ricordare tre film popolari per la maggioranza del pubblico. Li elenco in ordine di date: «Erin Brockovich», protagonista Julia Roberts, storia di una lunga e vittoriosa battaglia, prima di un individuo e poi di una “classe” contro una potente azienda che inquina intere comunità con il deposito clandestino delle sue scorie; «Sicko» di e con Michael Moore, che racconta la spaventosa ingiustizia e prevaricazione delle compagnie di assicurazione contro i malati disperati e soli che credevano di essere protetti, e spiega che solo con una “azione di classe” si può sperare di vincere una causa contro quei potentati; e, in questi giorni, il bel film «Michael Clayton» in cui George Clooney, uno degli attori-registi più impegnati nel suo Paese, racconta di un avvocato ricco e maneggione che si stanca di vincere sempre le sue remuneratissime cause difendendo grandi aziende contro isolati cittadini, spinge quegli isolati cittadini a presentarsi insieme al processo (decine, centinaia, migliaia di cittadini danneggiati che da soli non ce la farebbero mai), dimostra che la “azione di classe” è la sola speranza di vincere.

È impossibile che Montezemolo non vada al cinema da dieci anni, e improbabile che consideri tre grandi storie processuali americane (tutte tratte da fatti veri) “all’amatriciana” cioè improvvisati, casalinghi e dunque - di fronte alla maestà delle leggi e alle esigenze del rigore giuridico- spregevoli.

C’è un dato di meraviglia in più, in questo retrovia della vita giuridica e di quella parlamentare italiana. Il dato è che Montezemolo, che è avvocato in Italia, ha anche completato i suoi studi giuridici negli Stati Uniti. E dunque, nonostante l’insolito tono da capo-popolo (il popolo di molti suoi imprenditori, ma non dei migliori) che ha scelto di assumere, sa benissimo che cosa è, nella pratica giurisprudenziale americana , la “azione di classe”. Vuol dire che tutti coloro che possono dimostrare di essere parte lesa o danneggiata dalla azione di uno, tipicamente un’azienda responsabile di diffusione di massa di prodotti o iniziative pericolose, possono diventare istantaneamente, tutti insieme, controparte della causa. È uno dei momenti più alti e nitidi della democrazia americana. Là dove qualcuno, da solo, non conta niente e non può avere giustizia, “l’azione di classe” porta equilibrio di forze, dunque avvicina alla giustizia.

Tutto ciò ci aiuta a capire che quando si dice, sia pure nell’ermetico linguaggio giuridico “azione di classe” la parola chiave non è nella parola Classe, che può provocare prontamente, e magari anche inconsciamente, rigurgiti ideologici. La parola è Democrazia. È la constatazione realistica che, in un dato confronto giudiziario, la dimensione, la potenza, la capacità di combattere di una corporation è immensamente più grande di quella di un individuo che - da solo - intenda far valere i suoi diritti negati o violati contro il gigante. La Democrazia è realista e sa che c’è differenza tra ricchi e poveri, tra grandi e piccoli e conosce pregi e limiti della sua azione fondata sui diritti alla pari. Ma poiché il pregio più grande della Democrazia è puntare sull’individuo e dotare ciascun individuo, anche il meno potente, della pienezza dei suoi diritti, ha permesso che si formasse nel diritto, nella giurisprudenza, qualcosa che si chiama “azione di classe” e che vuol dire: molte persone il cui stesso diritto è stato violato sono autorizzate ad agire insieme senza costringere ciascuno a costituirsi separatamente parte del processo con spese e avvocati.

Un altro esempio. Ricordate quando Alberto Asor Rosa ha cercato di opporsi alla devastazione della sua valle in Toscana a causa della costruzione di centinaia di case a schiera insediate, con autorizzazione inclusa, da una grande impresa molto sensibile al bilancio e poco alla vallata? Nonostante il suo nome illustre, Asor Rosa era solo e senza la poderosa batteria di avvocati del costruttore. Una “azione di classe” avrebbe forse fermato lo scempio.

Torniamo per un momento all’origine della “class action” italiana che è diventata - nella legge finanziaria approvata dal Senato due giorni fa - “l’emendamento Manzione”. Origina dalle iniziative del ministro Bersani che dice: «il consumatore (ma qui sarebbe meglio dire “il cittadino” n.d.r.) non può essere lasciato solo davanti a un torto».

Torniamo all’obiezione detta e ripetuta: «che cosa c’entra l’azione di classe con la legge Finanziaria?». Qui la risposta viene ancora una volta dal buon senso americano. Proprio in questi giorni il Presidente Bush sta cercando di arginare le molte materie che deputati e senatori sono impegnati a inserire nella loro legge di bilancio, a volte perché quei provvedimenti sono necessari al Paese e non possono aspettare un altro veicolo legislativo, a volte perché la polarizzazione politica dei voti, che è tipica della legge di bilancio, rende più facile evitare lo sfarinamento fra troppi “distinguo” del consenso. A volte, anche, per rispondere all’impazienza degli elettori. E per la convenienza di tagliare i tempi. I nostri colleghi del Senato e della Camera americana le chiamano “leggi omnibus”, treni veloci con alcuni vagoni aggiunti, espediente per far viaggiare in fretta materiali legislativi di varia natura.

Bush vede il problema del passaggio in massa di varie leggi impaccate in una. Si oppone accanitamente non per amor di Patria o di buona pratica legislativa, ma perché in tal modo troppe cose sfuggono al suo controllo, ai suoi posti di blocco politici. Il congresso non è amico del Presidente e questo spiega lo stato di tensione.

In Italia, Repubblica parlamentare, la tensione è interna al Senato che ha un minimo margine di consenso. Non solo l’opposizione perde se la legge viene approvata nonostante le grottesche denigrazioni.

L’opposizione perde se la Finanziaria comprende norme moderne e necessarie che innovano, perché in tal modo si arricchisce il pacchetto di cose ben fatte del governo e si indebolisce la catastrofica profezia dell’opposizione, battuta due volte: non è crollato niente. E si è costruito qualcosa.

Ma perché allora l’invettiva così curiosamente impropria di un presidente di Confindustria avvocato e, per giunta, avvocato internazionale? Perché usare con linguaggio generico, approssimativo, di colore (più adatto a un personaggio tipo Billè, già presidente dei commercianti, se lo ricordate) per un emendamento ispirato a un principio noto e adottato nel mondo? Una risposta la offre un illustre giurista, Carlo Federico Grosso: «le imprese non ci stanno perché oggi sono favorite» ovvero privilegiate. Infatti, spiega Grosso, «la situazione attuale italiana è tutta sbilanciata a favore delle imprese. Con la “class action”, Parmalat sarebbe stata un’altra cosa e lo sarebbero stati il caso Cirio e il caso Banca 121. La difesa del cittadino-consumatore è un interesse chiave da riconoscere fino in fondo» (la Repubblica, 17 novembre). Ma - come dimostrano i casi americani narrati dai film «Erin Brokovich», «Sicko», «Michael Clayton» (e anche, perché dimenticarlo, il bellissimo «Insider», in cui i cittadini sono ingannati non solo dal produttore di sigarette ma anche dai media più potenti, che censurano notizie varie e gravi in cambio di pubblicità) spesso non si tratta solo di salvare i diritti ma di salvare la vita. Ma su questo punto è interessante sfogliare il Sole 24 ore , il giorno dopo la nascita della “class action” in Italia.

Il quotidiano della Confindustria apre in prima pagina (abbastanza in piccolo) con un parere negativo illustre (ma non più illustre del parere a favore espresso con entusiasmo da Carlo Federico Grosso). E poi dedica all’argomento tutta pagina 7, con tanti interventi critici ma circostanziati, limitati a dettagli, e solo un colonnino di 30 righe per “l’amatriciana” di Montezemolo.

Interessante anche il fatto che il confronto fra l’ “emendamento Manzione” e altre leggi di Paesi industriali democratici, nella pagina de il Sole 24 ore, non include gli Stati Uniti, dove questo importante principio democratico è nato, forse per evitare di far notare che la soluzione italiana - pur incompleta - è vicina alla giurisprudenza americana più di ogni legislazione europea, inclusa la legge inglese.

Incompleta, la “class action” italiana, lo è tuttavia quanto alla definizione chiara, definitiva, inequivoca, di chi ha diritto di partecipare, in modo da rendere ben visibile il passaggio da “tutela del consumatore” (riunito in associazioni che richiedono precisa e riconosciuta identificazione) a “tutela del cittadino”. E qui che si rivela, in tutta la sua portata umana e civile, la diversità di questa legislatura, di questo governo e di questo modo di rappresentare i cittadini. Una buona strada è iniziata e si poteva salutare in modo più cordiale.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 18.11.07
Modificato il: 18.11.07 alle ore 15.21   
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Titolo: Furio COLOMBO - Rai, quale scandalo
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2007, 11:59:51 pm
Rai, quale scandalo

Furio Colombo


«Qui urge una legge che impedisca questo sconcio. L’indignazione? Svanita. Le reazioni? Dagli all’intercettato. Il garantismo? Momentaneamente sospeso». Sto citando il corsivo (tradizionalmente autorevole, non firmato) apparso a pag. 2 del Corriere della Sera, il 22 novembre.

«Di questo passo rischiamo di diventare uno stato di polizia. Sarebbe bene che le intercettazioni telefoniche restassero dove devono stare». Con questo editoriale Roberto Martinelli aggiunge il suo impegno all’impegno anti-intercettazioni del Corriere della Sera (Il Messaggero, 23 novembre). Si aggiungono subito innumerevoli, vigorose, identiche dichiarazioni.

Tutto ciò compone una sola pesante risposta a un articolo del quotidiano la Repubblica (21 novembre). Documentava un efficace accordo segreto fra Rai e Mediaset per il controllo, il dosaggio, i tempi, i modi, eventualmente l’esaltazione o soppressione delle notizie politiche, da parte di dirigenti Rai (Clemente Mimun del Tg 1, Bruno Vespa di Porta a Porta, Fabrizio Del Noce, di Rete Uno, Francesco Pionati, principale notista politico della Rai, Deborah Bergamini capo del Marketing in Rai) durante il periodo di governo di Silvio Berlusconi.

Significa che ogni gaffe o errore del capo del Governo veniva cancellato, ogni successo inventato o ingigantito, ogni critica internazionale ignorata o irrisa, ogni aperta opposizione italiana taciuta, oppure - se necessario -, svilita fino alla calunnia pubblica, ripetuta, ostentata. Quando possibile il licenziamento di chi aveva osato interferire con la celebrazione continua dell’allora capo del governo. Qui occorre resistere all’impulso di dire (con toni un po’ alti, che forse ci saranno di nuovo rimproverati) “finalmente c’è la prova di ciò che - agli occhi di molti di noi - era, allo stesso tempo, delittuoso e ovvio, clamorosamente illegale e sfacciatamente evidente. Finalmente si ammette, usando materiali legali, resi disponibili da un regolare processo a un complice di quella vicenda: sì, è vero, era un regime. Primo carattere di un regime è il pieno controllo delle notizie. Con ricchi premi per chi sta al gioco ed esclusione, con minacce, accuse, denigrazione di chi non sta al gioco”.

I lettori hanno già capito che questa vicenda riguarda in modo diretto e rovente l’Unità, il lavoro del direttore, del condirettore, e dei giornalisti di questo giornale, che, durante tutti gli anni del governo di Berlusconi, hanno deciso di non tacere e di correre il rischio. Uno di noi ha perso il posto e tutti, da allora, anche coloro che avevano nome, firma e prestigio, vivono in un limbo di non esistenza mediatica, editoriale e televisiva di tipo sovietico. Ma hanno - abbiamo - documentato ogni giorno il dominio sulle notizie di Berlusconi, cadendo, per questo, nel ruolo di fazioso, loquace disturbatore di solito attribuito a Marco Pannella, dunque irrisioni e silenzio, con forte propensione ad accennare a disturbi della personalità.

* * *

Eppure non è da allora che si deve cominciare, ma è da qui, da oggi, dalla rivisitazione della combutta Rai-Mediaset, che ha impunemente sospeso la democrazia in un Paese dove quasi l’ottanta per cento dei cittadini si affida solo alla televisione per sapere le notizie, per formarsi un giudizio destinato a durare, dunque una schiuma di conseguenze che si espande anche adesso, anche oggi, fino a cambiare il paesaggio, qualunque cosa stia realmente accadendo.

Lo scandalo è qui, adesso quando si dichiara scandalo la pubblicazione di intercettazioni pubbliche e legali e su cui non grava alcun vincolo o segreto. «Non pubblicare quelle conversazioni sarebbe un ritorno alla censura fascista», ha detto Gerardo D’Ambrosio, ex procuratore di Milano e ora senatore del Pd.

Qui si aprono due percorsi, sorprendenti e diversi. Il primo è quello di prendere netta e pubblica posizione contro la pubblicazione di intercettazioni che pure rivelano una grave violazione dei doveri professionali di alcune persone e un vero e proprio attentato contro la democrazia: un governo che vive per cinque anni - come il Mago di Oz - al riparo di una cortina di notizie false.

Occorre notare che queste intercettazioni non sono chiacchiere di sentito dire, insinuazione di terzi o giudizi o opinioni - che possono sempre essere infondati - di qualcuno su qualcun altro. No, questa volta si tratta di discorsi diretti tra parti interessate, coinvolte e responsabili, una chiara lista di progetti e intenzioni e ordini da eseguire, che infatti - come dimostra ciò che è accaduto - sono stati sempre prontamente eseguiti. l’Unità del 23 novembre ha offerto una esemplare ricostruzione del rapporto adulterato tra fatti realmente accaduti e notizie realmente adattate al tornaconto del regime.

Ma, è importante ripetere, si tratta di materiali giudiziari pubblici, legali, depositati. Farli conoscere ai cittadini è necessario perché non si tratta di mettere alla gogna questo o quel partecipante alla “struttura” bi-aziendale che faceva capo a Berlusconi, ma di togliere dalla gogna coloro che hanno denunciato l’accordo illegale in tempo reale e sono stati subito spinti ai margini della vita pubblica e professionale italiana, soltanto per avere detto che era stato rubato ai cittadini il prodotto originale (le vere notizie) dando in cambio un prodotto alterato.

C’è a questo punto una domanda che è inevitabile: qualcuno conosce un Paese democratico in cui sia proibita o sconsigliata o malvista la pubblicazione di documenti legali e pubblici? Ma c’è una domanda più imbarazzante: ci sono, nel mondo, giornali liberi che chiedono di non essere liberi e invocano, per iniziativa di editorialisti, la proibizione di pubblicare notizie di fonte legale che hanno direttamente a che fare con la libertà e il diritto di informazione dei cittadini?

Credo proprio che non si possa rispondere sì né all’una né all’altra domanda. E questo è lo scandalo nello scandalo. È così allarmante una simile esortazione che il Capo dello Stato, che aveva parlato lo stesso giorno della cautela con cui vanno trattate le intercettazioni quando sono segreto istruttorio (raccomandazione di civiltà giuridica) ha fatto immediatamente chiarire che non stava parlando dello scandalo Rai-Mediaset. Per questo scandalo ha voluto subito incontrare il Presidente Rai, Petruccioli. Allarmato come tanti italiani, avrà certo voluto saperne di più.

* * *

Abbiamo già detto che ci sono due percorsi per guardare in faccia la turbolenza estranea alla democrazia in cui l'Italia è stata gettata nel teatrale e illiberale periodo del governo Berlusconi. In questi giorni due personaggi di primo piano, della maggioranza e della sinistra italiana, hanno espresso in modo diverso, ma con altrettanta enfasi, il loro stupore. Sono due personaggi direttamente coinvolti nell'impegno di tener testa a Berlusconi. Però ascoltate e ditemi se non restate, come dire, sorpresi dello stupore e colpiti (non proprio con entusiasmo) per la ammirazione che sarà anche cavalleresca ma è certo disorientante per noi che non veneriamo la “genialità” di Berlusconi.

La sera del 22 novembre, nel corso del programma Controcorrente su Sky, organizzato in questi giorni difficili dal conduttore Formigli per il Presidente della Camera, interlocutore unico in studio, Fausto Bertinotti ha confermato una sua dichiarazione già resa ai giornali: «Silvio Berlusconi è l'alfa e l'omega della politica italiana». Intendeva dire che l'audace uomo politico prima ha inventato e aperto, tutto da solo, con la sua famosa discesa in campo, la stagione del maggioritario uninominale, schieramento di destra contro schieramento di sinistra, una stagione nuova nella politica italiana. Poi, genialmente, l'ha chiusa liquidando alleati e Forza Italia e gettando in campo il "Partito del Popolo Italiano", coraggioso faccia a faccia con il Pd di Veltroni.

Strana dichiarazione, perché in essa ci sono alcuni errori e alcune omissioni. Un errore è dimenticare che “la nuova stagione politica italiana” è cominciata con Mario Segni e con il referendum che ha cambiato radicalmente il sistema elettorale italiano. Un altro errore è ignorare quel passaggio cruciale della vita pubblica del nostro Paese in cui Berlusconi "sdogana" la destra italiana quando è ancora creatura diretta del fervente sostenitore de La difesa della razza, Giorgio Almirante, quando Fini e i suoi, poi destinati ai migliori Ministeri berlusconiani, erano ancora, per la stampa italiana e mondiale, "neo-fascisti". Eravamo al tempo delle elezioni comunali di Roma (vincitore Rutelli) molto prima della svolta di Fiuggi.

E poi due omissioni: dimenticare che Berlusconi - l'alfa e l'omega della vita italiana - è l'unico politico che sia mai "sceso in campo" con cassetta pre-registrata a cura della sua azienda televisiva Mediaset (regia e luci incluse), l'unico a fare dichiarazioni azzardate (”salverò l'Italia dal comunismo”) senza uno straccio di giornalista a fargli domande, evento mai avvenuto in Paesi democratici. La ragione? L’uomo che “scende in capo” è titolare di una delle ricchezze più grandi del mondo, ciò che spiega il buon viso che, da quel momento, moltissimi decideranno di fare ad ogni sua decisione padronale o arbitraria.

A quel tempo non ero il reietto che ha osato dirigere l'Unità, e si è permesso di smentire giorno per giorno Berlusconi. Ero un editorialista de La Stampa, e in tale veste autorevole ero stato invitato a commentare la famosa “discesa in campo” dallo studio del Tg1. Devo essermi messo in cattiva luce fin da allora quando ho detto: «Una cassetta pre-registrata che impedisce le domande dei giornalisti non sarebbe stata accettata da alcuna televisione occidentale perché è un fatto estraneo alla democrazia».

È una omissione pericolosa dimenticare che non solo l'alfa ma anche l'omega di cui sarebbe geniale ed esclusivo inventore Berlusconi (la marcia su Piazza San Babila, osannato da una claque di sei-settecento scritturati) non sarebbe mai avvenuta senza il pieno impiego della potenza mediatica-imprenditoriale-finanziaria. La controprova è semplice: dite dove e come un simile fenomeno - inventare in un giorno un nuovo partito e accreditarlo subito presso le migliori fonti giornalistiche come esistente - potrebbe prodursi senza la mobilitazione della ricchezza.

Non resta che rimpiangere che il Presidente della Camera non abbia mai dato una occhiata a l'Unità, quando su Padellaro, su di me e su tutti i colleghi di questo giornale si scatenava la campagna più feroce, l'ostracismo più ferreo, l'esclusione più completa e duratura che mai abbia colpito giornalisti italiani, oltre alla valanga di querele, per fortuna infondate, però costosissime.

Ma lo stupore dello stupore è ravvivato da una intervista dolce e cauta del Ministro Gentiloni che dice e ripete e garantisce che nulla ma proprio nulla della sua legge deve allarmare Berlusconi. Gentiloni afferma testualmente e incredibilmente: «Non accetto la tesi che di là ci sia il regime. Per quale motivo dovremmo gettare al vento questa occasione? In nome della purezza della razza? La verità è che c’è un oggettiva convergenza tra il Pd e il progetto del Pdl, che hanno la stessa vocazione maggioritaria».

Per fortuna gli hanno già risposto gli uomini-azienda di Berlusconi, quelli del Senato, quelli della Camera, quelli di Publitalia, quelli restati a Segrate. Hanno detto e ripetuto: «Non provate a toccare Mediaset o sarà guerra». Fossi Gentiloni andrei tranquillo. Peggio di ciò che hanno fatto non possono fare. Ma non dimentichi che alla sua legge, per quanto mite, si chiede solo di rendere impossibili l'illegalità, l'imbroglio, la falsificazione, l’invenzione delle notizie.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 25.11.07
Modificato il: 25.11.07 alle ore 14.08   
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Titolo: Furio Colombo - Tempi moderni
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2007, 06:53:14 pm
Tempi moderni

Furio Colombo


Bello, e ricco di cose nuove il tempo in cui il Papa, capo della Chiesa di Roma, ti parla di speranza, il Dalai Lama sta per venire a Roma a raccontare la sua speranza di poter tornare a vivere con la sua religione nella sua terra, e intanto nella stessa città due leader politici opposti e rivali si incontrano per concordare che insulti, diffamazioni, aggressioni, controllo arbitrario delle notizie non sono la politica ma una deformazione pericolosa da abbandonare subito.

Bello. Ricco di cose nuove. Ma non è ciò che è accaduto in questi giorni.
Il Dalai Lama, come sapete, nonostante la sua parte di fede e di speranza non lo vuole vedere nessuno perché una potenza economica ha fatto sapere a tutti i poteri, spirituali, politici e aziendali di non provarci neanche. E tutti i poteri spirituali, politici e aziendali hanno realisticamente accettato.

Il Papa ha aperto un grande dibattito ad un livello molto alto: fare o sperare? La scienza è solo insufficiente a nutrire l’immenso impulso a volere, cercare, aspettare di più, o è anche la negazione del di più (la speranza) e dunque pericolosa? La medicina e la preghiera sono da usare insieme, come sussurrava una volta il cappellano negli ospedali, o la medicina (per esempio il preservativo) è in sè un male? Il dibattito è (sarebbe) grandioso perché grandioso è il tema. Ma non c’è alcun dibattito. La complessa lettera del Papa viene fatta spiegare a vescovi-teologi nei telegiornali. Sono vescovi colti e predicatori efficaci. Ma sono anche una grande lastra di pietra che blocca ogni tentativo di dialogo, conferma, certifica. Impossibile non ricordare la raccomandazione, da autorità benevola ma anche da esperto intellettuale, quando ha affidato alla critica il suo libro su Gesù dicendo «naturalmente siete liberi di criticare». Le critiche ci sono state, se ricordo bene con la cautela e il rispetto dovuto non tanto a un Papa quanto a un accademico accreditato tra i suoi pari (credenti e non credenti). Ma quel libro è entrato in biblioteche e scaffali di diversissime case come un testo di cui tener conto nel mondo della cultura.

Questa volta è diverso. Certo, il tema è di insegnamento al vertice della Chiesa cattolica. Ma come dare senso, interpretazione nello spazio (tutto lo spazio, non solo la Chiesa e i fedeli) e in relazione al peso anche secolare e politico di ciò che dice il Papa?

Inginocchiarsi al passaggio dell'Enciclica testimonia della scrupolosa osservanza e disciplina di chi esegue prontamente l'atto di omaggio. Ma non offre una parola, un contributo, una osservazione, uno spunto di pensiero diverso, l'impronta di un mondo libero a cui importa discutere ciò che - proprio perché conta molto - merita di essere discusso. Penso al breve commento (50 secondi) affidato a Silvia Ronchey nel corso del Tg3 (ore 19.00 del 30 novembre). Ha colto di sorpresa, iniziando con la parola «reazionario». Ha detto, giocando anche sulla immagine femminile che autorizza una apparente leggerezza: «Deliziosamente reazionaria l'Enciclica del Papa». Segue, da storica, da competente, una recensione breve e benevola. Ma la definizione iniziale, che può anche essere intesa come lode, resta in sospeso. Non c'è e non seguirà dibattito, assecondando il famoso timore del miglior cinema di costume italiano («il dibattito no!»). Il dibattito segue la mattina dopo (1 dicembre) dalle pagine del Corriere della Sera, dove il filosofo Giovanni Reale, debitamente schierato, anzi scelto perché schierato, solennemente afferma: «Semmai c’è del reazionario in certe critiche». Il tal modo getta tutto il suo peso - che è rilevante anche per i non specialisti - sull’unico guizzo di vita, presenza, ascolto da svegli - con cui Silvia Ronchey ha proposto inutilmente di prendere sul serio una Enciclica papale. Come si farebbe nel mondo della cultura, con un autore a cui si presta attenzione e rispetto.

«Chi pensa che questo sia un atteggiamento contro la scienza e la ragione non ha capito nulla. Il Papa non condanna la ragione né la scienza né la libertà. Quella del Papa è una critica alla scienza che si fa idolo e cade nello scientismo», incalza il filosofo Reale, voce autorevole (e proprio per questo preoccupante perché rifiuta di confrontare la vita con le parole) e voce unica sul più grande quotidiano italiano. In un periodo della storia in cui 31 Stati americani vietano per legge l’insegnamento dell'evoluzionismo darwiniano, il presidente degli Stati Uniti proibisce - come in Italia - l’uso dei fondi pubblici per le ricerche sulle cellule staminali, mentre aumenta - ci dicono lo stesso giorno, gli stessi giornali e telegiornali - il contagio dell’Aids nel mondo, lo stesso mondo in cui la stessa Chiesa e lo stesso Papa vietano come immorale l’uso dei preservativi, ci può dire il professor Reale dove, quando si imbatte nella «scienza come idolo»? C’è mai stata dopo Galileo, un’epoca in cui religione e opportunismo politico si sono battuti insieme così accanitamente per frenare, umiliare, accantonare la scienza?

Un altro filosofo - Massimo Cacciari - frena un poco il tributo corale del Paese al Papa (un Paese presunto unanime che applaude il Papa prima che parli e poi va a caccia di Rom da espellere subito da questa terra cristiana, e se qualcuno vuole pregare con un’altra fede in Italia gli si rovescia addosso orina di maiale). Chiedono a Cacciari: «Teme che questa nuova Enciclica possa generare ulteriori divisioni tra credenti e non credenti?». Cacciari risponde: «Non lo temo perché il Pontefice torna a ribadire un concetto antico di fede che risale a S. Paolo: la speranza basata sulla fede rivelata. Nonostante una sostanziale banalizzazione di temi complessi come marxismo e illuminismo, questa Enciclica potrà contribuire a stimolare la riflessione tra fede e ragione».

Come farà, visto che la ragione abita - secondo il Papa - solo le strade infide del marxismo, dell’illuminismo, della scienza-idolo, e perciò viene indicata come l’alternativa inaccettabile a un’unica fede, quella cristiana nella versione “romana”? Alla fine dobbiamo renderci conto che l’Enciclica papale attraversa come un potente soffio di bora la pianura italiana, mentre dai sistemi di comunicazione e di vita sociale è stato rimosso ogni appiglio o mancorrente a cui ci si possa appoggiare per dire: no, ragioniamo. O è come dite voi o è la fine della speranza, dunque la fine di ogni convivenza possibile?

* * *

Vorrei adesso riferirmi a un fatto non religioso e molto più piccolo, però esemplare, di una nuova pedagogia che è: rimuovere gli appigli a cui appoggiarsi (come ai mancorrenti sui vagoni della metropolitana in corsa) per proporre obiezioni o argomenti diversi. Citerò non l’equivoco trionfalismo di Berlusconi, che sembra al momento accettare tutto perché, come ha già più volte dimostrato, niente lo vincola, non la coerenza, non la parola data, non l’impegno preso in pubblico. Se necessario negherà di aver mai avuto lo storico incontro di Montecitorio.

Mi interessa e mi mette in ansia, però, una frase di Veltroni che, giustamente soddisfatto del buon risultato della sua iniziativa, dice: «Penso che abbiamo introdotto qualcosa di molto importante: la fine del clima di rissa, di odio, di contrapposizione ideologica. Ora chi lo vuole riproporre se ne assumerà la responsabilità. Ma si è sperimentato che è possibile il dialogo, come nelle grandi democrazie del mondo». (Conferenza stampa alla Camera dopo l’incontro con Silvio Berlusconi, 30 novembre).

Ora basta avere ascoltato tutta la prima parte dell’ormai celebre e indimenticabile monologo di Benigni su Rai 1 per sapere che dieci milioni di italiani hanno riso fino alle lacrime ascoltando la storia vera, grottesca, incredibile dell’Italia sotto Berlusconi. È la stessa storia che, invece, tutti i telegiornali, sotto la sorveglianza di Berlusconi hanno raccontato come gloria, storia e successo. Si ride da star male alla narrazione di una Commissione parlamentare con poteri giudiziari, consulenti miliardari e spie assassinate, detta Commissione Mitrokhin, avente come unico scopo di dichiarare - in periodo pre-elettorale - che l’allora capo dell’opposizione Romano Prodi era spia del Kgb. Si ride da star male ma era vero. Come era vero che giornalisti e magistrati (che dovevano essere «disarticolati») erano costantemente spiati dal servizio italiano di spionaggio militare (il Sismi). Ovvero noi, spiati dal nostro Stato. Si ride fino alle lacrime nel riascoltare da Benigni la storica giornata del «discorso del predellino» (persino il dettaglio è falso: nessuna auto, dal 1969, ha più un predellino su cui salire come Jean Gabin mentre faceva fuoco sulla polizia nei vecchi film francesi). Ma è vero che in un giorno il nostro interlocutore si è inventato il “Partito del Popolo” mentre era proprietario del “partito Forza Italia”. Domanda: noi con chi abbiamo parlato e con chi abbiamo deciso di spegnere ogni polemica, con il Partito del Popolo o con Forza Italia, con Brambilla o con dell’Utri? E da dove viene e come si è manifestato «l’odio» che adesso finalmente è finito? Spiegherò perché mi mettono a disagio e un po’ mi disorientano queste parole dette dal leader che ho eletto e in cui, come milioni di italiani (gli stessi che hanno riso e pianto con Benigni, credo), ho fiducia.

Una prima ragione è che lo scambio tra la parola “odio” e la parola “critica” - una trovata pubblicitaria che abbiamo subìto da quando Berlusconi «è sceso in campo» - comincia ad essere una lunga storia. Enzo Biagi (che viene ricordato lunedì sera al Teatro Quirino dagli amici e colleghi di Art. 21) era odio o vittima dell’odio? E Sabina Guzzanti? E l’Unità accusata di tutto e rigorosamente privata di pubblicità? Renato Ruggiero sarà stato cacciato da ministro degli Esteri di Berlusconi perché odiava o perché criticava la disinvoltura d’affari del governo di cui era parte? Forse è storia passata. Ma il conflitto di interessi e l’infezione che un potere multimiliardario porta nella politica è un argomento da sospendere nel tentativo di fare una buona legge elettorale o dobbiamo lasciar perdere adesso, anche dopo, per non dare l’impressione che il tentativo di normalizzare e legalizzare la vita italiana non è altro che odio e vendetta contro Berlusconi?

I lettori sanno che basta scrivere queste cose (che sono una mite e generica versione di ciò che i Senatori americani Hillary Clinton e Barack Obama dicono ogni giorno del loro presidente e delle loro controparti repubblicane) perché il Senatore italiano che le scrive su questo giornale sia aggredito nell’aula di quel ramo del Parlamento con insulti e calunnie che solo l’immunità parlamentare (ma anche il modesto livello culturale e umano) di chi conduce quell’aggressione protegge dalla denuncia penale. Però accade. Accade adesso.

È giusto, è urgente costruire una via d’uscita. Ma sgomberare l’orizzonte da ogni sia pur piccola barriera, da ogni riferimento storico e politico a cui aggrapparsi quando tornano (e tornano!) le aggressioni è ragionevole? E quanti giorni passeranno da oggi, 2 dicembre 2007, prima che Berlusconi neghi e sconfessi tutto?
colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 02.12.07
Modificato il: 02.12.07 alle ore 14.43   
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Titolo: Furio COLOMBO - Enzo Biagi e l’Innominato
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2007, 10:57:19 pm
Enzo Biagi e l’Innominato

Furio Colombo


La sera del 3 dicembre dedicata, nel Teatro Quirino di Roma, a ricordare Enzo Biagi, il giornalista celebre per una vita di eccellente lavoro, per la sua libertà tranquilla, per la sua cacciata dalla Rai, una bella sera di amicizia in cui c’erano proprio tutti, che è durata due ore e che Rainews ha trasmesso in diretta, soltanto due persone hanno parlato di Berlusconi, descritto realisticamente come padrone prepotente mentre si stava comprando la libertà d’informazione in Italia.

Soltanto due persone hanno fatto il nome, narrato gli eventi e descritto il pericolo, (già vissuto da uno di loro e imminente per l’altro). Le due persone, sedute l’una di fronte all’altra, nelle inquadrature di una delle celebri puntate de «Il Fatto», erano Enzo Biagi e Indro Montanelli. Due morti.

I vivi hanno dimostrato molto amore per Biagi, hanno narrato ricordi belli e affettuosi. Ma, sotto la ferma e implacabile guida della Rai che, a causa della diretta televisiva, ha esautorato i veri promotori, ovvero l’associazione Articolo 21, ci hanno parlato di un grande giornalista vittima di qualcosa di brutto più simile al destino che a una decisione politica. Dichiarazione dopo dichiarazione, tutto ha assunto il senso di quella recriminazione, di quel “non è giusto” che ognuno di noi, dice o vorrebbe dire contro la crudele arbitrarietà della morte, quando scompare un amico caro e ammirato.

Lunedì sera, al Teatro Quirino, era lontana un secolo la affermazione dolorosa e netta del Cardinale Tonini detta a Pianaccio il giorno della sepoltura di Biagi: «Lo hanno ucciso», che voleva dire: un giornalista, specialmente se grande e libero, muore quando gli si toglie la parola.

Non so se è passato un ammonimento, o sono bastati gli sguardi. Ma un sensibile ospite non italiano che si fosse unito a noi quella sera avrebbe ammirato la forza e l’unanimità del compianto, ne avrebbe dedotto (e avrebbe capito bene) che Biagi era molto amato e circondato da una stima immensa. Ma non sarebbe mai arrivato a ricostruire la chiave dell’evento e il vero perché di quella celebrazione: non un morto ma la sua libertà, quando gliela si toglie per vendetta, e facendo finta, insieme a una legione di compiacenti o intimiditi o prudenti, che l’Italia non abbia una Costituzione democratica, una Costituzione che garantisce la libertà di parola, di stampa, di opinione. Certo, vi sono state tante voci nobili, alcune corrucciate, e persino un momento di protesta del leader dell’Articolo 21, Giulietti.

Ma eravamo dentro una diretta della Rai, e la Rai, a quanto pare, non si sente tranquilla a parlare liberamente di Berlusconi come gli inglesi parlano di Tony Blair e gli americani di George W. Bush. Vuoi che ci sia l’incubo del ritorno, vuoi che sembri più decoroso saltare quel fastidioso dettaglio, l’arbitrario licenziamento di Biagi, e quell’altro dettaglio, il macigno del conflitto di interessi. Certo è che il microfono girava in sala in modo da non avvicinarsi mai a voci che avrebbero potuto educatamente sfiorare l’argomento dell’editto di Sofia e della “raccomandata con ricevuta di ritorno” con cui il più illustre giornalista italiano è stato messo alla porta della tv di Stato. Peccato. Nella sera dedicata a Biagi è stato dimenticato il fatto.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 05.12.07
Modificato il: 05.12.07 alle ore 8.10   
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Titolo: Furio Colombo - Prima e dopo
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2007, 04:58:23 pm
Prima e dopo

Furio Colombo


Prima c’era Berlusconi, con la sua ricchezza misteriosa, i suoi legami mai chiariti, i suoi alleati che fanno gesti sporadici di ribellione e poi tornano come attratti da una irresistibile calamita. Prima c’era Berlusconi che possedeva un vasto schieramento di televisioni private e controllava con certi suoi uomini chiave la televisione di Stato, paralizzata oppure messa in contatto quotidiano e cordiale con la televisione privata (di proprietà di Berlusconi) per evitare sorprese o danni. Prima c’era Berlusconi e la televisione pubblica era controllata, in trasmissioni chiave, da uomini che garantivano di «accennare al Dottore al momento giusto». Il Dottore era lui. Berlusconi era il tipo disinvolto che si liberava all’istante di un ministro degli Esteri (Renato Ruggiero) sospettato - giustamente - di non essere omogeneo con i suoi affari anche se molto apprezzato e stimato nel mondo degli affari italiani e internazionali. Era il tipo disinvolto che si liberava all’istante di un giornalista inadatto a cantare la sua gloria nella Tv di Stato (Enzo Biagi) e non gli importava nulla della fama, del prestigio, del talento professionale, del ridicolo di cui si è coperta la Rai quando ha tentato, prima arruolando comici, poi giornalisti (seriamente svantaggiati dal confronto) per colmare il posto e il vuoto di Biagi.

Prima c’era Berlusconi, che definiva criminale il dissenso, chiamava terrorismo la critica, complotto delle “toghe rosse” qualunque indagine che riguardasse le sue molte e molto discutibili attività in Italia e nel mondo. Ricordate le limpide figure di alcuni suoi avvocati, da Previti a Mills? E tutti gli altri legali del Dottore che sono diventati presidenti di commissioni chiave del Parlamento italiano per tutelare gli interessi personali di Berlusconi? Con la sua agilità che lasciava indietro e senza fiato i giovanotti della scorta, Berlusconi - quando c’era - si muoveva sempre munito di un libro che conteneva tutti i titoli del giornale l’Unità ostili o antipatici per lui (a quanto pare nessun falso, perché su nessuno di questi titoli è pervenuta denuncia o querela) e lo esibiva come prova del rischio che - per colpa de l’Unità correva la sua vita.

Prima c’era Berlusconi che faceva spiare dai servizi segreti italiani alcuni giornalisti e molti giudici che non gli andavano a genio. E faceva organizzare commissioni parlamentari bicamerali, dotate di potere giudiziario, immensamente costose a causa della copiosa dotazione di consulenti (quasi sempre finiti per falso o calunnia o reati più gravi nelle patrie galere). E tutto ciò al solo scopo di denigrare, screditare, accusare i leader che gli facevano opposizione in quegli anni.

So che questa descrizione è lacunosa. Manca il disastro economico, la xenofobia leghista, un nuovo cordiale rapporto instaurato con fascisti rimasti fascisti nei decenni, gente che rimpiange Salò e nega la Shoah. Mancano i danni enormi di una guerra eseguita su ordinazione (ragioni immaginarie ma morti veri). Manca il fatto unico e storico avvenuto nel Parlamento europeo (gli insulti al deputato Schultz), mancano le scene delle sue assenze e (peggio) della sua presenza ai processi di Milano. Manca la rievocazione di un aspetto importante: la sua ricchezza che - a causa degli effetti naturali e deleteri del conflitto di interessi - si è moltiplicata negli anni del suo governo.

Mancano molte cose e altre sono state appena accennate in modo mite. Eppure è bene notare tre fatti strani. Il primo: nessuna delle cose che ho scritto è smentita o smentibile.

Il secondo: voi non avete trovato, non trovate adesso e non troverete su alcun quotidiano o periodico di alcuna proprietà questo breve curriculum di Silvio Berlusconi. Non a sinistra - per quanto si vada a sinistra (là sono impegnati a far fuori Prodi) - e non a destra perché non esiste una destra libera dalla rete di Berlusconi.

Il terzo: benché tutto ciò sia vero e provato, se lo dici o lo scrivi compi un gesto di “odio” (questa è l’accusa da destra, comprensibile perché è una forma estrema di difesa del loro leader, la stessa che usano gli uomini di Putin e di Chavez).

Oppure cadi nel peccato di “demonizzazione”. L’accusa, per strano che sia, negli anni di Berlusconi, veniva da sinistra insieme con l’altra accusa, “giustizialismo”, che si spiegava così: nel confronto-scontro tra le legioni di avvocati di Berlusconi e l’indifesa ed esposta solitudine coraggiosa dei giudici (da Gerardo D’Ambrosio a Borrelli, da Ilda Boccassini a Davigo a Gherardo Colombo) era giustizialista chi prendeva le parti dei giudici. Giustizialismo, come ricorderebbero due grandi italiani - Paolo Sylos Labini e Indro Montanelli (la cui amicizia e il sostegno ci ha onorato) voleva dire (vuol dire): «La legge è uguale per tutti».

* * *

Occorre tenere conto di questi tre punti perché non possiamo far finta di non vedere la scolorina in cui siamo immersi. Qualcosa che sta fra la magia e il trionfo finale del conflitto di interessi induce alcuni che stanno leggendo a meravigliarsi (ancora? non la smetterete mai con questa storia di Berlusconi?). E altri a dedicarci ostilità e irritazione. A considerarci un ingombro.

Strano, se ci pensate, perché alcune voci insistenti, allora e adesso, ci chiedono di non metterla giù tanto dura. E per sicurezza preferiscono farci stare lontano dalla Tv.

Strano, se ci pensate, perché - come posso testimoniare nelle mie non allegre giornate al Senato - noi ascoltiamo ogni ora descrizioni di Prodi come “stupido”, “incapace”, “rapinatore degli italiani” “responsabile della rovina di tutte le possibili categorie sociali, dai tassisti all’industria farmaceutica”. Ma noi dobbiamo sorridere tutti insieme con gentilezza bipartitica al passaggio di Berlusconi. Al punto che Fini e Casini, nei brevi intervalli di disamore per il potente leader, sono autorizzati ad insulti e insinuazioni che - dette da noi - sarebbero subito definite “demonizzazioni”. Ci ammoniscono che, in altri tempi più ortodossi l’Unità non avrebbe mai “demonizzato” l’avversario (dimenticando che le copie arretrate di questo quotidiano esistono ancora).

* * *

Merita attenzione una accusa in più: ti dicono che «scrivere a favore e difesa dei giudici è un buon affare finanziario». La avventata affermazione si può tradurre così: se tenere duro e scrivete di leggi vergogna, di leggi ad personam e di ostinati processi che solo la potenza di decine di grandi avvocati hanno potuto trascinare fino alla prescrizione (ma in qualche caso anche con l’espediente di comprare la sentenza e ­ con essa ­ un intero impero editoriale) provocate un’enorme attenzione e i libri diventano best seller. Perché? Perché certe cose, altrimenti, dato lo scrupoloso controllo dei media da parte del Dottore, non le potreste leggere e sapere mai. E non sono mai smentite. Non sarebbe una ragione di elogio?

Ma qui comincia un’altra storia. E comincia quasi con le stesse parole. La raccontiamo così: dopo Berlusconi c’è Berlusconi, splendidamente sopravvissuto alla sua sconfitta al punto da essere definito l’alfa e l’omega della politica italiana (ricorderete che lo stranissimo elogio è di Fausto Bertinotti, che ha anche fatto sapere di non gradire “la demonizzazione” ovvero la descrizione dal vero del fenomeno finanziario-politico Berlusconi).

So che mi ripeto, ma come uscirne? Dopo Berlusconi c’è Berlusconi e i media stanno bene attenti a non irritarlo, proprio come allora, proprio cone nel “prima”. Per esempio, nella sera dedicata da Rainews24 a ricordare Enzo Biagi, l’uomo che più di ogni altro ha tenuto testa a Berlusconi, che da Berlusconi è stato offeso nel modo più grave (la privazione della libertà di continuare con la sua celebre trasmissione) in quella serata, Berlusconi non è stato mai nominato (salvo che da Biagi e Montanelli ma in un vecchio filmato de «Il Fatto»).

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi che, con un capriccio da ricco, finge che esistano sette milioni di cittadini ­ non visti da alcuno ­ che accorrono a lui nell’istante in cui, con una trovata da miliardario, liquida il suo vecchio partito e ne compra uno nuovo (così nuovo che persino lui si sbaglia e si contraddice nelle continue interviste e afferma che «il nuovo c’è ma non esiste ancora». Non importa. Chiunque sarebbe preso in giro se liquidasse e poi fondasse in un giorno un partito da 30 per cento dei voti. Non lui. Sia per prudenza (ogni editore è attivo in settori d’affari in cui è attivo anche Berlusconi) sia perché l’immensa ricchezza di cui stiamo parlando può benissimo fondare e liquidare grandi partiti in un giorno, quando questi partiti sono aziende e non movimenti di cittadini.

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi, è al centro della scena, come prima, al centro dell’attenzione dei suoi media e di quelli di Stato, come prima. Come prima è sempre in carica il suo uomo Petroni che, nel consiglio della Rai, ha il compito di squilibrare lo schieramento e di impedire le decisioni. Come prima ha sempre i suoi Minzolini (un bravo e attivissimo inviato della Stampa ha dato il nome a una nuova professione, come era avvenuto con i “paparazzi” ai tempi di Fellini, ed è una professione ricca di talenti) che hanno sempre citazioni virgolettate e smentibili con cui irrorare tutta la stampa italiana dichiarando, anticipando, celebrando, negando. In tal modo la voce di Berlusconi, con uno strano effetto stereofonico, ci giunge da ogni lato dei media, creando il risultato desiderato. Ci sta dicendo: «Non vi azzardate. Io sono sempre qui». La manovra funziona. Tornano puntuali contro di noi le rampogne sulla “demonizzazione” e sul “giustizialismo” che per un po’ erano state sospese, dando l’impressione, anzi l’illusione di vivere in un “dopo Berlusconi” al modo in cui la Francia sta vivendo un dopo Chirac, la Germania un dopo Schroeder e l’America vivrà un dopo Bush.

Per noi, non pensateci neanche. E allora lui stesso dice e fa dire (da destra e da sinistra, proprio come ai bei tempi) che chi ricorda fatti e avventure di Silvio Berlusconi, in realtà attacca Veltroni. Bel colpo: demonizzatori, giustizialisti, ma anche infidi.

Per fortuna l’argomento non funziona per i tre milioni e passa che hanno votato per il leader del Partito democratico. Come lo sappiamo? Semplice. Non solo dal successo e dai voti che hanno avuto coloro che dicevamo, nella campagna per le primarie, ciò che sto scrivendo adesso. Ma perché ­ votando Veltroni ­ tutti quegli italiani volevano votare per il contrario (persona, vita, curriculum, lavoro, immagine pubblica e privata) di Berlusconi, del padronato mediatico, della politica a pagamento, dell’intimidazione continua a giornalisti e giudici, della censura che ha avuto come bersaglio costante questo giornale e come vittima esemplare Enzo Biagi.

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi. E il leader eletto del partito democratico lo incontra, lo deve incontrare. È un incontro tecnico, non un summit politico. Deve coinvolgerlo nella cancellazione di uno dei peggiori delitti politici di Berlusconi stesso, la attuale legge elettorale. E fa bene a dire: discuteremo e lavoreremo anche ad altre riforme. Fa bene perché è esattamente ciò che Berlusconi nega e rifiuta. Fa bene anche come simbolo della vitalità determinante di un partito nuovo. Stabilisce finalmente una agenda che non è stata imposta da Arcore.

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi, e i media stanno bene attenti. La carriera di ogni giornalista italiano, dal più giovane praticante al più abile direttore, dipende da Berlusconi. O dipendeva. Se Veltroni (mentre Prodi governa, e non si commette il gesto incosciente di toglierli il sostegno) allarga l’orizzonte, mette in modo l’iniziativa, e un territorio pulito meno claustrofobico torna a essere la casa degli italiani. Lo so, lo so sto parlando di attese e speranze. E di una azzardata scommessa: che ci sia davvero in Italia, come nelle alternanze di ogni Paese libero, un dopo Berlusconi. In quel dopo, reduci e sopravvissuti potranno dire agli increduli «andava alla tv di Stato a disegnare su fogli già preparati finte opere pubbliche, e senza alcun disturbo o contraddittorio firmava trionfalmente il suo “contratto con gli italiani”. Sembra una commedia di Bertolt Brecht e invece, ai tempi di Berlusconi, era vita italiana.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 09.12.07
Modificato il: 09.12.07 alle ore 8.19   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il no della senatrice
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2007, 04:12:58 pm
Il no della senatrice

Furio Colombo


«Binetti e Turigliatto non sono uguali», dice il Senatore Giorgio Tonini al Riformista (11 dicembre) per giustificare il sorprendente no della senatrice Binetti che - per ragioni religiose - nega la fiducia al governo Prodi.

Tonini ha ragione, a patto di rovesciare il senso della sua frase. Da Turigliatto si può (si deve, io credo) dissentire, ma non c’è niente di illogico nel suo negare il voto a Prodi. Vuole un’altra politica, si accorge di non essere al posto giusto nel momento giusto. Lo dice chiaro e paga il prezzo del non ritorno. Sapeva che si sarebbe separato, per ragioni che gli importavano, e si è separato. L’esclusione dal suo partito è un’altra cosa, non di questa stiamo parlando ma della vera conseguenza della sua decisione. Ha detto no, è uscito dal gruppo che lo aveva eletto e sta andando per la sua strada.

La Binetti invece ci sta dicendo che siamo noi a sbagliare.

«Noi» non vuol dire cattolici e non cattolici, o più o meno credenti. «Noi», detto dalla senatrice Binetti, vuol dire non obbedienti. Qui l’obbedienza è a una particolare interpretazione di un potere religioso che è anche un potere statuale, dunque politico, e che si situa fuori da una linea di confine. Definiamo la parola appena usata, confine. Quale confine? Di chi? Di che cosa?

Ciò che rende il caso Binetti quasi certamente unico e molto diverso dal dissenso ideologico o dalla separazione politica è una forma di estremismo per il quale l’interessata non ha dato una spiegazione. Il fatto è che la senatrice Binetti si è gettata con sprezzo del pericolo (il pericolo grande e imminente di far cadere il governo e liquidare un periodo della vita italiana) per un brivido di ubbidienza a un ordine di cui non si ha notizia pubblica. Come nel “Deserto dei Tartari”, a forza di scrutare e di stare in guardia, ha visto il nemico (non gli omosessuali ma i disubbidenti all’ortodossia di una gerarchia che nasconde la mano) e ha lanciato l’arma del no, che avrebbe potuto spaccare la coalizione di governo. Per fortuna, nella concitazione del momento, ha sbagliato il colpo e non ha leso (non ancora) organi vitali.

Ma ha fatto un danno molto grande, ha creato una spaccatura pericolosa - fatta di disagio, diffidenza, legame strappato, disprezzo - per una ragione del tutto sconnessa col gesto e la ferita arrecata. In che senso? Ma perché l’impegno a condannare in ogni modo le discriminazioni comunque motivate contro la dignità delle persone, è già previsto dalla Costituzione italiana che non richiede autorizzazioni religiose. È già in vigore da sessant’anni. E allora dire no alla Costituzione è più sorprendente, più strano e dirompente che dire no a un governo.

Oppure quel “no”, salutato da uno scroscio di applausi della distruttiva opposizione berlusconiana voleva dire assestare un colpo sproporzionatamente duro (potenzialmente definitivo) al governo, e diventare protagonista di una sequenza imbarazzante per la maggioranza, degna di festa degli avversari. E tutto ciò per futili motivi. “Futile”, qui, vuol dire del tutto sconnesso con la portata di una ribellione e dissociazione totale. Quella dissociazione totale ha portato all’attenzione di un Paese stupito poche righe inserite in una lunga legge sulla sicurezza solo per confermare la repulsione - che in Italia per fortuna prevale fra credenti e non credenti - contro ogni possibile gesto di discriminazione per ragioni sessuali. È la civile ovvietà di quelle righe clamorosamente respinte dalla Binetti con una netta dissociazione da un governo mite e prudente, più prudente di quasi ogni Paese d’Europa, in materia di rispetto delle libertà private, è la civile ovvietà di quelle poche righe a creare stupore e amara sorpresa.Spiace constatare che tutto ciò che è stato detto dopo, dalla senatrice Binetti (che trova i gay «straordinariamente intelligenti», una infelice assonanza con «l’elogio degli Ebrei e delle loro qualità uniche» da parte di chi intende comunque sottolinearne la diversità) non chiarisce il perché di un gesto allo stesso tempo drammatico e futile, salvo che come forma di autocertificazione di esclusivismo cattolico. E ripete il richiamo a una «questione di coscienza» francamente imbarazzante. Chi può dire, in quest’epoca, in questa Italia, e sia pure da una zona oscura della Chiesa di Ratzinger che un credente non può, non deve votare in favore della protezione di un essere umano, senza avere prima raccolto informazioni precise sul suo stile di vita?

L’imbarazzo aumenta quando interviene Monsignor Fisichella, vescovo, docente di Università pontificia, cappellano del parlamento. Dice l’assistente spirituale di Deputati e Senatori credenti: «Quando ci sono coalizioni, il problema è sempre il rispetto delle identità. Se non c’è, mi pare difficile arrivare a soluzioni condivise, Soprattutto non bisogna pensare di avere la verità in quanto laici».

L’affermazione o è priva di senso logico (se l’identità è fissa e rigida, la “soluzione condivisa” può essere soltanto la resa) o è allarmante per il sarcasmo dedicato ai laici, che si permettono di avere una loro verità. Ma il vescovo-docente-cappellano e padre spirituale del Parlamento aggiunge una incredibile frase in più: «Troppo facile accusare di fondamentalismo chi dissente quando non si vogliono rispettare le regole del gioco democratico. Così si impedisce anche la possibilità di arrivare a compromessi che riescano a salvaguardare le differenze» (il Corriere della Sera, 11 dicembre 2007). Traduzione: democrazia è solo ciò che avviene sotto il vessillo vaticano. Compromesso è solo rimuovere da una legge ciò che il Vaticano - tramite Binetti - non vuole. O cancellare tutta la legge, come è avvenuto per i pacs-dico-cus. O come si sta per fare per la legge sul testamento biologico.

Inevitabile trarre due conclusioni. Eventi del genere, ovvero la esibizione di un estremismo religioso estraneo ai percorsi (dare, avere, spiegare, compromettere) della ragione, non erano mai accaduti in questa Italia pur così sensibile non tanto alla religiosità quanto alla autorità religiosa. Certo, non era mai accaduto prima del papato di Ratzinger. Evidentemente questo governo vaticano sta concentrando tutte le sue risorse di influenza, intimidazione e controllo dei media esclusivamente sull’Italia, il suo Parlamento, il suo governo. Infatti non si ha notizia di comportamenti del genere in ogni altro Paese democratico cattolico, né una simile mancanza di rispetto per un altro governo. E anche: il no della Binetti non è che un avvertimento. Intima di non provare mai più i percorsi della disubbidienza a ciò che lei considera ortodossia. Ci hanno detto che - se e quando lo riterranno necessario - non ci penseranno un istante e, come camionisti e tassisti, il loro blocco scatterà subito. La coscienza degli altri interessa poco. La verità dei non sottomessi? Non scherziamo.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 13.12.07
Modificato il: 13.12.07 alle ore 8.17   
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Titolo: Furio COLOMBO - Premiata ditta Berlusconi-Saccà
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2007, 05:57:15 pm
Premiata ditta Berlusconi-Saccà

Furio Colombo


Se fate parte della commissione Esteri al Senato, di tanto in tanto vi tocca l’incarico di discutere e votare la ratifica di un trattato, che questo o altri governi hanno già stipulato, e che deve essere approvato dal Parlamento. Ho partecipato di recente al lavoro per la ratifica del Trattato di cooperazione e coproduzione cinematografica con l’India, discutendo ogni dettaglio delle norme di incoraggiamento e facilitazione per un progetto così meritevole di attenzione.

Conosco l’India, conosco il cinema indiano e l’ho fatto volentieri. Fa piacere occuparsi di accordi che non hanno niente a che fare con le armi.

Poi leggo, il 12 dicembre, l’articolo di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica (tema, la corruzione di Berlusconi, la sua operazione di acquisto dei senatori del centrosinistra) e apprendo di avere lavorato per il “socio” di Berlusconi, Agostino Saccà. Da una sua posizione chiave nel cuore dell’azienda pubblica Rai, l’ex direttore generale (ora capo di Rai Fiction) lavora a un suo (suo e di Berlusconi) progetto di impresa privata. Trascrivo da D’Avanzo: «Nonostante i suoi doveri di incaricato del servizio pubblico ha un privatissimo proposito di farsi imprenditore di se stesso, creatore della “Città della fiction” di Lamezia, architetto di “Pegasus”, un nascente consorzio di produttori televisivi sollecitato da alcuni produttori indiani. Qualcosa non va in questa storia, e non solo dal punto di vista etico», conclude D’Avanzo.

Qualcosa non va anche dal punto di vista politico. La mucillagine dilagante (per usare le parole del Censis) degli interessi privati invade e contamina la vita politica e gli impegni istituzionali al punto da far agire nell’interesse dell’impresa infetta (Berlusconi e soci) anche chi si batte in tutti i modi contro di essa.

La mattina del 13 dicembre, mentre parlavo di questa vicenda nel corso del programma «Omnibus» de La 7 , coordinato da una indomita conduttrice decisa a non lasciarsi intimidire dagli urli, mi sono accorto di far parte di una esigua minoranza che considera uno scandalo grave il tentativo esplicito e provato di comprare senatori. Mi sono ricordato che - in coincidenza con i fatti rilevati da Repubblica sulla base di intercettazioni telefoniche in cui Berlusconi entra per caso (intercettazioni della magistratura di Napoli che riguardavano il non irreprensibile ex direttore generale della Rai) - il vivace e attivo capo della opposizione e (come si constata ancora una volta) della illegalità italiana aveva indicato il giorno preciso della caduta del governo, il 14 novembre. Era infatti il giorno in cui un imprenditore italiano residente in Australia si era assunto il compito di concludere “l’affare” se il sen. Randazzo - eletto dagli emigrati italiani in quel continente - si fosse prestato al convenientissimo evento del passaggio incentivato da una parte all’altra del Parlamento. Randazzo ha detto e ripetuto il suo no sia a Berlusconi in persona sia ai suoi mandatari (stando sempre alle intercettazioni e alla de-codificazione di esse da parte dei giornalisti di Repubblica). E Berlusconi ha subito lanciato il progetto dal nome maoista di “Partito della Libertà del popolo” per colmare la sconfitta e il vuoto.

Ma provate a parlarne con uno schieramento di liberi giornalisti italiani nell’era di Arcore, nel corso di una diretta tv come quella di Omnibus. La squadra di firme invitate (Paolo Liguori di Mediaset, Carlo Puca di Panorama e persino il celebre Minzolini, ottimo e intraprendente giornalista che ha l’esclusiva delle frasi confidenziali e virgolettate di Berlusconi) hanno risolutamente preteso di essere al di sopra delle parti. E contestualmente si sono impegnati a dimostrare che “vendere e comprare” senatori è un normale fatto politico. Forse che Follini non era stato comprato dal centro-sinistra? Invano ho fatto notare che un partito impegnato a tassare i suoi parlamentari del nuovo Pd (1500 euro a testa ogni mese) solo per pagare il “loft” di poche stanze in cui hanno sede, in tre o quattro vani, i nuovi uffici, difficilmente avrebbe potuto “acquistare” l’ex vice presidente del Consiglio della Casa delle libertà. Ma l’offesa priva di fondamento dedicata a Follini dalla viva voce di giornalisti che dovrebbero narrare la realtà, era solo una parte della loro fiera esibizione super partes. Tutto il loro impegno era dedicato a spiegare - con qualche urlo in più - al pubblico che tutto nella politica italiana è basato su continue compra-vendite. E che dunque, se c’è un intollerabile scandalo, è quello delle intercettazioni.

Soltanto Gianni Barbacetto (coautore con Marco Travaglio di testi su Berlusconi visti di malocchio dai politici di ogni parte, ma best-seller presso il pubblico italiano) e io abbiamo tentato di dire che quando le manovre che cambiano la politica italiana sono segrete, illegali e pericolose, il venirle a sapere in modo inconfutabile è sempre un atto di difesa della democrazia.

Purtroppo sulla questione intercettazioni lo schieramento dei super partes berlusconiano non è isolato.

Il presidente della Camera Bertinotti: «Ho detto che Silvio Berlusconi è un animale politico e che sulle riforme è un interlocutore indispensabile». «Ma - scrive il Corriere della Sera del 13 dicembre - c’è di più. Il garantista Bertinotti si è appellato al Procuratore di Napoli per verificare se c’è stato il vulnus che sembra appalesarsi nella intercettazione del deputato Berlusconi. Dice Bertinotti al Corriere: “Le regole sono l’essenza della democrazia. E qui mi fermo. È un rito (la pubblicazione delle intercettazioni, N.d.R.) che danneggia anche la magistratura”».

Dice il senatore-avvocato Guido Calvi del Pd: «Diciamo che ho sempre paura che qualche magistrato, come dire, possa deviare dall’esercizio delle sue funzioni. Il controllo del Csm deve ormai diventare estremamente rigoroso. È urgente mettere mano al problema delle intercettazioni che non siano finalizzate all’accertamento del reato perseguito e impedire la fuga prima del legittimo uso processuale».

Ma la pattuglia di coloro che guardano corrucciati alla presunta irregolarità dei giudici di Napoli (che appare infondata perché - come afferma il Procuratore di quella città - la parte investigativa dell’indagine è giunta a compimento e non sembra ci sia stata una fuga di carte segrete) non è affatto isolata. Da una parte si sente (si è sentita nella puntata di Omnibus di cui ho parlato) la voce esasperata di un giornalista come Liguori che sbotta: «Ma con tutti i delitti che ci sono a Napoli proprio di Berlusconi e Saccà si dovevano occupare quei giudici!».

Dall’altra, c’è il desiderio di partecipare alla vasta indifferenza verso il clamoroso attentato alla democrazia. Perché è vero che il deputato Berlusconi è stato intercettato e questo viola le regole. Ma questa violazione - che è apparente, perché gli investigatori stavano seguendo e ascoltando un alto dirigente della Rai circondato di molti sospetti - non è colpa dei giudici. Infatti Saccà e Berlusconi discutevano tutto il tempo non solo di ragazze da piazzare alla Rai per «levarcele dalle balle», ma anche di richieste di Berlusconi a Saccà di «far felice il capo» procurandogli, con i mezzi che si sanno, i senatori che gli mancano affinché Prodi cada quel magico 14 novembre che «il capo» aveva profetizzato. In fondo a sinistra, profondo silenzio.

E quando non è silenzio è preoccupazione. Tutto questo disordine non interromperà il dialogo? Non è meglio, come suggeriscono i senatori-avvocati, separare la giustizia dalla politica? Il ragionamento ricorda le tante altre volte in cui ci ammonivano a non parlare dei processi di Berlusconi, per una sorta di cavalleresca sospensione che avrebbe reso meno aspri i rapporti. Come si ricorderà, ha sempre provveduto Berlusconi, di sua iniziativa, a riaccendere la miccia ora accusando i comunisti di occupare l’Italia, ora facendo descrivere Prodi come “un mascalzone bavoso”.

Questa volta è diverso. Nel pieno della politica, Berlusconi compie un delitto politico, oltre che di corruzione: vuole comprarsi alcuni senatori. Un senatore conferma, comprese sorveglianze, pedinamenti, fotografi pronti allo scatto, strani intermediari. Non è “un’altra storia” come ci dicevano (sbagliando) per il conflitto di interessi. È il cuore dell’unica storia: la politica italiana inquinata da Berlusconi. Il tentativo, illegale e disonesto, di abbattere la maggioranza per dissanguamento.

Non si può e non si deve far finta di niente perché ormai siamo in compagnia degli italiani che sanno tutto attraverso un percorso che non viola alcuna legge.

Certo che il tentativo di trovare un minimo di accordo per una decente legge elettorale deve continuare, non è stato il centro-sinistra a volere una legge elettorale indecente, giustamente definita da loro stessi “porcata” . Certo che tale tentativo va fatto con loro, gli autori della “porcata” (che non hanno mai neppure tentato di giustificare o spiegare, solo un sabotaggio della delicata macchina elettorale che genera ogni volta la democrazia). Meglio se “loro” sono una tavola larga, senza preclusioni, senza esclusi. Difficile? Difficile. Ma dalla parte della maggioranza l’esperienza e la conoscenza di queste cose non manca. Ma non possiamo farci carico di Saccà. Non possiamo far finta di non sapere ciò che tutta l’Italia sa. Non possiamo isolare e lasciare sola la preda che avevamo puntato, il senatore “da comprare” dopo che avevamo fatto una meticolosa ispezione del suo stato patrimoniale. Il grande teatro insegna che la vittima diventa patetica se viene lasciata sola, se non diventa simbolo vantato ed esibito da chi ha scoperto l’inganno. Non credo si debba confondere la necessità urgente (e finora bene impostata da Veltroni) dell’accordo su un punto, la legge elettorale, con una sorta di indulto-distrazione-amnistia generale. O che sia consigliabile aggiungere sdegno per il gesto di rivelare invece che per la rivelazione. La storia, adesso, parte da quella rivelazione.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 14.12.07
Modificato il: 15.12.07 alle ore 8.59   
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Titolo: Furio COLOMBO - Com’è triste l’Italia
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2007, 04:48:19 pm
Com’è triste l’Italia

Furio Colombo


Il New York Times scrive che l’Italia è in preda a una morsa di sfiducia, dice che la sfiducia genera tristezza, che la tristezza, quando grava troppo a lungo su una persona o un gruppo, diventa rabbia.

Il giornale americano usa due foto esemplari per chiarire il discorso: l’ingorgo dei Tir a Fiano Romano e l’invettiva di Beppe Grillo.

Con un certo calcolo a effetto i due autori dell’articolo, Ian Fisher ed Elisabetta Povoledo, seguono un percorso - da piccoli a grandi luoghi, da piccoli a grandi fatti - senza imporre una gerarchia.

Semplicemente, accuratamente constatano.

Nella loro narrazione, per ragioni che non sono argomentate come sequenza di causa-effetto ma solo come «vere» (nella tradizione giornalistica americana non ci sono impressioni ma fatti), la catena di eventi che potete incontrare in Italia genera tristezza. Gli ingredienti della tristezza sono sfiducia, delusione, assenza di attesa, senso di impotenza e - dopo l’esplosione di rabbia - silenzio. Non ci sono film, teatro o libri degni di essere ricordati e capaci di sollevare il morale. C’è la morte di Pavarotti.

Alcuni intervistati si impegnano a confermare l’immagine cupa. L’Ambasciatore americano Spogli vede l’Italia come le città abbandonate dai gesuiti in Brasile o i templi di Vat, in Cambogia: invasa dalla giungla, che si arrampica, si impiglia, penetra dove c’erano porte e finestre, crea una sua strana bellezza ma impedisce la vita.

Il presidente di Confindustria Montezemolo, dimenticando che il suo predecessore alla presidenza della Fiat, Agnelli, parlava bene dell’Italia con la stampa estera e incoraggiava ad avere fiducia nel suo Paese anche durante i cupi «anni di piombo», fa sapere al New York Times che «stiamo precipitando in ogni classe di competitività».

Parafrasando il film di Troisi e Benigni di un secolo fa, dice alla fine il giornale americano: «Non vi resta che la pizza».

Non prima, però, di avere narrato e messo al centro della scena italiana il fenomeno, giustamente sorprendente, del “vaffa day”, della grande cerimonia di Beppe Grillo che convoca 300mila persone(e tutti vengono) per il suo drammatico e singolare esorcismo: maledire la classe dirigente italiana (qualunque cosa sia, ma soprattutto i politici) come non hanno mai fatto gli americani, condotti a combattere due guerre impopolari che non finiscono, i belgi che stanno per spaccare il Paese in due, gli svizzeri trascinati per la prima volta dal razzista Blocher nella contrapposizione totale tra xenofobi e persone normali, e persino i russi lentamente strangolati da Putin.

Ha ragione il New York Times a mettere al centro del triste paesaggio italiano un segno impetuoso - anche se cupo - di vitalità. La maledizione ha un grande ruolo in tutti i grandi spettacoli del mondo e specialmente nella tradizione della grande Opera italiana, l’unica forma di teatro del mondo in cui il cavaliere bianco non arriva mai, e si muore tragicamente cantando la fine a gola spiegata. Con intelligenza i colleghi del New York Times non cadono nella trappola di giudicare questo fatto unico italiano, di scuotere la testa o con divertimento o con costernazione.

Da bravi reporter vedono il fatto, notano che è sorprendente, affollato, insolito. E si rendono conto che niente accade per niente.

Nel mondo occidentale libero e democratico c’era - c’è - di tutto, dalle banlieue di Parigi incendiate notte dopo notte alle stragi inspiegate (però spiegabili, ci dice Michael Moore) nel cortile delle scuole americane.

Eppure non c’è mai stata finora la maledizione collettiva della cerimonia di piazza Maggiore a Bologna e in tante altre località italiane collegate (8 settembre 2007) convocata da Beppe Grillo.

* * *

Se ci pensate, quell’evento, nella sua unicità di invettiva di massa priva di speranza e vie d’uscita, spiega alcuni fatti accaduti dopo, come le tre vampate di violenza che hanno sconvolto l’Italia e meravigliato il mondo (o almeno coloro che - nel mondo - hanno prestato attenzione).

Prima c’è stato l’assalto allo Stato (ovvero a qualunque simbolo di autorità a portata di mano) delle tifoserie sportive, con morti e feriti.

Segue la rivolta dei taxi che - nella città di Roma - è stata la più malevola e aspra che possa verificarsi in condizioni di relativa normalità (quando cioè tutte le occasioni di contratto e trattativa sono aperte). È stata, la rivolta dei tassisti di Roma, come un conto da pagare, una vendetta troppo a lungo rinviata, piuttosto che un esagerato - benché legittimo - reclamo di cose da ottenere.

Infine - è ciò che ha motivato il severo articolo del New York Times e non sarà certo l’ultimo di questi eventi - l’assalto dei Tir, ovvero gli autotrasportatori italiani contro l’Italia e i suoi cittadini, via medicine e riscaldamento, cibo e comunicazioni. «Abbiamo richieste importanti da fare. Fermi tutti, siamo noi a dettare le condizioni». La scena è quella classica degli ostaggi e dell’atteggiamento di sequestratori i quali, quando vengono descritti in episodi di cronaca, sono sempre definiti “spietati” e “decisi a tutto”.

Dunque la novità che i nostri colleghi americani hanno notato è un Paese contro se stesso. In due sensi, entrambi terribili. Nel primo la colpa è sempre di altri e la pallina non si ferma mai. Poiché la colpa c’è, qualcuno dovrebbe avere il coraggio di dire: «la responsabilità è mia», e interrompere il gioco al rimbalzo delle vendette. Ma non accade.

Nel secondo si assiste a una corsa rabbiosa sotto le mura di un presunto potere come se non fosse un dato stravolto e dannoso della nostra vita comune, ma il confine con un altro Paese, gente e roba estranea di cui non è necessario né ragionevole curarsi. Basta mandarli al diavolo.

Possiamo trovare ed elencare le cause, come fanno alcuni di noi mille volte, perché, a differenza dei giornalisti stranieri, viviamo qui e non siamo affatto convinti che resti solo la pizza. E persino che sia vero.

Ha fatto luce la maledetta fiammata di Torino che ha travolto i cinque operai impegnati nei turni di dodici ore, ne ha uccisi quattro, ha colpito malamente altri e ci ha fatto sapere nel modo più clamoroso che tutto quello che ci dicono in convegni accademici ed editoriali sul lavoro è falso e infondato, che senza un’idea chiara, alta e civile del lavoro, la parola produttività è priva di senso.

Ma proprio da Torino si riproduce - come un mostro da fantascienza - la tremenda catena.

La colpa - ci è stato detto (e per un momento ci hanno creduto molti nel corteo di lutto) - è dei sindacati perché, come gli operai della Thyssenkrupp, si sono battuti per il posto di lavoro più che per la sicurezza.

Tutti sanno, e nessuno dice, che ostinarsi sulla sicurezza voleva dire perdere il posto di lavoro. O la borsa o la vita, era la parola d’ordine di un vecchio cavalleresco banditismo che metteva le cose in chiaro. Qui, in luogo di questa dura ed esplicita frase, si parla di bassa produttività in un convegno e di troppo poca flessibilità del lavoro in un altro, tutti ben frequentati, con ministri e titolari di cattedre. Raramente con testimonianze dei giovani morti a Torino.

Come mai tutto ciò, se il Paese non è più in mano di un padrone ricchissimo che - nel tempo libero - fa il procacciatore d’affari per chi volesse decidere di stragli vicino?

Questo, adesso, non è il Paese di Prodi, la stessa persona che ha portato l’Italia nell’Euro?

Questo, adesso, non è il Paese in cui un nuovo Partito democratico guidato da Veltroni terrà vigorosamente testa a Berlusconi?

È vero. Ma Prodi, ponendo mano al disastro ereditato, ha scelto - forse senza alternative - di cominciare il suo lavoro dalle cantine. Sappiamo che lavora bene e non lo vediamo. Quasi non sentiamo mai la sua voce. Lo intravediamo, ogni sei sette giorni, per le strade di Bologna, scortato dal suo portavoce che tace, o in incontri all’estero. Quanto a Veltroni, è entrato in scena di corsa come Benigni, un segnale festoso e per questo bene accolto.

Ma una questione grave e urgente - un Paese come l’Italia senza la legge elettorale - lo ha costretto ad appartarsi e immergersi in un lavoro tecnico quasi a tempo pieno. E poiché quel lavoro richiede un minimo di intesa con gli avversari politici lo deve fare con Berlusconi. È come se Hillary Clinton e Barak Obama si appartassero tutto il tempo con Bush. L’opinione pubblica americana non la prenderebbe bene, anche se ci fossero impellenti ragioni. Sto descrivendo una sequenza di fatti e di immagini che è, allo stesso tempo, necessaria e disorientante.

La civiltà dell’alternanza, infatti, richiede netta e visibile contrapposizione. L’Italia ne è priva. E molti cittadini o si sentono soli e danno l’immagine di desolata tristezza di cui parlano i giornali americani. O si sentono liberi di rivoltarsi contro l’intero mondo politico, perché - dicono - non vedono le differenze. Certo, è un errore. Ma non tocca a noi rimediare riportando subito l’Italia a un dialogo umano, di solidarietà e di speranza? Vorrei precisare: non parlo del dialogo fra parti politiche contrapposte, che è sempre tecnico e spesso politichese.

Parlo del dialogo non stop fra governo e cittadini, fra maggioranza di governo e gente che aspetta una risposta e per ora si sente esclusa, si sente sola, si sente in pericolo. E diventa un pericolo, come il giornale americano ci ha spiegato.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 16.12.07
Modificato il: 16.12.07 alle ore 7.40   
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Titolo: Furio COLOMBO - Una moratoria, tre vittorie
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2007, 11:18:30 pm
Una moratoria, tre vittorie

Furio Colombo


Diciamo la verità: Roma avrebbe dovuto suonare le campane come si fa nei giorni di gran festa. Per fortuna al Colosseo si sono accese le luci per dare l’annuncio a chi ancora non lo sa, a chi non ha seguito giornali radio e telegiornali.

Per fortuna la gente del mondo lo sa: l’Italia testarda e neppure spalleggiata (o spalleggiata con distrazione) dall’Europa, ha fatto ciò che le armi non fanno: ha cambiato le carte in tavola nella storia del mondo.

Noi sappiamo benissimo - e lo sanno coloro che leggono questo giornale - che alle spalle dell’Italia, che si è fatta avanti con l’immagine e il prestigio del suo governo, della sua diplomazia, e di ciò che sa far meglio - discorsi di pace e non di potenza - c’è il Partito Radicale e l’ossessione insieme tragica e festosa di Marco Pannella.

C’è l’impegno accanito del Partito Radicale (Radicali italiani, Partito transnazionale, l’organizzazione radicale “Nessuno tocchi Caino” Radio Radicale, i convegni, le conferenze stampa di Pannella, a cui i giornalisti vanno, se vanno, con un sospiro e se scrivono più di venti righe il loro giornale, anche se ha sessanta pagine, se le inghiotte lasciando solo un po’ di colore) un impegno che attraverso gli anni e alcune brucianti sconfitte, non è finito e non si è allentato mai, non si è mai concesso distrazioni o vacanze.

Ora dobbiamo dire che un buon governo, che deve avere capito e creduto in quel che faceva, e non solo un favore ai Radicali, ha messo l’immagine e il prestigio del Paese Italia davanti all’ostinato progetto, ha scosso l’apatia un po’ incosciente dell’Europa, ha lavorato bene a far crescere giorno per giorno il numero dei Paesi grandi e piccoli che hanno detto sì e hanno lavorato bene a rendere possibile il gruppo degli astenuti, che hanno impedito la levitazione dei no e hanno allargato l’immagine dell’Italia come Paese serio, impegnato, credibile.

Dunque l’Italia Paese e l’Italia governo hanno vinto uno splendido gioco d’azzardo, il più difficile se si pensa al mondo in cui viviamo, all’epoca che stiamo attraversando: la vita contro la morte, la vita contro il boia, la vita contro la giustizia come vendetta. Come non riconoscere merito a questo governo italiano per qualcosa che prima non era mai accaduto nonostante l’impegno valoroso di alcuni diplomatici italiani (penso all’Ambasciatore Fulci alle Nazioni Unite negli anni Novanta) nonostante l’impegno formale, però molto meno tenace di quest’ultimo episodio, finalmente coronato di successo. Il fatto è che - come in uno strano teatro d’avanguardia - alle spalle di questo governo il cui successo va riconosciuto e lodato, ci sono - come c’erano fin dall’inzio - i Radicali, e sopratutto i tre ostinati protagonisti di più di un decennio di testarda e ripetuta battaglia, anzi una vera e propria guerra della non violenza: Marco Pannella, Emma Bonino, Sergio D’Elia. C’è una lezione - in questa vittoria - su ciò che vale quel partitino. Sarebbe meglio, d’ora in poi, prenderlo sul serio, visto che la loro tenacia ha messo in scena, come eroe del momento, il Paese Italia, cittadini e governo.

Però perché non trarne anche una lezione morale e politica, in un Paese in cui, a causa della frivolezza esibizionistica creata dai talk show della televisione, ogni promessa evapora, ogni impegno finisce, ogni cosa già fatta, e magari quasi finta, viene abbandonata per farne un’altra o meglio per annunciarne un’altra che magari non si farà?

La circostanza straordinaria su cui abbiamo la fortuna e l’orgoglio di riflettere, ci dice che la lezione radicale di oggi non dovrebbe andare perduta anche per coloro che non condividono impegni e battaglie di quel partito. È la persuasione che le cose non accadono da sole, che la meticolosa volontà che si rinnova sempre, si rafforza coi digiuni, si conferma ricominciando da capo, mentre gli altri politici alzano gli occhi al cielo prima e dopo partecipare all’ennesimo e un po’ umiliante passaggio televisivo. È la capacità di cogliere, in un paesaggio confuso e contraddittorio, la cosa più importante, in questo caso la pena di morte. E la visione: saper vedere, e saper spiegare. Quante cose tremende porta con sé la pena di morte accettata come normale, dal disprezzo dei più deboli alla violazioni sistematiche dei diritti umani. E quante cose la pena di morte si porta via quando scompare.

La crudeltà nelle carceri, ma anche verso le carceri. La tendenza a dimenticare sia l'affollamento che la intollerabile condizione di vita, sono tutti fenomeni che viaggiano al seguito di una civiltà che crede nel diritto di uccidere e nella quale diventa più facile e più naturale vedere nella guerra una soluzione, una virile via d’uscita.

C’è un’altra lezione in questo evento ottenuto con tanta tenacia dai Radicali e tanto (finalmente) impegno di governo e di diplomazia: è la lezione del senso dei limiti che rende possibile l’impossibile. È la stessa cultura che proponeva - con realistica intelligenza - di rimuovere Saddam Hussein (aveva quasi accettato) piuttosto che distruggere l’Iraq e la sua gente. Innocenti inclusi.

In questo caso l’idea è la moratoria. Niente viene imposto a nessuno, non si mettono le mani nelle leggi degli altri, non si fa la parte dei buoni. Il successo grandioso è questo: avere chiesto e ottenuto da tutti i Paesi del mondo di fermare il boia e di pensare. Serve la pena di morte?

Non è un caso se proprio in questi giorni, per l’esattezza tre giorni fa, il popoloso Stato americano del New Jersey, uno dei più importanti anche dal punto di vista economico e politico, negli Usa, ha dichiarato all’improvviso la fine della pena di morte. Nessuno negherebbe, negli Stati Uniti che stanno cambiando, l’influenza e la spinta della moratoria italiana.

Mentre scriviamo le campane non suonano. Nonostante questa straordinaria vittoria della vita e della civiltà che si oppone alla morte come pena legale. Temono forse di celebrare le stesse persone che si sono strette intorno e Luca Coscioni, a Piergiorgio Welby, le stesse che si intestardiscono sul testamento biologico e mìnel rispetto per le coppie di fatto). Ma anche senza campane il New York Times potrà dire che oggi l’Italia è meno confusa, meno triste, e con un po’ di orgoglio.

Merito di un buon impegno di governo. Merito dei radicali.


Pubblicato il: 19.12.07
Modificato il: 19.12.07 alle ore 13.01   
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Titolo: Furio COLOMBO - Racconto di Natale
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2007, 11:02:15 pm
Racconto di Natale

Furio Colombo


Ogni Paese, in Europa, ha una sua tradizione per celebrare il fine d’anno e il solstizio d’inverno, una tradizione a volte ancora segnata da tracce di riti e usanze pagane che si intravedono dietro la festa cristiana. Di solito ogni tradizione si compone di due narrazioni, una di cattiveria e di egoismo, l’altra di buoni sentimenti, che poi generano doni.

Nella buona letteratura europea è toccato a Charles Dickens il compito di unire le due storie: l’uomo cattivo e insensibile agli altri, tormentato dai fantasmi del suo egoismo, alla fine deve cedere alla spinta non resistibile della bontà.

Dickens era uno scrittore realistico, con forte coscienza sociale, si direbbe oggi. Ma quel racconto, quando il cattivo signor Scrooge non riesce più a tener testa al fiume di buoni sentimenti, è sempre una fiaba? Non sempre. A volte è politica.

Per esempio la Svizzera. Forse non c’entra il Natale. Ma il governo e il Parlamento di quel Paese hanno deciso, nei giorni scorsi, di rimuovere il signor Blocher dal compito di capo del governo che gli era stato assegnato dopo una clamorosa vittoria elettorale. Blocher è un miliardario e un razzista, ha finanziato senza limiti la peggiore campagna elettorale del suo Paese, ha vinto con largo margine e si è insediato al centro del potere. Ma qui comincia il secondo racconto. Blocher ha coperto la Svizzera di manifesti in cui compare il volto di un immigrato nero e la frase «non venire, qui morirai di fame». Per dire: «Noi, a te, non daremo lavoro». Chi concepisce manifesti del genere ha anche un suo linguaggio da cui non può separarsi. E dunque la Svizzera - che pure aveva votato Blocher dopo essere stata travolta da un’ondata di paura per lo straniero - ha dovuto chiedersi se accettare come identità del Paese quei manifesti, quelle parole, quel personaggio. Ha deciso di no. Ha chiesto a Blocher di farsi da parte, anzi glielo ha imposto. Il suo partito ha vinto e potrà indicare un’altra persona per guidare il governo. Ma non Blocher, non il peggio. Un Paese ha una dignità e un’immagine che non possono coincidere con la visione rigorosamente razzista del miliardario Blocher.

È lo stesso percorso lungo il quale, anni fa, ma in questa stessa imperfetta Europa contemporanea, i francesi hanno detto no al razzista Le Pen e gli austriaci si sono liberati di un premier come Haider. La democrazia arriva carica di errori ma, specialmente se assistita dal Babbo Natale della stampa libera, sa dove scaricare il carbone e come sgombrare il campo da ciò che offende i cittadini e il comune senso del pudore. È lo stesso percorso, il racconto di Natale con il cattivo che deve arrendersi al bene, che si è compiuto in questi giorni in California. Nella prima parte del racconto il presidente americano Bush oppone il suo veto alla legge «socialista» appena approvata dal Congresso che prevede cure mediche gratuite per tutti i bambini d’America. Ma la seconda parte del racconto è la più interessante: il governatore Schwarzenegger, repubblicano come Bush ma umano come il Congresso democratico, ha presentato la sua legge salva-bambini. Tutte le cure sono gratuite e durano finché dura la malattia, non fino alla scadenza dell’età infantile.

L’Italia entra in questa tradizione della storia buona di Natale con la tenacia e la bravura con cui ha proposto - e ottenuto da un primo voto della Assemblea Generale dell’Onu - la sospensione delle esecuzioni (moratoria) della pena di morte nel mondo. Ha usato un misto di tenacia e prudenza, di ostinazione e rispetto, di gentilezza e fermezza che onora il Governo italiano e l’azione del suo ministro degli Esteri (altri governi, distratti o neghittosi, non si erano mai impegnati tanto). Ma senza dimenticare che quel modello di comportamento ha la sua impronta originaria nella storia dei radicali di Pannella e Bonino, tante battaglie perdute, tante battaglie mai finite, alcune vittorie che hanno cambiato il Paese Italia. Una, quest’ultima, che - dalle tre stanze di una stradina di Roma, potrà forse cambiare il mondo. Non c’è esagerazione nel dirlo, soltanto cronaca, cronaca di Natale, se pensate quanto ha contato il simbolo di una «Marcia di Natale» contro la pena di morte a cui ha partecipato anche Giorgio Napolitano che allora non era ancora Capo dello Stato.

Ma poi l’Italia ne esce bruscamente con alcune vicende diverse e tristi, altrettanto coinvolgenti perché in nessuna di esse si vede l’uscita di sicurezza, quell’esito inaspettato e risolutivo che tutte le tradizioni narrative hanno sempre proposto.

La prima vicenda riguarda l’orrore del lavoro oggi in Italia, quel padre che, accanto al figlio morto bruciato a Torino, rimprovera se stesso per avere esortato suo figlio ad accettare il lavoro alle acciaierie ThyssenKrupp. «È un lavoro fisso, dura tutta la vita» avrà detto il padre che vedeva intorno le fila sconsolate dei ragazzi precari. La vita, nel caso di quel ragazzo e dei suoi compagni morti bruciati, è durata solo 26 anni.

E diciamo la verità. Quella vicenda l’abbiamo celebrata come una disgrazia grave ma che nella realtà può sempre accadere. Si fa un funerale in televisione, si fa un minuto di silenzio e poi si va al prossimo convegno sul costo del lavoro, sulla competitività e sulla celebrazione della flessibilità come sola strada - ti dicono - che porta al futuro.

Possibile che tanti esperti, anche con rilevanti curricula accademici, non si siano accorti che, togliendo ogni attenzione rispetto, rilevanza del lavoro, visto come «problema» invece che come l’altra parte del capitale, si semina morte? Possibile che non si veda il filo di connessione fra lo screditamento sistemativo del lavoro, presentato come la retroguardia frenante di imprese che altrimenti prenderebbero il volo, e il moltiplicarsi dei morti, che si accumulano anche mentre sono in corso celebrazioni di altri morti? In questa vicenda la seconda parte della storia - per esempio un convegno in cui almeno simbolicamente imprenditori ed esperti si occupano delle condizioni del lavoro, oggi, in Italia, non gente di sinistra, solo gente normale - continua a mancare. E il Natale di chi lavora, affannato anche dalla impennata dei costi di tutto, rimane disadorno.


* * *


Poi c’è la Lega. Parlo del partito di Bossi, della sua vitalità tetra e punitiva, sempre in cerca del peggiore alleato e del nemico da indicare alla folla. La Lega è il braccio armato di Berlusconi. Rappresenta tranquillamente le cose peggiori, nel più squilibrato dei modi (nel senso di incoerente, contraddittorio, pericoloso). Ma i leghisti dicono anche le cose più disumane, sicuri che tra minacce fisiche e intimidazioni a giornali spaventati dal boicottaggio, la passeranno liscia anche quando superano un segno che nessun paese europeo si sentirebbe di tollerare. Il segno lo hanno certamente passato nella loro manifestazione di Milano a sostegno dei “sindaci padani”. Che cosa vuol dire oggi, in Italia, «sindaco padano»? Vuol dire assumersi l’autorità, che non hanno, di espellere chi vogliono, quando vogliono, di proibire ai bambini immigrati la scuola e persino l’asilo, un tipo di barbarie di cui non si ha notizia in tutto il mondo civile. Basta dichiarare che le persone, le famiglie espulse, non hanno lavoro certo e reddito fisso, come tutti gli immigrati del mondo. È una regola che avrebbe cancellato tutta l’immigrazione italiana, irlandese, ebrea nell’America di cento anni fa, ovvero coloro che, con genio e lavoro, hanno fatto grande e unico quel Paese. Sarebbe importante leggere la storia di quelle ondate di immigrazione. Negli Stati Uniti, si studia fin dalle scuole elementari: quasi nessuno, di quei disperati immigranti, ha avuto per anni un lavoro fisso o un reddito certo, due tratti che sono per forza estranei alla vita dei poveri in cerca di sopravvivenza, anche perché, nel mondo disordinato di allora, nel mondo disordinato di adesso, tra necessità e pregiudizio, tra bisogno di sopravvivenza e ricerca di qualcuno che faccia mestieri che nessuno fa, il raccordo si forma faticosamente e senza simmetrie istantanee, che sono pura finzione.

Le patetiche figure dei cosiddetti «sindaci padani» che preparano il clima per disumane iniziative tipo Gentilini e Borghezio, vengono avanti con la sciarpa verde invece della sciarpa tricolore, che indossano i sindaci italiani. E’ un gesto che non potrebbero compiere in nessun altro angolo d’Europa. E in mezzo a loro, come in un vecchio film di Bob Hope, ma senza allegria, spuntano le facce dei patriottici esponenti di Alleanza Nazionale La Russa e Ronchi. Applaudono e approvano (cosa c’è di meglio di uno sfregio al Tricolore per le due faccine del partito nazionalista italiano?) e dicono ai giornali con una voce sola: «i rapporti con la Lega sono sempre stati ottimi». Sul fondo si ode la folla che urla «secessione, secessione».

Qualcuno più attento di loro (fra i grandi quotidiani italiani, Alessandro Trocino, Il Corriere della Sera, 17 dicembre), si è accorto dell’altro grido della folla leghista: «Montalcini fa in fretta, c’è Biagi che ti aspetta». Ma la maggior parte dei giornali, benevoli e guardinghi come al solito, quando trattano della Lega, saltano le invocazioni barbare e i ricorrenti riferimenti ai fucili e si sentono più al sicuro descrivendo così il capo lega Bossi, inventore della peggiore e più umiliante politica italiana: «Mezzo toscano in bocca, la voce roca per il gran freddo, il leader della Lega si affaccia sul palco in piazza del Duomo per gli auguri di Natale e cantare “Oh mia bela madunina”». Potrebbe essere, per un lettore inconsapevole della cattiveria volgare che dilaga in Italia, il ritratto di un Pertini o di un Altiero Spinelli in versione popolare. Eppure - mentre la folla ripete «Montalcini fa in fretta, c’è Biagi che ti aspetta» - il capo del braccio armato di casa Previti e casa dell’Utri scandisce: «Il Paese è stufo di illegalità, non toccate i sindaci padani se no mi muovo io...». Un po’ imbarazzante,d’accordo, se non ci fosse anche la minaccia fisica. Bossi sta di nuovo annunciando che dispone di squadre pronte a mobilitarsi. Verranno avanti dalla mucillagine, la metafora triste con cui De Rita e il Censis hanno descritto l’Italia di oggi. Certo l’Italia di Bossi.


* * *


Intanto al Senato, il capo lega padano Castelli si alza ogni cinque minuti per difendere con furore e passione l’ex comandante italiano della Guardia di Finanza, il generale Speciale, più noto per le sue vacanze in aereo di Stato che per le sue battaglie alla malavita. E mentre la vera Guardia di Finanza alacremente lavora (e con successo) a stanare evasori miliardari, Castelli e l’intero gruppo degli allegri senatori leghisti - che applaudivano in prima fila a Venezia, quando Bossi spiegava come usare la bandiera italiana nel cesso - si alzano come una squadrone di fedeli alla patria e alla tradizione nazionale, per elogiare, esaltare e invocare il generale disubbidiente. Certo non celebrano le tasse, che maledicono in ogni altro intervento, spiegando che Padoa Schioppa e Visco e le tasse hanno ridotto il Paese in rovina. Le loro invocazioni inneggianti a un ex generale della Repubblica italiana la cui unità essi tuttora contestano si deve al comprensibile furore per un mancato golpe. Nel cielo vuoto della cattiva politica i tratti di volgarità si riconoscono affini e si associano in un vincolo fondato sulla invettiva.

«Montalcini fa in fretta, c’è Biagi che ti aspetta». Come vedete la storia italiana di Natale non finisce bene, non per ora, non con questa gente, non in questo Natale. Ed è ancora più triste, in giorni come questi, che i difensori degli embrioni e della famiglia non abbiano sentito il bisogno di schierarsi subito dalla parte degli immigrati che stanno per essere deportati dai sindaci in sciarpa verde, se scoperti ad essere poveri.

Ed è triste che finora non abbiano avuto nulla da dire sulla infinita volgarità della folla (che forse, per fortuna, non era folla) di piazza del Duomo, a Milano. Non sto cercando il lieto fine che non c’è. Sto dicendo che se coloro che si stringono intorno al Papa si ritrovassero a anche intorno alla comune difesa di alcuni grandi valori umani, comincerebbe la costruzione del legame di cui abbiamo disperatamente bisogno.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 23.12.07
Modificato il: 23.12.07 alle ore 15.03   
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Titolo: Furio COLOMBO - La moratoria americana
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2007, 04:39:49 pm
La moratoria americana

Furio Colombo


C´è una guerra che continua in America, almeno secondo il presidente Bush che ha appena firmato un rifinanziamento per restare in Iraq contro il parere del suo Parlamento, e in attesa che un nuovo presidente trovi una via d´uscita.

Ma c´è una guerra che finisce in America, quella contro la pena di morte, con le sue centinaia di caduti. Giornali e televisioni, da un lato all´altro del Paese, da una parte politica all´altra, chiudono l´avventuroso 2007 con queste tre notizie.

La prima è che due importanti Stati americani, il New Jersey e il Minnesota, hanno abolito per legge le esecuzioni capitali. Fatti come questo sono un sintomo e un simbolo.

La seconda è che dovunque negli Usa, salvo che nel Texas, meno del 40 per cento degli americani è adesso in favore della pena di morte. È un crollo senza precedenti del sostegno di cui finora ha goduto la morte legale.

La terza è che la Corte Suprema - che pure è a forte maggioranza conservatrice - ha accettato di dibattere una questione essenziale delle esecuzioni capitali: se non siano troppo crudeli. La domanda può apparire strana e futile, ma è l´esito di un percorso abile scelto dagli avversari dei boia. Infatti la Costituzione americana vieta che una pena, qualsiasi pena, sia «inutilmente crudele». Coloro che si oppongono alla pena capitale negli Usa hanno deciso di dibattere non il principio ma la modalità: sia iniezione che sedia elettrica sono tormenti prolungati - e non istantanei come si crede - dunque di una evidente, inaccettabile crudeltà.

Scrive il New York Times del 26 dicembre: «Stiamo andando verso una vera e propria moratoria». Non credo che usi la parola a caso. La parola del resto si ascolta con frequenza in televisione con o senza riferimenti alla straordinaria iniziativa italiana (Partito Radicale più governo) e al successo di tale iniziativa all´Onu.

In ogni caso la moratoria americana sta avvenendo in modo più rapido del previsto: tutti gli Stati americani - tranne il Texas - hanno diminuito in pochi anni le esecuzioni in modo formale, dichiarando l´alt per legge, o di fatto, perché sempre meno condanne vengono eseguite. E sempre meno leader politici (nessuno questa volta fra i candidati democratici) si fa campione attivo della pena di morte perché i sondaggi lo avvertono che - misteriosamente - si è perduto il sostegno.

Qui vale la pena di ricordare un intervento pubblico del responsabile dei rapporti con l´Europa al Dipartimento di Stato, pubblicato in Italia il 23 dicembre. Il funzionario del Dipartimento di Stato John R. Smith, nella sua dichiarazione, sembrava irritato dal successo della moratoria proposta dal Partito Radicale in Italia, diventata impegno italiano, poi consenso europeo, poi voto delle Nazioni Unite. Stranamente Smith, evidentemente ignaro di quanto i giornali americani avrebbero pubblicato appena pochi giorni dopo, ha deciso di interpretare la moratoria della pena di morte come un gesto antiamericano. Eppure è vistosamente chiaro a tutti il contrario. I sostenitori degli Stati Uniti e della sua cultura non vogliono vedere quel Paese nella stessa lista dei peggiori e più assidui protagonisti della pena di morte nel mondo come il Pakistan, alcuni Paesi arabi e africani e la Cina. Ma il diplomatico americano diceva anche: «È una piccola irrilevante questione che forse mobilita l´Europa ma che non interessa gli americani». Spesso l´ideologia è cieca perché abbagliata dalle sue persuasioni. Sono bastati pochi giorni perché diventasse evidente l´errore di un presunto esperto.

* * *

L´America si occupa della pena di morte. L´America si interessa alla moratoria. L´America la sostiene e la vota in molti Stati. Il lugubre treno della pena di morte lentamente sta andando via.

Niente nel mondo globale avviene in un luogo solo. E forse - con tutti i suoi pericoli e le sue trappole - il mondo globale ci sta mostrando che una piccola luce accesa a Roma dalla ostinazione ormai più che decennale dei Radicali (che ha trovato fraterno sostegno nella Comunità di Sant´Egidio e poi nella politica di questo governo) ha finito per raggiungere il cuore della vita americana. In essa una lotta tenace e senza soste contro la pena di morte durava senza risultati e senza cedimenti da oltre tre decenni.

Chi osserva l´America - e chi la ama - sa che l´entusiasmo per la pena di morte si espande sempre nei periodi peggiori della storia di questo Paese. E che la presa del boia si allenta quando torna a prevalere il senso di responsabilità generosa che ha fatto degli Usa, da Roosevelt a Kennedy a Clinton non un modello imperiale ma un percorso per convivere con un po´ meno di diseguaglianze e di infelicità, e con un po´ più di rispetto. È il passaggio dall´uso del cosiddetto "hard power" che è in sé un impulso discrezionale e distruttivo, alla scelta del "soft power" fondato sulla tolleranza e la determinazione a convivere.

Ciò non vuol dire che il principio e la pratica della pena di morte siano legati alla guerra. Ma certo la guerra - come la pena di morte - è parte di una visione antica e rigida del mondo fondata sulla potenza dello Stato verso i suoi cittadini e sull´uso esterno (tra Stati) di quella potenza. E ciò non vuol dire che la rinuncia alla esecuzione capitale significa pacifismo. Il suo senso è meno automatico e più vasto. È il prevalere del dibattito giuridico sull´ultima parola del boia e del ritorno pieno della politica (opzioni, scelte, persuasioni, influenze) sull´irrimediabile colpo di maglio della guerra. In tutti e due i casi torna in scena una civiltà che preferisce, anche attraverso le lungaggini dei processi e i percorsi defatiganti delle trattative, mettere al sicuro la vita degli innocenti piuttosto che rischiarla, senza un secondo pensiero sul tavolo di decisioni che hanno l´aria di essere coraggiose e definitive ma lasciano il loro unico segno nella eliminazione delle vite umane.

È importante una constatazione: se lasciati liberi, se non incalzati da continue e pubbliche obiezioni, i sostenitori della pena di morte tendono a dare più pena di morte.

I commentatori americani della moratoria di fatto che sta avvenendo in questi mesi negli Stati Uniti hanno fatto notare la differenza di numeri di persone messe a morte in tutti gli Stati americani, a confronto con il Texas. Questo numero diminuisce di anno in anno, di mese in mese dovunque vi siano dubbi, incertezze e intensi dibattiti sulla pena capitale. E tende a salire o a restare alto e fermo (26 esecuzioni in Texas nell´ultimo anno) dove la pena di morte è ancora un mito intatto. Eppure quel mito è vistosamente sconnesso da cause e da effetti: infatti, se la pena di morte fosse efficace, il boia lavorerebbe sempre meno. In Texas lavora di più.

Le cifre sono queste: il Texas mette a morte il sessanta per cento di tutti i condannati americani. Ma adesso, mentre la moratoria americana (spinta perché negarlo dalla vittoria italiana alle Nazioni Unite?) si è messa in moto, il Texas e il numero dei suoi morti per esecuzione, appare come un monumento cupo e solitario in mezzo all´America. Quanti, per quanto tempo, vorranno essere guardie d´onore di quel monumento?

Il dibattito che ormai divampa in America e lambisce le due aree della persuasione politica, rivela un tratto umano e caratteriale interessante: i sostenitori della pena di morte tendono a rendere breve, rigido e impenetrabile il periodo fra la sentenza e l'esecuzione. In Texas i giudici rifiutano nuove prove, respingono automaticamente i dubbi attraverso meccanismi giuridici che condannano sempre i più poveri, privi di difesa, incapaci di opporsi. In ogni caso una tendenza è evidente: la sentenza di morte, per il solo fatto di essere finale, capitale, viene accettata e anzi esaltata come l´ultima parola. All´ultima parola si attribuisce qualcosa di sacro, e ogni interferenza con quell´ultima parola viene vista come futile e portatrice di disordine. Sentenza, esecuzione della sentenza e morte del condannato vengono percepite religiosamente come la conclusione, dunque la fine del male che lava il male, qualcosa di cui non si deve più parlare.

Quel che succede adesso è che un´America vigile e laica si sta staccando dal macabro fascino religioso della morte del condannato come legittima fine del dubbio. E comincia la moratoria, che nega alla radice le improvvisate dichiarazioni del funzionario Smith secondo cui essere contro la pena di morte vuol dire essere contro l´America.

***

Ma questo - esattamente come ciò che era accaduto quando l´opinione pubblica americana guidata da Bob Kennedy si era separata dalla guerra nel Vietnam - è anche un dibattito sull´uso della potenza come risposta definitiva.

Non c´è risposta finale e definitiva ai tormenti del mondo, compresi quelli che hanno coinvolto l´America con il terrorismo, gli attentati riusciti e quelli sventati. La risposta - proprio per chi è titolare della potenza - è in un esemplare percorso di conoscenza, diplomazia, valutazione e comprensione politica, volontà di capire e di essere capiti, ostinazione ad arginare il peggio e a diminuire il pericolo invece di rispondere portando altro pericolo.

È il modo ragionevole e civile in cui - invece dell´ultima parola - c´è la parola che continua, il legame fra umani che non si spezza perché, anche nelle condizioni più difficili, non si spezza l´umanità dell´uno e dell´altro, e non si decide di gettare in mezzo alla mischia gli innocenti. Il rischio inaccettabile di uccidere un innocente, il non diritto di eliminare un colpevole, i due principi che hanno messo in moto la moratoria radicale, poi quella italiana, poi quella europea e - adesso, come si vede - quella americana, sono principi che diventeranno la politica di un mondo globale, dove le parti sono capaci di guardarsi negli occhi? Diciamo che - se non è ancora la promessa di un nuovo mondo, è l´augurio e l´attesa del Nuovo Anno - diciamolo nonostante i tremendi delitti politici e quotidiani che continuano a irrompere sulla scena.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 30.12.07
Modificato il: 30.12.07 alle ore 10.23   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il vecchio e il nuovo
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 06:46:45 pm
Il vecchio e il nuovo

Furio Colombo


Iowa. Prima prova delle primarie democratiche americane. Ha vinto Barack Obama, giovane, senatore, nero, e vera sorpresa della vita pubblica americana. Attenzione. Sorpresa non è la sua vittoria, che almeno in questa prima prova non era affatto improbabile. Sorpresa non è che un giovane politico nero abbia vinto in uno Stato americano agricolo, conservatore e quasi senza neri. Sorpresa è che la gente dello Iowa, o almeno la minoranza che ha partecipato ai cosiddetti caucus, abbia scelto il più nuovo, il meno «politichese» dei partecipanti alla gara.

Poi bisognerà domandarsi come è avvenuto che un senatore celebre, corteggiato, citato, amato, molto «dentro» la vita politica washingtoniana, sia stato accolto come un «nuovo», come una alternativa capace di oscurare non solo la navigatissima Hillary Clinton ma anche il combattivo John Edwards, personaggio politico che ha scelto una posizione che l’Europa definirebbe «di sinistra».

Forse, per capire, ci aiuta uno sguardo all’esito delle primarie repubblicane, lo stesso giorno, nello stesso Stato. La prova, su quel versante, è più dura. I candidati non possono essere «per Bush» la cui impopolarità è abissale anche fra i conservatori. Ma non possono essere «contro Bush», o mostrare troppo distacco perché, con tutti i suoi errori, Bush è pur sempre modello indiscutibile di politica conservatrice. Che poi quella politica continui a dare esiti e risultati drammatici (la Borsa è nel panico, i fondi immobiliari hanno scosso la fiducia di buona parte degli elettori di destra, per la prima volta in molti anni la disoccupazione torna a salire) tutto ciò ha costretto i candidati repubblicani a tentar percorsi di colore o a esibire proprio gli aspetti di solito non adatti a diventare candidato preferito. Giuliani ha un passato di divorzi tempestosi e non privi di scandalo, con colorite narrazioni delle ex mogli.

Mitt Romney è di religione mormone, una setta cristiana di origine relativamente recente (poco più di un secolo) che permette (secondo alcuni predicatori) la poligamia.

L’anziano senatore John McCain ha avuto l’idea non proprio popolare di aumentare le truppe americane in Iraq e in Afghanistan. Ma il problema con cui si confronta e che lascia perplessi anche gli elettori teoricamente favorevoli, è un insuperabile ostacolo: non esiste più la coscrizione militare obbligatoria in America. Come aumentare da un giorno all’altro le dimensioni di una armata professionale basata sull’arruolamento volontario che oltre cinque anni di guerra, finora senza uscita, hanno di fatto bloccato, perché sempre meno giovani si arruolano in guerre lontane con motivazioni confuse e tuttora senza esito?

Resta il «nuovo» della destra americana, il reverendo Mike Huckabee, già predicatore battista, già gradevole cantante e suonatore di chitarra (temi strettamente religiosi) già governatore dell’Arkansas, lo stesso Stato di cui era stato governatore Bill Clinton. E infatti Huckabee ha vinto. A destra. Ha vinto perché, come Obama sulla sinistra, appare coerente, nuovo, estraneo allo establishment. E con l’aria di promettere qualcosa non ancora enunciato, ma che viene percepito come diverso.

Può essere utile notare le affinità fra i due vincitori. Entrambi hanno preso posizioni sorprendenti e tendenzialmente sgradite per la maggioranza dei loro elettori. Huckabee, che pure è un conservatore di destra, ha scelto di sostenere le cure e le medicine gratuite per i bambini americani, una decisione contro cui tutta la destra americana, e tutte le compagnie di assicurazione di quel Paese, si battono con accanimento e larghezza di mezzi.

Barack Obama, che pure rischiava di apparire ostile alla maggioranza nera dei soldati americani, ha votato contro la guerra e ha mantenuto quella posizione benché il rischio di apparire antipatriottico e «disfattista» anche agli occhi di molti elettori democratici era molto grande. Contro sondaggi favorevoli alla guerra fin quasi all’ottanta per cento, Barack Obama ha mantenuto la sua decisione antiguerra. Le vicende gli hanno dato ragione, le stesse vicende che adesso sono un imbarazzo da giustificare per Hillary Clinton e per John Edwards.

Dunque hanno vinto, a destra e a sinistra, le due figure più nitide, più chiaramente distinguibili nell’affollato orizzonte politico americano, quelle intorno a cui - prendere o lasciare - c’era (c’è) meno ambiguità e più chiarezza.

La domanda cruciale adesso è: che cosa conta, quanto conta questa vittoria?

Di certo rende più intensa l’attenzione su due figure che adesso appaiono sicuramente di primo piano. La vittoria dello Iowa però è molto più importante per Huckabee che per Barack Obama.

Huckabee viene dal freddo della scarsa notorietà e del colore locale e diventa di colpo personaggio nazionale. Nessuno dei suoi avversari appare una vera minaccia.

Giuliani è troppo newyorkese e troppo divorziato. McCain è troppo militare. Mitt Romney è religioso come Huckabee, ma viene da un angolo angusto e discusso della fede cristiana. Tutti restano in corsa ma Huckabee è certo in testa, al momento.

Obama è in testa ma con due prove dure ancora da superare. La prima è: i neri d’America fino a che punto lo sentono come il loro candidato, dal momento che il giovane senatore ha tanto successo con i bianchi, e soprattutto con l’establishment bianco? Se i neri gli si stringono intorno rischiano di farne un campione minoritario. Se restano a distanza potrebbe mancargli una parte cruciale di elettorato.

La seconda prova è Hillary Clinton. Battuta, ma fino a quando? E non avrà ottime occasioni di risalita proprio perché è un personaggio politico più eclettico e flessibile, più agile di fronte al mutare di umore dell’opinione pubblica, in un’epoca storica in cui tutto cambia continuamente?

Il confronto è appena iniziato. Le prossime primarie del New Hampshire, storicamente fonte di indicazioni preziose, ci diranno ciò che lo Iowa ancora non ci ha detto. Chi sta davvero cercando l’America come nuovo leader?

Una cosa è certa. È un Paese fortunato. Ha uno schieramento di candidati di sinistra e di destra che meritano attenzione. E nessuno di essi possiede metà delle televisioni del Paese. Altrimenti non potrebbe candidarsi.


Pubblicato il: 05.01.08
Modificato il: 05.01.08 alle ore 13.59   
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Titolo: Furio COLOMBO - La famiglia riposi in pace
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2008, 11:46:50 pm
La famiglia riposi in pace

Furio Colombo


Comincerò dal motore caldo che muove, in questi giorni, la Repubblica italiana e l’intero schieramento della sua politica. Ogni Paese, per ragioni mediatiche, per ragioni politiche, e in dialogo con la sua opinione pubblica, ha un motore caldo che per certi periodi fa girare notizie, impone attenzione, determina aggregazioni e contrapposizioni. In Usa sono le elezioni primarie per interpretare il futuro, il Francia è la fluviale conversazione su Sarkozy: così originale e macho, è molto meglio o molto peggio dei suoi compassati predecessori?

In Inghilterra è lo stallo fra due partiti rispettabili e stimati, laburisti e conservatori. Il dibattito è come distinguerli. In Germania la «conservatrice» Angela Merkel è così social democratica da costringere i socialdemocratici doc a spostarsi a sinistra. Insomma Paesi fortunati, dove la politica è un’attività seria, dove nessun miliardario estroso fonda un partito, lo lascia a una badante, e poi se ne va alle Bahamas.

In Italia è diverso. In Italia il miliardario, che indossa un girocollo tipo architetto geniale, e continua a ripetere, con lo stesso sorriso (che in omaggio alla festa dell’Epifania, qui non sarà descritto) le stesse cose sui comunisti che se ne devono andare perché solo lui è degno di governare, può benissimo godersi la vacanza. Infatti gli hanno appena consegnato e attivato un motorino che ronza in ogni angolo della Repubblica e rende i migliori cervelli occupati e preoccupati. L’hanno chiamato «la moratoria dell’aborto». E passi per il plagio al successo dei Radicali italiani e del Governo per il voto ottenuto all’Onu: sì alla moratoria mondiale della pena di morte.

Quello che interessa e che intriga è il senso e la ragione stessa di esistere del marchingegno. Persino il Papa - certo il Cardinale Ruini - ha certo pensato che si trattasse di una nobile discesa in campo di certi laici, un tempo spericolati, in difesa del divieto assoluto e perenne dell’aborto. Invece no. L’aborto è un imballaggio, destinato se mai a inquinare il paesaggio come gli imballaggi che assediano la periferia di Napoli.

Dentro l’imballaggio, di cui tutti discutono con vampate di cultura teologica che passa trasversalmente da un versante politico all’altro e converte ex fascisti della prima ora e marxisti ante-marcia (prima cioè del ’68), c’è una geniale macchinetta.

Appena liberata dal venerabile involucro, ha un solo scopo, che è insieme missione politica e scherzo goliardico: spacca il Partito democratico. Il marchingegno funziona così, per chi casca nel gioco, un po’ ignobile ma pensato con estro tanto malevolo quanto geniale: divarica le sponde (quella vagamente laica e quella vagamente religiosa) del Partito democratico, accende improvvisi intransigenti furori, che, come scintille di un incendio estivo, si propagano in modo quasi istantaneo a ogni altro punto dello schieramento politico. Le azioni si fanno concitate, i linguaggi sgradevoli, le minacce dilagano dalla intimidazione a non restare nello stesso partito fino alle ipotesi di tradimento, ma anche all’accusa di ateismo come cancro della politica, alla minaccia dell’inferno come destinazione naturale dei miscredenti. Si intravede la fine, che è proprio quella voluta dalla macchinetta avvelenata: il peccato mortale. Piuttosto che stare insieme con gli atei con inclinazioni assassine, è meglio tradire e “votare con loro”.

“Loro” sono i devoti e cristianissimi sospetti di mafia, condannati per corruzione di giudici, eletti e rieletti nonostante imputazioni e condanne, una allegra banda di male accasati che vivono con altre mogli, generano affettuosamente e altrove altri figli, raccomandano alla televisione di Stato ragazze del mercato privato, dopo avere verificato di persona il prodotto alla Farnesina, quando erano accampati in quel Ministero.

E qui diventa chiaro un fatto insolito a cui non si era pensato. Non è Il Foglio, docile e sottomesso credente, che segue il Papa. È il Papa - o almeno i suoi cardinali prestati alla politica - che segue Il Foglio. Riconoscono la genialità del marchingegno, la trappola del tradimento annunciato, che non è cattiva volontà di questo o quel senatore (senatrice) credente. È una sorta di obbligo prefigurato che al momento giusto - quando c’è, mettiamo, un solo senatore dell’Unione in più in Aula - fa scattare fuori dalla scatola il dio di cartone del premiato giornale.

Infatti Dio non c’entra niente e non ha mai detto né dice tutte le sere, in tutti i telegiornali, qualunque sia la notizia, che Prodi deve andare a casa.

Questa che stiamo discutendo, anche se in apparenza riguarda - ci dicono - le vite innocenti dei nascituri, in realtà è niente altro che la voce e la volontà di Berlusconi travestita da voce e volontà di Dio. Non l’aborto, intendiamoci, che è un indecente pretesto. Non l’angoscia e il dilemma delle madri e il severo e immutabile ammonimento della Chiesa. Qui si gioca una sola vita, quella di un secondo governo Berlusconi, che speriamo non nasca mai (ricordate? Crescita zero!). È anzi la miglior ragione per restare abortisti.

Su tutto il resto l’importante discorso è grande, civile, aperto e - come dice Marco Cappato a nome dei Radicali - non ci sono totem e non ci sono tabù (salvo il rispetto - questo sì, non negoziabile, del diritto delle donne a decidere sul proprio corpo).

Ma sulla gestazione di un Berlusconi bis che potrebbe tornare a mettere fuori la testa, con la maglietta girocollo e il sorriso-vendita, la risposta, sia teologica che pratica, non può che essere no.


* * *


«Noi vogliam Dio» dice un inno cristiano che è un atto di fede. Ma possibile che Dio voglia Berlusconi? Infatti un conto è permettere, per ragioni imperscrutabili, cose tremende nell’altra vita. Un conto è organizzarci per volerle adesso, in Italia, a breve scadenza. E qui bisogna dire che la crociata del finto aborto, del tradimento indotto nei credenti, e del vero esito programmato, che è la liquidazione di Prodi, una crociata farsesca che sta già mobilitando nobili discussioni, fieri scontri e - finora - solo poche denunce per la incredibile messa in scena, difficilmente proponibile in Paesi meglio serviti da stampa e Tv indipendenti, bisogna dire che questa crociata non è isolata.

Il Papa sarà anche - come è lecito pensare - un lettore ammirato del Foglio (ammirato, se non altro, dal cubo di Rubik che, su questo argomento Il Foglio ha inventato). Ma di suo fa davvero - e con grande autorità - tutto il possibile per spaccare il neonato Partito democratico e per indurre le sue componenti altrettanto nobili ma profondamente diverse, a scontrarsi e - se Dio vorrà - a dissociarsi.

Come lo fa? Ma, per esempio, con l’affermazione molto celebrata ma certamente stravagante secondo cui «negare la famiglia minaccia la pace» (titolo del Corriere della Sera, 2 gennaio). Un bel colpo in più alle coppie di fatto descritte come una minaccia di guerra.

Vero, i titoli estremizzano. Le frasi esatte sono «la famiglia naturale fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna è culla della vita e dell’amore, e insostituibile educatrice alla pace».

È evidente che questa prima frase, che viene interpretata come un precetto e un comandamento, sia niente di più di un benevolo augurio per la istituzione famiglia che - insegna la vita, ma anche le statistiche, ma anche i commissariati di polizia, ma anche i tribunali, ma anche le cronache - è la più ambigua delle istituzioni umane nel senso che - come anche la letteratura dimostra - è il migliore e il peggiore contesto sociale che si conosca. Si presta alla esortazione, alla protezione, a un intenso lavoro per allargare il meglio e ridurre il peggio.

Non si presta a servire da modello assoluto. Nessun riscontro fattuale, statistico, sociologico ci dice che lo è. Al contrario, molto di ciò che sappiamo della famiglia è una collezione di promesse, speranze, pericoli, fallimenti e tragedie. La stessa definizione di famiglia offerta come unica dal Papa è in sospeso nei secoli fra donne schiave, condannate a lungo, anche nei Paesi cristiani, per colpe da cui gli uomini sono sempre stati esenti, e donne partner che co-decidono delle scelte di casa e dei figli; fra donne fattrici di figli quasi fino alla morte e donne apprezzate (ma poco, ma tardi) per le loro qualità di persone.

Ma c’è una seconda frase che è certamente ispirata a buoni sentimenti ed è certamente non vera: «Lo stesso amore che costruisce e tiene unita la famiglia, cellula viva della società, favorisce l’instaurarsi fra i popoli della terra di quei rapporti di solidarietà e di collaborazione che si addicono a membri della unica famiglia umana». Eppure Ratzinger dovrebbe aver presente la storia esemplare della famiglia Goebbels, una famiglia molto legata e affiatata in cui il padre e la madre hanno ucciso i loro quattro bambini col cianuro «perché non cadessero in mani comuniste». E sono state una infinita catena di buone e amorevoli famiglie cristiane a rendere possibile l’individuazione, l’isolamento, l’arresto, la deportazione, lo sterminio di una infinita catena di buone e amorevoli famiglie ebree, senza alcuna esclusione per i bambini.

Chi indebolisce la famiglia, questa grande e ambigua istituzione umana? Lo dice di nuovo il Papa: i colpevoli sono coloro che hanno in mente strane e peccaminose aggregazioni alternative, come due che si amano e non si sposano o (Dio ce ne scampi e liberi) due che si amano e sono dello stesso sesso. Ecco, ci dice il Papa, i nemici della pace. E’ una affermazione senza alcun fondamento perché non si sa di quale pace Benedetto XVI stia parlando. Non ha mai visto il Papa in quel telegiornale della sera che, ci dicono i quotidiani il Pontefice non perde mai, la tragica fierezza della madre del kamikaze (che a volte è un bambino) quando avvengono i lugubri festeggiamenti dopo “il martirio”?

È vero che la famiglia umana può essere «comunità di pace», vorremmo dire al Papa con tutto il rispetto del mondo, dopo avere ricordato terribili fatti veri del passato e dei nostri giorni. Ma è vero di qualunque famiglia umana in cui c’è amore, rispetto, lealtà e legame profondo. È il mondo in cui i sofferenti come Piergiorgio Welby non vengono lasciati morire di dolore e poi abbandonati fuori dalla chiesa senza una parola di conforto e di solidarietà per la famiglia.

Forse è il caso di ricordare che ci sono famiglie esemplari e famiglie di mafia, famiglie che danno la caccia agli zingari e famiglie che li accolgono. E famiglie che accettano e amano e sostengono i loro figli omosessuali e le loro unioni, famiglie fatte, allo stesso modo, di amore e di pace.

Come sarebbe bello, anche per un non credente, sentirsi dire che la pace non si fonda sulla apartheid dei veri credenti, e che l’amore non è l’esclusiva di certe persone e di certe famiglie e di certe unioni, però non di altre, che invece devono essere considerate pericolose perché nemiche della pace. Riesce difficile anche a un non credente (per ragioni di carriera ormai ce ne sono pochissimi) immaginare un Dio stizzoso che caccia dalla sua porta chi non corrisponde nei dettagli all’identikit che viene fornito ogni giorno, come regola di comportamento politico, al governo italiano dalla presente Chiesa di Roma e dal quotidiano Il Foglio.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 06.01.08
Modificato il: 06.01.08 alle ore 15.07   
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Titolo: Furio COLOMBO - Pd, per un codice morale
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2008, 12:26:16 am
Pd, per un codice morale

Furio Colombo


Mi confronto con la diffusa definizione di «temi eticamente sensibili». Ci dicono che sono questioni e argomenti che una parte di noi, nel Pd, dichiara non negoziabile neppure da mettere in discussione, per ragioni superiori ed estranee alla politica. Oppure, lasciando uno spiraglio di speranza, dichiara risolvibili con una «sintesi». Ma, poiché si tratta di atti e fatti che devono essere previsti o vietati in modo chiaro e inequivocabile dalle leggi della Repubblica, la «sintesi» non facilita ma blocca ogni decisione fra le due scelte giuridiche del permettere e del vietare. Confonde il dibattito di persuasioni e di idee, sempre nobile, civile, e utile, con i doveri dell’impegno di fare le leggi, dove invece una decisione esclude l’altra.

Per questa ragione mi sento di dire che ogni aspetto della vita pubblica (di questa ci stiamo occupando) in cui ci si assume la responsabilità di cambiare la vita degli altri è tema eticamente sensibile. E che non è di alcun aiuto tracciare una linea che separa alcuni argomenti intoccabili da tutti gli altri impegni di libertà e responsabilità. Come non è di aiuto immaginare un’area laica indicata come limitata, e minore, rispetto a visioni più autorevoli.

Ciò porta a una deformazione della vita politica e a una mutilazione dei doveri decisionali che sono tipici di tale attività. Per queste ragioni ho scritto e inviato al comitato etico del Pd, di cui faccio parte, il contributo che segue.



1 - Il Partito democratico è laico. Laico è sinonimo di democratico. Nessuno può imporre o sovrapporre precetti, comandamenti o istruzioni sul fare o applicare le leggi fuori dal processo democratico.

2 - Il rispetto per la religione, i suoi valori, precetti e indicazioni si manifesta prima di tutto attraverso il rifiuto di mischiarla, confonderla o sovrapporla alla politica, al processo di dibattito e di confronto, alle forme democratiche di decisione.

3 - Ogni gara a mostrare fedeltà e ubbidienza alle gerarchie religiose come modo di acquisire approvazione e legittimazione è estraneo alla vita politica, organizzativa, operativa del partito democratico che ha come riferimento le istituzioni della Repubblica, le cariche elette, le strutture parlamentari e l’organizzazione di partito.

Proprio come ha detto il primo ministro socialista spagnolo Zapatero ai vescovi Rouco-Varela e Garcia-Gasco che, nel “giorno della famiglia” dei Cattolici spagnoli lo avevano accusato di «violazione della democrazia e dei diritti civili» a causa delle due leggi sui matrimoni gay e sui divorzi rapidi.

4 - Ogni proposta, dibattito, incontro di lavoro, discussione, decisione del Partito democratico, ad ogni livello della sua struttura esecutiva, saranno noti, annunciati e trasparenti, e saranno sempre portati a conoscenza degli elettori e di tutta l’opinione pubblica orientata verso il Pd, attraverso l’annuncio e, alla fine, il resoconto dell’evento, attraverso la pubblicazione in rete e in ogni altra forma disponibile di comunicazione. Per la prima volta nella vita italiana i cittadini interessati al lavoro del Partito democratico potranno partecipare, rispondere, interferire.

Trasparenza è moralità.

5 - Interessi, ragioni e pressioni di ogni tipo, anche se legittimi, rischiano di deviare il percorso decisionale di un partito o di deformarne l’immagine. Ciò avviene soprattutto nelle questioni che hanno a che fare con l’economia, la produzione di ricchezza e la protezione della ricchezza acquisita. Per difendersi da spinte squilibranti e da risposte discontinue, il Pd si doterà di carte programmatiche che indicano preventivamente i suoi punti di sostegno, equilibrio, garanzia e le sue regole di condotta, in modo da evitare clientele, imposizioni padronali e atteggiamenti di pretesa o ricatto basati sullo scambio.

Chiarezza è moralità.

6 - Il lavoro in tutte le sue forme e livelli, è il punto di riferimento fondamentale del Pd, che riconosce nella buona organizzazione, nell’adeguata formazione, nell’equa retribuzione, nel sistema di premi e garanzie, nella fine della precarietà, nella ricostituzione di un legame saldo tra lavoro e cittadinanza, in moderni e adeguati ammortizzatori sociali, i tratti di civiltà a cui il Pd vuole contribuire e alla cui costruzione partecipa.

La difesa del lavoro è moralità.

7 - I cittadini hanno il diritto di essere informati. Il Pd si impegna nella difesa di questo diritto che vuol dire libertà dalla manipolazione, dalla omissione deliberata, dalle censure di tutti i tipi, dalle propagande travestite da notizie persino se a proprio favore. Il rigore nel proteggere e garantire la disponibilità continua e immediata di notizie verificate - unica barriera contro le due pratiche corrotte del pettegolezzo giornalisticamente diffuso e dei fatui talk show che si trasformano in servizi alla persona dei partecipanti e sono fabbrica di esasperata antipolitica - deve diventare rigoroso e austero impegno quotidiano del Pd che mette i cittadini informati, e non gli esibizionisti della telecamera, al primo posto del diritto all’informazione. E restituisce ai giornalisti seri e professionali il dovere di ordinare e spiegare le notizie.

L’informazione piena, sobria e corretta è moralità.

8 - L’Italia esce da un periodo violentemente conflittuale di vari centri di potere, compresi centri istituzionali, e l’intero sistema giudiziario del Paese. Imputati di alto livello economico e politico hanno cercato di screditare e di rifiutare giudici e giudizio e, quando necessario per risolvere casi personali, hanno cambiato le leggi accorciando i temini di prescrizione, cancellando reati gravi come il falso in bilancio, autoesentandosi dal giudizio, persino quando la legge “ad personam” mentre risolveva il problema per uno provocava disastrosi esiti per la giustizia in numerosi altri casi.

Il Pd è il nuovo partito testimone di un’epoca di limpida e rigorosa separazione dei poteri in cui non è consentito alcun attacco, screditamento o tentativo di inceppare la giustizia. Vige la Costituzione, la giurisdizione del giudice naturale, le leggi, comprese quelle che dovranno essere ripristinate.

Rispetto delle istituzioni e piena autonomia della giustizia sono moralità.

9 - La scuola è il punto più alto e ambizioso nel progetto di un’epoca nuova per un grande Paese democratico. Scuola come luogo e incontro gentile e civile di diversità; scuola come curriculum di apprendimento; scuola come rapporto solidale fra generazioni e passaggio di consegne culturale; scuola come luogo e ambiente formativo in cui nasce il cittadino e si forma la persona capace di invenzione e di innovazione.

Anche con limitate risorse in ogni altro settore, niente può - nella concezione etica del Pd - essere risparmiato per la scuola, perché la buona scuola produce risorse più di ogni altra attività umana. E perché assolve al compito di grande valore morale di liberare ogni cittadino dal peso e dalla catena di ciò che non sa e non potrà sapere.

La buona scuola, impegno preminente del Pd, è moralità.

10 - Il diritto alla salute viene visto spesso come reclamo. Il Pd pensa che proteggere l’integrità fisica dei cittadini incarni i principali valori e diritti sanciti dalla Costituzione. La crescita sicura dei bambini, la protezione delle donne specie nel ciclo della maternità e della libera scelta, la prevenzione medica per tutti come politica, la garanzia di salvare sempre gli anziani dalla solitudine e dall’abbandono, il diritto al testamento biologico come riconoscimento della libertà e dignità della persona, tutto ciò è l’irrinunciabile patrimonio morale di cui il Pd intende, con il voto e con il sostegno degli elettori, dotare l’Italia.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 13.01.08
Modificato il: 13.01.08 alle ore 15.23   
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Titolo: Furio COLOMBO - Danielle Gardner, l’amica americana
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2008, 11:05:00 pm
Danielle Gardner, l’amica americana

Furio Colombo


Richard Gardner il professore intelligente e colto, umano e arguto, che è stato ambasciatore americano a Roma, ha portato legami amichevoli e aperto strade, diceva sempre che sua moglie Danielle era la sua co-ambasciatrice.

Era una affermazione non tradizionalmente diplomatica, ma giusta. All’indimenticato lavoro di ambasciatore americano in Italia (un periodo terribile nel pieno degli anni di piombo) Gardner ha potuto aggiungere uno di più raro: la vitalità impetuosa eppure rigorosamente corretta della «co-ambasciatrice» Danielle che gli ha conquistato la simpatia calorosa di mezza Italia e il rispetto attento degli altri.

Danielle, apparentemente frivola, esuberante, e in realtà molto saggia (quattro anni di vita e di lavoro a Roma senza ingerenze e senza interferenze, rapporti sempre in chiaro, un periodo di correttezza esemplare), una signora italiana di grande famiglia ebrea veneziana, è morta ieri mentre era, insieme al marito, al centro di una piccola festa per loro e intorno a loro, a New York.

Non è solo affetto e amicizia che mi induce a ricordarla oggi su questo giornale. Verso i Gardner - e dunque non solo Richard ma anche verso Danielle - c’è un debito di gratitudine e amicizia di molti italiani che vorrei condividere. E un debito personale che vorrei ricordare.

Gli anni dei due Gardner sono stati anni di lavoro instancabile nel tessere nuovi rapporti, nuove amicizie, nuovi legami e anche nuovi contatti e nuovi ascolti, che prima non c’erano mai stati. Sono stati gli anni di una politica aperta e liberal nella concessione dei visti, anni di incontri senza precedenti, anni di visite e di scambi negli Stati Uniti, che hanno immensamente migliorato i rapporti veri - non solo quelli di forma e di cerimonia - tra la complicata, conflittuale Italia e la grande potenza americana. Sono gli anni delle visite americane al Council of Foreign Relations di Giorgio Napolitano.

Napolitano era il solo parlamentare italiano (e l’unico del Pci) ad avere rapporti e scambi con il mondo accademico americano. L’Ambasciatore Gardner ha unito due percorsi separati, quello accademico e quello diplomatico, e aperto passaggi di rispetto, attenzione, capacità di capire e comunicazione a due vie che prima non c’era. Ma qui va collocata la presenza geniale e intelligente di Danielle, italiana che non intriga in Italia ma aiuta a capire, non chiude porte ma le apre. E benché abbia tanti amici personali, decide di essere amica di un Paese, non di un gruppo scelto. E non ha mai confuso la vita sociale con la vita politica.

Una volta, in casa mia a New York, Giancarlo Pajetta, che era venuto con la delegazione italiana alle Nazioni Unite, era intento a spiegare a Richard Gardner, che non aveva riconosciuto, il suo giudizio sull’Ambasciatore americano a Roma e i suoi “errori”. Danielle, cauta, divertita, traduceva Pajetta per il marito con attenzione e precisione, badando come sempre a non interferire. È toccato a Gardner rivelare: «Sono io l’Ambasciatore. Mi dica dove sbaglio». E ne è nato un lungo rapporto rispettoso e cordiale.

Ma il debito personale è anche più grande. Devo a Dick e Danielle l’avere conosciuto e viaggiato, negli Usa e nel mondo, con Jimmy Carter, prima candidato e poi presidente.

Devo a loro l’incontro con un giovane senatore ignoto, Al Gore, che entrambi hanno indicato e presentato, con più di un decennio di anticipo, come il futuro presidente degli Stati Uniti. È una scommessa riuscita, visto che Gore è stato vice presidente degli Stati Uniti, ha di fatto vinto contro George W. Bush (la decisione a favore di Bush è stata della Corte Suprema, non degli elettori) ed è poi diventato Premio Nobel per la pace.

Se Danielle a Roma ha cambiato, accanto al marito ambasciatore, i rapporti veri e profondi fra i due Paesi, Danielle a New York è stata l’indimenticabile padrona di una casa in cui per decenni si è incontrato il talento e l’intelligenza del Partito Democratico e della cultura democratica americana.

Per questo il ricordo affettuoso è molto di più di un ricordo. È gratitudine e ringraziamento.

Pubblicato il: 17.01.08
Modificato il: 17.01.08 alle ore 8.24   
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Titolo: Furio COLOMBO - L’odore del diavolo
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2008, 12:09:06 am
L’odore del diavolo

Furio Colombo


Vedo un problema per i giornalisti che verranno dopo (alla fine un dopo ci sarà) e dovranno spiegare l’applauso che ha coperto la voce di Clemente Mastella mentre - alla Camera dei Deputati - ha lanciato la sua invettiva contro i giudici. Certo, in quella voce di un uomo che stava dimettendosi da ministro della Giustizia, era umano che vi fosse tensione, rabbia, indignazione, furore. Ciascuno ha diritto di sentirsi innocente e ingiustamente perseguitato, offeso se la famiglia è coinvolta, aggressivo nell’impeto di difendersi. E tutti noi siamo vincolati alla presunzione di innocenza.

Un dignitoso, riservato silenzio sarebbe stato il naturale comportamento di un’istituzione che rappresenta tutto il Paese che l’ha votata. Invece un applauso concitato, tonante, assolutamente compatto ha fatto irruzione come accade solo durante i concerti, quando un solista o un direttore d’orchestra hanno superato le soglie della bravura, e non resta che lo slancio dell’emozione per gridare «Bravo!». Vorrei esserci - in quel dopo che verrà - per capire come quella sequenza incredibile - tutta la Camera dei Deputati che porta in trionfo una persona pur sempre indagata - sarà spiegata in qualche programma tipo La storia siamo noi a cura del nipote di Minoli.

Forse dovranno invitare qualche storico che adesso è alle elementari, sempre che l’Italia, in quel futuro che non vedo vicino, sarà tornato un Paese normale. Altrimenti si continuerà a mentire. Altrimenti si creerà una particolare cerimonia religiosa nella vecchia redazione del Foglio, diventata nel frattempo una chiesa, per celebrare l’anniversario della cacciata del Papa dall’Università La Sapienza. Ci saranno immagini, ripetute all’infinito, dei giovani con la bocca bendata. E sarà spiegabile - perché la storia spesso è alterata - come mai si è potuto dire che un illustre personaggio che rifiuta un invito è un personaggio «cacciato», «censurato», «costretto a tacere», lui che ha parlato, parla e parlerà più di ogni “celebrity” al mondo (a confronto il presidente degli Stati Uniti vive in clausura).

Enessuno ricorderà un curioso dettaglio andato completamente perduto già oggi, figuriamoci nella storia. «Censura» sarebbe stato svilire e cacciare i professori e gli studenti che si sono opposti al Papa- docente. Certo, su di loro è calato il maglio del disprezzo, il vero disprezzo, da parte di tutti, come se invece di esprimere dissenso in un ateneo avessero bestemmiato in chiesa. Infatti il direttore di Radio Maria ha potuto dire pubblicamente - e senza provocare veglie - che «intorno a loro si sente certo l’odore del diavolo».

Poi la rinuncia del Papa a fare lezione è stata rovesciata in «proibizione di parlare», come se la sola condizione per parlare fosse il tripudio universale e preventivo e l’assoluta certezza che chi dissente taccia per sempre. Mi domando se in quel futuro lontano in cui l’Italia tornerà capace di una rappresentazione libera e critica di se stessa, qualcuno avrà conservato la registrazione di una serata di Porta a Porta che pure sarebbe molto importante per gli storici che verranno, per metterli in grado di domandarsi: «come è stato possibile?», e forse per guidare bus di studenti verso ciò che resta dello studio di Bruno Vespa, fra i ruderi di Saxa Rubra. Un esperto - se ci sarà - di questi giorni incomprensibili, potrà indicare: lì sedeva quella sera Marco Pannella, che è stato trattato come un malato di mente dai sostenitori del Papa (tutti i presenti compreso un attivissimo conduttore che incalzava e accusava, e la sola attonita eccezione dei professori atei Odifreddi e Cini, identificabili per l’odore del diavolo) mentre documentava le enormi percentuali di tempo riservate al Papa in tutti i media, circa un terzo delle notizie dal mondo trasmesse agli italiani. È stato a quel punto - ricorderanno gli storici - che un alto prelato del tempo, presumibilmente cappellano della televisione pubblica (o guida spirituale del celebre talk show di quei tempi bui) ha potuto ammonire Pannella, che forse era considerato un reietto e un disturbatore abituale dell’universale consenso: «Noi non abbiamo bisogno di digiunare per ottenere spazio in televisione».

Col tempo si capirà che la frase aveva un significato chiaro, anche se un po’ sarcastico. Significava: «Non si agiti, Pannella, tanto noi, con la scorta armata e agguerrita dei credenti di carriera, facciamo quello che vogliamo per tutto il tempo che vogliamo».

Invece, sul momento, e in quello studio, è stata accolta come un mite ammonimento pastorale. E la regia si è sempre preoccupata di mandare in onda, oltre alle dure sgridate ai laici di un conduttore evidentemente toccato nel vivo dei suoi sentimenti religiosi, il sorriso di compatimento che l’on. sen. prof. Buttiglione dedicava al folle Pannella (mentre leggeva i dati incontrovertibili del tempo sterminato dedicato dalla televisione di Stato al Papa) al suo sguardo di difesa e diffidenza verso i luciferini docenti del male Odifreddi e Cini che stavano profanando lo studio tv, a quel tempo una sorta di cappella consacrata alle sole verità consentite.

Ma grande sarà, in quel futuro fortunato e lontano, anche la difficoltà di commentare e spiegare il tripudio di una immensa folla accorsa in piazza San Pietro domenica 20 gennaio per dare tutto il sostegno al Papa e ascoltarlo finalmente e liberamente parlare esattamente come accade a grandi folle bus trasportate ogni domenica, ogni mercoledì e in ogni altro santo giorno infrasettimanale, più tutti i telegiornali che Dio ci manda.


***


Ma questo è il sogno di un futuro che non è neppure in vista. Stretti fra il sostegno al Papa, che pure dice quando vuole quello che vuole interferendo nella libertà, nelle decisioni e nelle leggi della nostra vita come nessuno, da quando esiste la democrazia e la separazione tra Stato e Chiesa ha mai potuto fare; e la solidarietà a Mastella di cui aspettavamo al Senato la legge che avrebbe vietato ai giornalisti di pubblicare notizie certe, legali, documentate, con l’indicazione della fonte (la celebre legge anti intercettazioni), ci sentiamo un po’ soli, come credo tocchi a coloro che non riescono a dare una ricostruzione logica ai fatti che ci travolgono.

Sono certo che i lettori mi perdoneranno se - in questo presente disorientamento - parlerò d’altro, cercando di dimostrare che questo parlar d’altro ha un suo senso che ci riguarda.

Un film mi ha aiutato ad attraversare, con pensieri, ricordi e riflessioni utili, questi giorni di significati rovesciati, immagini capovolte e fatti noti a tutti però negati. È il film La Signorina Effe di Wilma Labate. Dirò perché. Perché è molto raro che un film rivolto al passato sia a suo modo profetico; perché individua il vero confine fra un prima e un dopo che ha cambiato la storia; perché sembra che riguardi Torino e la Fiat e invece racconta e spiega il mondo, dalla fine del posto di lavoro fisso al crollo dei mutui detti “future" e "subprime"; perché la traccia sentimentale che sembra sovrapporsi a quella sindacale e politica individua in realtà istintivi percorsi di salvezza verso un piccolo "noi" privato mentre finisce qui un "noi" grande come il mondo, la vita degli altri, gli ideali per cui impegnarsi insieme.

Io non so quanto sia consapevole la bravissima Wilma Labate di avere fatto il ritratto di un’epoca, di un grandioso e cupo momento di transizione nel mondo che va molto al di là di una storia d’amore ai cancelli di Mirafiori a Torino.

Quello che accade è che la vicenda collettiva (che riguarda tutti a Torino, tutti a Detroit, tutti a Tokyo, tutti in Svezia, tutti in Inghilterra, persino tutti in India) è l’impetuosa corsa di un fiume che trascina via non solo ogni ostacolo sindacale ma anche le vite private di coloro che nel film sono i protagonisti e nella vita sono coloro che ciascuno di noi ha conosciuto sui posti di lavoro. Il volto della ragazza intelligente e in cerca di una sua vita, contesa fra un ingegnere e un operaio, che in apparenza racconta la storia principale del film, in realtà galleggia fra i detriti dell’inondazione che spazza via ogni argine. Spazza via l’ingegnere, l’operaio, gli operai, i quadri, buona parte dei manager, tutti coloro che credevano di sostenere il nuovo mondo spregiudicato e moderno o quello di prima, oscillante fra il buon lavoro e il sogno di una vita più piena, libera e personale.

Nel film di Wilma Labate - sequenza dopo sequenza di vicende che sembrano solo la storia di qualcuno - va via il lavoro, le sue garanzie, la sua dignità, la sua certezza, gli equilibri faticosamente trovati fra chi investe danaro nell’impresa e chi affitta la vita all’impresa chiamata lavoro. I giocatori-lavoratori hanno creduto di rilanciare ma sono stati prontamente avvertiti che era finita un’epoca, compresi gli impegni presi, le parole date, e le varie immaginazioni e attese per il futuro.

Ciò che accade è insieme privato ed enorme. Trovo strana, e nello stesso tempo esemplare, la coincidenza che ho dovuto notare tra il film appena visto la sera del 16 gennaio, e un articolo che occupava quasi tutta la pagina 6 dell’International Herald Tribune del 17 febbraio dal titolo «Un modo di vivere scompare mentre scompaiono gli operai del Mid West». Mid West vuol dire Chicago, Detroit, Ohio, vaste pianure costellate di fabbriche. Quelle fabbriche chiudono perché il lavoro ormai si fa altrove. L’articolo si conclude con la frase del capo squadra Jeffrey Evans, 49 anni, appena “messo in libertà”: «ho ceduto la mia casa, buttato le chiavi al nuovo proprietario. Ho guidato fino a casa di mia madre, mi sono ubriacato e sono andato a dormire». Questa è solo una di una ventina di storie esemplari, uomini e donne che hanno lavorato bene, lasciati all’improvviso senza lavoro, più giovani e più anziani di Jeffrey Evans. E non sai se tra loro c’è una Signorinaeffe, un operaio e un ingegnere che l’avrebbero voluta e lei che cerca da sola il suo destino. E non sai neppure se sia una fortuna o una disgrazia che il loro lavoro fisso e relativamente ben pagato (14 dollari all’ora) sia durato più a lungo di quello della Signorinaeffe e dei suoi compagni.

Di certo, per tutti coloro che chiamavamo “i lavoratori” è passata l’onda lunga della svalutazione e della irrilevanza. Ti devi domandare come sarà il futuro senza operai o con operai messi continuamente in concorrenza con rumeni e cinesi in una corsa sfrenata verso il lavoro a costo zero. Di certo, sia nel film di Wilma Labate che nelle praterie americane, non trovi leader politici. Nel film italiano, certo, ci sono repertori filmati di un passato (i picchetti con Berlinguer ai cancelli di Mirafiori) la cui fine è stata formalmente certificata. Nell’articolo - che pure è scritto mentre l’America è in piena campagna elettorale - non c’è alcun riferimento politico o sindacale, neppure come rimpianto.

Non sappiamo per chi pensi di votare Jeffrey Evans. Sull’orlo di un evento che cambia il mondo di tutti e certo ha cambiato il suo, lui ci dice che, a 49 anni, è tornato dalla madre, si è ubriacato ed è andato a dormire.

È la stessa intuizione - un po’ sociologica e un po’ poetica - delle ultime scene del film italiano. Solitudine. In quella solitudine non c’è la politica. La politica non dice, non vede, non guida, non sente, non dà un senso al caotico precipitare di eventi. Forse, da noi in Italia, siamo talmente schiacciati tra il Papa e Mastella che il lavoro diventa solo una questione di contratti che non si rinnovano e le morti sul lavoro sono il destino.

Come la spazzatura, riguardano solo coloro che sono coinvolti nella sequenza sgradevole. Resta il vuoto. Resta la solitudine. Restano le notizie inventate o insensate che ci riversano addosso ogni giorno per tenerci occupati. Non è una buona vita. E non è una buona politica. Mi servono, per spiegare quello che ho cercato di dire, due frasi che l’ex senatore Goffredo Bettini ha detto alla Repubblica il 19 gennaio: «Siamo di fronte a un Paese diviso, incarognito, avvelenato. Allora o il Pd ribalta questa situazione o non ha senso che esista. O ridà speranza all’Italia o fallirà nella sua missione».

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 20.01.08
Modificato il: 20.01.08 alle ore 15.50   
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Titolo: Furio COLOMBO - Per futili motivi
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2008, 04:58:07 pm
Per futili motivi

Furio Colombo


Prodi esce dall’Aula con la dignità con cui era entrato mentre un’opposizione volgare e fascistoide esulta come alla fine di una brutta partita. Ma vediamo la storia della giornata dall’inizio.

Alle tre del pomeriggio una folla disorientata attende intorno al Senato di sapere il destino di Prodi. Uno mi dice, senza animosità e senza amicizia: «Io non so chi vince o chi perde, oggi, ma in qualunque caso non vi accorgete che non contate niente? Quelli che contano intanto stanno svuotando le Borse, stanno cambiando i prezzi, raddoppiano il costo delle case. Sono loro che comandano. Sono loro che decidono. Voi, quando va bene, siete come le piante in un corridoio, degli ornamenti, e quando va male, come oggi, vi cambiano».

C’è un po’ di confusione, un po’ di tensione. È impossibile rispondergli. Come fai a dargli torto se illustri notisti politici e addirittura intere compagini editoriali sembrano non avere notato che i conti pubblici sono in ordine e non lo erano, che le entrate fiscali sono robuste, e non lo erano, che contratti come quello dei metalmeccanici che poteva spaccare il Paese, sono stati firmati?

È vero, conta poco la politica senza l’opinione pubblica e conta poco l’opinione pubblica senza la televisione e la stampa. E aiutano poco la televisione e la stampa se diventano, per comodità e per progetto, la casa del conflitto, il luogo di scontro dei politici trasformati in gladiatori invece che il crocevia in cui si incontrano i portatori di opinioni diverse e le spiegano in modo chiaro e senza condurre un continuo gioco al massacro.

Una ragione il mio interlocutore tra la folla intorno al Senato ce l’ha: una brutale tempesta economica, una sorta di si salvi chi può, imperversa nel mondo e sbatte contro le porte dell’edificio Italia.

L’edificio non è così debole, né così indifeso. O almeno, non lo era fino a ieri sera. Un governo, che a volte appare introverso e noioso, non ha mai smesso l’ingrato impegno intrapreso di mettere in ordine la casa dell’economia.

La tempesta che si sta scatenando nel mondo ci avrebbe trovato, almeno, con le porte sorvegliate. C’è differenza fra congiunture difficili e momenti di rischio totale. Il mio interlocutore fuori dal Senato, che ha fatto anche un elenco di nomi di coloro che, in Italia, decidono il nostro futuro invece dei politici, non sa che adesso stanno per avere le mani molto più libere. Le hanno avute per i cinque hanni in cui ha governato Berlusconi e si è ammassato di tutto, dall’immondizia (la crisi inizia proprio nel 2001) al debito, dallo sperpero delle risorse ai condoni fiscali (in modo da avere le entrate tributarie più basse della storia italiana). Ma niente è successo di cui si possa dire: ecco, comincia qualcosa di nuovo.

D’accordo, questo governo è quasi afasico, e in un’epoca in cui le comunicazioni contano al punto da essere continuamente alterate e taroccate, non è un problema da poco. E tuttavia, nonostante il buon lavoro di 20 mesi (vedi il Financial Times e il Wall Street Journal il governo che ha chiuso il buco e incassato le tasse, sta cadendo.

Una volta entrato nell’aula del Senato mi accorgo, ascoltando, che cade - in un momento molto grave nel mondo - per futili motivi. Fate l'elenco di coloro che fanno mancare il voto al Governo di Prodi e avete una immagine più squallida del non dimenticato evento del 1998, non sto parlando di Calderoli e Castelli. Quella è gente che preannuncia la rivoluzione e fa sapere che sta cercando le armi. Continuiamo pure, per salvare l'immagine del Paese, a far finta di credere che siano compagnoni scherzosi invece di un serio pericolo per le questure. Ma questo è il loro livello e il loro mestiere: una politica che ha le impronte - già debitamente schedate - del deputato Borghezio.

Non sto parlando dei discorsi finto-dolenti e finto-decenti delle varie componenti della Casa delle Libertà che - gira gira - gravitano sempre, tutte, verso il vulcano spento di Berlusconi. Sto parlando dei futili motivi di Mastella che si vendica su Prodi per le presunte offese fatte alla moglie. Sto parlando dei Senatori di Mastella, che litigano a rischio infarto per l'onore della moglie di Mastella, come in un film di Germi.

Sto parlando di Lamberto Dini. Su quale palcoscenico recita? In quale dramma? Con quale ruolo? Per quale pubblico? Quando dice «noi» visto che il suo partito sono tre e uno non lo segue e l'altro non partecipa al voto, di quale «noi» sta parlando? Forse le sue ragioni non sono così futili, ma niente, tranne il no è trapelato del suo discorso, niente è trapelato che si possa eventualmente citare in una nota, carattere corsivo a piè di pagina, in un libro di storia.

Poi c'è lo scampanio della sinistra-sinistra. Impegna il suo prestigio, che non è da poco, nell'accusare come unico vero nemico il Partito democratico. Possibile che persone di grande, indiscutibile esperienza politica guardino il mondo dalla feritoia stretta di una rivalità occasionale, mentre qui cade un governo che sembra «fare poco per il lavoratori» ma - nel drammatico dopo - lascerà un rimarchevole vuoto e un pauroso sbandamento a destra, la destra economica che decide? In una cosa hanno ragione. In tanti - anche nella maggioranza che finisce adesso - hanno lamentato la palla al piede della sinistra, e preannunciato mille volte la caduta del governo per colpa e azione malevola della sinistra. E invece sono sfilati, a uno uno, tutti i «volenterosi» di destra della maggioranza che finisce.

E, a uno a uno, per futili motivi e per non sempre chiare ragioni private, hanno offerto, la loro mano ben tesa a Berlusconi, hanno bruscamente voltato le spalle a chi aveva dato loro uno spazio politico che - spiace per loro - non avranno mai più. Alla fine, nel brutto show, torna a farsi avanti, sia pure con esuberanza un po' consumata, il corpo di ballo della compagnia Berlusconi. Arriva fino al punto da stappare bottiglie in aula come in una festa un po’ volgare delle matricole ricordando sempre che, «prima di tutto viene il rispetto per le istituzioni».

È una replica triste e dobbiamo domandarci che cosa abbiamo fatto per meritarcela. Nota bene. Tutto ciò avviene esattamente come e quando aveva predetto Berlusconi. Bisogna riconoscere un po’ di ragione alla persona che mi ha fermato fuori dal Senato: il potere dei soldi fa miracoli.



Pubblicato il: 25.01.08
Modificato il: 25.01.08 alle ore 15.08   
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Titolo: Furio COLOMBO - Italia contro Italia
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 12:01:49 pm
Italia contro Italia

Furio Colombo


Oggi è il “Giorno della Memoria”. C’è chi si domanda se sia una formalità, una cerimonia, l’occasione di un bel discorso nell’Aula Magna. C’è chi teme che tornare al passato divida e riapra non solo immagini di tragedia e dolore ma anche di spaccatura fra combattenti (memoria di combattenti) di una parte e dell’altra. C’è chi suggerisce che tutti i combattenti, finita una guerra sono uguali e tanto vale darsi la mano e andare avanti con la vita. C’è chi sostiene che tutte le vittime sono uguali e poiché qualunque morte è una perdita immensa, non è il numero che fa differenza. Onore a tutte le vittime, e la vita continua.

C’è anche chi pensa (e si è dato da fare moltiplicando i Giorni dedicati alla Memoria e al ricordo) che ci sono stati tanti eventi spaventosi nel mondo e di tutti occorre farsi carico, siano le vittime o i colpevoli di una parte o dell’altra. Se ci sono stati i campi di Hitler ci sono stati anche quelli di Stalin e le Foibe di Tito. Dunque o tutti o nessuno.

È comprensibile che - col tempo - i fili degli eventi si mischino spesso in confusi gomitoli. C’è chi sospetta l’uso - come si dice - strumentale. E chi teme che si alzino voci “buone” ma così generiche, così sbiadite nella condanna di tutti i mali e nella esaltazione di tutto il bene, da risultare afone.

Per questo esiste “Il Giorno della Memoria”. Ripeterò per i più giovani, per chi arriva adesso a rendersi conto dell’evento, che la data è il 27 gennaio, il giorno in cui i cancelli della città-sterminio di Auschwitz sono stati abbattuti dai soldati russi (allora si diceva “sovietici”) mentre avanzavano da Est verso Berlino (americani e inglesi venivano avanti da Ovest e da Sud stavano liberando la Francia e l’Italia), e la guerra stava per finire in pochi mesi, cancellando dal mondo il fascismo e il nazismo.

È vero, ben presto il mondo si sarebbe reso conto che crimini

di massa erano stati commessi e hanno continuato ad essere commessi per decenni dentro quell’Unione Sovietica che aveva pagato un prezzo immenso per ridare libertà al mondo contro il nazismo e il fascismo (20 milioni di morti russi) ma negando la libertà a se stessa.

Ma alcuni di noi non sono mai caduti nella trappola di dedicarsi per prima cosa ai crimini del Paese che allora si chiamava Urss. Perché?

Perché alcuni di noi si rendevano conto che, durante i regimi liberticidi che hanno portato alla Seconda guerra mondiale e alla distruzione dell’Europa, due Paesi si erano macchiati di un delitto più grave di ogni altro delitto. E’ un delitto che si dirama, come una spaccatura immensa e pericolosa, nel passato e nel futuro della convivenza europea.

Dal passato ha tratto l’orrore del pregiudizio che esige il sangue. Nel futuro ha iniettato un veleno che può restare inerte a lungo, e poi ricominciare la sua azione mortale nei luoghi,nei gruppi, nelle condizioni più inaspettate.

Per questo il “Giorno della Memoria” - che è stato il mio impegno principale quando ero deputato dell’Ulivo nelle tredicesima legislatura e che è stato approvato prima dalla Camera (unica legge approvata all'unanimità) e poi dal Senato nell’anno 2000 - ha come punto di riferimento la Shoah, insieme al ricordo di tutti coloro che hanno pagato con la vita la loro coraggiosa opposizione politica o la loro presunta diversità.

Ho risposto giorni fa alla domanda degli studenti in una Università americana. Perché in Italia? Perché adesso?

La prima risposta meraviglia un poco chi è abituato dalla maggior parte dei film a vedere soldati, uniformi e insegne tedesche intorno alla deportazione e allo sterminio di sei milioni di donne, uomini, bambini (inclusi neonati, vegliardi, malati e morenti) cittadini di ogni Paese d’Europa condannati a morire perché ebrei.

La risposta è: perché la Shoah è un delitto italiano. L’Italia nel 1938 ha approvato le più crudeli e totalitarie leggi razziali d’Europa, il Parlamento fascista italiano le ha approvate con esultanza. Il Re d’Italia - unico re d’Europa - le ha firmate e rese esecutive.

Giovedì scorso, nel ricordare il triste evento, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indicato il senso e la portata di quelle leggi: «Hanno aperto le porte all’Olocausto».

Il Capo dello Stato ha colto il senso e la ragione della legge che istituisce il Giorno della Memoria: abbandonare l’idea che un conto sono le leggi razziali, cattive ma senza vere conseguenze nel destino delle persone, e un conto sono i campi di sterminio che gravano sul passato e sulla coscienza tedesca.

Il nesso stretto, il rapporto tragico ed evidente tra causa e effetto, mette in evidenza un aspetto che la storiografia italiana, nell’immenso groviglio di fatti tragici che sono la Seconda guerra mondiale, ha trascurato. La Shoah, dettagliato e accurato progetto criminale per lo sterminio di un popolo, non avrebbe potuto essere imposta con tanta forza alla classi dirigenti e alla sostanziale accettazione delle classi medie di tutta l’Europa occupata, se l’Italia non fosse apparsa, non solo come alleato della guerra ma anche come partner del grande delitto di massa. Nel famoso e tragico «asse Roma-Berlino» l’Italia era l’altra mano del persecutore, una presenza e una partecipazione che certo faceva il suo effetto su tutte le altre aree occupate e governate con leader fantocci e gaulaiter. Fino al punto che non è fuori posto domandarci: sarebbe stato possibile imporre e realizzare in tutta l’Europa il progetto persecutorio se l’Italia non avesse avuto parte attiva - dalle leggi razziali alla strage di Meina, alla Risiera di San Sabba, alle spietate deportazioni iniziate a Roma, a pochi metri dal Vaticano e dai palazzi del potere romano, la notte del 16 ottobre 1943, nel silenzio di tutti?

Si dirà che il silenzio era imposto. Ma altrove - come nella Bulgaria fascista - la classe dirigente, pur soggetta al dominio tedesco e italiano, si è opposta. «Non toccherete i nostri cittadini» ha proclamato il presidente fascista della Camera bulgara Dimitar Peshev, dando prova della sua normalità psichica e del suo coraggio morale.

Ecco un senso del Giorno della Memoria: l’immensa offesa all’Italia e ai suoi cittadini - tutti - spingendo una parte di essi nel ruolo delle vittime (7.000 non sono tornati) e l’altra in quello dei persecutori.

È vero che tanti non si sono prestati al macabro gioco e alcuni hanno rischiato la vita per salvare altre vite. Ma ciò non cancella le leggi, la loro enormità, la loro portata. La consegna da parte di italiani agli esecutori tedeschi di cittadini italiani privati di ogni diritto e difesa è un progetto che ha lasciato la sua impronta di morte su tutta l’Europa anche a causa, per colpa, responsabilità del ruolo italiano. E’ questo il fatto tremendo da ricordare.

Perché adesso? Mi hanno chiesto gli studenti americani. La risposta è questa. Perché qualcuno, anche in buona fede, pensa a una cerimonia di scuse o a una commiserazione del dolore o alla benevola partecipazione al lutto di altri, alla ingiustizia che altri hanno patito e a cui si vuole che - simbolicamente, a tanti anni di distanza - si dica no.

Invece è proprio adesso, mentre si mischiano freneticamente le carte in tavola e ci si affretta a riconoscere torti (che però sono ferite di una guerra finita) pur di non rinvangare il passato e si invoca una bella stretta di mano fra parti che storia e destino avevano contrapposto, proprio adesso è il momento di dire: attenti a non scrivere un’altra storia. Nella storia vera la ferita spaventosa è stata inflitta all’Italia offrendo senza vergogna i propri cittadini alla persecuzione straniera e alla volontà di persecuzione e di morte di un altro Paese, le cui regole l’Italia aveva scrupolosamente adottato e perfino aggravato. L’Italia si è piegata e spezzata in un modo che ne ha deformato l’immagine. In questa immagine orrenda, un misto di opportunismo, servilismo, paura e razzismo autentico, non è possibile - e non è permesso - separare una parte del fascismo dall’altra. Ogni nostalgia le richiama tutte. Perché erano tutti cittadini italiani coloro che sono stati offerti come vittime. E tutti fascisti italiani gli esecutori.

Erano infatti cittadini italiani i volenterosi collaborazionisti che hanno eseguito, spesso anticipando le richieste degli aguzzini, ed erano cittadini italiani coloro che hanno scrupolosamente taciuto, compresi coloro che avrebbero potuto - almeno nel 1938 - essere ascoltati nel mondo. Il silenzio italiano è stato completo e agghiacciante.

Il Giorno della Memoria è un processo al silenzio. È il silenzio di un passato che non può essere perdonato.

Occorre impedire che diventi una cerimonia. Il processo al silenzio è aperto oggi per ieri ma anche oggi per domani. Perché mai più il Paese Italia si presti ad essere il luogo di una viltà così grande. Il Giorno della Memoria questo ricorda: un delitto italiano contro l’Italia e i suoi cittadini. Non lasciatevi dire che sono cose passate.

Pubblicato il: 27.01.08
Modificato il: 27.01.08 alle ore 6.52   
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Titolo: Furio COLOMBO - L'innocente
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2008, 06:01:25 pm
L'innocente

Furio Colombo


Ogni mattina coloro che ascoltano la rassegna stampa di Radio Radicale vengono ammoniti da Massimo Bordin, direttore di quello straordinario maxi-giornale, a non fidarsi di titoli e occhielli.

Spesso fa notare che virgolettati e affermazioni drammatiche come colpi di gong non ci sono nel testo. Sono solo una trovata per costringere alla lettura.

È un po’ quel che succede con un articolo di Franco Debenedetti sul Sole 24 Ore, pag. 1 e 11 dal titolo: «Una sinistra malata di antiberlusconismo». Il titolo calza perfettamente col testo anche se - come i lettori hanno già capito - non c’è alcun rapporto con fatti e persone (salvo due o tre) di questo paesaggio politico e appare quindi più un interessante racconto (nel senso di fiction) che un commento politico. L’occhiello a pag. 11 però esagera e mi induce a una difesa dell’autore. Non dice mai, nel testo, che «nell’attuale maggioranza ci sono elettori disposti ad assolvere munnezza e magistratura pur di tener lontano Berlusconi» anche perché la frase è incoerente. Mancherebbe il rapporto causa-effetto. Nessuno deve assolvere la magistratura (né lo direbbe se resta in ambito costituzionale) e nessuno ha collegato Berlusconi - vicino o lontano - alla discariche campane.

Però è vero che Franco Debenedetti denuncia una caccia a Berlusconi, nella sinistra italiana, di cui non vi sono molte tracce, tanto è vero che l’ex senatore diessino rampogna nessuno in particolare e si rammarica senza alcuna citazione, dichiarazione o evento da esibire come dimostrazione. Persino io, faccio ora notare a Franco Debenedetti, che ha voluto condividere con il Sole 24 Ore la sua ansia e la sua condanna per l’antiberlusconismo, persino io mi autodenuncio: in quasi due anni non ho detto una sola volta il nome di Berlusconi al Senato.

Se interessa al mio interlocutore, ci sono un paio di ragioni che non depongono a favore di una mia ritrovata mitezza ma servono a capire l’epoca che abbiamo trascorso. Debenedetti, da ex senatore Ds attivo e scrupoloso, nel suo periodo e nel suo buon lavoro conosce l’ambiente. Ma, devo dirgli, solo in parte.

Questa volta non potevi parlare a causa delle urla scomposte e continue fondate sulla ripetizione infinita della negazione di legittimità sia del governo sia della maggioranza. Entrambi venivano continuamente dichiarati “frutto di broglio”. Nei rari momenti di semi-normalità e di relativo silenzio era il tuo gruppo che ti supplicava (ognuno di noi) di tacere, di rinunciare anche di fronte alla pioggia di insulti su Rita Levi Montalcini o sui presidenti emeriti Scalfaro e Ciampi. Avevamo una capogruppo, Anna Finocchiaro, che parava i colpi con dignità e il massimo di pacatezza possibile - a volte di fronte a vere e preoccupanti esibizioni di squilibro e di patologica concitazione, in momenti tragici e in momenti di farsa. La ragione del silenzio forzato che ci veniva richiesto: cercare di calmarli per riuscire a votare.

L’ultima seduta del Senato, ricordo all’amico Franco Debenedetti, è stata una triste “compilation” del Senato in cui abbiamo vissuto. Un senatore tenta di comportarsi con libertà e decoro e viene aggredito al punto di essere portato in barella fuori dall’Aula.

Il senatore aggressore non smette di urlare le peggiori invettive e per essere meglio capito fa con le dita il gesto della pistola. Un altro senatore, già noto per le sue stranezze getta in aria fette di mortadella, brandisce bottiglie di champagne e - per completare l’effetto della “diretta” sugli atterriti cittadini italiani - grida e ripete al collega privo di sensi «squallida checca». Un altro ha fatto roteare lo champagne prima di stapparlo in modo da ottenere un violento schizzo di schiuma da buttare in faccia e sulle divise dei commessi, come un padrone alticcio e bizzarro.

Ora tutti noi - a parte il senso di imbarazzo e di vergogna - sapevamo che i nostri colleghi non sono matti. Eseguivano ordini. Ordini di chi? Come tutti sanno, uno solo in Italia dispone del potere e dei mezzi per indurre persone - molte delle quali sono privatamente rispettabili - a comportarsi pubblicamente, deliberatamente in un modo indecente che avrebbe stravolto ogni italiano di sinistra e di destra.

L’ordine era che niente sarebbe stato abbastanza volgare o abbastanza insultante per celebrare il funerale politico di Prodi.

Coloro che hanno avuto la sventura di assistere al giorno più brutto e più triste della Repubblica (perché le istituzioni erano attaccate da dentro, non da misteriose mani assassine estranee i cui delitti hanno rinsaldato le istituzioni) hanno ancora negli occhi la scena della «squallida checca», della mortadella lanciata in aria (ed esibita penosamente sulle loro stesse facce) dei lavoratori del Senato inzuppati dal lancio di champagne. Ora un serio e saggio ammonimento li raggiunge con una firma illustre dalla prima pagina del Sole 24 Ore: alla fine di due anni di insulti continui a Prodi (ricordate il “mascalazone bavoso” titolo di un editoriale de Il Giornale?) nell’Italia della Commissione Telekom Serbia e della Commissione Mitrokin, entrambe destinate all’eliminazione politica dell’allora candidato Prodi, adesso ci dicono: «Basta tormentare Berlusconi!».

C’è un che di misterioso in questo autorevole ammonimento. Perché, al massimo, ha solo due destinatari: Marco Travaglio, ed io, se non tenete conto del mio doveroso silenzio al Senato (per non dire dello scriteriato direttore di questo giornale).

Vi ricordate di un attacco o denuncia o anche di vaghi riferimenti ai passati reati di Berlusconi da parte di altri? Avete notato un qualche rapporto fra quanto sei a sinistra e quanto sei antiberlusconiano? Se non sbaglio non è Travaglio a sedere con onore accanto al conduttore nel talk show Otto e mezzo. Ah, dimenticavo Marco Pannella. Da solo osa scrivere «la iattanza berlusconiana indice una nuova marcia su Roma con milioni di convocati televisivi... le demenziali minacce di Berlusconi non vanno più tollerate ...».

Non ci risulta una corsa a sottoscrivere questa solitaria condanna di Pannella che ricorda Emilio Lussu nella sua «Marcia su Roma e dintorni». Gira e rigira siamo in quattro, forse cinque. A pensarci bene è un onore quell’editoriale del Sole 24 Ore. A meno che Franco Debenedetti non sappia qualcosa che noi non sappiamo.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 31.01.08
Modificato il: 31.01.08 alle ore 8.35   
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Titolo: Furio COLOMBO - Una questione di memoria
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2008, 08:56:29 pm
Una questione di memoria

Furio Colombo


Due lettere inviate a Sergio Romano al Corriere della Sera, e la risposta netta (contro il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah) dell’ambasciatore-scrittore ci aiutano a far luce su equivoci, errori di informazione, errori di percezione, e un fondo di malumore per tutta questa attenzione dedicata agli ebrei. Il fatto è che anche fascisti e tedeschi avevano dedicato molta attenzione a questi cittadini del nostro e di tutti gli altri paesi europei, e a molti sembra inevitabile (cerco di dire con mitezza) ritornare sull’argomento.

Ma andiamo con ordine. Le due lettere, scelte probabilmente fra le tante che saranno state scritte a Sergio Romano nell’occasione del 27 gennaio, toccano entrambe il tema sollevato alla Camera, in lunghe discussioni orientate a un perenne rinvio. Perché solo gli ebrei e le altre vittime (soldati, politici, omosessuali, zingari) dell’universo concentrazionario fascista nazista e non le altre vittime di Stalin, della Cina, dell’orrore comunista? È un argomento già molto usato in passato e ha avuto, con la pazienza e l’attenzione che merita, mille volte risposta. E non risposta di indifferenza a quei gravi delitti ma una obiezione precisa e incontrovertibile, nel paese di Nicola Pende (il manifesto degli scienziati italiani sulla razza, che dichiara estraneità, inferiorità e pericolo degli ebrei) e di Giorgio Almirante (autore ed organizzatore della rivista La difesa della razza, forse la più crudele e diffamatoria in quegli anni di dilagante antisemitismo europeo).

Le due lettere a Sergio Romano, che appaiono, con evidenza scritte da persone non giovani (dunque con più probabili ricordi personali)e dotate solo di argomenti di destra (basta con i delitti fascisti, occupiamoci una buona volta di quelli comunisti), sono travestite di finto candore. Chiedono una risposta che essi stessi offrono: ma come? Con così tanti delitti di Stalin e Tito, c’è ancora chi riempie la testa alla gente con le leggi razziali di Hitler e Mussolini? «Le leggi razziali italiane? Sono state poca cosa», aveva detto a suo tempo Vittorio Emanuele Savoia, quando si dubitava della sua conoscenza della storia e non ancora della sua tempra morale. Nel rispondere alle due lettere, Sergio Romano non sceglie l’indecoroso percorso Savoia. Offre una rapida e corretta ricostruzione di eventi (un elenco di crimini in Europa e poi fino a Mao, a Ho Chi Min, e stupisce che non abbia incluso i Khmer Rossi della Cambogia). Ma raggiunge la stessa conclusione. In tre punti.

Primo, al Parlamento italiano Sergio Romano dichiara che avrebbe votato contro la legge che istituisce il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah perché nel mondo è accaduto ben altro.

Secondo, indica come cattivi maestri, con il dovuto disprezzo, «i professionisti della memoria antifascista». Posso permettermi di credere che si riferisse a me come estensore e prima firma del testo di quella legge. E posso dire che in quel gruppetto, fra coloro che non dimenticano Via Rasella, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la strage delle famiglie ebree di Stresa, la razzia del 16 ottobre a Roma, sotto le finestre del Vaticano, i sette Fratelli Cervi (la lista sarebbe immensa perché un professionista della memoria antifascista ricorda tutto, specialmente se in quel tempo ha vissuto), mi trovo in buona compagnia. La sola che desidero.

Terzo, Sergio Romano sceglie di ricordare che al momento del voto alla Camera «Lucio Colletti ha votato contro». Aggiunge: «Anch’io avrei votato contro», presumibilmente per non essere - Dio ci scampi - scambiato per un professionista della «memoria antifascista» che, nella sua narrazione, appare un disturbo petulante nella buona vita italiana.

L’opinione è sua. Brutta ma rispettabile. Il ricordo è sbagliato. Colletti (che voleva una mozione, non una legge) non ha votato contro. Si è astenuto. L’ astensione, secondo il regolamento della Camera, non impedisce di dichiarare la legge, come risulta dagli atti, votata all’unanimità. La legge che istituisce «Il giorno della memoria» in Italia è stata infatti votata all’unanimità perché tutti i miei colleghi di allora, da sinistra a destra hanno accolto i due argomenti che sono stati proposti nella perorazione (la ricordo come una supplica) finale. È stato detto: gli orrori del mondo sono tanti e spaventosi, ma la Shoah, oltre a essere un crimine unico, è un delitto italiano. Nulla di ciò che è accaduto poteva accadere senza le leggi razziali italiane. E infatti nella Bulgaria fascista i tedeschi, neppure nell’impeto di violenza finale del 1943-45 hanno potuto arrestare un solo cittadino ebreo di quel paese perché il leader fascista bulgaro Dimitar Peshev aveva detto «No, mai in questo paese».

Ma ho potuto ricordare un altro fatto. In quell’aula di Montecitorio, da quegli stessi posti in cui stavamo seduti noi, un altro parlamento italiano aveva votato all’unanimità le leggi di Mussolini. Ho chiesto, come un piccolo segno che non avrebbe cancellato nulla ma sarebbe stato un simbolo per i più giovani, di votare anche noi all’unanimità. Così è accaduto. Un cittadino italiano e soprattutto uno storico, dovrebbe trarre un motivo d’orgoglio da questo piccolo evento. Sergio Romano, che pure è uno storico stimato e rispettato, sceglie invece questa frase: «Abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica».

Lotta politica ricordare il delitto di persecuzione dei cittadini italiani ebrei (e - con il concorso dell’Italia - di tutti i cittadini ebrei d’Europa)? Romano chiama alla lotta: «Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina». Sono certo che gli storici risponderanno.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 02.02.08
Modificato il: 02.02.08 alle ore 8.38   
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Titolo: La corsa all´indietro
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2008, 07:40:50 pm
La corsa all´indietro

Furio Colombo


Alcune sere fa, in una riunione di lavoro dell´Aspen Institute dedicata alle elezioni americane, hanno parlato il giovane democratico Nelson Cunningham, già consigliere di Clinton alla Casa Bianca, e il meno giovane Repubblicano Richard Burt, già consigliere di Bush padre e ambasciatore di Reagan. Avevano visioni chiare e diverse: Burt ha detto di credere possibile una vittoria del senatore Mc Cain. Cunningham è restato in bilico fra i due grandi del Partito Democratico, Barak Obama e Hillary Clinton. Ha previsto che, nella catena di 22 elezioni primarie che avranno luogo nel "supermartedì" del 5 febbraio, il risultato sarà quasi pari. Dunque prospettive interessanti per un Paese fortunato che - anche quando attraversa brutte stagioni - sa distaccarsi in modo netto (quasi un impulso fisiologico) dal passato. Sia Cunningham che Burt, nella serata di Roma, hanno concluso con una frase quasi identica: «il Paese è diviso fra liberal e conservatori. Ma un sentimento netto e forte unisce tutti gli americani. Tutti si sentono sollevati di non dover votare un´altra volta George W.Bush». La salvezza di un Paese è nel suo futuro e l´America ancora una volta lo sta dimostrando.

Qualcuno ha potuto dire ai due ospiti che noi, l´Italia, siamo spinti a correre al più presto alle urne per votare di nuovo l´epoca logora, finita, e persino triste nelle sue immagini (questa volta il protagonista si presenta senza il famoso sorriso commerciale) del fallimento italiano, che si chiama Berlusconi.

Quasi ogni sera, come nelle sequenze di un teatro di avanguardia che conta sugli accostamenti folli e le parole insensate per creare sussulto e sorpresa, appaiono nei telegiornali appositamente imbanditi, i volti di Schifani, di Cicchitto, di Bondi che ripetono la stessa frase, davvero degna di Ionesco: «Non c´è più tempo. Il Paese vuole andare subito al voto». In un Paese vivace, conflittuale e molto espressivo, se c'è una cosa che i cittadini non hanno mai chiesto, preoccupati come sono della dura crisi economica che sta arrivando è di correre subito a votare perché «non c´è più tempo».

Non tutti gli italiani hanno l´età di Berlusconi - che patologicamente lo angoscia nonostante il trucco pesante e i capelli asfaltati - e non tutti gli anziani pensano che si debba far ricadere sui più giovani il dramma e il prezzo della loro uscita di scena.

Romano Prodi, ad esempio, benché un poco più giovane, non calcolava il tempo su se stesso. Aveva già detto che, finito il mandato, avrebbe lasciato libero il campo. E intanto contava il tempo sulla progressiva (e finora efficace) riparazione del grande danno economico inflitto all´Italia dai cinque anni di governo di un centro destra unico al mondo, tutto teso a risolvere i casi giudiziari del capo (con successo, si deve dire, perché hanno cambiato le leggi) ma poco preoccupato di conti, tasse, buco del deficit e caduta del Pil. Una volta deciso che governare vuol dire spettacolo e audience, allora bisogna ammettere che la cartapesta di Pratica di Mare è un buon inizio; il pestaggio selvaggio di ragazzini di mezza Europa che dormono in una scuola di Genova (con uccisione, per quanto accidentale, di uno di loro) è stato grande teatro (il "teatro della crudeltà" tanto raccomandato da Artaud); i licenziamenti di personaggi autorevoli, credibili, in vista, un eccellente modello per i media (che ne sono tuttora ispirati); l´istituzione di commissioni-calunnia come Telekom-Serbia e la celebre Mitrokhin, segnata da arresti di consulenti e delitti di testimoni, un buon modo perché nessuno si possa sentire al sicuro; le leggi ad personam, preparate ad una ad una con cura per far fronte a diversi processi detti "persecuzioni", del capo, una buona strada perché uno, almeno, si senta sicuro. Faceva un certo effetto, nelle scene di telegiornale del processo Sme, in cui l´imputato è stato assolto per avere cambiato in tempo la legge che lo avrebbe condannato, notare le figure degli illustri difensori, i penalisti Ghedini e Pecorella, uno senatore, l´altro deputato, entrambi attivi e capaci nelle rispettive Commissioni Giustizia, (uno presidente di tale commissione) in modo da preparare per tempo al mattino, da influenti parlamentari, le norme che avrebbero usato in tribunale nel pomeriggio.

Il governo che ha spinto l´Italia verso la sua più pericolosa stagione di sbando, portandola sul punto di uscire dall'Europa, ha avuto, occorre ammetterlo, uno straordinario successo nei processi di Berlusconi.

* * *

A questo punto allargate un poco la scena. Sulla scena sono ricomparsi compatti, come rispondendo a un sacro richiamo della Patria, quel Pier Ferdinando Casini che aveva detto, con estremo e persuasivo buon senso a varie televisioni «ma vi pare che si possa tornare con chi ti prende a schiaffi e ti tratta come un suddito indisciplinato? Noi gli schiaffi non li accettiamo da nessuno!». Li accettano, li accettano. Ed eccoli pronti, insieme a Totò Cuffaro, che porterà i suoi cinque anni di condanna in primo grado del Tribunale Penale di Palermo in dote al senato. Ed ecco Gianfranco Fini, il volto indurito, la voce aspra come se si trattasse di conquistare Adua, il tono finalmente incattivito e incline all´insulto di chi deve avere patito molto nel fingersi soltanto innamorato, mentre Berlusconi gli fondava da un lato i "circoli della libertà" della brava e ubbidientissima Brambilla (che al primo cenno ha accettato di scomparire) e dall´altro gli andava a inaugurare con tutti gli onori la destra di Storace e del suo neo-neofascismo che finalmente ha una casa, un sostegno e niente più necessità di travestimenti e di finzioni democratiche. Sono quelli che hanno scritto su un muro di via Fontanella Borghese a Roma: «An venduta ai giudei». Erano i giorni in cui Fini ministro degli Esteri, al Yad Vashem a Gerusalemme, di fronte alla fiamma della Shoah, aveva definito il fascismo «un male assoluto» e si erano offesi a morte di questa incredibile ammissione di verità. Se ne erano andati insieme ad Alessandra Mussolini.

Adesso Alessandra Mussolini, perdonata come si usa fare sempre in Italia dopo i delitti, è tornata da Fini. I neo-neofascisti invece sono accampati con Storace, fanno il saluto romano e gridano liberamente «viva il Duce» come nel giorno delle leggi razziali. Ma niente paura. Vanno tutti insieme alle elezioni e con urgenza, "perché non c´è più tempo". Per salvare l´Italia c´è l´acume di Storace, già distintosi nel controllo della Sanità laziale, il fiuto volpino di Casini che, in fatto di soluzioni ai problemi economici, spesa pubblica, deficit e Pil, è conteso fra la Harvard Business School e il Mit di Boston, la lama tagliente di Fini che sa, lui si, come tagliare gli sprechi, e la premiata economia del condono di Berlusconi che - fra i tanti problemi che assediano l´Europa e affliggono l´Italia, incluso il mare di immondizia che ha cominciato a formarsi nei suoi cinque anni di governo (scomparirà, non temete, basta non parlarne mai più nei telegiornali) finalmente tornerà in tutti i programmi televisivi, fiction e sport inclusi. E ritornerà il buco di Tremonti, preferibilmente nel Tg 1 delle ore 20. Quanto a Berlusconi ha già scelto. La sua risposta alla grave turbolenza economica, al costo dell´energia, al degrado dell´ambiente è semplice e chiara: difesa ad oltranza di «Italia 1» e di Emilio Fede contro quei presuntuosi che credono di aver diritto, per le loro Tv oscurate, alle frequenze rubate da Mediaset. Invece - ci informano i dipendenti di Berlusconi - non saranno restituite né ora, né mai. «Non c´è più tempo», ammonisce Schifani. Del resto lo andava predicando da mesi il profeta di Arcore: otto italiani su dieci (forse otto e mezzo) annaspano verso la ciambella di salvataggio della destra, e solo la restante ciurmaglia rifiuta di formare quel bel 100 per 100 che è l´unico livello di approvazione che a Berlusconi sembra giusto.

Dimenticavo, fra i quadrunviri della imminente marcia su Roma («verranno a Roma a milioni», aveva minacciato Berlusconi mentre il presidente Napolitano era intento alle consultazioni) di citare l´eroico Bossi. Che ha dichiarato di essere pronto a farsi strada con le armi «che - ha detto - quando servono si trovano sempre».

Dovunque sarebbe scattato uno stato di emergenza, perché la frase è folle e pericolosa. Ed è vero che, a cercarle, le armi si trovano. Quello che altrove non si trova è un leader come Bossi, spalleggiato da senatori e deputati "gorilla" (nel senso di guardie del corpo) che sostengono in tutte le sedi (ovvero in tutte le Tv) le ragioni del loro leader rivoluzionario che, quando rilascia dichiarazioni che riguardano non solo la Padania ma anche il Paese straniero chiamato Italia non sempre appare in perfetto equilibrio.

Il fatto che nessuno reagisca a minacce così serie fa pensare a un diffuso senso di compatimento che mi sembra insultante e ingiusto. Mi sembrerebbe più rispettoso mettere in guardia le questure. a questo è il quadro, questo è il nuovo. Questo è ciò che l'Italia deve precipitarsi a votare perché «non c´è più tempo». Infatti se restasse questa maggioranza potrebbe essere approvata la legge Gentiloni che minaccia non l´Italia ma il dominio di Mediaset. E questo è il "wonder team" per cui non si può sprecare un minuto di tempo. E che ammonisce sgarbatamente il presidente del Senato Marini a smettere immediatamente il suo tentativo di far valere la Costituzione e di trattare tutti i partiti come se fossero aggregazioni politiche normali.

* * *

Direte (qualcuno lo dice senza ridere) «basta con l´antiberlusconismo». Poiché la destra in Italia è esclusivamente Berlusconi (chi altro sarebbe in grado di finanziare due anni di violento, continuo, ininterrotto ostruzionismo alla Camera e al Senato, senza lasciare, in due anni, la possibilità a un avversario anche mite di finire una frase?), basterà organizzarci bene, partecipare tutti e votargli contro. Non contro centri e sinistre. Contro Berlusconi. Il Pd, mi sento di dire, si è fatto avanti e ha detto «noi siamo pronti». Si può ostacolarlo o sostenerlo. Io vorrei sostenerlo. Ma una cosa è certa. Se vi preoccupa tanto l´antiberlusconismo (una sorta di ossessione come il rigetto dell´antifascismo su cui pure si è formato il meglio di ciò che siamo), votategli contro. Sparirà di colpo. Come George W. Bush, sarà soltanto una nota a piè di pagina nella storia del passato. A meno che sia iniziata una triste e paurosa corsa all´indietro.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 03.02.08
Modificato il: 03.02.08 alle ore 11.40   
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Titolo: Furio COLOMBO - L’Italia dei ricatti e degli spioni
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2008, 10:49:45 pm
L’Italia dei ricatti e degli spioni

Furio Colombo


Qui di seguito ampi stralci della prefazione di Furio Colombo al libro di Sandro Orlando «La repubblica del ricatto» edito da Chiarelettere

Dice l’autore di questo libro: «Rispetto alla realtà c’è ben poco» perché molte prove non sono raggiungibili e molte connessioni, molte catene causa-effetto (per non parlare degli autori) restano oscure. Tenete presente questa affermazione, ovvero il limite annunciato dallo scrupoloso autore, quando leggerete queste pagine. Aver poco racconta moltissimo. E dovrebbe essere ragione grave di allarme. Racconta un paese spiato dalle sue istituzioni, ascoltato da centri illegali e privati di potentissime imprese, giocato da rivelazioni inventate, mentre avventurieri disposti a tutto preparano e denunciano finti attentati e accuse di portata gravissima.

Siamo nell’Italia di Berlusconi, ai tempi del vasto spionaggio telefonico di Telecom, ai tempi dell’ufficio riservato del Sismi (spionaggio militare) che sorveglia e pedina magistrati e giornalisti italiani. Ai tempi della commissione parlamentare Telekom Serbia, creata per mettere sotto accusa personaggi dell’opposizione di allora, come Prodi, Fassino e Dini; ai tempi della commissione Mitrokhin, che aveva come scopo di denunciare Romano Prodi come spia del Kgb. L’accusatore - un certo Scaramella - era un professore senza titolo di studio, un agente segreto senza appartenenza, un esperto senza altra esperienza che la fabbricazione di falsi, eppure consulente di punta del Senato italiano. Ma cos’altro ha inventato e fatto circolare in Italia? Per esempio ha lanciato e accreditato («da esperto») la notizia che la vita di un senatore italiano, presidente della commissione bicamerale detta Mitrokhin, era in imminente pericolo. E ha lasciato intravedere il nome del mandante: l’ex spia del Kgb Romano Prodi.

Che poi Romano Prodi - sotto accusa di una commissione parlamentare degli uomini di Berlusconi per tangenti e arricchimento illecito, appunto la Telekom Serbia - perseguito come traditore e mandante di delitti dal gruppo berlusconiano detto «commissione Mitrokhin» fosse anche il capo dell’opposizione italiana e il leader che avrebbe sfidato Berlusconi alla fine del mandato, dà a tutta la vicenda il senso di un tentato «golpe». (...)

Quello che c’è in queste pagine - e che è rigorosamente documentato con dettagli, riferimenti, dati, fatti e citazioni verificate - è il panorama di un paese medievalizzato in cui agenzie pubbliche diventano bande (il caso dello spionaggio militare che organizza un ufficio speciale per la sorveglianza di magistrati e giornalisti) e gruppi privati delle dimensioni e del prestigio della Pirelli, impiantano settori di spionaggio privato su vasta scala (vasta come la rete della Telecom-Tim, controllata dalla Pirelli) e tutto ciò in un pauroso vuoto di legalità sia pubblica sia privata.

Ma, nel suo attento e meticoloso lavoro, l’autore non si limita a constatare: benché un contributo cruciale di questo libro alla conoscenza dell’Italia contemporanea sia messo in evidenza dalla nervatura di illegalità, di iniziative arbitrarie e abusive che connettono in modo a volte oltraggioso e a volte misterioso punti alti di autorità legittima con il sottofondo di un infimo mondo fuorilegge disposto a tutto. L’importanza di questo lavoro e dell’indagine accurata di Orlando è nel far capire - anzi, nel far vedere subito - che non stiamo parlando di archeologia e neppure della ricostruzione sorprendente di un mondo finito con un regime.(...)

Quale interesse sta effettivamente servendo la commissione Telekom Serbia dal Parlamento italiano? Quanto tenta - con prove e con testi falsi - di incriminare il capo dell’opposizione Prodi e il leader del maggior partito dell’opposizione Fassino? Si tenga conto che una commissione parlamentare di inchiesta dispone di piena autorità giudiziaria; è un alto e sensibile organo dello Stato. Si tenga conto che questa commissione ha agito costantemente nel falso: false le premesse, false le accuse, false le notizie date alla stampa, falsi i testi - presentati come coraggiosi - che, in nome della verità, rischiavano la vita e, poi, smascherati, incriminati, arrestati dalla magistratura regolare, in un salvataggio in extremis che ha protetto non solo coloro che li avevano falsamente accusati, ma anche la reputazione del Parlamento, una commissione del quale era stata dirottata per un disegno estraneo al Parlamento stesso e alla legge.

Come si dice a volte delle leggi massoniche, deve trattarsi di un disegno protetto. Non solo restano oscuri i mandanti, ma non c’è traccia né di risarcimento legale per accuse gravissime e false - fatte scrupolosamente circolare su tutti i media - né di rappresentazione piena e pubblica del comportamento di una commissione parlamentare costantemente impegnata nel far valere e prevalere il falso. Ci limitiamo a constatare il fallimento del progetto, a opera della magistratura, non della politica. Subito dopo la vita continua. (...) Di nuovo restano sconosciuti l’intero progetto (da dove viene, dove va tanta mobilitazione internazionale?); e i veri mandanti - che sembrano al di sopra di chi ha cavalcato i media, con l’aria di essere san Giorgio sul punto di trafiggere il drago, e persino il boss del finto san Giorgio. Resta sul percorso la carcassa di un clamoroso falso. Resta una «grave minaccia» per la vita dei presunti inquirenti (ma opera, naturalmente, dei criminali inquisiti, leggi «Prodi»), una minaccia scrupolosamente inventata e pubblicamente sbugiardata. Resta sul campo il cadavere vero e crudelmente sacrificato di un alto «autorevole» teste della commissione in questione (il povero Litvinenko, ucciso lentamente e pubblicamente con il polonio). Resta una catasta di falsi annunci e di false notizie, mai davvero cancellate. Di nuovo, non è il Parlamento a rimuovere la sua vergogna, ma la magistratura che arresta il consulente-falsario.

Per il resto, come sempre la vita continua. Non segue una denuncia o uno scandalo; non segue nulla: tutti stanno onorevolmente dov’erano come se avere fallito nella costruzione di una vasta, costosa, falsa macchina d’accusa fosse una sorte adeguata, come avere bravamente tentato e fallito un primato sportivo. Ma la vita continua anche dopo la rivelazione di due clamorose reti di spionaggio: una pubblica, dedita a spiare - fuori da ogni legge - magistrati e giornalisti. Il suo capo è stato solo assegnato ad altro rispettabile incarico. L’altra rete (Telecom-Tim) immensa e privata, ha provocato almeno l’arresto dei suoi operatori. Ma i mandanti? E i destinatari? Qualcuno immagina che reti di spionaggio interno così mirate e così estese siano il frutto spontaneo di pochi individui troppo zelanti? E pervasi da quale zelo, al servizio di quale causa? Forse non troverete tutte le risposte, in questo libro, a causa del rigore giornalistico e dello scrupolo legale del suo autore. Ma certo trovate tutte le domande. E la mappa di molti percorsi. Per questo è inevitabile leggerlo.

Pubblicato il: 08.02.08
Modificato il: 08.02.08 alle ore 8.14   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il giorno delle svastiche
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2008, 07:56:08 pm
Il giorno delle svastiche

Furio Colombo


Nel giorno in cui ci avvertono che i nomi di docenti ebrei o ritenuti ebrei vengono indicati in un elenco su un misterioso sito antisemita, presumibilmente a cura del vasto rigurgito di destra che è rimasto tra le rovine del passato e i tentativi - sempre incompleti, a volte disastrati - di costruire una vera civiltà democratica, in un giorno così minaccioso abbiamo il dovere di allargare la brutta scena che stiamo osservando. Cercare tra i fascisti è un esercizio ovvio e però marginale, se si considera che solo pochi giorni fa abbiamo dovuto difendere gli scrittori israeliani che saranno onorati a maggio al Salone del Libro di Torino, dalla minaccia di boicottaggio (ovvero di un atto di disprezzo verso lo Stato di Israele, che di tutto ciò è simbolo, imperfetto ma pieno), e se si tiene conto che quelle minacce venivano da alcuni che sono o ritengono davvero di essere di sinistra, cioè dalla parte che ha combattuto e pagato con la vita per ridare la libertà e la dignità all’Europa senza il fascismo.

Non c’è bisogno di conferme: l’antisemitismo è vivo, sa come nascondersi, spostarsi e rinascere. E questo spiega perché alcuni di noi si sono battuti perché ci fosse un “Giorno della Memoria”; per ripensare a uno dei momenti più spaventosi di quel male, che è stato sul punto di riuscire nel progetto di sterminio di un popolo e di una cultura. Propongo che sia necessario notare un fatto che aiuta non tanto le grida di scandalo quanto la riflessione. Fatti del genere accadono in coincidenza con un espandersi, niente affatto mistico, ma esclusivamente terreno, della Chiesa cattolica come potere politico, capace di dare regole, di dettare leggi, di impartire ordini, di punire e premiare, per esempio con il voto. Qui importa notare l’intreccio fra l’allargarsi - nei fatti - di un potere temporale della Chiesa, che torna a parlare con una volontà di controllo su tutto, pensieri inclusi. E il ritorno di un atteggiamento di potenza, di intervento, di arbitrio, di coloro che colgono - nel loro modo distorto però già noto nella storia - il messaggio: si può dare la caccia, cominciando con il disprezzo, a chi non è nella Chiesa.

Dopotutto veniamo a sapere che chi non è nella Chiesa è portatore di una cultura di morte. Ripeto: si intende che il messaggio è distorto e non è la prosecuzione, ma la deformazione di un clima. Però quel clima di dominio del religioso (un unico “religioso”, il cattolico, il resto è “relativismo”) esiste davvero. E davvero sfiora i confini dell’area oscura che stiamo descrivendo quando avverte, in una nuova preghiera, che gli ebrei è bene che siano convertiti. È una preghiera terribile, perché stabilisce un’unica classe di esseri umani accettabili, i battezzati. Per gli altri c’è chi avrà pazienza come la Chiesa (che - nei secoli - non eseguiva la condanna a morte di un condannato ebreo prima di averlo convertito) e c’è chi, tra i battezzati, coglierà il senso del privilegio di essere dalla parte giusta, dunque la superiorità, dunque il diritto di purificare gli ambienti (università o saloni del libro) da presenze nemiche e pericolose.

* * *

Io credo che gli amici credenti, che forse sentiranno queste parole come una offesa (invece è, io credo, una descrizione dei fatti), coglieranno il punto politico che riguarda questa campagna elettorale e che è la difesa piena e totale dello Stato laico, per ricostruire una comunità che si fondi su quella naturale amicizia, volontà di comprensione e di collaborazione reciproca che è tipica di chi, con onestà e buona fede, crede davvero e di chi chiede solo che sia rispettata la sua rispettabile dichiarazione di non credente.

Ecco perché mi dispiace che i Radicali italiani, che hanno dato nei decenni della rinata e imperfetta democrazia italiana un contributo molto grande alla costruzione del rispetto (opponendosi, per esempio, alle continue messe in scena dei finti credenti, che ricostruiscono in politica le più colorite processioni del Sud italiano) non siano parte del dibattito nella politica italiana che ha come programma di ridare un futuro all’Italia. Non mi sognerei mai di immaginare che la presenza di tanti credenti dichiarati e, come dire, professionali, nel Partito democratico siano una sorta di freno a mano tirato. Ci sono e ne hanno diritto. Ed è naturale che almeno i più “professionali” fra i credenti di cui stiamo parlando (quelli, cioè che non escono mai senza divisa) siano irritati da Bonino e Pannella, quando propongono di tracciare chiare linee di reciproco rispetto fra ambiti e responsabilità diverse. Ma non credo che quella irritazione ci debba riguardare tutti al punto da rifiutare un rapporto attivo di lavoro politico con i Radicali nel timore di offendere qualcuno.

Sono sicuro che possiamo porre fine al carnevale dei finti credenti (che, un giorno si ammetterà, sta facendo non poco danno alla religiosità, al sentimento di fede) e al carnevale degli atei devoti (rispetto al quale una giornata di Gay Pride non è che un pacato corteo). Soltanto unendo le forze di persone che si rispettano e rispettano il diritto di credere e non credere, e di ottenere certi servizi indipendentemente dalle prescrizioni religiose, si possono ottenere certi servizi indipendentemente dalle prescrizioni religiose da parte delle istituzioni a favore dei cittadini. Sono sicuro anche che soltanto insieme credenti e non credenti potranno fare muro - come nella Resistenza - per impedire l’espandersi di gruppi che credono di trovare conforto nel nuovo piglio autoritario della Chiesa e provano di nuovo a tracciare i confini fra terra benedetta e terra sconsacrata. Nella terra sconsacrata sono ammesse, più o meno in nome di Dio, le scorrerie punitive, le umiliazioni, le prove di caccia, i tentativi di negazione.

* * *

Sto parlando al Partito democratico, che ha deciso di giocare con coraggio le due carte più rischiose e più importanti nella vita e nel futuro di questa Repubblica: la carta del «correre da soli», un ricominciare da capo con tutte le persone di buona volontà, affinché si diradi almeno un poco l’aria velenosa che tanti in Italia sono costretti a respirare. E infatti questa decisione ha creato un bel tumulto nella ex Casa delle Libertà. E la reale possibilità di governare bene un Paese nel quale ci si è abituati a promettere tutto e a non rendere conto di nulla. È ciò che è stato in questi mesi il tentativo di Romano Prodi. Intorno a quel tentativo si è stretta, durante due anni, senza alcuna pausa o interruzione e senza alcun riguardo per gli interessi del Paese, la garrota di un pesante ostruzionismo che ha preso il posto della normale opposizione democratica. Sappiamo anche che in quei mesi la continuità di buon lavoro dei Radicali dentro quel governo ha evitato teatro, dispute ed esibizioni, e portato risultati.

Il più importante è una ragione di orgoglio per tutto il Paese: la “moratoria contro la pena di morte”, accettata come appello a tutto il mondo dalle Nazioni Unite. Come si ricorderà, la “moratoria” radicale è stata copiata, in modo un po’ penoso, usando la stessa parola in senso rovesciato, non come liberazione ma come divieto assoluto di decidere per le donne.

È interessante che questa copiatura a destra di un’idea originale che appartiene al mondo che non concepisce divieti religiosi, corrisponda alla copiatura della sfida di «correre da soli» lanciata da Veltroni per il Partito democratico e subito adottata (ma di nuovo male e rovesciandone il senso: correre da soli non per chiarezza ma per sottomettere almeno uno dei riottosi alleati) da quella nuova cosa detta orwellianamente “Popolo della libertà”. La coincidenza dovrebbe richiamare una naturale affinità di questa nuova avventura con chi ci aiuterebbe a tenere ben vivo il senso laico della politica e dello Stato, senza porre alcun problema di rispetto, attenzione e lavoro insieme con le persone che sono credenti in politica, e non politici del credere.

Tutto ciò è giusto e utile ripeterlo nel “giorno delle svastiche” e degli elenchi di docenti ebrei. Diciamo che c’è qualcuno che più o meno deliberatamente capisce male il messaggio di egemonia della Chiesa. Ma quella pretesa di egemonia c’è, dunque il pericolo. Dirlo significa rispettare la Chiesa quanto lo Stato. Chi ha fiducia in quello che sarà e riuscirà a fare, anche in queste elezioni, il Partito democratico di Veltroni vorrebbe porre qui, adesso, le basi quella ariosa civiltà laica in cui vivono i nostri concittadini dell’Unione Europea e quelli americani a cui abbiamo chiesto di prestarci le parole «si può».

Sì, è vero, «si può». Cominciando con il metterci in cammino insieme verso il territorio del rispetto laico, dove credere non vuol dire prevalere, dove non essere credenti o cattolici non diminuisce i diritti di nessuno, mai.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 10.02.08
Modificato il: 10.02.08 alle ore 8.02   
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Titolo: Berlino, un Orso chiamato Rosi
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2008, 09:16:35 pm
Berlino, un Orso chiamato Rosi

Furio Colombo


Berlino ha attribuito il suo premio più importante, l’Orso d’Oro alla carriera, al regista italiano Francesco Rosi. Per gli italiani è un motivo di orgoglio. Lo è per chi non ha dimenticato che grande stagione e periodo della storia culturale italiana è stata quella affollata, con Rosi, di Visconti e Antonioni, di Fellini e di Scola, di Monicelli e di Bertolucci, un tempo in cui un rapporto stretto legava gli italiani al cinema, il cinema alla letteratura, e la pressione di narrare e rappresentare alla vita politica, agli eventi pubblici, a una sorta di militanza che, contro quanto si crede, non era necessariamente partitica, ma certo non era mai divagazione e astensione.

La giuria di Berlino ha voluto definire il ruolo di Francesco Rosi in quell’Italia, in quell’Europa, in quel periodo di lunga e salda presenza sulla scena della vita italiana.

Francesco Rosi è il regista de I Magliari, il regista de La sfida, il regista giovane che nota in modo istantaneo il nodo in cui si formano gli eventi italiani del dopoguerra, che poi diventano criminalità o impresa, banditismo o politica.

Nel cuore di una cultura elegante e amante di una certa grazia narrativa che si sta già facendo amare nel mondo, Rosi si situa a una distanza breve dalla vita. E la vita che lui vede e fa diventare film è umana, calda e brutale. Pulsa in quella vita la forza violenta di chi è deciso a sopravvivere e a vivere e a vincere, benché venga da un al di là di esistenza sociale che non ha ingressi, né scuole, né legami o garanzie o leggi. Non tanti italiani si accorgono subito di questo cinema. Ma l’Europa prende nota, colpita anche dal taglio netto di inquadrature e sequenze, che sono quello che sono, cioè realtà, senza un ornamento in più. E dalla potenza di quelle vite incolte e ordinarie che hanno la forza della tragedia. Rosi è il regista che - intorno a queste vite perdute - si impegna a vedere e a raccontare che cosa avviene in quelle esistenze quasi non raccontabili, in quelle vite di margine. E si libera di denuncia o realismo da un lato con la narrazione documentaria (quel che è vero è vero, quel che avviene, avviene) dall’altro con un senso nitido, chiaro, pedagogico della Storia che circonda e genera le storie.

C’è un punto di vista molto più grande di quella realtà. Ma è dalla parte del regista, che guarda e che trasforma la vicenda in film. Le dimensioni di quel film documento diventano quelle di un periodo della Storia, ben più grande di quelle vite, benché apparentemente non si veda.

Il capolavoro arriva presto e coglie di sorpresa soprattutto coloro che coltivano e ammirano il cinema strettamente legato ai fatti.

È Il bandito Giuliano in cui, in una serie di eventi filmati come a ridosso di ciascuno di essi, come per semplice e implacabile testimonianza, racconta di una vicenda di giovani fuori legge votati al sangue e destinati a morire, intorno ai quali, senza mai smuovere l’attenzione dai loro gesti, dai loro volti, dalle loro imprese, c’è il mondo che ha vinto e finito la guerra, c’è il rapporto fra l’Italia e gli Stati Uniti, c’è l’Italia di allora, confusione, contraddizione, negazione, abbandono, disperazione, speranza, o piuttosto promesse e attese.

C’è la storia misteriosa mai veramente chiarita del separatismo siciliano e di chi vi ha lavorato nell’ombra. C’è una Sicilia italiana e straniera, legata e respinta, abbandonata e occupata. C’è un progetto di secessione che forse non è di pochi esaltati. C’è l’ossessione di combattere i comunisti (L’eccidio di Portella della Ginestra in sequenze così perfette che ancora oggi vengono usate come se qualcuno avesse filmato il fatto nel momento in cui si è sparato sul corteo operaio e contadino del Primo Maggio) che nella parte malata della politica italiana continua da allora, pur attraversando grandi stagioni tra corruzione, ricostruzione, miracolo economico, altra corruzione, altre negazioni e segreti, altri miracoli.

La totale sorpresa del cinema, non solo italiano (Il bandito Giuliano è immediatamente un film del mondo) è nella grandezza tragica del protagonista che regge da solo e paga da solo un complotto forse vasto e potente. È nella irrilevante piccolezza del protagonista, bandito di periferia della periferia del mondo, vanesio, ingenuo, incolto, soltanto un braccio armato. In questo il film si rivela e il regista si annuncia: la forza anticipatrice, la forza profetica. Rosi, infatti, aggiunge alla fermezza documentaria del suo narrare cinematografico un senso allo stesso tempo istintivo e calcolato di organizzazione degli eventi, con l’occhio non tanto al passato quanto al futuro. Non dite «montaggio», che è solo una tecnica cinematografica. Piuttosto il senso, che appartiene all’arte, che il prima e il dopo non sono quelli della cronaca ma di una verità più profonda che diventa rivelazione. Come in una Bibbia incisa sulla capocchia di uno spillo, Il bandito Giuliano contiene tutte le storie di mafia che verranno, tutte le storie di complotto italiano che seguiranno, fino agli anni di piombo. Anticipa l’uso e la manipolazione delle vite degli altri, materiali umani mandati a morire per ragioni che non sanno, a nome di cose o persone che non si rivelano, portando e subendo orrore di cui a momenti si sentono protagonisti e di cui non sanno e non sapranno mai nulla. Quando, ne Il Bandito Giuliano i carabinieri di un’Italia che torna ad avere le sue Forze armate scendono e salgono per le stradine del paese, occupano, invadono, arrestano, penetrando nella notte in ogni fenditura di quella vita ignota a tutti, il film ti annuncia, per adesso e per dopo, che in quella folla acciuffata e ammassata sui camion militari, sono tutti complici e sono tutti innocenti. E i soldati, a loro volta, sono l’occupazione e la liberazione, tante carte a cui non sai che valore dare perché non sai chi le gioca. E c’è una profezia più netta e precisa del corpo di Giuliano ucciso, trofeo della legge che vince e cadavere della messa in scena, dove tutti, giornalisti italiani, inviati stranieri e magistrati e poliziotti, osservano ciò che è destinata ad essere la vita italiana, vera e falsa, colpevole e innocente, con una versione e con l’altra, fra strati di interessi, di rivestiture ideologiche, e la coperta corta della speranza che non riesce a nascondere quel corpo e a farci dire «meno male, è finita!».

Rosi non distoglie lo sguardo dalla realtà. E nel suo celebre film Le mani sulla città vede il cemento. Lo nota da solo e per primo come una causa di corruzione continua che in Italia sta per diventare il grande male cronico al punto che, a Venezia, quando finisce la proiezione del film che sarà Leone d’Oro, le signore milanesi in piedi, indignate usano le chiavi dell’Hotel Excelsior come fischietti per esprimere il loro disprezzo per quel film-denuncia. Forse prevedevano, che «Mani pulite» (il grido degli assessori complici della scena madre di quel film) sarebbe diventato il nome della più grande inchiesta giudiziaria sulla corruzione politica mai tentata prima. Strano regista, Francesco Rosi, che annuncia le sue storie italiane con quarant’anni di anticipo, come testimonia oggi, raccontando il cemento di Napoli,il giovane scrittore Roberto Saviano.

La performance di Francesco Rosi, regista di fatti veri e narratore visionario di eventi non ancora accaduti, si ripete con un altro dei suoi film non dimenticati, Il caso Mattei. Tutto ciò che accade oggi intorno al petrolio, fino al prezzo oggi raggiunto di 100 dollari al barile, è in quel film, in quella vita, in quella morte. Al punto che ogni tentativo di riaprire anche solo un frammento di indagine sul caso Mattei, ai giorni nostri, induce non i critici ma i magistrati a chiamare Francesco Rosi «per sapere».

Non conosco la motivazione di Berlino, mentre scrivo, non ancora. Ma credo che, nell’elenco di opere straordinarie che sono la vita e il lavoro di Rosi, abbiamo contato Cristo si è fermato a Eboli (nell’anno in cui il Senato italiano ha voluto celebrare con il nome di Carlo Levi il «Giorno della Memoria»), Tre Fratelli, documento unico sul formarsi del terrorismo visto dall’interno di una famiglia contadina-operaia. Ma anche La Tregua. Rosi è stato il solo regista a cui Primo Levi ha affidato il suo libro indimenticabile sul ritorno dall’inferno alla vita. In quel film - di nuovo - c’è l’incomprensibile catena di eventi che ha portato alla immensa fabbrica della morte, sostenuta dalla complicità del silenzio del mondo. E c’è l’imbarazzo, anzi il fastidio, di quei bravi cittadini che se ne vanno dalla piazza del mercato di Cracovia quando il giovane prigioniero appena liberato cerca di spiegare che non era stato imprigionato e destinato a morire perché «politico». Doveva morire perché ebreo. Quella è la scena in cui Francesco Rosi racconta, insieme con Primo Levi, l’inizio del dopoguerra, con le sue ombre tetre e lunghe (lo vediamo nei giorni in cui compaiono «le liste» della Sapienza di Roma, e si parla di boicottare il Salone del Libro di Torino se sarà dedicato a Israele) che incombono ancora su di noi.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 15.02.08
Modificato il: 15.02.08 alle ore 14.43   
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Titolo: I nipotini del Cavaliere
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2008, 09:19:11 pm
I nipotini del Cavaliere

Furio Colombo


Sì, è vero, finiamola con l’antiberlusconismo e usiamo toni pacati come è accaduto l’altra sera a Porta a Porta, nell’incontro del “leader necessario” (come Berlusconi ha definito se stesso) fronteggiato da quattro direttori di giornali.

C’è un problema. Le voci basse, i toni cauti che hanno impedito a Berlusconi di accusare come avrebbe voluto, e che lo hanno fatto apparire un po’ impiegatizio nello studio di Vespa, hanno permesso agli spettatori di rendersi conto che i direttori dei giornali non parlavano. È bastato un cronometro per verificare il rapporto fra il 10-12 per cento del tempo dedicato a brevi domande, e il quasi 90 per cento del tempo in cui hanno potuto espandersi le risposte.

Ci sarebbero delle osservazioni che valgono per il giornalismo di tutte le democrazie del mondo in tempo di elezioni e che, nella saga di Porta a Porta, non sono mai state osservate o, forse, conosciute. Una è che le stesse persone devono confrontarsi con i leader diversi. Se cambio il team degli interroganti che si confronteranno con i due leader dei maggiori partiti mancherà agli spettatori-elettori la prova di imparzialità e di equivalenza nella difficoltà della prova. Ma, fra i più malevoli, circolerà anche il sospetto che l’uno o l’altro sia stato favorito da persone più vicine o più amiche o che essi stessi hanno indicato. Tutto ciò serve solo per dire che le interviste politiche sono utili per far luce, non per conversare. Ed è questo il punto che vorrei sollevare. E non importa se non c’è - e non c’è stata in questo caso - ingiustizia nei confronti del secondo candidato (come si ricorderà la prima sera è toccata a Berlusconi, la seconda a Veltroni).

Importa il rischio di ingiustizia nei confronti degli spettatori-elettori rispetto ai quali c’è il problema di amputare parti di realtà, di fatti avvenuti, di cose che dovrebbero essere precisate o ricordate, di omissioni, che sono il peggior peccato della politica.


***

Ma per tentare di dimostrare ciò che vorrei dimostrare - e cioè che stiamo fuori dal giornalismo occidentale - vorrei brevemente seguire e ricostruire gli eventi della sera Vespa-Berlusconi.

Prendete l’inizio. Il conduttore è frizzante e ha ragione. Ancora una volta ha dimostrato che lui, e solo lui, controlla i cancelli del cielo. Vuoi esistere? Qui devi essere. Non è poco, non accade altrove. Ma come dice l’imperatore nella Turandot, «La legge è questa!».

Dunque all’inizio Vespa, garrulo, propone: «Parliamo di Casini e della Udc» E viene subito interrotto dal leader del Popolo della Libertà con un pacato: «No, parlo io».

Questo è un diritto che non spetta all’intervistato, a meno che non sia Putin, Ahamadinejad o (forse) un primo segretario del Partito comunista cinese. Però parla lui ed esordisce con la frase: «Tutto quello che volevo fare l’ho fatto. E l’ho fatto bene».

Ed elenca indisturbato eventi che narrano di una serie di trionfi grandiosi. Afferma che sono otto milioni (otto milioni) gli italiani che hanno affollato i suoi gazebo, che l’Università di Siena (non ci viene detto il Dipartimento) ha certificato la realizzazione dell’85 per cento del suo “patto con gli italiani”. Arriva ad affermare, con un po’ di imprudenza che «con Mastella era tutto preparato, la caduta di Prodi non è stato un caso, non è stata una sorpresa». Fior di notizia. Ma sul fondo campeggia, grande e luminosa la scritta «Basta giochetti». Manca la spiegazione: giochetti di chi? contro chi?

Entra, funereo, lo slogan della campagna berlusconiana. «Alzati Italia» perché, spiega l’autore, la sinistra l’ha messa in ginocchio. Ma l’affinità di linguaggio che il pubblico coglie è piuttosto con la serata Vespa dedicata a Lourdes in un’altra puntata.

Qui c’è una spiegazione interessante. Le nostre disgrazie sono dovute al fatto che noi italiani siamo soggetti (cito) «ad una oppressione fiscale, burocratica, giudiziaria». Qualcuno ha chiesto notizie di queste tre oppressioni? Purtroppo no.

Sulla terza oppressione sappiamo tutto, dal punto di vista di Berlusconi. Sulle altre, forse, avrebbe dovuto spiegare il protagonista, incalzato dalle domande. Ma - come ho detto - non è accaduto. Non ci sono state domande.

I direttori di quotidiani incaricati di investigare per noi spettatori la mente, i progetti, i propositi, le intenzioni psicologiche, i programmi politici del centrodestra (ma non c’è più il centro) sono Ferruccio De Bortoli (Il sole 24 ore) Pierluigi Battista (Il Corriere della Sera), Mario Orfeo (Il Mattino di Napoli) e Piero Sansonetti (Liberazione).

Ascoltano. «Dobbiamo tagliare l’Ici. Per tagliare l’Ici occorre tagliare la spesa pubblica. E riaprire tutti e 106 i cantieri delle grandi opere, a cominciare dal Ponte di Messina». È possibile fare tutto questo e in questa sequenza? Non ci sono domande. Orfei vorrebbe ritornare a Casini. Risposta: «Abbiamo avuto due milioni in piazza, otto ai gazebo,e tutti hanno votato il mio nome. Non lo vede Casini che sono io il leader?».

Tocca a Sansonetti. Il direttore di Liberazione stabilisce subito ce non c’è differenza fra Polo della Libertà e Partito democratico «Sia lei che il Pd non vedete il problema dei salari» afferma, certo senza imbarazzo per Berlusconi. Il leader del Popolo delle libertà viene incoraggiato a non sentirsi solo.

Questa è una domanda corredata da scheda, ovvero film su come è duro sbarcare il lunario per tanta gente in questa Italia di Prodi. E nessuno precisa (o chiede) se era meglio o peggio l’Italia dei cinque anni di Berlusconi. E nessuno si domanda: ma se c’è un filmato sulla domanda di un giornalista, vuol dire che quella domanda era concordata. Dunque lo sapeva anche il candidato sottoposto alla griglia della intervista come in certi esami di notai, che però, quando qualcuno se ne accorge, vengono annullati.

Infatti Berlusconi, prontissimo, può annunciare che Prodi ha tolto 40 miliardi dalle tasche degli italiani. Tutto ciò senza obiezione di quattro giornalisti di punta. 40 miliardi. Come? In che modo? Quando?

Ma Berlusconi ha anche da annunciare un vasto piano di case popolari di cui «ho già studiato la cubatura» (testuale).

Dice di se stesso: «I miei nipotini mi considerano Superman». Il silenzio benevolo lo incoraggia a pensare che i suoi nipotini non sono soli.

Poi afferma che la caduta della nostra immagine del mondo ha abbattuto le nostre esportazioni. L’Istat ha appena fatto sapere che, mentre era ministro Emma Bonino, le esportazioni (che erano in negativo ai bei tempi) sono salite del 12 per cento, con positiva bilancia commerciale. Ma chi siamo noi per farlo notare a Berlusconi? È qui che Ferruccio De Bortoli parla della indecente scena che si è vista in Senato (e nelle televisioni del mondo) a celebrazione della caduta di Prodi. Mortadella e champagne.

Gli altri direttori non raccolgono. Si sente sussurrare dal Capo del Popolo della Libertà che non saranno rieletti i “colpevoli”. Chi era in Senato ricorda una scenata indecente da parte di tutta l’opposizione. Ricorda molti altri protagonisti, oltre all’ormai celebre senatore Strano (il primo a inondare di champagne i commessi, ma non il solo). E l’altra star del “Saloon Senato”, il senatore Barbato, noto per lo sputo e il gesto della pistola. Sarebbe stato bello chiedere a chi ha potere di vita e di morte su tutto il Popolo della Libertà: «Chi esattamente non rieleggerete a causa di quel terribile evento?». Non è stato chiesto. E mi sento di dire che non accadrà perché ogni presunto colpevole potrebbe indicarne un altro con tanto di immagini.

Ma nella serata di Vespa è già partito un filmato sull’immondizia di Napoli, generata dal solo Bassolino negli ultimi sette anni, con musica tipo «Germania anno zero».

Battista interviene con una idea che potrebbe cambiare la storia italiana: «Presidente, perché non fa lei, magari ad interim, il ministro delle opere pubbliche e dei rifiuti?». Finalmente, fa intendere Battista, sarà risolto il problema.

Quel problema, come ogni altro problema. Perché Berlusconi i problemi li risolve tutti. Cadono qui due affermazioni incontrastate. Berlusconi promette che riaprirà tutti i cantieri, realizzerà l’alta velocità in Piemonte anche con la forza, costruirà, eccome se costruirà, il ponte di Messina.

Dice che l’85 per cento del suo programma è stato realizzato. E poiché quel programma era - pensa Berlusconi - perfetto, l’Italia dovrebbe essere oggi l’85 per cento del Paradiso. Possibile che Prodi-Attila abbia distrutto tutto in così poco tempo?

Sansonetti resta sull’argomento Tav. Elenca subito le colpe del Partito democratico e reclama attenzione per la sinistra che lui rappresenta. La domanda è legittima, ma il nemico è molto più il Pd che il Popolo della Libertà. E a questo punto, dopo la pubblicità, Vespa confida agli spettatori: «Sapete? Durante l’interruzione i direttori mi hanno detto: “Ma hai visto come è moderato Berlusconi? Avremo una campagna davvero soft”».

Questa non è che una piccola parte di cronaca di una trasmissione di quasi tre ore. Resta indispensabile citare solo una affermazione di Berlusconi caduta nel silenzio ma che dovrebbe essere destinata a fare il giro del mondo. Trascrivo: «Stiamo pensando con Don Verzè a una nuova struttura che è già in costruzione a Verona per portare la durata della vita umana a 120 anni». Invece di fermare la trasmissione per riflettere insieme col pubblico su un simile annuncio e saperne di più, Vespa ha fatto una domanda sulla signora Rosa, la madre di Berlusconi, appena scomparsa. Berlusconi ha risposto con comprensibile commozione. E l’argomento della vita quasi eterna è rimasta in sospeso.


***

Perché ho ricostruito questa serata elettorale, segnata da alcune anomalie, ma non le peggiori nella storia di Porta a Porta o del personaggio politico Berlusconi, nella sua quinta incarnazione da candidato? Perché lo spettacolo quotidiano delle primarie presidenziali americane ci contagia con una rovente nostalgia di un mondo normale, in cui i politici fanno i politici e i giornalisti fanno i giornalisti. Non mi sento di dare torto a Berlusconi per lo spazio libero che gli è stato donato. Lui è un uomo fortunato. Ma mi sembra indispensabile, per l’equilibrio della campagna elettorale che verrà, elencare, con la maggior cautela possibile, alcune domande a Berlusconi che non sono state fatte dai quattro direttori.

Quelle che seguono sono solo una piccola parte.

1 - Lei ha definito la Lega l’alleato più fedele. Ma Bossi aveva invocato la rivoluzione e parlato di armi «che si possono sempre trovare». Ha cambiato parere? Ha ritrattato? Quando?

2 - Dopo gli impegni presi su integrità e trasparenza delle liste, candiderà il senatore dell’Utri la cui condanna è passata in giudicato? E gli altri condannati e pregiudicati?

3 - Come pensa di finanziare 106 cantieri e costruire il Ponte di Messina e allo stesso tempo togliere l’Ici e tagliare le tasse, mentre crollano le Borse del mondo e vacillano grandi banche?

4 - Lei ha appena detto: «La lotta all’evasione fa paura. Calano i consumi , si ferma la produzione». Vuol dire fine della lotta all’evasione e ritorno alla politica dei condoni?

5 - Ha detto che, durante il periodo Prodi, la criminalità è aumentata. Quando? Come mai le indicazioni dell’Istat dicono che, invece, è alquanto diminuita?

6 - Lei dice che l’Italia è in ginocchio. Dice il contrario di ciò che affermano le fonti europee e internazionali, che mostrano di apprezzare la risalita dell’Italia. Può dare alcune ragioni tecniche e statistiche per la sua affermazione?

7 - Può indicarci dove, in quali eventi, opere o leggi, si è realizzato l’85 per cento del suo programma? Possibile che Prodi abbia distrutto tutto in così poco tempo, fino ad andare, in venti mesi, dal trionfo alla caduta in ginocchio?

8 - Parlando di calo della disoccupazione per merito suo, lei ha citato gli anni 2006 e 2007. Ma in quel periodo l’Italia veniva devastata da Prodi, come lei dice. Può spiegare la contraddizione?

9 - Come pensa di agire con i cittadini che continuano a non volere la Tav? Userà la forza?

10 - Perché abbiamo dovuto correre alle elezioni, rinunciando a cambiare una legge elettorale sbagliata? Qual è la ragione o le ragioni della concitazione e accelerazione cui è stata costretta l’Italia?

11 - Può condividere con noi il progetto geniale suo e di Don Verzè che consentirà il prolungamento della vita umana a 120 anni, o resterà un segreto riservato al Capo del Popolo della Libertà, che lei ha definito, modestamente, indispensabile e insostituibile?

12 - Infine, se fortunatamente vivrà così a lungo, è possibile che prima di quella remotissima data sia permessa l’approvazione di una vera legge sul conflitto di interessi?


Pubblicato il: 17.02.08
Modificato il: 17.02.08 alle ore 15.09   
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Titolo: Furio COLOMBO - Radicali subito
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2008, 06:16:59 pm
Radicali subito

Furio Colombo


Credo che molti, anche fra i lettori di questo giornale, si stiano domandando con un po’ di impazienza e un po’ di fastidio, perché non si è ancora arrivati alla conclusione: il Pd con i Radicali per affrontare una campagna elettorale difficile e insidiosa a causa del terreno scivoloso, di sceneggiate pseudoreligiose, del rischio di un clamoroso squilibrio mediatico, del vento furioso (vedi Fiorello) dell’antipolitica. E persino di passione politica vera che cede all’esasperazione e rischia lo sbando. Ho detto «impazienza» e «fastidio» e spiego. L’impazienza è dovuta al ripetersi di un rinvio che, da fuori e da lontano, non si capisce. È tipico di una cosa nuova in cui i cittadini vedono una seria possibilità di rovesciare la situazione e cambiare l’aria di un’Italia invivibile, di agire presto e bene.

Ci sono certo molte spiegazioni. Ma l’impazienza è inevitabile, perché, letteralmente, non c’è tempo da perdere.
Ho detto «fastidio» per evocare un sentimento che credo ambivalente, tra molti ex Ds e tra molti ex Margherita che ora sono vita e struttura del Pd.
Immagino (penso per esperienza) che molti di loro stimino e approvino la presenza dei Radicali, in un momento di svolta politica davvero radicale come questa, e chiedono che si decida in fretta. Ma so anche (per esperienza) che il fastidio di altri non è il tempo della trattativa che si dilata, ma tutto questo discutere e il desiderio che si chiuda presto, anche subito, con l’esclusione di una presenza che porta troppa tensione, disturba l’idea di una presunta compattezza sui temi «sensibili».
I lettori sanno come concluderò questa nota. La concluderò dicendo di credere fermamente che i Radicali dovrebbero partecipare, con i Pd, a questa impresa arrischiata e promettente di portare l’Italia fuori da una prima claustrofobico e dentro un presente-futuro europeo, occidentale, libero, privo di fobie e di ripetizioni di errori. Ma cerco di motivare.

Primo, in politica non c’è miglior criterio del già fatto. Il già fatto, con la presenza dei Radicali, dentro e accanto al governo di Prodi, sono state due prove diverse e importanti: il lavoro (e il modo di lavorare) di Emma Bonino. E la «Moratoria sulla pena di morte del mondo» approvata dall’Onu. Chiedo anche a coloro che non hanno simpatia per Pannella o credono che Radicali voglia dire «destra», di considerare lo spazio davvero notevole di una presenza segnata da questi due punti: il buon lavoro, leale, concreto (tra l’altro con risultati da record, più dodici per cento nelle esportazioni italiane) e il punto alto, nobile, disinteressato segnato per l’Italia con la «moratoria». È stato un risultato talmente alto da ispirare accaniti imitatori, che vorrebbero rifare la prova a rovescio, ma sognano una equivalente mobilitazione morale. Il Pd ha la possibilità di avere in casa l’originale, mentre fuori infuriano le imitazioni. Non me ne priverei.

Secondo. Possiamo discutere fino a domani sul «più a destra» o «più a sinistra» dei Radicali. Però, da un lato è impossibile dimenticare i due o tre drammatici eventi che, grazie alla loro ostinazione, hanno cambiato la vita italiana e l’hanno resa europea prima che ci fosse il legame dell’Unione (il divorzio come dignità delle coppie e la libera scelta come dignità delle donne).
Dall’altro come non attribuire, in un partito nuovo e moderno, capitale importanza ai diritti civili, che sono esattamente il punto di forza della spesso invocata battaglia americana di Barak Obama?

Terzo, la questione spesso malposta e maldiscussa, della laicità. È malposta quando sono gli altri che pretendono di decidere se la tua laicità è “sana”. È maldiscussa quando le persone credenti che credono di opporsi al «laicismo» in realtà si oppongono alla integrità e intangibilità dei diritti civili.

I Radicali, dovunque vadano, portano in dote la laicità come fatto già discusso e deciso dalla Costituzione e dai fondamenti della democrazia. Un bene dunque non negoziabile non per superiore grado di moralità, ma perché su quei diritti si fonda l’edificio nel quale è garantita, come bene comune a tutti, la libertà di religione. È una visione nella quale i contenitori che tradizionalmente ci vengono indicati (la fede che contiene la vita civile e la regola) sono rovesciati: la vita civile - quando è sistema democratico - include, sostiene e protegge tutti i diritti, a cominciare dal diritto dei credenti. Direte che non di questo si sta discutendo per ore ogni giorno fra Pd e Radicali. Direte che sia sta discutendo di liste, di simboli, di modi di partecipare, di visibilità, di collocazione dei nomi che identificano e contano. Tutto vero. Ma il punto cruciale non è la modalità della trattativa ma il valore di cui si discute.

Poiché sono convinto che questa campagna elettorale vada condotta nel modo più alto e chiaro e pulito, a cominciare dai simboli (e questa sarà la prima vittoria, anche se quella delle urne ci terrà col fiato sospeso fino all’ultimo giorno) sono certo che si dovrà partecipare insieme a questo importante episodio di vita italiana ed europea. Invece di ricordare la bella e famosa frase di Charlie Brown («ho bisogno di tutti gli amici che posso trovare») dirò l’altra: certe presenze segnano e garantiscono. Persino i militanti della antipolitica vedono subito quando una alleanza e uno stare insieme non è di convenienza ma di valore. E ha a che fare con la reputazione (che per qualcuno vale ancora) degli uni e degli altri.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 20.02.08
Modificato il: 20.02.08 alle ore 10.01   
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Titolo: Furio COLOMBO - Lavoro, maledetto lavoro
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2008, 11:26:49 pm
Lavoro, maledetto lavoro

Furio Colombo


È stata la cacciata dall’Eden o la globalizzazione a svilire il lavoro e a far diventare merce la vita di tanti?
Cerco di riflettere intorno a un fenomeno che sta diventando il grande dibattito nella campagna elettorale americana e in quella italiana. Il lavoro è una disgrazia, un dovere o una sgradevole, temporanea necessità?

Certo niente è più strano del lavoro nella vita umana: lo cerchiamo e desideriamo come una salvezza appena adulti, lo sopportiamo come un pesante bagaglio per decenni, se lo troviamo, e lo lasciamo malvolentieri, nonostante le false dispute sulla presunta voglia di molti di andare in pensione troppo presto e che invece è solo paura di non trovare più la pensione, cioè un residuo decente e dignitoso della paga.
Se esistesse una storia del lavoro, ci accorgeremmo subito che si alternano nei secoli periodi di troppo lavoro - dalla schiavitù delle filande ottocentesche in cui si lavorava anche la domenica. In quei periodi l’infelicità veniva dalla fatica. E periodi senza lavoro, tra carestie, fame, pestilenze e guerre. E allora l’infelicità è provocata dalla penuria.

Mi ricordo di una notte indiana - erano gli anni Sessanta - in cui sono uscito dall’Hotel Taj Mahal di Bombay (credo che oggi dicano Mumbai) e mi sono accorto che la passeggiata notturna che mi ero proposto non sarebbe stata possibile.
Tutte le strade, tutti i marciapiedi, larghi percorsi e vicoli oscuri, erano occupati da corpi che dormivano. Era come una città scoperchiata, come vedere dentro migliaia di case, ma attraverso una vertiginosa diversità di classi. C’era chi dormiva sulla strada con lenzuola e cuscini, chi con una coperta, chi solo con uno straccio, chi con niente. Niente vuol dire nudo sull’asfalto, dunque una immagine estrema e finale della vita senza il lavoro, da cui si risaliva a un di più guadagnato con più mani, più ore, più abilità, più fatica, fino a una curiosa soglia del benessere che l’India, allora, ti rivelava: arrivavi ad avere molto con il lavoro, anche le belle pentole di rame ben lucidate, disposte intorno alla sposa che dorme. Molto ma non la casa.

Ci ho pensato quando ho cominciato a leggere sui giornali americani, e a vedere nelle immagini della Cnn, di Sky, di Fox Television le famiglie americane che, a causa della crisi dei mutui non più rimborsabili (la crisi che sta facendo zigzagare le Borse del mondo e sta facendo tremare immense banche) hanno perso la casa, che è stata ripresa dal creditore quasi all’istante. Anche in quelle immagini c’erano pentole e suppellettili, oggetti della comune intimità domestica, coperte piegate con cura e camicie pulite. E volti di uomini e donne che non avevano perso il lavoro ma avevano perso la casa e chiedevano con stupore alle telecamere: «E adesso dove vado?». Chi avesse avuto la pazienza di restare fino alla fine di quel notiziario (o di sfogliare fino alla parte “economia” le pagine del giornale) avrebbe notato una strana relazione tra quelle immagini e titoli secchi e chiari come questi: «GM: 30 mila licenziamenti». «Citybank: dopo la crisi dei mutui ne hanno lasciati andare 20mila».

Gli eventi dell’economia sono strani, imprevedibili, così sorprendenti da disorientare navigati investitori ed esperti banchieri. Ma, al momento del rendiconto, la punizione colpisce il lavoro in una delle due certezze su cui ha ipotecato la vita: la casa e il lavoro. Ricordate lo slogan di tante manifestazioni, prima del ‘68? Già, perché il ‘68 ha spinto in scena l’immaginazione. Ma per l'immaginazione occorreva avere lavoro e casa, sia pure di altri, e tante vite giovani che hanno invaso piazzole di sosta per fare festa, decise a non risalire sul pullman che porta al lavoro. Oppure alla più strana e allegra forma di ribellione: non voler sapere dove ti porta quel pullman. Di tutto abbiamo discusso in quegli anni, di pace, di guerra, di musica, di poesia, di teatro e se fosse concepibile la violenza (che poi è esplosa senza che potessimo dire perché, contro chi, manovrata da chi) ma non abbiamo parlato molto di lavoro. O perché chi aveva il microfono aperto faceva lavori che gli piacevano. O perché tanti avevano fatto un sogno: il lavoro scompare. Il lavoro è il passato. Tutti noi esseri umani meritiamo una vita migliore.

Ecco ciò che non si è verificato. La cultura si è distratta e il lavoro si è fatto più squallido, più duro, più instabile, più raro. Una vera e propria svolta, sia pure simbolica, l’ha segnata a nome di molti, nel mondo, Ronald Reagan.
Quando è stato eletto Presidente era in corso uno sciopero dei controllori di volo americani. Invece di trattare, il nuovo presidente li ha licenziati tutti, stabilendo due punti importanti della nuova epoca. Il primo è che su tutto decide il mercato. Il secondo è che il mercato può benissimo essere ingiusto perché la regola è sempre la stessa: vince il più forte. Ma il vero gesto di resa che viene richiesto è affermare, anche dal fondo di un altoforno, che il mercato sa, il mercato vede, il mercato regola. In poche ore nuovi controllori di volo sono stati assunti, e quelli sindacalizzati non hanno mai più lavorato. Salari più bassi e niente cure mediche. I lavoratori sono stati invitati a competere non tra chi fa meglio ma tra chi costa meno.

* * *

Ecco perché è stato importante vedere in questi giorni tre film che stanno segnando la vita italiana: La signorina Effe di Wilma Labate, In Fabbrica di Cristina Comencini, Morire di lavoro di Daniele Segre. Hanno una domanda in comune, una domanda a cui non stiamo rispondendo, anzi che non riusciamo neppure a formulare: in quale civiltà viviamo? Qual è la nostra epoca? Quale destino stiamo subendo o disegnando o aspettando per i più giovani?

Mi sbaglierò ma sono convinto che in questi stessi giorni qualcuno sta pensando a film come questi per il periodo della vita che viene subito prima del lavoro. Gli insegnanti lo dicono e lo ripetono: ragazzi e ragazze non ti parlano più, con la tenacia proterva di alcune generazioni fa, del lavoro a cui pensano, quello che vorrebbero fare “da grandi”. I grandi, in quanto più vecchi, non interessano. I grandi che interessano sono ricchi e famosi: hanno i soldi, donne e tempo libero. E - cosa nuova nella Storia - dedicano il tempo libero al tempo libero. Insomma la vita o è una festa o è niente. E forse per questo i film sui ragazzi (da Muccino a Moccia) sono meno inventati e più veri di quel che sembra. Solo che non hanno né un prima né un dopo. E raccontano vite sospese fra soldi e lavoro di altri, in cui niente è stato deciso prima e niente è stato deciso per quella cosa strana chiamata futuro, che non ha più il suono d’avventura e di promessa di un tempo.

Ti fanno desiderare solo il presente, l’unico istante in cui consumo e vita giovane coincidono.
La signorina Effe sfiora un progetto mite e benevolo di felicità: l’istante in cui si congiungono la certezza del lavoro, il riscatto dello studio e la forza di un amore. Ma, come da un sogno, qualcuno ti sveglia per farti notare che la felicità non coincide con il lavoro, che l’amore non fa parte né della storia sociale né di quella sindacale, che la laurea è uno scatto di categoria non un lampo che illumina e cambia la vita.

In Fabbrica è una serie di materiali veri montati come un ansioso cercar di capire di qualcuno arrivato adesso nel mondo. Chi è questa gente che va a un lavoro come a un destino, senza gioia e senza tristezza, per un numero di ore - ogni giorno - quasi uguali alle ore del sole? Ricordate la cattiveria degli studenti agitatori ne La classe operaia va in paradiso di Petri quando gridano agli operai del turno «andate, andate in quella caverna. Tanto quando uscirete sarà già buio!». E sembrano non rendersi conto che senza quegli operai non esistono gli studenti, che senza gli operai quella fabbrica non può esserci, e senza la fabbrica non c’è la città, con tutte le sue attività e i suoi negozi.

Se non ci fosse, la vita cambierebbe per sempre o perché altri operai costruirebbero altre cose, in turni di otto ore per volta più il viaggio di andare e venire, più un’ora per mangiare, più sei ore per dormire ed essere in piedi presto per lavorare di nuovo. O perché la città diventerebbe Calcutta.
Anzi no, perché Calcutta ha cominciato a produrre con fabbriche, in turni di otto ore più il viaggio di andata e ritorno, più l’ora per mangiare, più le ore per dormire. Ma se il lavoro conta così tanto da cambiare una città, una vita - e dunque un’epoca - perché contano così poco gli operai?

Perché il posto di lavoro è l’ultima cosa che aggiungi e la prima che tagli nel respiro forte e affannoso delle civiltà industriali?
E perché il lavoro ha sempre avuto meno dignità, meno inchini, meno ringraziamenti, meno cerimonie, meno bandiere, meno altari della patria, dei soldati, dei religiosi, degli statisti, degli uomini di finanza? Eppure - se il lavoro si ferma - si fermano tutti e cade persino il vento che agita le bandiere.
Una risposta è nel film - così doloroso che a momenti è insopportabile - di Daniele Segre Morire di lavoro.

C’è un punto - ha scoperto Segre - in cui vita e lavoro si congiungono, in cui il lavoro acquista tutta la sua dignità di destino, tanto che assisti al susseguirsi dei volti narranti come alla cupa parata di un esercito. È l’istante in cui qualcuno muore sul lavoro, muore di lavoro, e qualcuno - che lo ha lasciato al mattino e lo aspettava di sera (di solito donne) - racconta di quella amputazione improvvisa. È come nei casi di cecità annunciati da lampi di luce che tormentano gli occhi. Anche qui, sul “buio del lavoro” (questa frase è stata usata con me da Adriano Olivetti quando mi ha chiesto di lavorare in fabbrica come modo di entrare nell’azienda) scatta un lampo in cui intravedi, abbagliato, tutta la vita di un essere umano, non tanto ciò che è stato ma il senso di ciò che non sarà mai.

Certo, per molti di noi tutto è cambiato quando sono morti, in una immensa vampata di fuoco, i sei della Thyssen Krupp di Torino mentre stavano tentando di consumare le loro prescritte ore in più di straordinario (che - adesso molti esperti dicono - sono il segno del merito, quel merito che fa mercato).
Tutto è cambiato perché quella vampata di fuoco è come se l’avessimo vista. Come se l’oscuro rituale di morire in fabbrica, ciascuno per sé, ciascuno una disgrazia, e i compagni di lavoro più vicini, soli destinatari di quel messaggio perduto, fosse adesso un evento pubblico. Come se quelle morti fossero una specie di rito, come la messa solenne o l’altare della patria.
Che cosa celebra quel terribile rito che quasi nessun italiano ha potuto far finta di non vedere? Certo spinge avanti la domanda: siamo sicuri che il lavoro conti così poco al punto da offrirlo per ultima cosa, da tagliarlo per prima cosa e da rimproverare sempre per il costo eccessivo?

Tre film inaspettati e una vampata di fuoco ci chiedono il tentativo di una risposta più chiara. Che civiltà è quella in cui si muore di lavoro più che in guerra eppure il lavoro non conta nulla, poco più di un fastidio, di un ronzare noioso nelle stagioni in cui scadono i contratti?
Poiché questo è un periodo elettorale prendiamo un impegno: noi parliamo di lavoro. Di chi lavora. Di come lavora. Di come vive e di come muore. Il lavoro è un peso morto solo quando lascia cadaveri in fabbrica e famiglie sole di cui ci si dimentica nel giro di due settimane. Certo, il mercato è mercato. Ma la civiltà è un orizzonte più grande. Ed è lì che guardiamo.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 24.02.08
Modificato il: 24.02.08 alle ore 12.41   
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Titolo: Furio COLOMBO - Fascisti tra noi
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2008, 11:14:47 pm
Fascisti tra noi

Furio Colombo


Nessuno, credo, ha dimenticato il bellissimo "Fascisti su Marte", lo spettacolo Tv e il film di Corrado Guzzanti. Si rideva del ridicolo, che imitava riti veri e gesti veri di veri e ridicoli e sanguinari fascisti italiani, nei vent´anni del loro governo marcato dalla vergogna assassina delle leggi razziali. Si rideva come se il ridicolo fosse l´esagerazione un po´ spiritosa e cattiva di una vecchia realtà. Chi c´era, a quel tempo, chi ha visto, chi può ancora narrare quei giorni, può dire che sono stati peggiori di tutto ciò che abbiamo letto o ascoltato, sia nella parte ridicola (di cui, in tempo reale, era pericolo mortale ridere) sia nel volto tragico che prometteva sangue e ha sempre mantenuto quella promessa.

Se vi sembra che questo linguaggio sia un po´ pesante, in un´Italia dove tutti vogliono parlare con un tono più neutrale, tenete conto dei fascisti. Tenete conto del fatto che, in queste elezioni sono "in corsa" anche i fascisti. Strani primati, infatti, distinguono l´Italia dagli altri Paesi dell´Unione.

Siamo stati gli unici in Europa ad avere personaggi come Borghezio, Lega Nord, molto attivi nel dare fuoco ai giacigli di immigrati poveri sotto i ponti della Dora a Torino (condanna per un reato spregevole, passata in giudicato, ma che non ha impedito a Borghezio di essere, come è tutt´ora, deputato a Strasburgo della Repubblica italiana, molto attivo, tra la costernazione di tutti i suoi colleghi psichicamente e politicamente normali, nell´ aggredire e insultare il capo dello Stato italiano quando si reca al Parlamento europeo).

Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.

Non ho letto un solo editoriale dei "liberali" che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.

Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.

Non ho letto un solo editoriale dei "liberali" che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.

Molti commentatori e corsivisti trovano divertente che vi siano signore della buona società che si dichiarano «orgogliose di essere fasciste» e si iscrivono al primo e al secondo posto della lista elettorale fascista. Le intervistano come a una sfilata di moda e registrano senza obiezioni risposte deliranti e certamente estranee alla Costituzione in vigore che, in qualunque altro Paese, sarebbe un argine invalicabile.

Ma prima delle signore che stanno accorrendo dalle migliori famiglie intorno all´iniziativa dichiaratamente fascista di Storace, credo sia necessario esibire un´altra evidenza, come si direbbe in un processo: il fascismo nelle scuole. Ne ha parlato su questo giornale Marina Boscaino, insegnante e giornalista. Ha fatto notare le nuove dimensioni del problema. Non stiamo parlando di "gruppetti" e meno che mai di "nostalgici". Per la prima volta nella storia italiana del dopoguerra, una parte dei ragazzi italiani che va a scuola (non i più stupidi o volgari o disattenti e - tra loro - alcuni veri leader) guarda al passato solo come area di raccolta di simboli e senso di quello che fanno. Il passato è una prova che si può fare. Fare che cosa? Passare all´azione. Contro un mondo che non funziona, non può funzionare perché si chiama democrazia.

In altre parole, questi ragazzi sono ben radicati nel presente, e nonostante la propensione tipicamente fascista per riti o celebrazioni funebri, hanno cose da fare per il presente, e un senso molto vivo, niente affatto qualunquista o opportunista, del futuro. L´immagine è quella di una lama che taglia i nodi della complicazione che è la democrazia imbrogliona e borghese, della ingiustizia che in un simile mondo è inevitabile, della "legalità", parola pronunciata con ribrezzo, in nome di una civiltà pulita che si crea con uno slancio superiore di persone decise a tutto e consapevoli della loro missione nella storia. Insomma un nuovo fascismo "allo stato nascente", per usare l´efficace definizione di Francesco Alberoni.

* * *

Traggo materiale e ragioni di ciò che sto dicendo da una lettera pubblicata da la Repubblica (28 febbraio) a cui risponde Corrado Augias.

La lettera: «Frequento il secondo anno del liceo classico Virgilio di Roma, ho letto e assistito a manifestazioni scolastiche di rinascita di movimenti fascisti nelle scuole.... Voi forse pensavate che il fascismo avesse dato gli ultimi colpi di coda, che fosse un´ideologia logora. Avevate ragione. Quelli che oggi nelle scuole si autodefiniscono "fascisti" sono ragazzi come me e tanti altri.... Questa lettera è anche una richiesta di comprensione. Il presente è vostro. Il domani no».

Trascrivo in parte la risposta di Corrado Augias: «"Il fascismo" è il rivestimento, la buccia, di domande piuttosto ragionevoli. La buccia fascista, però, si accompagna inevitabilmente a una certa voglia di menar le mani. L´aspetto veramente preoccupante è che i ragazzi di sinistra hanno perso l´iniziativa. Non hanno capito in tempo che bisognava mettere da parte il dibattito sulle ideologie, che ormai interessano poco, e lottare invece per i problemi di ogni giorno».

Utilissima questa lettera e questa risposta, e dobbiamo cominciare da qui.

Lo farò alla luce della pubblicazione "Blocco Studentesco" (anno I, numero 2) diffuso in questi giorni nei licei romani, che ha per sottotitolo «l´avvento dei giovani al potere contro lo spirito parlamentare, burocratico, accademico».

Titolo di copertina. «Giustizia!» Spiega l´articolo di fondo: «La Giustizia è troppo spesso accomunata alla legalità. Per favore non diciamo cazzate. In un Paese dove avere la casa è un lusso, dove i mezzi di informazione sono controllati, dove un innocente come Luigi Ciavardini (ritenuto co-autore della strage di Bologna, ndr) viene condannato a trenta, dico trenta anni di reclusione, dove un ragazzo come Gabriele Sandri viene assassinato senza motivo (il tifoso della Lazio ucciso sulla A1 da un agente di polizia che parla di colpo accidentale, Ndr) dove, a distanza di trent´anni da una delle peggiori stragi degli anni di piombo, quella di Acca Larenzia, non c´è nessun colpevole, chi ancora vuole venire a parlarci di giustizia?»

Per chiarire a quale fonte stiamo attingendo, occorre far sapere ai lettori ciò che Tv e giornali non ci dicono: "Blocco studentesco" colleziona risultati importanti in un bel numero di elezioni scolastiche e di istituto, piazza negli organi di rappresentanza studentesca i suoi esponenti, ricopre cariche, parla a nome di molti. Niente a che fare con i "gruppetti".

Ma l´ideologia c´è, eccome. È ideologia rigorosamente fascista. Ma un modo di interpretare, o di completare l´intuizione di Augias (e anche del ragazzo che gli scrive) è questa: nonostante il tono funebre della rievocazione e l´aspra cattiveria motivata dal ricordo, qui non siamo nel passato. Vediamo perché.

Un primo segnale, quasi una parola codice del nuovo fascismo, sono le Foibe. Il ricordo di una tragedia preparata a lungo, con crudeltà dalla occupazione fascista e nazista, ma conclusasi poi con una feroce vendetta jugoslava contro migliaia di italiani, diventa nelle pagine di "Blocco Studentesco" (come accade del resto anche nelle piazze, nel Parlamento italiano e in televisione) uno strumento per rivendicare la guerra fascista, la sacralità della nazione e dei confini, l´uso continuo dell´altra parola codice, «martiri» (parola che riguarda solo i morti fascisti) per tenere sotto ricatto i giovani di sinistra (che non sanno che la tragedia delle Foibe non è mai stata nascosta e non è mai stata un segreto; posso testimoniarlo perché l´ho studiata e discussa in liceo) e per profittare di uno strano atteggiamento dell´antifascismo adulto italiano, che sembra ogni volta colto di sorpresa da uno degli argomenti più dibattuti da decenni nella vita politica e nella storiografia contemporanea italiana.

La novità introdotta dal nuovo fascismo è di parlare dell´orrore delle Foibe come fenomeno del tutto isolato e indipendente dal feroce orrore assassino del fascismo italiano e tedesco nella Jugoslavia invasa e distrutta.

Le Foibe, comunque, servono per non parlare della Shoah, servono a rovesciare l´indignazione verso il fascismo in indignazione del fascismo. Potete infatti leggere su "Blocco Studentesco", in un articolo firmato «Giorgio Bg»: «Sì, avete capito bene: il 25 aprile è una data fondamentale per la nostra nazione: è il compleanno di Guglielmo Marconi, inventore della radio.... E a tutti abbiamo ricordato che una delle battaglie portate avanti da "Blocco Studentesco" è quella di distruggere il concetto di "antifascismo militante"».

Come si vede, l´idea è chiara e politicamente intelligente. I ragazzi del Blocco non sono né incolti né disinformati. Sanno che stanno lavorando per loro gli storiografi improvvisati che si sono dedicati alla diffamazione della Resistenza. Sanno di poter contare sui molti insegnanti che di Resistenza non parlerebbero mai e non hanno parlato mai. Sanno di disporre di uno spazio vuoto, nel quale la Costituzione italiana rimane ignorata e isolata.

A leggere quello che scrivono, e come scrivono, sono tipi seri che non si occupano del fatto che due belle signore della mondanità milanese, la signora Santanché e la signora Paola Ferrari (moglie del giovane imprenditore Marco De Benedetti) sono la candidata n.1 e la candidata numero 2 nella lista ufficialmente fascista organizzata e promossa da Francesco Storace.

L´effetto mondano però li beneficia comunque. Invece di essere i resti di qualcosa che nel mondo è scomparso per sempre sotto il mare di cadaveri che ha provocato, sono l´avanguardia di un futuro che penetra le aree eleganti e persino zone che ti aspetteresti, in modo naturale, estranee al fascismo.

* * *

Ma c´è un alleato in più per questi ragazzi non male informati e non male organizzati che, se necessario, sembrano in grado di tirare le fila di assembramenti più grandi.

Sono quella manodopera di giovani aspri, aggressivi, e decisi a non accettare alcun dialogo con la politica, qualunque politica, perché sono i militanti duri, ambi-destri e ambi-sinistri dell´antipolitica.

Michele Santoro ne espone ogni tanto gli esemplari in certe sue trasmissioni come quella puntata di Annozero a cui è accaduto anche a me di partecipare (la sera del 7 febbraio). Non ti guardano, non ti parlano, gridano quasi solo "cazzo".

Sono giovani ostili per le condizioni in cui vivono e la vita che fanno. Ma rifiutano con estrema durezza ogni contatto. Ostentano un disprezzo per tutto ciò che è democrazia e Parlamento. È un disprezzo che li collega di fatto con i giovani di "Blocco Studentesco", esattamente come deve essere accaduto negli anni Venti. Dunque qui nessuno si muove nel vuoto. E non ha più senso pensare a frange o gruppetti. Che lo abbia voluto o no, la destra italiana ha creato le condizioni per una destra estrema che raccoglie volentieri certi simboli e parole codice dal passato. Ma invece di nostalgia ha progetti per il futuro. E poiché la discussione e il dibattito non sono i suoi naturali strumenti - e infatti vengono sviliti ed evitati - il progetto è in attesa di una linea strategica. Ma il ritorno di una certa area fascista, con la sua componente di massa ("Blocco Studentesco" ci dice che a Roma esiste una «Casa Pound», dal nome del poeta americano fascista e antisemita, e una «Casa Prati» occupata insieme a famiglie di sfrattati) e la sua componente alto-borghese, è già cominciato.

Per questo è stato importante, e anche consolante, assistendo giorni fa alla commemorazione di Aldo Moro (30 anni dal delitto) ascoltare Alfredo Reichlin, Leopoldo Elia e Walter Veltroni dire: «Il senso della politica di Moro è stato di affermare con tenacia il legame fra la democrazia italiana e l´antifascismo, un legame rappresentato dalla Costituzione nata nella Resistenza».

Questa è l´Italia nel suo passato indimenticabile, nel suo presente difficile, nel futuro per il quale ci ostiniamo ad avere speranza, in nome di ciò che è accaduto, e nonostante ciò che sta accadendo. Una cosa sappiamo: non siamo fuori pericolo.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 02.03.08
Modificato il: 02.03.08 alle ore 10.35   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il quinto candidato
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2008, 11:55:36 pm
Il quinto candidato

Furio Colombo


Il titolo di questo articolo non si riferisce a un tentativo avventuroso di interpretare le vicende del pianeta, ma solo al senso degli eventi che stiamo vivendo in Italia, qui, adesso.
Vi dirò quale spunto ha messo in moto questa mia riflessione. Stavo partecipando a una puntata di Controcorrente, Sky Tg24, condotto da Corrado Formigli. Da Londra c’era in collegamento Bill Emmott, l’ex direttore di The Economist, celebre nel mondo per le due copertine che riguardavano Berlusconi, ai tempi di quel governo.
Ricorderete: la prima prudentemente poneva agli italiani una domanda: «Ma Berlusconi è adatto («fit») a governare l’Italia»? La seconda copertina, verso la fine del non dimenticabile quinquennio che ha ridotto l’Italia alla crescita zero, portava in grande, accanto al ritratto del primo ministro di allora, la parola «BASTA», in italiano. A quanto pare non basta, perché quella stessa persona, è candidata per la quinta volta a governare questo Paese che sembra bloccato da una strana sospensione della storia.

Ma l’episodio interessante di quella esperienza televisiva è il seguente. Avevo come controparte una persona che conosco e rispetto, Benedetto Della Vedova, che proviene, come molti ricordano, dal Partito radicale ma ha fatto la scelta opposta a quella di Bonino e Pannella. È un uomo informato e buon economista del tutto adatto alla conversazione con Bill Emmott. Ma era pur sempre in quello studio in rappresentanza di Forza Italia. E Forza Italia ha, nel suo vocabolario, solo poche parole chiave a cui, a quanto pare, anche i più informati e versatili devono attenersi. Soprattutto la parola «comunista». E così è accaduto che quando Bill Emmott - su richiesta del conduttore - ha offerto ciò che nei Paesi anglosassoni si chiamerebbe lo «endorsement» a Walter Veltroni (ha detto, cioè, che - a differenza di altri già caduti sotto il giudizio del suo giornale - lo considera «adatto» (fit) a governare l’Italia) l’on. Della Vedova ha pensato di spiegargli la dolorosa storia italiana. Ha detto, rivolto al maxischermo su cui compariva il volto del giornalista inglese in collegamento da Londra: «Vedo che lei non conosce il passato. La informo io. Walter Veltroni, nel 1981, è stato capo della stampa e propaganda del Partito comunista italiano».

Sarebbe interessante, per i cittadini-elettori italiani, rivedere l’espressione tra stupita e interdetta di uno dei più noti professionisti della informazione del mondo. Da buon «British» si è proibito ogni altro commento e ha detto solo: «Noi di solito conosciamo bene la storia delle persone di cui parliamo (avrebbe potuto dire: «conosciamo anche i processi», ma non lo ha fatto, ndr). E ripeto quello che ho detto: se fossi italiano voterei per Veltroni».
È solo un aneddoto che però fa molta luce. Bisogna impedire che questo periodo elettorale si trasformi in un labirinto di cui Berlusconi, le sue televisioni, le sue case editrici e pattuglie di commentatori «indipendenti» - che però lavorano alacremente per lui - sono abili artefici.

La parola chiave del labirinto è «comunista». La consegna è di pronunciarla il più spesso possibile, in modo da puntare l’attenzione all’indietro. Chi si lascia irretire perde di vista la incredibile vecchiaia politica di Silvio Berlusconi che, come cultura personale, è uomo del tutto estraneo alla modernità; inclusa la Resistenza, che riguarda la libertà, i diritti civili, la Costituzione. Per lui è una parola opaca e un ingombro estraneo al commercio. Ricorderete che ha sempre rifiutato di celebrare anche una sola volta il 25 Aprile. E perde di vista la incredibile vecchiaia psicologica di quell’uomo di Arcore, che nell’Europa di Angela Merkel, di Sarkozy, di Gordon Brown, di Zapatero, si candida a primo ministro per la quinta volta. È molto probabile che il leader di bravi cittadini ribattezzati da un giorno all’altro, a capriccio, «Popolo della libertà» sia già entrato nel Guinness dei primati, perché non esiste alcun leader in alcun Paese del mondo, compresi quelli sgangherati di recente e turbolenta democrazia, che sia nella sua condizione. Candidarsi cinque volte vuol dire avere perso, o essere stato abbattuto lungo il percorso, quattro volte.

Ma è soprattutto un incredibile giudizio che la sua gente deve accettare passivamente, come se fosse vero: che lui solo, fra decine di leader politici della sua parte, migliaia di partecipanti eletti alla vita politica, decine di migliaia di protagonisti nelle aggregazioni di destra locali, milioni di italiani che scelgono il voto conservatore, lui solo può guidare e può vincere. E tutto ciò benché il più delle volte abbia perso.
Ma ecco perché è così importante la parola comunista. Con quella parola, ricordate, Berlusconi è «sceso in campo» (parole sue) tramite cassetta Vhs recapitata, prendere o lasciare, a tutte le televisioni d’Italia. Con quella parola ha affrontato e perso due volte contro Romano Prodi, con quella parola si è recato, dopo la sua unica vera vittoria a Bruxelles per dire ai leader europei: «Ho sconfitto i comunisti in Italia». E così è nata la sua fama, non sempre apprezzata come lui vorrebbe, di narratore di barzellette. Avreste dovuto vedere sguardo ed espressione di Bill Emmott quando, dallo studio di Sky, ha sentito ripetere la rovente accusa, anzi la denuncia al mondo: comunista.

L’esponente del giornalismo finanziario di Londra è apparso da prima smarrito, come se avesse capito male o ci fosse un errore di traduzione. Poi ha scosso la testa con un solidale atteggiamento di comprensione per gli italiani. Ci sono Paesi sfortunati, deve aver pensato, anche se produttivi e potenzialmente importanti.
Sembrava implorare: non potreste fare un passo avanti, un passo dentro il presente invece di logorarvi con storie che, fuori delle frequenze tv controllate da Berlusconi, non hanno alcun senso?

***

Non occorre essere astuti per sapere che «la quinta candidatura» (che bel titolo per un «horror» di Stephen King), non si fonda solo sulla parola «comunista» che dovrebbe scuotere il mondo. Prima di quella parola viene una immensa ricchezza che spiega perché leader politici di primo piano, nel Paese Italia, o si ribellano per dignità (tardi, purtroppo) o si sottomettono sperando di meritare l’eredità (farebbero bene a ricordarsi però che i ricchi che si sono fatti da soli, e per giunta nel mondo dello spettacolo, amano più i colpi di varietà che i comportamenti da statista). Ma l’uso ostinato di quella parola - «comunista» - viene con la speranza, anzi l’intento, di spingere a un fuggi fuggi generale dalla sinistra, che non vuol dire barricate e rivoluzione, ma un mondo di gente viva che si batte per il futuro e per il lavoro, e si colloca più o meno, fra Zapatero e Barak Obama.

Berlusconi e la sua gente contano molto sul far sentire colpevoli, e anche un peso per la loro parte, coloro che si ostinano a restare democraticamente a sinistra.
Vuol dire spostare tutte le frecce del labirinto nella direzione sbagliata, così che sembri moderno non punire chi fa morire gli operai, incoraggiare chi li tiene sul filo dell’eterna prova invece di assumerli, vuol dire far sembrare moderno ogni atteggiamento che ci riporta al paternalismo aziendale principio di secolo, quando un buon imprenditore ti concedeva la domenica pomeriggio per futili svaghi in famiglia, prima di ricominciare il lunedì all’alba (la meritocrazia fondata sugli straordinari di lavoratori esausti e più esposti al pericolo di incidenti).

Le frecce sbagliate del labirinto (che il quinto candidato è in grado di piazzare dove vuole, quando vuole, tramite controllo delle televisioni) puntano contro il presunto maleficio di Prodi. Lo fanno con tale successo che persino, molti, impegnati nel centrosinistra, considerano utile restare a rispettosa distanza da Prodi, che è ancora a Palazzo Chigi, e dal lavoro col suo governo.

***

È moderno, pensano molti, seguendo la freccia sbagliata del quinto candidato, considerare una cosetta secondaria la dura lotta all’evasione fiscale di Visco e Padoa-Schioppa, che ha fatto balzare in alto le entrate fiscali. E c’è chi prova volentieri a contare e ricontare quelle entrate per vedere se si può dimostrare che quelle entrate ci sono state, sì, ma non così tante, come se il vero merito, nella lotta all’evasione, come in quella al crimine organizzato non fossero, prima di tutto, la serietà dell’impegno e la direzione di marcia.

Occorre riconoscere che è stata molto efficace la denigrazione di Prodi durante i venti mesi di quel governo. Le televisioni di Berlusconi, o che lavorano per conto di Berlusconi, hanno svolto un lavoro efficace. Per esempio l’antipolitica si fonda sulla persuasione diffusa che tutti, proprio tutti, in Parlamento, buttano champagne addosso ai commessi, che tutti, proprio tutti, si esercitano a insultare i senatori a vita, che tutti lanciano in aria fette di mortadella, impedendo ogni discussione o lavoro utile. C’era da augurarsi che studiosi e giornalisti specializzati si fossero applicati a calcolare il costo immenso, per i cittadini-contribuenti, di due anni di Parlamento vissuto sotto ostruzionismo continuo, dunque totalmente sprecati.

Posso testimoniare per il Senato: ore di urla e di insulti ogni giorno, con qualunque pretesto (spesso tratto estrosamente dalla cronaca dei giornali) e quasi nessuno spazio per la discussione e per il voto. E sarebbe bene ricordare ai cittadini - contribuenti - elettori che la cosiddetta crisi di fiducia che ha portato alla fine del governo Prodi, non è avvenuta per una vittoria di quell’ostinato, continuo ostruzionismo. È avvenuta per la fuga d’amore dell’allora ministro della Giustizia Mastella, che ha voluto condividere con la moglie gli arresti domiciliari, e per farlo ha tolto (con gli insulti che tutti ricordano e purtroppo ricorderanno per molto tempo) il sostegno del suo gruppo al governo.

L’impegno è dunque di smontare le frecce che puntano verso il passato, disposte dovunque dal quinto candidato. E ritrovare la strada che porta avanti e fuori dall’incubo. Lungo quella strada non è sbagliato fermarsi a dire un grazie a Prodi. E non è fuori luogo un po’ d’orgoglio per lo «endorsement» dedicato pubblicamente a Walter Veltroni da Bill Emmott, ovvero da un mondo che non si lascia ingannare dai vecchi mobili di casa Berlusconi e dai discorsi finto-pacati del quinto candidato.
La porta per uscire dal labirinto c’è, ma è importante non cadere in tutte le trappole seminate dal vecchio che avanza. Se riusciamo ad accendere la luce scopriremo che, rispetto alla vita italiana, Berlusconi è in esubero, e può essere «messo in libertà» (l’espressione è aziendale, non giudiziaria).
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 09.03.08
Modificato il: 09.03.08 alle ore 15.18   
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Titolo: Furio COLOMBO - Pannella vivo
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2008, 05:59:14 pm
Pannella vivo

Furio Colombo


Una domanda gira con inquietudine e con allarme fra coloro che per una ragione o per un’altra - dall’affetto alla diffidenza - vorrebbero che Marco Pannella non morisse.

La domanda è motivata da un fatto tanto drammatico quanto oscuro (ovvero oscurato) dal punto di vista dei grandi media: mentre scrivo Pannella è al quinto giorno di uno sciopero della sete e della fame. Ora che il lettore ha in mano il giornale comincia il sesto giorno, dunque una fase di estremo pericolo.

Il digiuno, come tutti sanno, nella pratica nonviolenta è il tentativo di aprire un dialogo quando altri modi per farlo sono impossibili.

La domanda è: chi deve rispondere a Marco Pannella?

Per esempio, nel caso dello sciopero totale della sete e della fame del Mahatma Gandhi, la risposta doveva venire, (ed è venuta in tempo) da Lord Mountbatten, governatore inglese dell’India ancora colonia.

Facile rispondere che, per definire la controparte, bisogna conoscere la ragione della drammatica iniziativa, detta - dal linguaggio di Gandhi - “Satyagraha”. Ovvero a chi parla e che cosa chiede Marco Pannella in questa sua iniziativa che sta raggiungendo un percorso di estremo rischio? Ti dice Radio Radicale: «Per la pace, per la giustizia, per la democrazia, perché la parola data sia mantenuta sempre» (e ripete “pacta sunt servanda”, facendo riferimento alla questione italiana delle posizioni in lista Pd di alcuni candidati radicali).

I lettori sanno del mio rapporto di amicizia con Marco Pannella, dell’essergli stato vicino mentre durava la disputa, quando una finale accettazione dei Radicali inclusi nelle liste del Partito Democratico non era ancora avvenuta. Dopo - quando l’accettazione è avvenuta - confesso di avere perso il filo. Chiedo aiuto a Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, agli amici di quella Radio e di quel Partito.

Vedo il problema prigioniero di questo ingorgo: la questione dei patti da rispettare (ovvero in quale posizione alcuni nomi Radicali devono comparire nelle liste del Pd) se è ancora viva, è locale e italiana. Ma può essere allo stesso tempo risolta e non risolta? Tutte le altre ragioni alte e nobili del “Satyagraha” sono mondiali. Infatti l’iniziativa è definita “mondiale” da Radio Radicale e si ascolta un elenco di grandi nomi del mondo, a partire dal Dalai Lama. Tutti questi nomi sono dalla parte dell’estremo impegno di Pannella. Ma - torno all’inizio di queste righe - chi deve rispondere? In altre parole: come si fa a far finire questo rischiosissimo atto, a far tornare Pannella alla sua e alla nostra vita politica, ad essere tranquillizzati sulla fine del pericolo che corre? Per essere di aiuto, urge risposta.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 11.03.08
Modificato il: 11.03.08 alle ore 11.55   
© l'Unità.


Titolo: Furio COLOMBO - Lo stato dello Stato di Israele
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2008, 06:32:17 pm
Lo stato dello Stato di Israele

Furio Colombo


Ho letto e riletto l’intervista con Ismail Haniyeh, premier di Hamas, ovvero leader della parte dei territori palestinesi (Gaza) in rivolta contro l’altra parte, Ramallah, che riconosce come presidente Abu Mazen. L’intervista di Umberto De Giovannangeli è stata pubblicata il 13 marzo da l’Unità e viene citata per dare ragione al ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema quando dice che «ovviamente si deve dialogare con Hamas, se no con chi?» e fa seguire un elenco di personalità del mondo che sono dello stesso avviso: parlare con Hamas come condizione per avviare una soluzione del conflitto.

Prima di affrontare la domanda drammatica e centrale: «si può, si deve dialogare con Hamas», occorre fare sosta intorno alla situazione. Ed è bene ricordare se e quali precedenti ci aiutano nella difficile e sanguinosa storia contemporanea. Lo stato dello Stato di Israele (non è un gioco di parole, è la condizione di quel Paese in questo momento) è uno stato di assedio. Di solito subito prima o subito dopo questa affermazione si fa precipitoso riferimento alla potenza israeliana e al “poderoso sostegno” americano.

È vero che Israele ha una struttura militare molto forte (altrimenti non esisterebbe più da tempo). Ed è vero che ha avuto la costante garanzia di sopravvivenza offerta dagli Stati Uniti.

Sul primo aspetto diremo - persino sapendo che chi rappresenta Israele ci darà torto, anche per ragioni di legittimo patriottismo - che Israele non è più così forte a confronto con l’assedio che sta subendo. Lo abbiamo visto nella breve e tremenda guerra dell’estate del 2006.

Una tecnologia costosissima e raffinata ha colpito Israele dal versante del Libano e a cura del potentissimo e ricchissimo “esercito di Dio” o Hezbollah. La difesa accanita e anche precipitosa e affannata di Israele ha indignato molta opinione pubblica del mondo perché troppi civili, troppi bambini erano tra le vittime della risposta di guerra alla violentissima guerra. Questo aspetto terribile faceva parte del piano di Hezbollah, la cui strumentazione elettronica era accuratamente dispersa tra popolosi villaggi e condomini suburbani, in cui tutti gli abitanti erano ostaggi da esibire come cadaveri dopo ogni tentativo israeliano di fermare la pioggia di missili. In quella guerra perfettamente organizzata da Hezbollah i bambini morti sono stati esibiti uno per uno di fronte alle televisioni internazionali come mai era accaduto nelle pur tristi vicende dei sanguinosi scontri dei nostri giorni nel mondo. Lo scopo di rendere odiosa, dunque impossibile, la difesa di Israele è stato raggiunto.

E infatti l’unica soluzione è stata, si ricorderà, la realistica proposta di inviare un importante corpo di spedizione delle Nazioni Unite alla frontiera fra Israele e Libano. Va ricordato che è stata una proposta italiana Prodi-D’Alema, e che si deve all’Italia se i contingenti inviati, specialmente dall’Europa, non sono stati irrilevanti come altri, in Europa, avrebbero voluto.

Nella stessa circostanza, si ricorderà, le famiglie israeliane di tre soldati rapiti e tenuti come ostaggio hanno chiesto disperatamente aiuto all’Italia per avere almeno una notizia dei ragazzi scomparsi. Ma ogni tentativo è risultato vano benché condotto senza pregiudizi o ostilità verso Hamas.

Quanto all’aiuto americano (e dirò un’altra cosa che a volte dispiace all’attuale governo israeliano) esso, con la presidenza Bush è impossibile. La guerra in Iraq, basata sulla falsa credenza dello scontro di civiltà, ha mobilitato il mondo arabo e islamico al completo contro l’Occidente (e il contrario). E dunque ha messo lo Stato di Israele in pericolo. In queste condizioni può fare più guerra (mentre la guerra in Iraq è in un profondo pantano) ma non può fare la pace, perché è circondato da una ostilità altissima, una morsa che stringe e condanna allo scontro sia israeliani che palestinesi.

Ai media, non solo in Italia, continua a sfuggire l’immagine del vero e immenso rischio di cancellazione che Israele corre in questi anni, in questi mesi: la mobilitazione della ricchezza petrolifera del mondo (proprio mentre il prezzo del petrolio continua a salire) la stessa che, dal finto alleato che è l’Arabia Saudita al dichiarato nemico Iran, e persino al lontano Venezuela di Chavez, finanziano senza limiti l’ormai poderosa armata Hezbollah, e la parte violenta di Gaza.

Queste dunque le circostanze, sempre trascurate, quando si esorta a “dialogare” con Hamas. È la stessa formazione che con i palestinesi non dialoga ma uccide in caso di dissenso (la carneficina interna avvenuta a Gaza ha ormai da tempo superato l’immagine del democratico vincitore di normali elezioni politiche).

Dalla utilissima intervista di Umberto De Giovannangeli con Haniyeh si ricavano tre parole chiave. La prima è “tregua”, unico modo di definire una sospensione del conflitto, la seconda è “nemico” parola sistematicamente usata dall’intervistato per non dire mai (mai) Israele, affinché non si sfiori il riconoscimento neppure con il nome. La terza è “resistenza”, una parola che fatalmente evoca l’illegittimità di tutto ciò che è Israele, perché niente - si dichiara - può cominciare se la situazione così come è continua. Ovvero se rimane uno Stato di Israele vivo e in grado di difendersi.

Per dare un senso alla prima parola, “tregua”, che sembra così naturale e umana nel corso di un conflitto infinito, occorre ricordare i giorni dello sfondamento del confine con l’Egitto. In quella occasione, molto più che derrate alimentari, sono entrate armi, anche di classe nuova, adatte a completare l’assedio già avviato da Hezbollah. Il modello tende a ripetersi. Hezbollah usa come “martiri” involontari i libanesi di confine, e più ne muoiono, nel caso di un nuovo divampare del conflitto, più è probabile che il mondo si innervosisca contro Israele.

Hamas usa come “martiri” involontari tutti i palestinesi, condannati a combattere sempre o a prepararsi per una quarta, quinta, sesta Intifada.

Strano che nessuno, nel giudicare continuamente e con severità gli errori veri e presunti dei governi israeliani, non sosti a domandarsi quale deve essere il grado di allarme, tensione, paura, panico, nelle strade, nella vita, nelle famiglie di Israele.

Proviamo a confrontare tutto ciò con i sentimenti degli italiani. Un delitto, una aggressione, il gesto balordo di alcuni immigrati balordi provoca da un lato la paura, l’indignazione, la richiesta di difese di interi quartieri, di intere città e alla fine di tutto un Paese che ha i suoi guai, ma non è affatto minacciato.

Dall’altro lato, però, sul versante politico più progressista delle decisioni di governo, non si ritiene eccessivo mettere al bando (come si è fatto per un momento) l’intera immigrazione rumena, né alzare muri in mezzo a una città (Padova)o promettere poliziotti dovunque. Se è giusto e legittimo pensare alle sofferenze dei palestinesi usati come ostaggi dai loro stessi leader, non dovrebbe essere fuori posto pensare a come vive un ebreo sopravvissuto di Gerusalemme nel giorno in cui constata che si può facilmente compiere una strage di adolescenti in una Yeshiva. Per prima cosa vado a fare un dialogo?

Ma la vera domanda è: potete, ministri e lettori, sostenitori veri e appassionati di chi soffre e reclama un diritto, potete indicare un solo Paese al mondo, fra i più civili, ragionevoli e democratici, che aprirebbe una trattativa o anche solo “un contatto” con chi non riconosce uno Stato, ne proclama e invoca la distruzione e ha alle spalle potenze militari e economiche che apertamente proclamano che quello Stato deve essere cancellato dal mondo?

Sono le ragioni per cui l’Italia non ha trattato con le Brigate rosse, Zapatero non può avviare conversazioni con i separatisti baschi, e l’Inghilterra ci ha messo più di 70 anni - e ha preteso la rinuncia di ogni azione o intenzione militare - prima di avviare lo smantellamento della guerra contro l’Ira. Eppure l’Ira era una minaccia minima rispetto alla grande coalizione del mondo islamico che tiene sotto assedio Israele. Il problema alla fine è questo. Se, nel bene e nel male, nei momenti illuminati da politici come Rabin e da scrittori come come Grossman e Yehoshua, e nei momenti difficili o sbagliati o criticabili, Israele sia o no un Paese normale, come l’Irlanda o la Spagna, che per prima cosa ha diritto alla sicurezza e a non vivere in uno stato di assedio. Subito dopo - non in una tregua utile sopratutto ai rifornimenti di nuove armi ma in uno spazio che riconosce la Storia - inizia il confronto. Come segnale, un minuto prima, basterà restituire gli ostaggi, di cui è negata alle famiglie ogni notizia nel più antico e barbaro rituale di guerra perenne.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 14.03.08
Modificato il: 14.03.08 alle ore 13.36   
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Titolo: Furio COLOMBO - Lo strappo
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 06:34:03 pm
Lo strappo

Furio Colombo


L’immagine di uno dei candidati intento a strappare il programma del suo principale avversario ha fatto il giro delle televisioni europee e americane e ha confermato qualcosa che, come una magia malefica, continua a pesare sull’Italia. C’è un incubo del passato che non se ne va. Non solo ritorna, ma ritorna identico, senza neppure un tentativo apparente o l’uso di qualche abile inganno per far apparire “nuova” la scena.

No, la scena si ripete identica, stessi scatti di rabbia, stesse cattiverie minacciose, stesse frasi finto gioviali ispirate ai più banali spot televisivi.

Stesse scenette concordate come quella della finta precaria, finta aspirante al matrimonio con Piersilvio che poi risulta candidata di An.

Ma la lezione è sempre la stessa: non provocatelo, se no lui spiattella al mondo la verità. «A chi ricorda il fascismo di Ciarrapico dico: volete che noi ricominciamo a parlare dei comunisti tantissimi candidati nel Pd?».

So di avere già scritto questo articolo, in tutta la campagna elettorale del 2001, e in tutta la campagna elettorale del 2006. So di avere letto le cose che sto per dire, una per una, sui maggiori giornali del mondo, da The Economist al Guardian, da Le Monde al New York Times.

So anche che ci deve essere una costellazione malefica, di quelle di cui parlano con persuasione angosciata gli astrologi notando il modo in cui si dispongono le stelle nei cieli delle varie stagioni. Brutta stagione o brutta costellazione questa. Infatti, mentre l’Italia rivive l’incubo del ritorno di Berlusconi, mentre in Piazza del Popolo e in via del Babuino a Roma si sentono ragazzi a pagamento cantare a squarcia gola «Meno male che c’è Silvio», applauditi dai turisti di Pasqua come lo sono, al Foro, i disoccupati vestiti da antichi romani, in Thailandia ritorna Taksin, l’ex primo ministro processato e condannato varie volte per corruzione, proprietario di tutta l’informazione di quel Paese, così ricco da tenere testa persino all’unico re democratico di quella parte del mondo.

Non occorre un analista per dire che c’è qualcosa di funereo quando sei certo di rivivere le scene più sgradevoli di un passato che ti eri appena lasciato alle spalle. Tutti sanno che la parola “futuro” non garantisce niente. Niente, tranne il fatto che stai entrando in una vita diversa, senza Bonaiuti che te la interpreta, senza Tremonti piantato al centro della scena, come se fosse un dato inevitabile della natura, senza Berlusconi che ripete, quasi con esattezza, tutto ciò che ha già detto, compresa la benevola compassione con cui guarda a se stesso, «costretto a governare».

S’intende che faremo di tutto per liberarlo da questa costrizione. S’intende che questo impegno è interpretato bene dallo slancio quasi disumano con cui Veltroni riesce a visitare tre-quattro città italiane al giorno per rassicurare i cittadini perplessi, per dire: «Qualunque cosa sia, noi vi promettiamo il futuro, non il passato. La vita continua, non è un tremendo museo delle cere».

Eppure la pretesa, per quanto volonterosa, di far finta di non vedere (di non vederlo), di non ascoltare (di non ascoltarlo) non cancella la brutta realtà che - a parte la Thailandia - siamo il solo Paese costretto a vivere.

Meglio guardare in faccia questo strano destino, persino se ha la faccia triste, umiliante, di coloro che si inginocchiano davanti a Berlusconi.

* * *

Vediamo. Nel giorno uno Berlusconi dichiara: «Noi dobbiamo fare una campagna elettorale e si deve vincere. L’editore Ciarrapico ha giornali importanti e a noi non ostili, ed è assolutamente importante che questi giornali continuino ad esserlo, visto che tutti i grandi giornali stanno dall’altra parte».

Nel giorno due la stessa persona che si aspetta di essere rieletto leader e guida unica dell’Italia, afferma: «Ciarrapico è un indipendente che non conterà niente nella politica».

Fra le due affermazioni imbarazzanti e menzognere c’è una costellazione di falsi minori. Per esempio afferma che Fini e quelli di An sapevano dell’arrivo in lista di qualcuno che si proclama fascista («Sono sempre stato fascista e lo sarò sempre»).

Ma Fini e quelli di An affermano che non è vero. Così come si dissociano candidati di varie provenienze, compresa la Mussolini, che, però, porta in lista il negazionista Roberto Fiore. Ma a quanto pare va bene lo stesso.

Nel senso che nessuno ha il cattivo gusto di insistere. E poi, se esaminate le clamorose bugie berlusconiane, vi accorgete che esse contengono, come sempre, una minaccia, nello stile che l’uomo di Arcore deve avere imparato bene dallo stalliere Mangano, prima che Mangano venisse arrestato, processato e condannato per mafia.

Lo stile è questo: far sapere ai potenziali avversari che sono nel mirino e che quel mirino, trattandosi del più grande editore italiano e di uno dei più potenti in Europa, è un mirino a cui è bene prestare attenzione. Enzo Biagi insegna anche da morto. Pensate che sia una buffonata dire che solo i giornali di Ciarrapico (tipo l’Eco della Ciociaria) gli sono amici e tutta la grande stampa lo avversa? Eh no, cari lettori. Mentire va bene, ma nella frase falsa ci avvolgi un coltello.

I giornalisti della grande stampa sono avvertiti. Con me si fila dritto, si dimenticano le contraddizioni, si fa finta che le cose dette siano coerenti e siano vere, non si notano le gaffe e le pagliacciate, si descrivono farse come se fossero fatti plausibili e veri, ci si dimentica della Mussolini parlando di Ciarrapico e ci si dimentica del negazionista Fiore parlando della Mussolini. Ci si dimentica del dirigismo statalista predicato da Tremonti quando il Pdl si autodefinisce «La casa dei liberali». Nessuno dovrà notare l’anti-europeismo mostrato in cinque anni di governo e in due di accanita opposizione dai dipendenti di Berlusconi. Non si farà mai riferimento al continuo e umiliante «obbedisco» di Fini, regredito da delfino politico a numero due aziendale. E si farà finta di non avere ascoltato l’uomo che ha inventato Nassiriya e i nostri 30 soldati morti (mentre quella Provincia abbandonata è una delle più infestate dal banditismo in Iraq) e di non aver capito che cosa intende dire Antonio Martino quando annuncia: «Ritireremo i soldati italiani dal Libano e li manderemo in Afghanistan e in Iraq».

Avete letto bene. Martino - l’autore della «missione di pace italiana» in pieno terrorismo, responsabile dell’insediamento dei soldati italiani in una casa senza difesa contro l’attentato del camion carico di esplosivo - parla da solo, e senza verifiche parlamentari, di più soldati in Afghanistan e in Iraq. Ritorno in Iraq, capito? Anche i nostri colleghi hanno capito. Ma debitamente ammoniti sul rischio di apparire «voi, tutti gli altri, la grande stampa ostile, tutti nemici tranne Ciarrapico», hanno scelto.

Mai far notare l’incredibile demolizione di se stesso che Berlusconi riesce a fare con le sue dichiarazioni farsesche (dice lui stesso di avere un solo amico, un fascista editore di giornaletti della Ciociaria); mai far balzare agli occhi che proprio tu potresti essere il nemico. Poiché si finisce pedinati dai servizi di spionaggio tipo Pio Pompa e perseguiti dalle commissioni parlamentari di inchiesta tipo Mithrokin. Davvero pensate che non le ricostituiranno? Avete notato fino ad ora qualcosa che Berlusconi faceva in passato, ma poi si è ravveduto, ha capito, è diventato più normale, più europeo, e non la fa più? Potete dirne una che che distingua «il nuovo Berlusconi» dal vecchio?

Persino il comportamento del suo fido Bonaiuti è identico come nel replay di un vecchio film o in una geniale scheggia di Blob. Ascoltiamolo. Risaliamo per un momento all’inizio della storia Ciarrapico. Nel suo piccolo è una storia utile. Alcuni giornalisti votati al suicidio professionale hanno appena detto a Berlusconi che Ciarrapico ha dichiarato «sono sempre stato e sempre resterò fascista».

In un contesto normale l’interrogato risponde, per esempio: «Guardi, lo avranno provocato... Si dicono tante cose... Il fascismo o c’è o non c’è. Se non c’è, dov’è il pericolo?» o scuse del genere. Niente affatto. Bonaiuti, che pure è persona equilibrata e attenta, deve rappresentare il ruolo, che non è dei più simpatici. Il ruolo gli richiede di dire - e lui la dice - la seguente frase assurda, fuori dal tempo e dalla logica: «Adesso basta con la superiorità morale della sinistra. Ma chi si credono di essere per giudicare?».

Il problema posto era: come la mettete con uno che viene nelle vostre fila e si dichiara fascista? Ora andate a rivedere la reazione imposta dal ruolo a Bonaiuti e vi rendete conto che siamo nel cuore dell’incubo.

L’incubo è un terrificante ritorno a un passato identico. Identiche le violazioni della legge (Berlusconi darà a Berlusconi la licenza per trasmettere dalle Tv private di sua proprietà e intanto controllerà fino all’ultimo talk show e all’ultimo frammento di telegiornale la Tv pubblica, con il leale sostegno dei Bruno Vespa, su cui ha sempre potuto contare).

Identica la volontà di violare la Costituzione. L’ex ministro della Difesa Martino annuncia, prima ancora di sapere se non sarà destinato ai Trasporti (e comunque tenuto lontano dal solo campo che conosce, l’economia) che «questa volta le nostre saranno truppe combattenti» in spregio al nostro costituzionale art. 11 sul ripudio della guerra.

Identica la propensione a mentire su tutto in coincidenza con una grande intimidazione di tutti, in modo che non vi siano dissonanze, o che certe affermazioni non appaiano folli.

Tanto per completare la citazione di Martino, tratta dall’agenzia Reuters, sentite la frase che segue immediatamente quella sulle truppe italiane che saranno finalmente combattenti: «Ritireremo invece i soldati italiani dal Libano perché di essi non vi è assolutamente bisogno, e perché sono a rischio».

Una negazione della verità (chi non ricorda la guerra di Hezbollah nell’estate del 2006?) e una affermazione insensata (soldati italiani saranno mandati a combattere in Afghanistan, ma saranno rimossi dal Libano a causa del rischio) sono un bel manifesto elettorale.

* * *

Non segue analisi o commento di frasi che stroncherebbero un candidato americano più della squillo Ashely. Non segue perché altrimenti corri il rischio di apparire «dei loro» cioè comunista.

E allora per te scatta il bando professionale, lo spionaggio tipo Pio Pompa e le future commissioni Mithrokin. È questo il punto su cui vorrei richiamare l’attenzione di coloro che inviano affettuose e tristi email dicendo che stanno pensando di non votare a causa di tante ragioni che lasciano perplessi o che generano incertezza (e certo, volendo, se ne possono indicare alcune nella nuova creatura detta Partito Democratico che cammina un po’ come una giraffa giovane).

Non votare vuol dire votare (anzi rischiare il plebiscito) per Berlusconi - Ciarrapico - Mussolini - Bonaiuti (mi spiace citare il suo nome qui, ma lo traggo dai fatti, non dalla mia opinione) - Antonio Martino.

È vero che tutto quel gruppo, pronto a volere la guerra, tra poco, con il cambiamento drammatico della presidenza americana, si troverà solo al mondo. Sono già completamente isolati dall’Europa, destra compresa (anzi è la destra europea la più combattiva contro l’idea di accogliere fascisti in un governo europeo). Ma poiché il ritorno cupo e tragico al passato ci riporta anche il peso e la ricchezza di quel passato, e la infinita campagna acquisti che quella ricchezza consente (come in Thailandia), il male che può essere fatto all’Italia è immenso. E non consente la severità di giudizio che certe volte si riserva a Walter Veltroni, la sola persona che fino ad oggi ha spaventato Berlusconi e i suoi, inducendoli a reazioni scomposte, fino all’insulto.

Mi permetto di dire che anche la Sinistra Arcobaleno avrebbe ragioni per riflettere su ciò che ci spetta in caso di ritorno al passato. È importante per non sbagliarsi nell’indicare il nemico.

Mi ricordo della sinistra americana più rigida che, nella prima campagna elettorale di George W. Bush contro Al Gore, andava dicendo che era meglio non votare perché tra i due non c’era alcuna differenza. Una differenza c’è stata, e grande. Si chiama «guerra», si chiama «rendition», si chiama ingresso al governo della destra più estrema, si tratta di abolizione dello habeas corpus ovvero dei fondamentali diritti civili. Si tratta di vandalismo ecologico.

Pensate alla bella soddisfazione di argomentare sulla somiglianza di Veltroni con Berlusconi mentre Berlusconi governa, con il suo conflitto di interessi, la sua potente intimidazione, le sue marce trionfali da e per Piazza del Popolo, a Roma, o da e per San Babila a Milano, il suo sodalizio fascista, i soldati italiani finalmente combattenti, lo spionaggio di magistrati e giornalisti e le nuove commissioni Mithrokin.

Il potere di scacciare l’incubo è ancora nelle nostre mani, nelle mani di tutti coloro che provano un senso di umiliazione ascoltando le note di «Per fortuna che c’è Silvio». È il potere di fare in modo che ci sia un futuro. È il nostro legittimo strappo dal passato.

furiocolombo@unita.


Pubblicato il: 16.03.08
Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.45   
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Titolo: Furio COLOMBO - Elezioni Usa. Perché sono qui
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2008, 07:29:29 pm
Elezioni Usa. Perché sono qui

Furio Colombo


Alcuni giorni fa qualcosa è accaduto che ha cambiato in modo profondo non solo la campagna elettorale americana, ma anche la percezione che molti hanno di questo spaventoso momento storico. Anche l’idea del passato e l’attesa del futuro. Ha scritto il New York Times: «La politica è salita al piano di sopra».

È stato il discorso di Barak Obama la mattina del 19 marzo, nello stesso luogo in cui, duecentoventuno anni fa, era stata presentata la Costituzione degli Stati Uniti d’America.

Quel discorso ha fatto di colpo il giro dei terminali di Internet, è diventato messaggio (le frasi chiave) su milioni di telefonini, ha dirottato la sequenza dei programmi televisivi, ha fermato la gente al lavoro e per le strade, per ascoltare o per sapere l’uno dall’altro.

Perché ne parlo, come se fosse il solito omaggio all’America, mentre noi viviamo le difficili giornate che stiamo vivendo? Perché ci sono eventi che non capitano in un solo Paese e non hanno un senso limitato da circostanze e confini.

Ricordate “I have a dream” di Martin Luther King? Ricordate gli ultimi discorsi di Robert Kennedy? Erano discorsi sull’America ma non all’America. Erano discorsi per un mondo e per un tempo in cui tanti aspettavamo che qualcosa cambiasse. Sto per spiegare il perché del senso di tensione, uno stato d’animo in bilico tra dramma e festa. Perché il discorso di cui sto parlando significa quasi certamente la vittoria nelle elezioni primarie. Ma potrebbe avere gettato sul percorso della corsa alla presidenza l’ostacolo insuperabile del coraggio, della chiarezza, della verità.

Ecco che cosa è accaduto, e perché ciò che è accaduto ci riguarda. Barak Obama ha parlato, apertamente e frontalmente, di razza, e del suo essere “nero” in un mondo di civiltà evoluta eppure profondamente diviso dai pregiudizi. Un mondo, tutto il mondo nel quale viviamo, in cui “essere nero” (che di volta in volta vuol dire diverso o nuovo venuto o sconosciuto o parte di un gruppo percepito come cattivo o illegale) resta una porta stretta, a volte un muro.

Barak Obama ha parlato apertamente e frontalmente di povertà: che cosa è, come nasce, come si vive e quali conseguenze porta, del modo in cui sposta in basso il livello, la dignità, l’orgoglio di un intero Paese, persino di un Paese potente.

Barak Obama ha parlato del razzismo dei bianchi e del razzismo dei neri e del fatto che il lamento di entrambi chiude fuori gli immigrati, i clandestini, i privi di tutto, che non sono neppure in condizione di partecipare alla disputa.

Barak Obama ha parlato del tipo di cultura che genera l’esclusione: le immense aggregazioni d’affari che governano con la falsa informazione, la falsa immagine, la falsa contabilità, e sono capaci di dominare Washington attraverso il fitto lavoro delle lobbies che dirottano le leggi in modo che tutto (o tanto o troppo) vada a beneficio di pochi.

Ha citato William Faulkner per dire: «Il passato non è morto e sepolto. Il passato siamo noi. Noi che siamo il presente. Non stiamo facendo una recita dell’ingiustizia. La viviamo».

Barak Obama ha descritto così il tempo che stiamo vivendo e il tempo prossimo venturo che stiamo affrontando: «Due guerre, la minaccia del terrorismo, un’economia che crolla, la crisi dell’assistenza medica, la devastazione dell’ambiente».

Parlo di questo discorso, di cui avete già letto notizie, riassunti, frammenti di telegiornali, perché è la prima volta che un candidato alla presidenza degli Stati Uniti decide di abbandonare ogni precauzione, ogni espediente e soprattutto la sua estrema facilità di comunicatore “magico”. Lo fa per dire - invece - in modo semplice alcune cose che riguardano non solo la sua vita, ma la vita di tutti, che vogliano riconoscersi o no. E, attraverso la gran parte delle cose che ha avuto il coraggio di dire, è bene ascoltare Barak Obama anche in Paesi apparentemente lontani però soggetti allo stesso destino. Un destino che dipende in modo drammatico dalle scelte americane.


* * *


«Non sono abbastanza nero per essere nero e non sono abbastanza bianco per essere bianco». Comincia qui, senza precauzioni, il discorso di Obama, che pone subito al suo pubblico stupito e pronto per una celebrazione (duecentoventuno anni dopo la Costituzione degli Stati Uniti). E io non sono così ingenuo da pensare che noi risolveremo il nostro problema razziale con la mia elezione».

«Mi dicono che tutti i maschi bianchi di questo Paese andranno a votare per John McCain, che condividano o no le sue posizioni politiche». Ma questo ammonimento, probabilmente ricevuto da consulenti e strateghi, non consiglia alla prudenza il candidato Obama. C’è una ragione occasionale. Geraldine Ferraro, già candidata democratica alla vicepresidenza degli Stati Uniti e sostenitrice di Hillary Clinton, aveva detto nei giorni scorsi: «Tanta attenzione su Barak Obama soltanto perché è nero».

Ma c’è una ragione più seria e drammatica. Il reverendo Wright, pastore della chiesa di Chicago che il senatore nero frequenta, che lo ha sposato, il pastore che ha battezzato le sue bambine, nel rispondere a Geraldine Ferraro ha lanciato un attacco durissimo contro la società e la cultura dei bianchi, contro «la cultura che genera il razzismo». Subito si è levata la richiesta sempre più pressante per il giovane senatore nero: sconfessare la sua chiesa e il suo pastore. Oppure condividere il giudizio di nero ostile ai bianchi e dunque inadatto a governare.

È su questo punto sfuggente e rischioso che Barak Obama ha fondato il suo discorso. «Dovrei rifiutare quest’uomo e condannarlo? dovrei separarmi dalla chiesa in cui c’è sempre stato il mio posto? Non lo farò. Non ha torto il pastore Wright nel descrivere il rapporto tra bianchi e neri in modo così drammatico. È la vita americana. Sbaglia nell’immaginare una società ferma, in cui tutto il male è destinato a ripetersi, in cui non ci sono cambiamenti, in cui la separazione continua. Ecco il suo errore: crede davvero che questo sia, che sarà sempre il nostro destino».

È a questo punto che Barak Obama sceglie di parlare di se stesso come non aveva mai fatto. «Non posso rinnegare la mia comunità nera, errori e non errori, per la stessa ragione per cui non potrei rinnegare mia nonna, una donna bianca che ha fatto per me, bambino nero, dei sacrifici grandissimi. Eppure lei - donna bianca che mi proteggeva - aveva paura ogni volta che un nero si avvicinava troppo alla nostra casa. Io sono una contraddizione».

Ha scritto il New York Times quel giorno: «Nella vasta sala il pubblico comincia a mormorare il suo assenso, poi a esclamare, confermare, ognuno lo dice alla persona vicina. Scatta un applauso poi un altro poi un altro, finché una cascata di applausi segue le parole, dette con lo stesso tono basso di voce, con molta chiarezza e molta calma. «Non mi distaccherò dalla comunità nera che è parte di questo Paese. Ma non voglio dimenticarmi che insieme a noi, i bianchi e i neri, ci sono i latini, gli ispanici, gli asiatici. Il nostro genio consiste in questo: noi siamo un Paese che cambia. L’inizio è stato imperfetto e difficile. La continuazione della nostra storia può avvenire soltanto attraverso il cambiamento. Il cambiamento può avvenire soltanto insieme. Per questo mi presento alla porta della Presidenza degli Stati Uniti».

Il suo punto è: «Noi siamo storie diverse e una sola speranza. Le nostre vite sono imperfette. Non fingiamo di non sapere ciò che è accaduto e che ha separato così profondamente bianchi da neri. Ma non permettiamo che ciò ci separi dagli immigrati. La responsabilità per le nostre vite è responsabilità per le loro vite. Siamo una sola comunità, un solo Paese». L’altra distanza di cui il candidato Barak Obama intende rendere conto è quella tra ricchi e poveri. Spiega che «non bastano e non basteranno mai le parole. I fatti si chiamano scuole per tutti i bambini, ospedali per tutti i malati, tribunali in cui i diritti civili siano la garanzia per tutti, una speranza di vita decente per i nuovi venuti».


* * *


Si spiega bene Barak Obama di fronte alla sua folla che lo ascolta e partecipa come se fosse parte di una grande conversazione. Gli parlano, si parlano, coloro che ascoltano, esclamano “finalmente!”, dicono “sì è vero, ripetilo ancora” come nei rituali delle chiese nere. Ma non sono neri, a Philadelphia, non la maggior parte. E alzano le mani, sopra le teste perché l’applauso scrosci più forte (sto ancora citando dal New York Times e da ciò che ho visto in televisione). E lui: «Dal momento che sono nero mi chiedono: credi nel capitalismo? E credi nel mercato? Sissignore, rispondo, credo nel capitalismo e credo nel mercato. Ma quando mi rendo conto che certi capi d’azienda, certi dirigenti, fra compensi e bonus, guadagnano in dieci minuti ciò che un operaio guadagna in una vita, allora mi dico che va bene il capitalismo e va bene il mercato, ma c’è qualcosa da cambiare in questo grande sistema».

E aggiunge: «Non sono così ingenuo da pensare che la mia candidatura di nero sia la chiave che apre la porta della giustizia sociale e razziale. Ma penso che sapere del passato non vuol dire essere vittime del passato, non vuol dire piazzarsi in un mondo immobile in cui niente cambia. Cambia con noi. E proprio noi, i neri che erano schiavi, gli immigrati che sono illegali, i bambini che non hanno scuole, i malati che non hanno ospedali, gli operai che non hanno fabbriche, proprio noi possiamo impadronirci del più tipico credo conservatore che dice: “Adesso tocca a ognuno di noi dare la prova di valere e di meritare qualcosa”. Ma noi aggiungiamo: “Insieme”. Perché questo si intende quando si dice “Nazione”. Non vuol dire schierare gli eserciti. “Insieme vuol dire: insieme si può”».

Obama ha un esempio recente per ciò che dice: «Basti pensare a quello che è successo a New Orleans con lo spaventoso passaggio dell’uragano Kathrina: abbandonati da soli, migliaia di americani sono restati a morire sott’acqua»

Come ripetendo “I have a dream”, il mai dimenticato appello agli americani di Martin Luther King, il candidato Obama finisce il suo discorso con l’incalzare di una preghiera. Usa il rito delle chiese nere: dire e ripetere insieme l’inizio della stessa frase. Chiede di rivedere tutte le scene dei nostri giorni (niente di ciò che dice è solo americano) e di dire perché questa volta è diverso.


* * *


«Questa volta vogliamo che l’ospedale sia aperto a chi non ha l’assicurazione. Questa volta chi non ha potere non resterà da solo. Questa volta vogliamo che il destino di chi trova la fabbrica chiusa non sia il destino di qualcuno che deve provvedere in solitudine perché conta esclusivamente il guadagno di alcuni.

Questa volta vogliamo parlare del destino comune di bianchi e di neri, di immigrati e illegali, di asiatici e ispanici. Se può accadere di spargere il nostro sangue insieme perché non pretendere insieme un po’ di felicità? Questa volta sappiamo che patriottismo è prendersi cura degli altri, delle loro famiglie, dei bambini che non sono i nostri figli e fare in modo che ciascuno abbia il compenso che non ha mai avuto per il suo lavoro e il suo sacrificio, che fa grande un Paese».

E poi Obama racconta a chi lo ascolta e lo sta seguendo con una sorta di febbrile entusiasmo la storia della bambina Ashley, e non ci dice se è bianca o se è nera. Dice che adesso ha ventitrè anni e lavora per portare più gente possibile al voto. Ma quando aveva nove anni e sua madre moriva di cancro, la bambina senza padre ha scoperto che cosa vuol dire non avere diritto ai medicinali e alle cure. Ha capito in quel momento che non c’era scelta: o ti impegni per gli altri e lavori insieme. O sei solo e intorno non c’è nessuno. Ed è un percorso crudele e impossibile.

Il senatore Obama fa passare fra chi lo ascolta questa parola d’ordine, semplice e non politica: «Io sono qui per Ashley». La folla capisce e ripete.

C’è una morale in questa vicenda di vita politica vera in cui la storia della piccola Ashley è dentro la storia del senatore “troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri”, in cui la candidatura di quel senatore è dentro un Paese grande, generoso, ingiusto e in pericolo, dove persone che non si amano dovranno vivere insieme, chiedere insieme ciò che meritano e che per molti è soltanto un sogno.

Però è vero. Barak Obama si è esposto al rischio più alto, quello di dire tutto, senza difesa, come un predicatore appassionato, non come un candidato scaltro. Hillary Clinton aveva detto in gennaio:« Si può fare campagna elettorale in poesia. Ma si deve governare in prosa». Le risponde (21 marzo) Roger Cohen sul New York Times: «Sbagliato. Di prosa in questi anni ne abbiamo avuta fin troppa».

Si salverà Barak Obama dopo questo gesto arrischiato che butta all’aria ogni manuale di strategia elettorale? Non lo sappiamo. Sappiamo che c’è una politica priva di scorie e di cinismo. Per questo sarebbe bello, anche in Italia, non cadere all’indietro, nel tempo umiliante fondato sulla compravendita di tutto. Sarebbe bello vivere giorni nuovi senza interessi privati e modeste scene di varietà fatte per coprire la solitudine e il pericolo.

Per questo molti di noi sono impegnati nella nostra campagna elettorale, come Obama nella sua. Tra poco sapremo se e quanto sono lontani questi due Paesi.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 23.03.08
Modificato il: 23.03.08 alle ore 8.07   
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Titolo: Furio COLOMBO - La Pasqua politica
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2008, 11:51:12 pm
La Pasqua politica

Furio Colombo


Il giorno di Pasqua del 2008 resterà memorabile per una svolta della Chiesa cattolica sotto la guida di Papa Ratzinger. Una terminologia politica sarebbe forse più adatta di quella religiosa per definire la svolta di cui stiamo parlando. Accostare fatti diversi avvenuti nello stesso giorno, e tutti legati al capo della Chiesa di Roma, servirà a far capire di che cosa stiamo parlando. Prima, ma solo il giorno prima di Pasqua, viene il discorso d´addio di Mon. Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, dunque inviato e rappresentante del Papa, in Medio Oriente, già militante di Al Fatah e amico personale di Arafat, da sempre nemico di Israele.

Vescovo o non vescovo, è naturale che Sabbah sia legato prima di tutto alla sua parte. Ma nell´occasione esclusivamente religiosa del suo addio al patriarcato, ha avuto questo da dire ai suoi fedeli palestinesi, divisi nella violenza, nella repressione e nel sangue fra la fazione Hamas di Gaza e ciò che resta di Al Fatah intorno ad Abu Mazen in Ramallah. Ha detto: «Il Medio Oriente ha bisogno di uomini di pace. Israele non ne ha. Da Israele non può venire la pace».

Sarebbe facile interpretare queste parole incaute e potenzialmente dannose (un implicito invito a continuare il conflitto) se l´evento restasse chiuso nella cornice stretta della esasperazione di un palestinese. Ma Mons. Sabbah rappresenta tutta la Chiesa, e non c´è stato alcun cenno di correzione. Al contrario. Il giorno dopo gli fa eco il capo della Chiesa cattolica. Nella benedizione pasquale invoca (nell´ordine) Iraq, Darfur, Libano, Medio Oriente, Terra Santa.

Come nelle carte geografiche arabe, il nome di Israele non compare, caduto nella fenditura fra Medio Oriente (che definisce l´intera area del conflitto) e Terra Santa, che è il nome della presenza cristiana in alcuni luoghi e territori del Medio Oriente, molti dentro i confini dello stato di Israele, proclamato dalle Nazioni Unite nel 1948.

Si sa che Joseph Ratzinger è uomo attento ai dettagli e - da buon docente di teologia - meticoloso nelle definizioni. Se Israele non viene nominato vuol dire che non esiste, secondo le regole vigorose di una tradizione di insegnamento che - ormai lo abbiamo imparato - calcola e soppesa ogni frammento di evento e di parola.

Ma le decisioni politiche espresse in modo chiaro, addirittura drammatico, nel giorno della Pasqua cristiana non si fermano qui. Accade che un notissimo giornalista e scrittore di origine egiziana e di religione islamica, Magdi Allam, abbia deciso di convertirsi, di diventare cattolico.

A tanti secoli di distanza dai tempi in cui la conversione di un imperatore doveva essere solenne e pubblica perché significava la conversione di un intero popolo, chiunque avrebbe pensato che la luce della fede secondo il Vangelo avrebbe raggiunto uno scrittore-giornalista nell´intimo della sua vita privata. Invece è accaduto qualcosa di sorprendente e di stravagante: Magdi Allam si è convertito in mondovisione. Il suo battesimo è stato somministrato personalmente dal Papa.

Il Papa - lo abbiamo detto e lo ricordiamo - è allo stesso tempo il capo di una grande religione e di un piccolo potentissimo Stato. Le conseguenze di ogni gesto, in entrambi i ruoli, hanno, come tutti sanno, un peso molto grande. E´ un peso che cade due volte sulla delicata e instabile condizione internazionale. In un primo senso una delle tre grandi religioni monoteiste celebra se stessa come la sola unica e vera, e presenta Magdi Allam come qualcuno che ha visto la luce e si è elevato molto al di sopra della sua condizione ("di religione islamica") precedente.

In un secondo senso una implicita ma evidente dichiarazione di superiorità è stata resa pubblica, solennemente, in un modo che non ha niente a che fare con l´intima avventura di una conversione. Lo ha fatto personalmente il capo della Chiesa cattolica dedicandola a tutti i Paesi consegnati allo stato di inferiorità detto "islamismo".

Per evitare incertezze su questa interpretazione, la clamorosa pubblicità del gesto diffuso in mondovisione è diventato il messaggio: Allam è salvo perché non è più islamico. E´ finalmente ospite della grande religione che è il cuore della civiltà occidentale.

Da parte sua Magdi Allam ha voluto offrire un commento chiarificatore. Ha spiegato che l´islamismo - moderato o estremista che sia - ha al suo centro il nodo oscuro della violenza. Ha sanzionato l´idea di una religione inferiore e di una superiore.

Comprensibile, anche se insolita per eccesso, l´illuminazione che Magdi Allam ha voluto dare al suo gesto per ragioni personali. Un giornalista, già noto, battezzato personalmente dal Papa in mondovisione lascia certo una traccia. Ma provate ad accostare il gesto di governo religioso di Papa Ratzinger, che accoglie personalmente un personaggio in fuga dall´inferno islamico e lo congiunge al rifiuto di nominare, nel corso di un altro evento altamente simbolico (la benedizione Urbi et Orbi), il nome di Israele, un Paese la cui sopravvivenza è in pericolo.

Senza dubbio si tratta di due eventi diversi, opposti e straordinari. Ma i due gesti si equivalgono, quasi si rispecchiano per un tratto in comune. Una delle tre grandi religioni monoteiste sceglie, al livello della sua massima rappresentanza, di essere conflittuale verso le altre. Alla patria degli ebrei e alla sensibilità religiosa degli islamici non viene dedicata alcuna attenzione. Non è strano?

Forse no, visto alcuni precedenti di papa Ratzinger. Uno è il discorso di Bratislava, che ha creato, come si ricorderà, una lunga situazione di imbarazzo. Un altro è l´esitazione e il ritardo, e di nuovo l´esitazione, nel porre il Tibet e la sua libertà, prima di tutto religiosa, al centro dell´attenzione.

E poi ci sono precedenti omissioni o disattenzioni di Joseph Ratzinger nei confronti di Israele, che hanno richiesto correzioni e provocato fasi di gelo che non si ricordano sotto la guida dei suoi predecessori.

Questo è il caso di un Papa-governante che è noto per essere un minuzioso tessitore della propria politica e che - a quanto si dice - non ricade mai nei giochi "di curia" o comunque nei giochi di altri.

Dunque è inevitabile la domanda. Mentre tace su Israele e battezza con la massima risonanza mondiale qualcuno che ha abiurato l´islamismo, mentre, intanto si tiene prudentemente alla larga dal Tibet, dove sta andando il Papa, dove sta portando la Chiesa di cui è governante e docente?

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 25.03.08
Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.13   
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Titolo: Furio COLOMBO - Nazi-rock, nella culla del serpente
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2008, 06:36:57 pm
Nazi-rock, nella culla del serpente

Furio Colombo


Niente sarebbe memorabile, nei gruppi, nei tipi umani, nei linguaggi e nei gesti dei personaggi a cui è dedicato questo libro e questo Dvd.
Niente, tranne il fatto che esistono. La loro esistenza è causa costante di un clamoroso equivoco che torna a ripetersi.

Nei media l’immagine presenta qualcosa di cupo e di grandioso come spesso immaginiamo che siano i volti e le manifestazioni del male. Molti di noi (che scrivono, riportano, commentano), attribuiscono a tutto ciò che riguarda la destra estranea alla democrazia e alla legalità, il volto tremendo e forte, autoritario e mortale la cui maschera ci portiamo dietro dalla storia: i nazisti con le croci di ferro; i fascisti con le armi in pugno delle Brigate Nere e della Decima Mas; le guardie di ferro di Antonescu, i croati torturatori di Ante Pavelich. In realtà il fascismo e il nazismo sono sempre stati squallore umano, morale, mentale. Ma - come i corpi di Frankenstein senza storia - gli squallidi adepti e i convertiti al regime, appena attraversati dalle scosse ad alta tensione del potere senza limiti, hanno coperto lo squallore con la maschera della forza e la vocazione a dare la morte. In tale veste e con tale maschera hanno riempito di sangue la storia - migliaia e migliaia di serial killer in austere, temute uniformi, capaci di lasciare il sigillo della paura e della sottomissione accanto ad ogni delitto.

Il ricordo di quelle maschere di sangue coincide con il ricordo di coloro che, a viso scoperto e senza potere, si sono ribellati, hanno tenuto testa, hanno pagato ogni prezzo per liberare il proprio Paese. Senza di loro - antifascisti e partigiani - e senza i loro torturati e i loro morti, quel territorio sarebbe stato solo un oggetto di scambio fra vincitori e vinti. Ma alcuni, fra gli eredi che hanno combattuto lo squallore e il potere senza scrupoli dei fascismi, stranamente, hanno cominciato a vergognarsi dei loro eroi e dei loro morti. Hanno cominciato a pensare che fosse di cattivo gusto verso qualcuno ricordare le stragi e la ostinata decisione di tener testa a costo di essere sterminati, hanno zittito chi osava mormorare l’aria di una canzone partigiana, hanno cominciato a raccontare la Storia a partire dai protagonisti sopravvissuti, e considerati «vittime», nel mondo del dopo strage.

Sgombrato il campo da ricordi, da lezioni di Storia e dalle occasioni di ricordare come nasce un Paese libero, c’è chi è diventato insensibile, chi opportunista, chi ingenuamente ignorante (nel senso di non sapere in buona fede). E chi, nel vuoto, ha sentito il potente richiamo dello squallore più desolato e del potere assoluto.


***


Ecco quello che accade in Nazirock, narrazione e documento visivo. È come tornare, per un misterioso scherzo della Storia, al fascismo prima del potere. È vuoto, è sbandamento in cerca di un furore violento che senza la scossa del potere non può esplodere.

Leggete nello scritto le parole e ascoltate nel video il suono delle voci che dicono quelle parole. Osservate i volti, scrutate i movimenti, di marcia o di adunata o di festa o di iniziazione o di danza dei gruppi giovani a cui è dedicata questa straordinaria inchiesta (che punta verso alcuni gruppi musicali di Nazirock come possibile reincarnazione).

Troverete questi ingredienti. Nessuna cultura, molta superstizione, uso di reperti e di residuati di regime come reliquie di una religione rozza, pregiudizio ottuso e ostinato, ricerca affannata di bandiera, stile, uniforme: tutto ciò - per la prima volta - ci dà l’occasione , come in un viaggio nel tempo, di osservare il fascismo prima del fascismo. Ci si arriva attraverso una pratica di espulsione, una sorta di ascetismo privo di luce: via la cultura, via la storia, via le regole, via lo Stato. Si cerca una disciplina primitiva e cieca. Si aspettano ordini.

Accade però di scrivere queste cose mentre in Italia divampano - moderne e organizzate - pericolose rivolte: coloro che non vogliono i loro rifiuti; e coloro che non vogliono i rifiuti degli altri. In tutti e due i casi si tratta di imboscate, assalti, guerriglia e sequenze di aggressioni organizzate. In tutti e due i casi - qualunque sia la ragione e persino la giustificazione o la provocazione - i nemici sono lo Stato, la polizia e qualunque tipo di autorità locale, qualunque posizione o decisione sia stata presa.

Sulla scena, segnata di distruzione e vandalismo organizzato, si vede una costellazione di gruppi che sembra oscillare da destra a sinistra, tra annebbiato ambientalismo e vendetta locale, tra tifoseria sportiva e spedizione punitiva su ordinazione. Le maschere, però, variano di poco. Lo squallore prevale; ma questori e investigatori non esitano a dire: «Qualcuno li paga». Il modello appare più vicino al crimine organizzato. Pagare per offendere, come è avvenuto intorno all’abitazione del coraggioso Presidente della Regione sarda, che probabilmente ha violato un codice di malavita in Campania, non in Sardegna (perciò si è ordinato di punirlo) accettando di accogliere una parte dei rifiuti di Napoli e dunque dando una mano alla normalità. Ma telecamere e fotografi hanno visto bandiere politiche per quei rivoltosi che, nel Dvd unito a questo libro, sembrano invocare ed evocare il disastro, l’incendio, la morte di qualcuno. Cercano - nel modo più rozzo e diretto - un potere.


***


Torniamo per un momento ai «Nazirock» che questa inchiesta ha scelto come materiale sensibile per guidarci verso aree di rigurgito del fascismo. Assistiamo a uno spettacolo strano. Manca voce, ispirazione, talento, musica. Non nel senso che la musica giovane di gruppi spontanei appare inferiore (in questo caso di molto) alla media colonna sonora commerciale. Impressioni di questo genere si possono avere (benché non così infime) dai gruppi rock dei centri sociali, militanti a sinistra. No, qui si assiste a due fatti diversi e sgradevoli: uno è quel senso di rancido della storia ingurgitata a forza e poi vomitata, come fanno i bambini ribelli con la verdura odiata e mandata giù con furore.

L’altro è lo spettacolo disorientante del fremito di ribellione in sé autentico, nel senso fisico e ormonale della parola. Ma disperatamente alla ricerca del capo, della predicazione, della proposta distorta a cui giurare servizio, fedeltà e rischio. È un cerchio di fuoco vuoto e afasico, forza fisica inespressiva come le urla più o meno ritmate (testi miserrimi) che dovrebbero essere canto, dovrebbero essere inno e richiamo.

Tutto ciò potrebbe sembrare disprezzo lombrosiano, se non ci fosse una spiegazione. La mia è questa. Giacimenti spontanei di violenza prefascista (nel senso di non ancora arruolata ed organizzata) giacciono sotto la destra italiana. Ora si incarna in tifoseria, ora in guerriglia urbana, ora in dimostrazione, ora in «ronde» leghiste o «guardie padane». È un giacimento che - come certi episodi mostrano - si estende fino a falde sommerse di una sinistra «casseur» e distruttiva, che ha sempre lo stesso bersaglio: lo Stato e l’attività quotidiana. È un giacimento al quale la destra rispettabile manda e ritira segnali, ora celebrando insieme i «caduti» negli scontri degli anni 60 e 70, come se fossero tutti reduci della stessa battaglia; ora mostrando grande rispetto per le istituzioni, ma con l’avvertenza di usare improvvisamente un linguaggio di disprezzo e rifiuto da dentro le istituzioni. La situazione, però, non è di stallo. Al contrario, è dinamica. E segna punti per l’affiorare in superficie della rozza e primitiva destra sommersa che si impara a conoscere in questo libro e si vede in questo film. È vero che questi gruppi hanno leader moralmente squalificati e intellettualmente vicini a zero. Ma essi sono camicie brune da eliminare al momento giusto per ereditarne i manipoli.

Un progetto? Piuttosto un modus operandi; perché la destra ufficiale ama il doppiopetto e la identificazione istituzionale. Anzi, come è stato tipico della destra di questo Paese, ama sbandierare l’identificazione con l’Italia. Ma non ha difficoltà ad associarsi anche pubblicamente, anche in alleanze di governo e anche in patti elettorali, sia con gruppi che insultano e rifiutano pubblicamente la bandiera del Paese, sia con personaggi grigi e minori, moralmente squalificati e politicamente poco più che capi-banda, che compaiono come «fascisti autentici» in questo libro e in questo video e nei margini oscuri della vita italiana.

Ciò vuol dire: la destra italiana si tiene a poca distanza dalla discarica quasi solo teppistica di ciò che resta e torna a dichiararsi fascista, nel caso che fosse necessario reclutare in fretta manovalanza diretta da quell’area. C’è di più. C’è qualcosa che è come una certificazione autentica di tutto ciò che leggerete e vedrete qui, compresi aspetti che un tempo sarebbero stati considerati impossibili e inammissibili.

Francesco Storace si fa fondatore de «La Destra» e subito segnala, con modalità non equivoche, di essere pronto adesso, subito, al reclutamento della destra che si riconosce e si esprime nel Nazirock, ovvero nelle forme primitive di fascismo. Tutti i testi di inchiesta giornalistica aspirano alla attualità immediata.

Questo che leggerete è incalzato da fatti accaduti dopo il libro, che servono da inequivocabile verifica del libro stesso. Poiché è una verifica del peggio, diventa chiaro per il lettore che questo libro e questo video sono anche un fondato e documentato segnale d’allarme.

Testo tratto dal libro «Ho il cuore nero» distribuito da Feltrinelli assieme al dvd del film «Nazirock»

Pubblicato il: 29.03.08
Modificato il: 29.03.08 alle ore 10.11   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il conflitto perfetto
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2008, 12:36:44 am
Il conflitto perfetto

Furio Colombo


Se Berlusconi vincesse le elezioni si realizzerebbe il conflitto perfetto. Perché non potrebbe più trattarsi di una «svista», qualcosa che è accaduto durante la corsa al potere, qualcosa che sul momento non si poteva evitare ma a cui si porrà rimedio «nei prossimi trenta giorni» (Paolo Mieli), «nei prossimi cento giorni» (Gianfranco Fini), «entro un anno dall’inizio della legislatura» (Franco Frattini, autore di una legge finta).

E anche perché questa volta non si potrebbe parlare di una temporanea disattenzione degli elettori. Chi lo voterà saprà, con esattezza, che sta portando di nuovo al vertice del governo italiano il più esemplare conflitto di interessi che vi sia nel mondo democratico, quello che riguarda il controllo praticamente totale delle fonti di informazione.

Gli elettori potranno invocare il fatto che pochi e poche volte gliene hanno parlato e hanno fatto notare la contraddizione vistosa fra democrazia e conflitto di interessi. Non ci illudiamo sul peso e sulla capacità di persuasione di questo giornale. Né cerchiamo l’alibi dei «io lo avevo detto».

Per chiarezza: condividiamo l’idea che meno si litiga e meglio si discute. Però è impossibile non notare due tratti di comportamento che rende difficile la tanto sognata discussione pacata. L’interessato svicola da ogni possibile confronto con tute le scuse. E quando gli chiedono di commentare un’idea o una proposta dei suoi avversari, prontamente replica che «quelli di sinistra fanno come Stalin». La battuta avrebbe animato il fortunato cinema d’altri tempi detto «commedia all’italiana».

Adesso serve a motivare le tristi e dure parole di Paolo Flores d’Arcais (La Repubblica, 25 marzo) che sarebbe bello - ma è impossibile - definire esagerate: «Se Berlusconi vincerà, il fondamento antifascista della Costituzione sarà irriso, la morsa clericale celebrerà fasti medievali, tolleranza zero verso gli emarginati, impunità totale per gli amici».

Gli risponde (La Repubblica, 26 marzo) Michele Serra: «Un quadro grave che amerei molto poter alleggerire, non fosse che è piuttosto realistico, anche perché descrive processi degenerativi della democrazia già ampiamente in atto». Mi sembra però necessario chiarire un punto della previsione triste di Flores d’Arcais.

Il chiarimento è questo. Il conflitto di interessi non è un vecchio signore di Arcore che vuole tornare a governare. Il conflitto di interessi è il centro di tutto e si ripete e moltiplica in ogni azione, iniziativa, dichiarazione o atto che Berlusconi compie. In altre parole il vero scandalo - adesso, e in un deprecabile futuro che dobbiamo essere capaci di rendere impossibile - è la continuazione del reato. Continuando, quel reato si allarga, occupa spazi sempre nuovi e attrae sottomissioni sempre più vaste, come si nota già adesso, osservando con quanto zelo una parte della borghesia italiana già va a mettersi a disposizione, dalla collocazione in lista ai favori, pur di farsi trovare nel posto giusto in caso di vittoria. Sa benissimo che, se Berlusconi tornerà alle sue ville a i suoi cactus, con il centro sinistra non perde niente. Ma con un leader vendicativo come l’uomo di Mediaset, è bene non farsi trovare dalla parte sbagliata.

Questo hanno notato i grandi giornali stranieri, da The Economist a The Wall Street Journal, esprimendo, persino con candore, la meraviglia per i sondaggi italiani. Si stanno chiedendo ad alta voce: «possibile?». Possibile che gli italiani preferiscano il prodotto usato pur avendo la certificazione internazionale del niente (con danno) che è stato il «berlusconismo»? È ricordato, sempre e da tutti, per l’amabile dialogo dell’allora presidente del Consiglio italiano e presidente del Consiglio d’Europa, con l’eurodeputato tedesco Martin Shultz, definito spiritosamente «Kapò»” dall’uomo di Arcore che ha poi descritto l’intero Parlamento europeo come un luogo frequentato dai «turisti della democrazia» solo perché non lo applaudivano come alle feste a pagamento di Forza Italia e, adesso, del «Popolo delle Libertà»?

***

Ma questo stato di sorpresa, condivisa nell’opinione pubblica europea ripetuta e manifestata dalla Spagna del Pais allo Zeit di Amburgo, è esso stesso prova delle conseguenza (in questo caso percezione distorta dei fatti) del conflitto di interessi.

E il conflitto di interessi, proprio mentre deborda dal suo alveo «normale» (notizie false o taroccate che si sovrappongono alle notizie vere e da cancellare a causa del controllo completo di tutte le fonti di informazione e della gigantesca intimidazione sugli operatori tecnicamente «liberi» che ne consegue) va mostrando, come una malattia non curata, la sua capacità di espandersi e perfezionarsi.

L’espansione si verifica nel momento in cui Berlusconi si impadronisce senza alcuna cautela del problema Alitalia, ne fa una questione elettorale, benché ogni sua dichiarazione abbia riflessi immediati sull’andamento del titolo in Borsa. E annuncia un suo modo di risolvere il problema che è due volte fuori legge. Una prima volta perché il candidato presidente del Consiglio (che oggettivamente è già in conflitto di interesse in quanto è l’uomo più ricco ed economicamente potente in ogni campo del Paese che vuole governare) non esita ad affermare che i suoi figli (i suoi figli) faranno parte di una cordata italiana che sostituirà la sola trattativa finora reale ed esistente, quella con Air France.

Una seconda volta perché nega, pur avendone parlato enfaticamente in televisione, di avere mai nominato i suoi figli, e annuncia in modo disinvolto, con l’espediente di «svelare qualche segreto» a un bravo reporter, una serie di nomi che sarebbero parte della nuova, grande avventura d’affari. Tutto ciò avviene in un articolo di prima pagina, de La Stampa (27 marzo) che reca la firma di un provato specialista delle confidenze di Berlusconi, Augusto Minzolini. Ma Augusto Minzolini è anche un buon amico, o meglio questa è la condizione per continuare a ricevere confidenze. Il 28 marzo si lascia benevolmente smentire. E benevolmente le varie Tv pubbliche e private stanno al gioco, che avrebbe stroncato altrove qualunque candidato: a mano a mano che le persone o gruppi indicati come partner della «cordata» smentiscono. Tutti si prestano a mettere in onda, senza precisazioni ulteriori, l’ultima notizia che Berlusconi decide di dare di se stesso. Afferma che non ha mai detto i nomi che ha detto. A tutti va bene così. Eccoci dunque di fronte al conflitto di interessi perfetto.

Primo, non riguarda solo le notizie, ma - come era stato ripetuto dagli allarmisti solitari che non hanno mai smesso di denunciare questo male terminale della democrazia - si estende apertamente a questioni economiche di grande rilevanza.

Secondo, mentre fa campagna elettorale per diventare presidente del Consiglio, Berlusconi non esita a restare con le mani in pasta in affari che lo riguardano, al punto di coinvolgere i suoi figli.

Terzo, nel farlo altera drammaticamente e gravemente il corso del valore delle azioni Alitalia, una iniziativa che sarebbe duramente contestata e punita in ogni legislazione che non consente il conflitto di interessi, e dunque lo «insider trading» (influenzare il corso di un valore azionario attraverso l’uso delle informazioni che hai o che generi).

Quarto, Berlusconi torna tranquillamente e indisturbato al primo tipo di conflitto di interessi, quello sul controllo delle fonti delle notizie. Di fronte alle smentite e alla prova di ciò che ha detto, annunciato, promesso da candidato elettorale, ma anche potente uomo d’affari, nega tutto. Non solo nega, ma attribuisce a Prodi e al suo governo il reato di cui lui si è reso colpevole. Insinua che lo svolgersi della trattativa in corso fra Alitalia e Air France, approvata dal governo italiano, sarebbe - quella e non le sue piazzate - la causa di un oscillazione dei valori azionari dell’Alitalia.

Detta così la balla è un po’ grossa. Ma per Berlusconi non c’è problema. I mezzi di comunicazione scritti, radiofonici, televisivi glielo passano, e non c’è autorità della concorrenza o le comunicazioni, che, finora, si sia fatta sentire. La vita continua e la probabilità che questo campione usato del conflitto di interessi vinca di nuovo le elezioni, alle quali si candida per la quinta volta benché «over Seventy», è considerata da molti troppo rischiosa per contraddirlo, per dare prova di ciò che ha effettivamente detto, dopo ogni smentita.

***

Vale la pena di osservarlo bene mentre dice - di nuovo senza il minimo riscontro - «Io sono un uomo di fatti, gli altri offrono solo parole», e lo dice con disprezzo rivolto a Veltroni, che è stato, con successo, sindaco della città più bella ma anche più complicata d’Europa.

Chiunque annunciasse una cordata che non esiste, mentre piovono smentite, comprese quelle grosse come una casa di Eni e Mediobanca, sarebbe considerato un «pataccaro», termine romano per coloro che tentano di vendere il Colosseo. Nel gergo americano il pataccaro è un «con-man» abbreviazione di «confidential-man», persona che a parole, ma solo a parole, guadagna attenzione e interesse per qualcosa che è falso o non esiste e comunque nasconde un imbroglio. «L’uomo dei fatti» se la cava, perché per le sue parole non esiste posto di blocco. Ripeto: è questo il conflitto di interessi perfetto.

Ma la storia diventa più interessante se uno si domanda, con la insistenza tipica della stampa americana: «fatti? quali fatti?».

Si potrebbe fare una bella celebrazione dei «fatti di Berlusconi» ricordando come tutto comincia. Comincia prima con un oscura ricchezza divisa in tanti depositi intestati a pensionate, segretarie e sconosciuti vari. Poi con una legge, speciale, unica, quella del governo Craxi, per consentire alle sue tante stazioni Tv locali di diventare «reti». Poi con un periodo di duro ed efficace controllo della televisione di Stato, sua unica concorrente in modo da tenere il concorrente nei limiti desiderati. È l’unico vero risultato dei cinque anni del suo governo, oltre alle leggi ad personam. Con quelle leggi «l’uomo dei fatti» si mette al riparo, attraverso una ulteriore estensione del conflitto di interessi (questa volta fra imputato e giustizia) dalle conseguenze penali di tutte le scorciatoie, sentenze acquistate, corruzione di giudici, falsi in bilancio, fondi neri, in modo da non dover mai pagare le conseguenze delle sue disinvolte iniziative (i fatti di cui si vanta sono quasi sempre reati) o a causa della prescrizione guadagnata dai suoi bravi avvocati, che fanno durare troppo i suoi processi (con la sarcastica collaborazione del premier che si presenta per dire «non lo vedete che devo governare e ho cose più importanti da fare che farmi giudicare?»). O perché i reati sono stati cancellati dal Codice con l’operosa attività dei suoi avvocati divenuti, intanto, membri o presidenti delle Commissioni Giustizia della Camera e Senato.

Ma è proprio su questo nuovo e interessante fatto politico che il conflitto di interessi, ormai maturo e solido puntello della vita privata, pubblica e politica di Berlusconi (e forse la vera ragione che gli fa desiderare di non abbandonare la politica) mostra tutta la sua forza.

Mi riferisco a una dichiarazione di Gianfranco Fini che ha annunciato, senza ripercussioni e smentite istituzionali che «il 13 aprile sarà la data in cui celebreremo finalmente la vera liberazione d’Italia». Il 13 aprile è il primo dei due giorni delle prossime elezioni, che Fini presume di vincere. Poiché quella dichiarazione è di un post-fascista, l’ostinazione a smentirlo e dunque a vincere queste elezioni dovrebbe farsi ancora più tenace e ostinata, per tanti di noi. Nessun giornale o tv ha autorevolmente detto a Fini che l’Italia è già stata liberata, il 25 aprile, e liberata proprio dall’oppressione degli antenati e predecessori politici del postfascismo.

Sul momento non sapevamo che la frase di Fini precedeva di poco l’annuncio della candidatura sotto le bandiere di Berlusconi (a cui si è piegato e sottomesso anche Fini) del fascista Ciarrapico, che della sua fede fondata sul delitto (Matteotti, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Fosse Ardeatine) sulla persecuzione dei nemici politici, sulle leggi razziali, fa un vanto orgoglioso e pubblico. Lo fa, in romanesco bonario, nella città che il 16 ottobre 1943 ha visto scomparire mille e diciassette cittadini ebrei romani (quasi nessuno è tornato) in un silenzio prudente di personaggi piccoli e grandi, un po’ come succede adesso.

Ecco dove il conflitto di interessi diventa perfetto. Una democrazia libera e normale non dà pace a un finto leader democratico che include con onori e fanfara nelle sue liste un fascista dichiarato con la motivazione «mi servono i suoi giornali» (segue, come sempre, smentita). Invece rispetto e silenzio. Chi vorrebbe farsi espellere disturbando il giocatore avversario che intanto è diventato arbitro (arbitro mentre gioca)?

La situazione resterà penosa, umiliante, estranea alla civiltà democratica fino ai giorni 13 e 14 aprile. In quei giorni sarà impegno e dovere di tanti italiani esseri sicuri che Paese e governo tornino a celebrare il 25 aprile, la data in cui Ciarrapico e i padrini del post-fascismo hanno perduto il controllo del Paese e l’Italia è diventata, e potrebbe tornare ad essere, un Paese grande, rispettato e libero.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 30.03.08
Modificato il: 30.03.08 alle ore 8.45   
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Titolo: Furio COLOMBO - Vieni avanti Gramazio
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2008, 03:14:21 pm
Vieni avanti Gramazio

Furio Colombo



Un ex fascista, il senatore Gramazio, due giorni fa ha selvaggiamente picchiato il Consigliere di Amministrazione di una Asl di cui fa parte, per esprimere il suo dissenso su un punto all’ordine del giorno di quel Cda. Se il fronte lepenista di Berlusconi dovesse vincere le elezioni, dando luogo alla prima vera aggregazione di destra populista e fascista dopo la seconda guerra mondiale in Europa, c’è un solo argomento che nonostante il senso di smarrimento e di paura, non potremo usare. Quello della sorpresa. Chi sono e che cosa saranno i vecchi-nuovi venuti della maggioranza politica italiana, se sgradevoli circostanze ce la butteranno addosso, lo sappiamo già adesso. Lo sappiamo non per pregiudizio, ma perché ne veniamo informati dagli stessi interessati ogni giorno. Molti, per esempio, potrebbero avere pensato che non ci saranno mai più editti bulgari e licenziamenti alla Rai a causa degli umori e degli ordini del presidente del Consiglio.

Errore, fa sapere fin da adesso Silvio Berlusconi, che non ha ancora vinto e - dobbiamo volerlo e sperarlo con tutto il cuore e con tutto l’impegno possibile - non vincerà.

Berlusconi fa sapere senza equivoci che Santoro persevera nella sua “attività criminosa”. Quando l’epurazione toccherà di nuovo a Santoro, non potremo dire che non ci era stato detto e che Berlusconi si era finto normale, civile, democratico.

Non lo è. E tra la benevola disattenzione dei grandi media di tutti i tipi e di tutte le provenienze politiche o industriali, va a provocare i frenetici applausi che gli spettano nei teatri italiani, ripetendo, nel 2008, 20 anni dopo la caduta del muro, la gag del comunismo che minaccia il mondo.

Per coloro che si aspettano la buona armonia del lavoro “insieme”, viene avanti Ciarrapico, che è un capolavoro di schiettezza. È fascista e lo dice. Anzi fa anche tutti i gesti e ripete tutte le parole richieste per poter essere fascisti ed essere considerati fascisti. D’altra parte la carovana Berlusconi aveva già a bordo la camerata Mussolini che a sua volta è capofila di negazionisti e filo nazisti che l’Europa non potrebbe accettare (e - lo ha già detto - non accetterà) in alcun gruppo parlamentare europeo.

Il desiderio di accettare Berlusconi e la sua orda pagano-clericale-fascista come se fosse gente di Angela Merkel, di Chirac o di Sarkozy, (o si trattasse di eroi del proprio Paese come Mc Cain) viene brutalmente frustrata dall’esibizione del camerata Gramazio. Lo so, era senatore della Repubblica nata dalla Resistenza e retta da più democratica e civile Costituzione europea, quella di cui Calamandrei ha potuto dire: «Facile per noi onorarla e rispettarla. Ma quanto sangue è costato conquistarla per renderci liberi e restituirci dignità».

A Calamadrei potremmo forse rispondere oggi che non è più tanto facile neppure per noi difendere e salvaguardare quella Costituzione così duramente pagata.

Perché noi, per esempio, siamo coloro che in Senato si vedono di fronte Gramazio. È colui che, alla notizia del voltafaccia di Mastella, ovvero un ministro della Giustizia che all’improvviso fa cadere il governo di cui è parte per ragioni private e personali, agita una bottiglia di champagne appositamente portata in Aula, in modo da ottenere l’effetto desiderato. E quando si avvicinano i commessi del Senato che cercano di contenerlo, di tranquillizzarlo, nel corso del loro lavoro, rovescia loro addosso il getto di schiuma, urla e si aggira esultante come un adolescente scriteriato, agitando champagne e mortadella, nel luogo che sarebbe, e una volta è stato, il Senato della Repubblica.

Non possiamo negare che ha messo in scena una apertura esemplare di campagna elettorale. Persino Berlusconi, sul momento, sembrava aver notato il pericolo, se non altro per eccesso teatrale di volgarità. E su due piedi l’uomo tutto d’un pezzo di Arcore aveva detto che né Gramazio né l’altro protagonista dello spregevole spettacolo, il senatore Strano, sarebbero mai più stati inclusi nella lista di candidati. Lo sono. Perché alla fine l’uomo tutto d’un pezzo di Arcore deve avere apprezzato un rigurgito così grande e pieno e volgare, che a lui sarà sembrato anti-comunismo.

Ora però Gramazio sembra avere una preoccupazione in più. E se nel mondo nuovo dove stanno per venire dei Ciarrapico - che vanta le radici fasciste - delle Mussolini (“meglio fascista che gay”), delle Santanchè scortate dai naziskin teste rasate, degli Storace che minacciano di fare il pieno del peggio dopo Salò, la sua immagine apparisse, a confronto, molle e borghese?

Che cosa c’è di meglio che piazzare due pugni in faccia a uno che non ti dà ragione, mandandolo al pronto soccorso con prognosi di dieci giorni?

A questo punto nessuno potrà negare che Gramazio è un buon camerata. Nessuno lo nega e certo avrà avuto la sua parte di riconoscimento e di rispetto da parte dei “ragazzi”. Forse un pensiero lo ha fatto anche Fini - che infatti si è guardato bene anche solo dall’esprimere un cauto dissenso. Con gente come Gramazio forse Fini non si troverebbe più nella imbarazzante condizione di fare comizi a sale di cinema vuote. Gramazio, che sa come festeggiare e sa come punire nel suo tipo di Repubblica, saprebbe anche come riempire una sala per il capo.

Il fatto di cui sto parlando però, non riguarda Gramazio e la sua politica virile, tra pugni e champagne.

Il fatto riguarda noi, tutti noi che pensiamo di essere democratici e legati alla Costituzione. Riguarda quelli fra noi che si domandano cosa serve andare a votare se “i programmi si assomigliano” (rivedere per favore il capitolo sulla “televisione criminosa”) coloro che si divertono al fotomontaggio di Newsweek con il titolo copiato dal Foglio «Veltrusconi».

Riguarda coloro che - pur di dimostrare che sono più a sinistra - si preoccupano di dire che il nemico non è Berlusconi ma è Veltroni.

Riguarda quelli fra noi che pensano, insieme alla buona regia di tutte le Tv e alla “pacatezza” un po’ sospetta dei grandi giornali, che sia più civile lasciar correre le ragazzate, in attesa che tanti mitici Gianni Letta, siano pronti a sedersi allo stesso tavolo per il bene della Repubblica.

Nessuno di noi - quando Ciarrapico e Gramazio dovessero andare al governo, con tutti i camerati sia rasati che in grisaglia - potrà dire: «Così fascisti? Non lo sapevo». Sia chiaro, sto parlando di un incubo. Ma loro hanno il coraggio di essere sinceri, e gli elettori potranno decidere sulla base di ciò che sanno.

Vieni avanti Gramazio, fatti vedere bene, camerata di botte e di governo.


furiocolombo@unita.it




Pubblicato il: 02.04.08
Modificato il: 02.04.08 alle ore 8.55   
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Titolo: Furio COLOMBO - Quella sera in casa di Luther King
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2008, 05:05:57 pm
Quella sera in casa di Luther King

Furio Colombo


Ero ad Atlanta, quel giorno, 4 aprile 1968. Ero in casa di Martin Luther King, all’ora di cena, che nel Sud degli Stati Uniti è molto presto. Coretta King era a capotavola, nella sala da pranzo un po’ pretenziosa della loro casa di borghesia colta e nera. Io sedevo di fronte a lei, i due bambini maschi da un lato, la bambina dall’altro, accanto al reverendo Martin Luther King senior, il padre del predicatore, predicatore lui stesso, e anzi fondatore della piccola chiesa di Auburn Avenue, che era ancora il centro di tutta l’attività del leader del Movimento per i Diritti Civili.

Mancava la figlia più grande, Yolanda. C’era una giovane donna, parente di Coretta King, che si curava dei piccoli, girava intorno a noi, correggendoli e un po’sgridandoli, ma senza sedersi a tavola, perché andava e veniva dal telefono che era in una stanzetta detta «lo studio del dottor King».

Quando non è tornata (erano le sette di sera) e ad uno ad uno gli adulti si sono radunati in quella stanza, davanti al televisore acceso, è toccato a me restare con i bambini.

Sapevano che il padre era a Memphis «a predicare a tanti uomini e donne che facevano una marcia». Il più grande, Martin, sapeva anche perché. Erano coloro che tenevano pulite le città e per tutto quel lavoro «non li pagavano niente». E allora facevano una grande protesta e suo padre era lì, con loro.

La parte privata del racconto finisce qui. Qui cominciano le immagini della televisione, la più difficile da dimenticare è quella di Andrew Young e di Raph Abernathy inginocchiati accanto al corpo di Martin Luther King, sul ballatoio del Lorraine Hotel di Memphis. Young cerca di sollevare con la mano la testa insanguinata di King, appena colpito. Obiettivo facile, più facile di un film. Nei motel poveri d’America per raggiungere le stanze si passa da una terrazza esterna, come nelle case italiane «a ringhiera». Basta sapere il numero della stanza e aspettare con l’arma di precisione puntata alla porta, dopo avere calcolato l’altezza, e dunque la testa della persona da uccidere.Ma il film, più vero e più drammatico e sorprendente di un thriller, continua. In un’altra inquadratura del celebre filmato di quella sera, Andrew Young indica di fronte a sé. Non si vede dove indica, nell’inquadratura. Ma al di là da un ampio spazio desolato, c’è una vecchia casa rossa con scale antincendio esterne, e una grande terrazza in alto, più o meno all’altezza del secondo piano del Lorraine e proprio di fronte alla stanza di King, l’ultima sul ballatoio (a sinistra, guardando da fuori). Dunque a quella casa di fronte, di là dallo spazio desolato (erba, terriccio, auto abbandonate) si può arrivare da dentro, attraverso scricchiolanti e malconce scale di legno, oppure arrampicandosi sulla scala di ferro, da fuori.

L’importante è arrivare prima e appostarsi.

Il perché l’ho capito arrivando, con il cameraman della Rai, dalle scale di legno. Il primo e il secondo piano sono vuoti. Il terzo è un immenso stanzone con brande e sedie. Ci sono una cinquantina di uomini quasi tutti anziani, alcuni incapaci di muoversi o per il tremore o per il disorientamento, perché guardano assenti. Non si vedono infermieri. C’è stato un putiferio di grida al nostro arrivo. Poi è cessato, quasi di colpo, e un grande silenzio, o parole dette a voce molto bassa e senza alcuna coerenza, seguivano il nostro lavoro di montare la telecamera.

Abbiamo chiesto dove si era piazzato l’uomo con l’arma di precisione. Uno che poteva camminare, con un sorriso dolce ci ha indicato un punto, poi un altro. Ha puntato in basso, dove non ci sono finestre, poi in alto, forse per dire dove vanno le anime dopo gli spari. Rideva in modo dolce, come se si rendesse conto della sua impotenza. E della nostra.

C’erano tracce di piedi e di scarponi, ma di chi, ma da quando? C’era già stata la polizia? Molti hanno battuto le mani, altri si sono voltati verso il muro.

Ci hanno avvertito della rivolta di Washington, diceva la radio: «La capitale degli Stati Uniti è in fiamme».

Siamo partiti subito. A quel tempo, in America, c’erano voli anche di notte. Si chiamavano red eyes (occhi rossi) e costavano meno. Era prima, molto prima della mitica de-regulation di Reagan, che ha tagliato a metà l’aviazione civile americana e moltiplicato i costi, perché tutto è stato lasciato alla discrezione di un cartello detto «concorrenza».

A Washington era difficile entrare in città, a causa dei posti di blocco di Guardia Nazionale e paracadutisti, i soldati che avevano sostituito la polizia metropolitana nel tentativo di riprendere il controllo della città. Ma a quel tempo le credenziali di giornalista erano sacre.

All’aeroporto abbiamo fatto la cosa più rischiosa ma anche più utile: abbiamo noleggiato una di quelle enormi auto scoperte che si vedono nelle parate dei film anni Cinquanta.

In quel modo potevamo filmare intorno senza i limiti dei finestrini. Con quell’auto, alla sera del primo giorno, e dopo avere filmato la distruzione (interi isolati di case in fiamme, incendi provocati dai rivoltosi neri nei quartieri e nelle case dei neri, il resto della città era sbarrato da cingolati messi per traverso, filo spinato e soldati) siamo andati nel piccolo edificio a due piani in cui Robert Kenney aveva organizzato il suo ufficio per la sua campagna elettorale. Era candidato democratico contro il presidente democratico Johnson, era il candidato contro la guerra nel Vietnam, votata da senatori e deputati del suo partito. Stava vincendo, ad una ad una, con i suoi indimenticabili discorsi, tutte le elezioni primarie.

Gli ho proposto l’idea pazzesca di venire sulla nostra auto scoperta. Saremmo andati alla Quattordicesima strada, angolo F street dove era cominciata la rivolta, una o due ore dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King.

Robert Kennedy mi ha chiesto un quarto d’ora per riflettere. Si è ritirato in uno stanzino diviso da una porta a vetri. Potevamo filmarlo, mentre, muovendo un po’ le labbra, stava «pensandoci» come aveva detto, e lo abbiamo fatto, senza tagli o montaggi, Kennedy non ha consultato nessuno. Ha deciso da solo, neppure Ted Sorensen, comune amico e che si vede accanto a me e a lui nel documentario di quel momento. È venuto da solo.

Era notte e non c’erano luci perché l’energia elettrica era stata tolta in città. Siamo entrati in un’area che sembrava vuota e spenta. Ma quando abbiamo acceso l’unico riflettore, puntandolo su Robert Kennedy, che si era alzato e stava dritto sulla parte posteriore dell’auto, alcuni ragazzi si sono avvicinati. Sembravano dieci o venti, e invece erano molti di più, così è accaduto in pochi minuti. C’era una di quelle reti metalliche dei campi da gioco urbani. La rete consentiva a Bob Kennedy di appoggiarsi e di lasciarsi spingere più in alto. Non da noi, dalle mani dei giovani neri.

È in quel modo, in quella condizione, in quella notte, che il giovane senatore Robert Kennedy ha parlato ai neri di Washington in rivolta. Ha parlato di «mio fratello» e di «vostro padre» che sono stati assassinati nella stessa maniera.

«Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di rispondere alla violenza senza violenza. Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di non spargere sangue. Perché noi siamo la prossima America».

Mancavano solo due mesi, stesso giorno, quasi la stessa ora, all’assassinio di Robert Kennedy (ricordate?, Ambassador Hotel di Los Angeles, la notte tra il 4 e il 5 giugno di quello stesso 1968, dopo che Robert Kennedy aveva vinto anche le ultime elezioni primarie in California, e dunque era certo della sua designazione a candidato del partito democratico e certo della sua vittoria alle elezioni presidenziali).

Dunque «la prossima America», senza violenza di cui Kennedy ha parlato quella notte, dopo l’uccisione di Martin Luther King a Memphis e prima della sua uccisione a Los Angeles, quella volta non è venuta. Non ancora. Per questo ha mosso e sconvolto e appassionato gli americani il discorso di Barack Obama, appena due settimane fa a Filadelfia. «La prossima America» è di nuovo in cammino. Di nuovo cerca giustizia per coloro che sono stati lasciati indietro, di nuovo sta dicendo agli americani giovani che il loro destino è molto più grande e importante del morire e combattere. Di nuovo la parola «speranza» ha un senso più vasto e risonante della parola «potenza».

Per questo è giusto ricordarsi di Martin Luther King - e del suo fratello bianco Robert Kennedy - il 4 aprile di un anno in cui potrebbe accadere ciò che non è accaduto, qualcosa di grande e di preannunciato dal senso delle loro vite.

Pubblicato il: 03.04.08
Modificato il: 03.04.08 alle ore 8.28   
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Titolo: Furio COLOMBO - Quirinale con vista
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2008, 06:33:01 pm
Quirinale con vista

Furio Colombo


Uno strano evento ha attraversato la settimana politica italiana, con la complicità dei giornali e delle Tv che vi hanno dedicato ampio spazio. Sono stati i colpi violenti, le manate maleducate al portone del Quirinale.

Berlusconi dice di essersi espresso male o di essere stato frainteso, e ha anche smentito, secondo il suo rigoroso modo di operare (la sua Repubblica è fondata sulla smentita). Può anche darsi che gli si debba concedere l’attenuante delle condizioni estenuanti e della difficoltà di condurre - come sta dicendo - una campagna elettorale alla cieca in cui dice e ripete un’unica proposta, anzi una perentoria richiesta: «Datemi il potere, e poi so io che cosa farne».

Però una cosa è chiara e neppure Bonaiuti, l’uomo che, secondo Berlusconi, «nei momenti difficili è sempre in bagno», ma che a noi pare molto efficiente, potrebbe smentire.

Questa cosa è l’affannosa ricerca, da parte dell’uomo di Arcore, non della porta di Palazzo Chigi, ma del portone del Quirinale. La cosa fa differenza persino se non ci si abbandona all’incubo di Berlusconi che torna a governare.

Noi (noi, tutti gli italiani) sappiamo che, governando da primo ministro, Berlusconi ha violato tutte le regole possibili, scritte e non scritte, dalle buone maniere alle missioni impossibili. Ha licenziato giornalisti italiani di aziende che non hanno niente a che fare con i poteri del premier. Ha insultato parlamentari di altri Paesi sia da premier che da ministro degli Esteri ad interim.

Ha inventato una guerra in Iraq che per l’Italia non esisteva (su quella guerra il governo italiano non è mai stato consultato e non ha mai preso parte ad alcuna decisione), con regole di ingaggio che sono costate la vita a soldati italiani privi di protezione. E adesso la Corte dei Conti ci fa sapere che una parte dei soldi destinata alla protezione dei soldati e all’assistenza alla popolazione civile è stata stranamente dirottata su altri bilanci su cui ora la corte sta indagando. Inoltre Berlusconi ha annunciato a raffica cose che non ha neppure cominciato a fare, come i 136 cantieri delle opere pubbliche, il ponte di Messina o la riforma «come un calzino» del ministero degli Esteri.

Adesso pensa al Quirinale. Si dirà che il presidente della Repubblica in Italia non ha poteri. Ma è proprio intorno a questa constatazione che l’incubo “ritorno di Berlusconi” diventa una minaccia istituzionale. Stiamo parlando di un personaggio che, persino in buona fede, e anche a causa del vasto potere personale che gli conferisce la ricchezza e il completo dominio sulle comunicazioni italiane, è interessato al fatto, ma non al diritto. Non al senso giuridico, meno che mai istituzionale, di ogni cosa che fa. È interessato soltanto a ciò che - legale o illegale - va bene per lui.

Un politico tradizionale, anche se di destra, anche se privo di scrupoli, avrebbe agito dietro lo schermo dei suoi apparenti limiti decisionali per raggiungere scopi brutali come la cacciata dei «criminosi» Biagi e Santoro e Luttazzi dalla Rai. E avrebbe raggiunto il non nobile fine della vendetta personale che gli stava a cuore, lasciando cadere altrove le responsabilità della decisione, protetta da uno schermo di forme e di apparenti espedienti procedurali.

Ora fate attenzione. Berlusconi non ci pensa due volte a divellere con le sue mani i paraventi di buone maniere che separano - e mantengono un poco al riparo - la presidenza della Repubblica dalla politica quotidiana e dai suoi colpi a volte clamorosi e volgari.

Sappiamo tutti che quei paraventi sono strumenti fragili che, tuttavia, hanno un compito che conta molto per le istituzioni e per i cittadini. Consentono al Capo dello Stato, proprio perché è un alto simbolo senza potere (o con pochi, limitati ma essenziali poteri come quello di designare il primo ministro o di sciogliere le Camere) di essere una garanzia per tutti, accettata e rispettata da tutti. Si tratta di un carattere difficilmente soppesabile, un po’ come le “divisioni del Papa” su cui faceva osservazioni sarcastiche Stalin. Il Papa, infatti, non aveva divisioni, ma è stato il mondo di Stalin - che di divisioni ne aveva moltissime - a scomparire, non il mondo apparentemente indifeso del Papa.


* * *


Dunque i poteri non giuridicamente definibili, fatti di consenso dal basso e di responsabilità morale dall’alto, hanno un peso molto grande nella vita di un Paese. Per esempio sono un impedimento all’uso eccessivo, squilibrato o arbitrario di coloro che hanno effettivamente una certa dotazione di potere - come i primi ministri - e la usano male.

Ma se Berlusconi sceglie proprio adesso il momento di vendicarsi di Oscar Luigi Scalfaro, di Carlo Azeglio Ciampi, e - in uno strano modo preventivo, che sa di finta lode e di vero avvertimento - di Giorgio Napolitano, c’è una ragione piccola e una ragione grande.

La ragione piccola è che, qualunque sia la buona e consigliabile strategia di una campagna elettorale in cui persino per lui sarebbe bene essere più accorti, gli preme scaricare la sua malevolenza contro coloro che, con grande senso dello Stato, hanno contenuto, limitato o impedito i gesti di una quotidiana prepotenza che sono stati i principali snodi del modo di governare di Berlusconi, dalle leggi personali a quelle per le sue aziende.

In particolare: come può, l’uomo di Mediaset che vuole governare ancora una volta le sue aziende e l’Italia, accettare la decisione di Ciampi di rinviare alle Camere la penosa legge sulle Comunicazioni scritta apposta per lui da un «antemarcia» del Popolo della Libertà, certo Gasparri, che si era arruolato nel Pdl di Berlusconi molto prima che il Pdl esistesse?

La ragione grande, quella a cui gli elettori, anche coloro che non si sentono chiamati dalle proposte e dalle idee del Pd dovrebbe prestare attenzione, è che - se diventasse Presidente della Repubblica - Berlusconi si comporterebbe secondo la sua visione dei fatti totalmente separata dal diritto. Sei al Quirinale, il colle più alto e la magistratura suprema del Paese? E allora che cosa ti importa di quali poteri sono prescritti e previsti e di quali non sono contemplati dalla Costituzione? Prima di me - lui dirà - c’erano politici imbelli dediti alle buone maniere. Lui è fattivo e farà.

Contro un presidente che esorbita esiste - anche nella versione italiana - una sorta di «impeachment». Provate a immaginare di farlo con lui. Primo, dirà che in realtà volete espropriare le sue aziende, che intanto faranno capo direttamente al Quirinale. Secondo, avrà pur sempre abbastanza sostegno, acquisito alle urne o acquistato al mercato della debolezza umana, per impedirlo. Terzo, da capo dello Stato ha diritto alle reti unificate, che sono il suo vero progetto fin da quando ha mandato alle varie Tv italiane quella famosa cassetta preregistrata in cui, con le dovute cautele e trucchi visivi, annunciava la sua «discesa in campo». Se riesce, già adesso, con poche telefonate, a controllare interi consigli di amministrazione di cui non fa parte e a intimidire intere testate giornalistiche in cui non ha investimenti diretti (c’è pur sempre il controllo di tutta la pubblicità) con le reti unificate farà miracoli di governo.


* * *


È importante non dimenticare un aspetto singolare, unico, del trascorso e infausto governo Berlusconi. Ad ogni attacco o anche solo cauta critica sul suo operato o sull’operato del suo governo, l’uomo della libertà mandava a dire che ogni giudizio contro di lui era in realtà un giudizio contro l’Italia. Per ogni polemica sul suo modo di governare evocava il tradimento. E subito si associavano i suoi, nelle Camere e fuori. Infatti, come sanno deputati e senatori del Popolo delle Libertà che, non avendo consentito sul cento per cento di tutto non sono stati ricandidati, gli ordini sono ordini, e dunque non sono ammessi «deviazionismi» di nessun tipo.

Una volta Umberto Eco ha notato che il modo di intendere il potere, il rapporto con il partito e gli elettori di Silvio Berlusconi e la sua pronta e irritata condanna per ogni pur vago dissenso, è l’«ultimo comunismo».

La scorsa settimana, in un memorabile editoriale su la Repubblica, Eugenio Scalfari ha invitato i lettori a riflettere sul pericolo dei «dodici anni di governo» di Silvio Berlusconi, cinque come primo ministro in caso di vittoria alle urne, e sette da presidente della Repubblica. Scalfari implicava, e io mi sento di dire: dittatore a vita. Là dove la dittatura non deve intendersi (sempre) come restrizione personale, alla vecchia maniera. Ma certo gli avversari devono aspettarsi un monitoraggio elettorale stretto. Per esempio la pratica di far spiare dai servizi segreti militari giudici e giornalisti, già sperimentata nel suo ultimo governo, non promette bene. Dittatura vuol dire togliere la parola, salvo Blog e foglietti. Ma intervenire su tutto a reti unificate sarà (sarebbe) il suo capolavoro: un mondo finto come i modellini computerizzati del ponte di Messina, mandati in onda a tutte le ore nei telegiornali italiani in modo da convincere che quel ponte già esiste e chi si oppone è un luddista o un pazzo.

Ma la vera controparte, il vero nemico che Berlusconi governante a vita preferisce è il traditore, l’anti-italiano che cerca di levare la voce del dissenso e tenta di dire la vera storia, opponendosi così - lui dice e dirà - non a lui ma all’Italia.

Qui occorre notare che - dal tempo della «discesa in campo» ad oggi - Berlusconi ha certamente cambiato e aggiornato i suoi modelli. Ai tempi dell’arrivo di Berlusconi da Arcore si vedeva ben disegnata sul fondo l’ombra di Juan Peron.

Tuttora provoca una immensa meraviglia (certo nella cultura politica del mondo) ricordare che l’uomo più vecchio e datato del mondo politico europeo negli anni Novanta, un paleo-monopolista che ha fondato il suo impero su favori di governo e altri favori, senza mai alcun vero debutto sul mercato inteso come concorrenza e sfida dei migliori, è stato visto, anche in Italia, e anche a sinistra, come qualcuno che «ha capito la modernità» e che «porta modernità».

Nel frattempo però è avvenuto un drastico aggiornamento. Il modello adesso è Putin. Non bisogna dimenticare che uno dei suoi più attivi strumenti di denigrazione e di governo, la non dimenticabile commissione Mithrokin, il cui scopo era di dimostrare l’affiliazione di Prodi al KGB, ha agito con personale a pagamento della Russia di Putin, ed è incorso nella disavventura di alcuni non dimenticabili delitti (spaventosi persino in un esagerato serial Tv) come la morte pubblica, per avvelenamento di polonio, della spia Litvinenko, alla presenza del consigliere principale della Commissione parlamentare, certo «Prof. Sgaramella» presentato e retribuito come star della intelligence mondiale e finito in prigione per falso. Falso su tutto. In altre parole, il Paese in cui è stata assassinata per eccesso di libertà la giornalista Olga Politoskaia è, attraverso l’amico Putin, il modello di comportamento del governo Berlusconi, del governo dei dodici anni.

Una presidenza della Repubblica priva di poteri formali è l’ideale per ospitare un potere forte la cui forza dipende dalla ricchezza, dalle aziende, dalla sottomissione dei dipendenti e dei tanti che aspirano a diventare dipendenti. Tutto ciò che è stato detto fin qui sembra motivato esclusivamente da antagonismo politico. Vi prego di rileggere. Noterete che, togliendo l’aggettivazione negativa e i giudizi personali, certo di profondo dissenso e di incolmabile distanza, la storia che ho provato a tratteggiare, non cambia.

Nel futuro desiderato da Berlusconi l’Italia si impantana in una semidittatura fondata sul potere a senso unico della televisione, e servito dalla sottomissione di molti giornali. Il pericolo, oggettivamente, è grande.


* * *


A confronto con questo scenario, che mi pare purtroppo fondato, provo disorientamento e stupore ogni volta che si rinnova - sempre e solo da parte del Pd - l’esortazione, la speranza, o addirittura la preghiera, di fare qualcosa di «bipartisan».

A parte la legge elettorale, che è una disperata urgenza del Paese, una specie di pronto soccorso delle condizioni minime della democrazia, con cui è inimmaginabile che persino gli autori del misfatto (la «porcata» di Calderoli) rifiutino di misurarsi, non si trova traccia di una offerta, o anche solo di uno spiraglio d’apertura a destra, sul «fare insieme». Né si capisce perché si dovrebbe desiderare. A me non risulta che Barack Obama, ma anche la più pragmatica Hillary Clinton, abbiano mai pensato di coinvolgere George W. Bush e i suoi deleteri ideologi in qualche tipo di conferenza comune per il futuro degli Stati Uniti.

Il Congresso americano, come si sa, è spesso «bipartisan». Ma è un Congresso (Camera e Senato) che non ubbidisce agli ordini del Presidente e agisce in piena autonomia. Nessuno, tra loro, avrebbe accettato l’ordine di insultare in pieno Senato una persona come Rita Levi Montalcini, anche perché la grande stampa e Tv di quel Paese non avrebbe aspettato la denuncia indignata di un solo piccolo giornale come l’Unità per darne notizia e giudicare ignobile il fatto. Perché allora in questa Italia, dove Berlusconi insulta ogni giorno Veltroni, e tutti gli altri si occupano di farci credere che Prodi è peggio di Attila, si deve fare ala riverente al passaggio della più stupida idea mai affiorata tra le bravate della destra? L’idea è che i problemi della scuola italiana si risolvono se gli studenti si alzano in piedi quando entra un insegnante. Intitola il Corriere della Sera (2 aprile): «In piedi quando entra il prof. Franceschini apre al Cavaliere». E scrive: «La proposta di Berlusconi sembra avere un appeal bipartisan».

Perché? Nella mia scuola fascista i bambini dovevano alzarsi in piedi quando entrava l’ispettore della razza. Che rapporto c’è fra una proposta così modesta e irrilevante e la vera profonda crisi della nostra scuola, vigorosamente aggravata dalla Moratti? Come dice Crozza, Franceschini, buona sera Franceschini. Non potremmo avere un’idea migliore, e per giunta nostra? Perché ci tormenta il bisogno di dare ragione a Berlusconi, visto che il suo torto verso l’Italia è così grave che ce lo ripetono da ogni angolo del mondo?

furiocolombo@unita.it





Pubblicato il: 06.04.08
Modificato il: 06.04.08 alle ore 15.54   
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Titolo: Furio COLOMBO - Falcone, Borsellino Berlusconi
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2008, 04:23:21 pm
Falcone, Borsellino Berlusconi

Furio Colombo


«Possibile che gli italiani vogliano davvero che sia un politico simile a governarli?».

La domanda angosciante e - fino a domani, priva di risposta - è di John Lloyd, giornalista inglese. Come molti di coloro che non hanno molta stima di Berlusconi in Europa, John Lloyd non è uomo di sinistra, meno che mai un militante di parte. È un editorialista del Financial Times di Londra che guarda l’Italia con lo stesso stupore di tutta l’Europa.

Possibile? «Trattando gli italiani come un pubblico da sollazzare, illudendolo a pensare che ogni errore è imputabile alla sinistra, Berlusconi perdura nell’usare uno stile politico che dimostra tutti i suoi anni, e la pretesa che l’Italia resti ferma nel tempo. È lì che gli italiani vogliono stare?» (traduzione de la Repubblica, 4 aprile).

C’è in ciò che scrive il giornalista inglese un genuino senso di partecipazione all’angoscia di una parte degli italiani (grande, crediamo). Eppure tutto ciò era stato scritto quando l’uomo di Arcore sembrava dilettarsi a farci credere, come in un brutto film, al suo intenso traffico con donne giovani, un assortimento di vallette e candidate che avrebbero dovuto piazzare i riflettori (con la dovuta cautela) sul suo volto, che ritiene irresistibile.

Erano i giorni in cui non trovava di meglio che fingersi indifferente e genericamente insultante (è il suo stile quando è “buono”) di fronte alle piazze calde e affollate di Walter Veltroni. Gli stessi giorni in cui il suo aiutante di campo Gianfranco Fini si arrabbiava di fronte a cinema vuoti che avrebbero dovuto ospitare i suoi comizi.

E le scaltre telecamere dei vari telegiornali (”tutti di sinistra”) riuscivano a non farci vedere i vuoti nelle piazze di Berlusconi.

Ricorderete che l’uomo che si candida per la quinta volta, sperando di avere una seconda occasione di governare per cinque anni l’Italia, era “entrato in pista” tentando invano il salto di Benigni, e spiegando a tutti di essere sostenuto da 10 (dieci) punti di distacco dalla sinistra. Come dire, “è cosa fatta”.

Ma qualcosa deve essere accaduto (“l’erosione del distacco” propone Ezio Mauro nel suo editoriale del 10 aprile) perché all’improvviso, dalla sua parte politica, c’è stata una violenta caduta di massi che ha colto molta gente di sorpresa, una brutta sorpresa persino se viene da Berlusconi. Una sorpresa che probabilmente avrà colpito e impressionato anche elettori che si preparavano a restituirgli il mandato di governare da destra. Se è stata l’erosione del distacco a provocare la strategia rabbiosa che Berlusconi, Bossi e i suoi hanno rovesciato sull’Italia in questi giorni, in queste ore, allora devono avere visto un buco di consensi che ha messo paura. Vediamo.

Prima viene Umberto Bossi, il 5 aprile. Si fa trovare al giuramento di Pontida, una penosa messa in scena con figuranti vestiti da guerrieri che devono dire, a nome del prossimo governo italiano, queste parole da avanspettacolo: «Oggi, sul sacro suolo di Pontida, noi rappresentanti dei Popoli Padani, giuriamo di difendere la libertà dei nostri Popoli Padani (scusate la ripetizione, ma è proprio così nel testo del giuramento, ndr) dal potere romano e ciò faremo giurare ai nostri figli». Bossi dovrebbe leggere. Ma rinuncia, butta via il foglietto e improvvisa, ispirato dai buoni sentimenti che animano lui e la Lega Nord di Calderoli, Castelli e Borghezio: «Attaccheremo. E tutti insieme sferreremo un colpo mortale al centralismo della canaglia romana».

Poiché la sequenza di ciò che stiamo raccontando è rapida e aggrovigliata e i vari protagonisti sembrano a volte intenti ad essere cattivi, a volte soprattutto confusi, occorre precisare che siamo ancora nella fase in cui Bossi è già stato designato dal monarca di Arcore quale “ministro delle riforme” del governo “che sta per venire”.

Evidentemente la spinta violenta e la messa in scena teatrale dei leghisti, unici veri e fidati sodali del monarca (gli altri o li ha cacciati o li ha sottomessi alla sua diretta dipendenza) ha creato un desiderio di emulazione al peggio. E scoppia subito (6 aprile) la solenne denuncia dei brogli. Per denunciarli Berlusconi invoca “il precedente” del 2006, quando era lui il capo del governo e Pisanu (che invece di stare al Viminale, ha passato la notte a casa di Berlusconi) era il ministro dell’Interno.

Non si ha notizia, neppure nelle conflittuali repubbliche del Kenya e dello Zimbabwe, di un governo che accusi di brogli l’opposizione, perché è impossibile. Ciò che avviene durante una elezione è responsabilità esclusiva di chi controlla il governo. E infatti le accuse di broglio muovono sempre in senso inverso. Ma non si deve dimenticare che - per lo strano e inedito caso italiano - l’accusa viene da un ex capo di governo che aveva montato la Commissione parlamentare di inchiesta detta “Telekom Serbia”, affidata alle informazioni di un ben retribuito falsario e calunniatore, successivamente arrestato e incriminato (per falso) dalla magistratura.

L’accusa viene da un ex capo di governo che aveva montato la Commissione parlamentare di inchiesta detta “Mithrokin”, costituita allo scopo di dimostrare, con testimoni a pagamento e un consulente che è stato un vero costo della politica (prima della prigione per falso) che Prodi era uomo del KGB.

L’accusa viene da un ex capo di governo che aveva messo sotto spionaggio militare almeno un centinaio di magistrati e giornalisti che dovevano essere “disarticolati”. Illegale? Illegale.

Naturale che a una persona così venga in mente di buttare avanti in anticipo l’accusa di brogli, opera di comunisti abilissimi, capaci di estrarre e riporre a piacimento le schede nelle urne repubblicane.

Quanto questo giovi all’immagine dell’Italia-Zimbabwe è facile immaginare. Però non basta. Il colpo di Berlusconi offre una nuova spinta a Bossi. Che sarà senza voce ma ha prontamente dichiarato: «Andremo con i fucili a stanare la canaglia romana».

Siamo tra il 6 e il 7 aprile e la bordata dei fucili padani viene affrontata con tono padronale da Berlusconi: «Beh, la salute di Bossi è quella che è».

*. * *

Nessuno saprà mai, in questo Paese semi-civile, quali sono le condizioni di salute di Bossi, che stava per diventare titolare di un ministero chiave, e che in ogni altro Paese dovrebbe dare, da persona pubblica e da capo di partito, notizie precise e documentate sulle sue condizioni di salute. Per fortuna la signora Bossi fa sapere ai giornali che «lui sta bene, benissimo», e la sua dichiarazione ci deve andar bene come se Bossi fosse un vicino di condominio a cui fare i migliori auguri.

Ma non siamo che all’inizio. Forse per riequilibrare l’impressione della minaccia di creare bande armate, Berlusconi fa sapere (8 aprile) che, con il suo nuovo governo, ci sarà una legge che obbligherà i magistrati a test periodici sulla salute mentale. Si può immaginare la risonanza europea di una simile dichiarazione, la portata di diffamazione del proprio Paese da parte di un candidato molto ricco, molto potente, molto indagato, e scampato a sentenze di condanna solo grazie a ritocchi apportati ai codici dai suoi avvocati diventati legislatori nel partito dell’indagato.

Ha scritto lo Herald Tribune del 12 aprile: «Ormai il settantunenne Berlusconi dice a ruota libera la prima cosa che gli viene in mente. Ma probabilmente Berlusconi pensa davvero che i magistrati che hanno osato incriminarlo varie volte devono essere matti».

Infatti, subito dopo lo shock, impossibile non notare la minaccia e il ricatto: le verifiche sullo stato mentale del giudice saranno “periodiche”. Ovvero dopo ogni sentenza sgradita. A meno che significhino: bisogna essere matti per rischiare la vita ogni giorno contro mafia, ndrangheta, camorra, per salvare l’Italia nonostante Berlusconi, i suoi “valori”, i suoi dipendenti mafiosi.

Ma lo stesso giorno interviene Dell’Utri, proprio lui, Dell’Utri Marcello, condannato a nove anni per reati di mafia e ricandidato al Senato della Repubblica. Interviene con due argomenti che cadono addosso all’Italia e al suo prestigio come un colpo violento. Prima dichiarazione. Lui, Dell’Utri, un uomo con quel passato, annuncia che, se vince Berlusconi e la sua gente, i suoi fucili, i suoi test psichiatrici per magistrati pazzi, tutti i libri di storia saranno sottoposti a rigorosa censura affinché scompaia ogni traccia di antifascismo.

E propone che, al posto dei caduti delle Fosse Ardeatine, si celebri come un eroe nazionale il boss mafioso e pluriassassino Mangano, già amico e collaboratore di Berlusconi e dell’Utri e - sia pure nell’ombra - co-fondatore di Forza Italia.

La ragione di tanto eroismo di un imputato di alcuni omicidi, condannato a due ergastoli? «È morto in prigione piuttosto che parlare ai giudici di Berlusconi e di me», precisa Dell’Utri.

Interessante dichiarazione. Significa: “se Mangano parlava eravamo finiti” . C’è da capirlo. Un vero eroe. Berlusconi, il candidato primo ministro d’Italia, conferma e rafforza il giudizio: «Un vero eroe».

Ma può una persona, che non si è mai sottoposta a test per la salute mentale, dire in pubblico e in piena campagna elettorale una cosa simile, ovvero stabilire una volta per sempre un saldo legame omertoso con un importante boss della mafia siciliana, condannato all’ergastolo per molti omicidi?

* * *

Intanto avvengono cose che stupirebbero il resto del mondo democratico.

Per esempio. Calderoli dice: «Non vi vanno bene i fucili? Useremo i cannoni». Come se non sapesse, lui che è stato sempre molto vicino a Milosevic e ai feroci comandanti serbi, che la guerra civile nella ex Jugoslavia è iniziata con parole come quelle sue e di Bossi.

Per esempio. Il generale Speciale, l’ex comandante della Guardia di Finanza, rimosso per incompatibilità (in altri tempi si sarebbe detto per ribellione), noto per il trasporto, su e giù per la penisola, di spigole fresche con aerei di Stato, fa sapere, con il linguaggio di un Sud America pre-democratico ormai scomparso: «Molti ufficiali appoggiano la mia candidatura. Chi mi ha tradito la teme». Squisito esempio di integrità militare, moralità repubblicana e di rispetto della Costituzione. Speciale sente aria di Pinochet.

È a questo punto, di fronte a questa marea montante di fango, che il candidato premier del Partito Democratico Veltroni ha scritto una lettera in cui propone agli avversari un patto di lealtà democratica.

Giustamente Veltroni pensa che non tutti, persino a destra, siano cloni di Dell’Utri e del generale Speciale. E propone, nella sua lettera quattro punti che sono, allo stesso tempo, il minimo che si può chiedere alla comune partecipazione alla democrazia, ma anche il massimo di una garanzia reciproca. È un testo semplice, su un piano totalmente diverso da quello dei programmi e delle idee di schieramento. I punti sono: unità e indivisibilità del Paese, rinuncia alla violenza, fedeltà a tutti i punti della prima parte della Costituzione, riconoscimento e rispetto della nostra Storia, della nostra identità nazionale, a cominciare dal tricolore.

Questa semplice e limpida richiesta di un candidato italiano alla guida del Paese è stata dichiarata “irricevibile” dalla destra in un tumulto di sberleffi, commentata a lungo da Berlusconi e dal suo coro, diretto dall’assistente Bonaiuti, nel silenzio penoso di Fini, come un tipico inganno dei comunisti.

È enorme, lo so. Ma non è tutto. Manca ancora (9 aprile) la intimidazione contro il Capo dello Stato. Deve andarsene e lasciare libero il posto per il nuovo arrivato «perché altrimenti la sinistra si è presa tutte le istituzioni. Solo se Napolitano se ne va, si può concedere all’opposizione la presidenza di una della Camere».

Si noti il percorso contorto, oltre che offensivo, dell’assurdo discorso. Tutto ciò, infatti, avverrebbe in caso di vittoria della destra. Dunque la destra avrebbe tutto in mano. L’idea che una delle Camere possa essere presieduta da una personalità dell’ opposizione viene dai tempi dell’Italia della guerra fredda.

Ma adesso Berlusconi dice che, oltre alla vittoria e al controllo di tutto, vuole anche il Quirinale.

Tutto ciò lo avevamo raccontato, esattamente come poi è avvenuto in questi tetri giorni, nell’editoriale de l’Unità di domenica scorsa. Ma avere previsto il peggio, con Berlusconi e a causa di Berlusconi, non è motivo di vanto. Semplicemente conferma che il peggio - da Berlusconi - può sempre venire, nonostante il peggio già dato. A meno che gli italiani, compresi coloro che pensano che sia una buona cosa non votare, non decidano di salvare il Paese e se stessi.

Lo ha ripetuto Marco Pannella dallo “Studio aperto” di Radio Radicale la sera di venerdì 11 aprile, in una diretta durata tutta la notte, che ha invaso anche il giorno successivo. «Non fatevi troppe domande inutili» - ha detto il leader radicale - che pure lamenta il trattamento sgradevole riservato ai candidati radicali nelle liste del Pd da parte dell’ex ministro Fioroni, a sua volta candidato ed esponente del Partito democratico. Ha continuato a ripetere Pannella: «La scelta è tra Veltroni e Berlusconi. Abbiamo bisogno che riprenda la vita politica in questo Paese. Perché accada bisogna dire no a Berlusconi e votare Veltroni».

Questa è una storia che riguarda ciascuno di noi. Come il fascismo. E non c’è alcuna ragione di fingere che sia utile o anche solo possibile distrarsi. Si tratta di scegliere tra Falcone e, Borsellino da una parte e lo stalliere assassino Mangano dall’altra. Tra Veltroni che governerà con ragionevolezza un Paese secondo le normali tradizioni democratiche del mondo libero, e il “principale avversario” che non ci darà pace in nome dei propri esclusivi interessi, tra le istituzioni invase del Paese (compresa la Presidenza della Repubblica) e la volontà di possesso di ogni posto di comando del più celebre imputato d’Europa. La domanda è: domani sera saremo al di sopra o al di sotto di ciò che il mondo attende (e teme) per il nostro destino?

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 13.04.08
Modificato il: 13.04.08 alle ore 11.58   
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Titolo: Furio COLOMBO - A urne aperte
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:19:09 pm
A urne aperte

Furio Colombo


Democrazia vuole che la prima parola sia di riconoscimento dei risultati, così come ci vengono consegnati dalle urne, e dunque di accettazione della prossima e non gradevole stagione di governo. Questa affermazione non ci esonera dal fatto di sapere e dal dovere di dire che non vedremo, come molti già temono, un film già visto. Ne vedremo, sia pure per legittima volontà degli elettori, uno diverso, che potrebbe anche essere peggiore. Ce lo hanno spiegato, come in cupo “trailer”, Umberto Bossi, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi in persona. Ricordate? «Mangano eroe subito». Ha senso dire queste cose, mentre molti stanno già domandandosi se si potranno fare riforme insieme? (e una si deve fare: la legge elettorale).

Per conto mio vorrei non dimenticare il bel discorso di Walter Veltroni in Piazza del Popolo, il suo appello all’Italia pulita di Borsellino e Falcone. E non vorrei dimenticare un piccolo episodio che ha segnato a Roma la giornata elettorale: cinque persone in attesa di votare si sono rifiutate di permettere a Rita Levi Montalcini, anni 99, di votare senza aspettare in fila e in piedi. È un frammento di un’Italia vendicativa e cattiva che non sarà quella del voto, ma offre un brutto ritratto.

È bene saperlo perché la sola possibilità di organizzare una opposizione corretta e utile è di partire non dai ricordi o dal rigurgito dei personali cattivi umori, come ha fatto Berlusconi durante tutta la sua parte di campagna elettorale, ma dal presente, che non è lieto, e dalla realtà, che non è entusiasmante, nonostante la splendida campagna elettorale di Walter Veltroni. Ma proprio per restare con i piedi per terra ci conviene confrontarci, per prima cosa, con le esperienze e i comportamenti che ci riguardano o ci sono più vicini.

Prenderò un argomento che - come sanno i lettori - è sempre stato a cuore a questo giornale, e che viene rozzamente definito: “antiberlusconismo”. Come sanno coloro che leggono fino in fondo i testi e gli interventi che riguardano la dolorosa questione italiana (siamo i soli in Europa a ripetere l’esperienza di Mugabe in Zimbawe: non riusciamo a cambiare il capo del governo, indipendentemente dalle normali alternanze fra destra e sinistra) il problema non è se avere o no antipatia per un particolare esponente politico di cui siamo costretti a occuparci da un quindicennio. Il problema è il clamoroso conflitto di interessi che stupisce il mondo, e oggettivamente rende difficile governare senza arrecare danni al Paese e vantaggio a chi - nel conflitto di interessi - governa.

Direte che quando i giornalisti italiani arrivano di fronte al sovrano si guardano bene dal sollevare il problema, e anzi gli fanno festa, come è giusto che si faccia ai sovrani, riservandosi se mai (anche da parte di una sinistra che amava considerarsi più rigorosa) di essere severi con chi non ha alcun conflitto o incompatibilità del genere. Un fatto curioso si è verificato due volte, nel lungo commento del pomeriggio di ieri ai risultati elettorali.

Gennaro Migliore parlando a nome di Sinistra Arcobaleno, ha detto, quando sembrava che il Pd fosse in testa, questa incredibile frase: «Ha vinto l’antiberlusconismo». Vi sembra impossibile? Eppure, più tardi, quando è apparso chiaro che Berlusconi vinceva, Angelo Bonelli, a nome dello stesso gruppo e rispondendo a una domanda diversa, ha detto: «ancora una volta l’antiberlusconismo non ha pagato». Continua dunque ad andare forte la leggenda metropolitana secondo cui il governo invasivo, tipo regime, praticato da Berlusconi non è il punto. Manca una definizione del punto. Manca anche un ragionevole risultato alle urne per provare la popolarità della strana tesi. Sia chiaro: essa non ha niente a che fare con la splendida idea di Veltroni di non nominare mai l’uomo che è in grado di farsi nominare da tutti i media italiani. Continuare a ripetere “il nostro principale avversario” è stata una idea vincente persino se non è stato vincente il pur rispettabilissimo risultato strappato con il nuovo coraggioso Pd di Veltroni.

Il fatto è che Veltroni non ha dimenticato un solo dettaglio dello strano modo di usare la politica ad uso privato di Berlusconi. Anzi gli serviva per dire come - invece - si governa nelle normali democrazie dove non si portano interessi privati al governo.

Perché la leggenda dell’antiberlusconismo che non paga sia particolarmente diffusa a sinistra là dove, nella vera vita e tra coloro che votano a sinistra, trovi attenzione, tensione e rivolta sull’argomento, può forse spiegare una parte dell’altro problema di cui hanno sofferto queste elezioni: l’astensionismo. Il tre per cento non sarà il buco che si era temuto all’inizio, ma è pur sempre una multa comminata soprattutto alla sinistra. Difficile che la sfiducia abbia motivato chi ha visto troppo impegno contro il malaffare che tormenta l’Italia. Nel malaffare politico domina certo su tutto il conflitto di interesse. Forse alcune colorite comparsate in televisione avrebbero sortito, anche per i festosi partecipanti, un migliore effetto, se il tempo utile fosse stato dedicato al “principale avversario”, invece di perdersi nella storia un po’ penosa dei “programmi sovrapponibili” del Pd e del Pdl e nella battuta, ripetuta ancora e ancora, di “Veltrusconi”.

Certo l’antipolitica ha fatto il suo ingresso alla grande in queste elezioni per buone e per cattive ragioni. Se c’è una politica corretta e rispettabile e una ignobile e impossibile da perdonare, soltanto un implacabile sistema di informazioni può farlo sapere ai cittadini, guidandoli a sostenere o a respingere. Ma come può funzionare un implacabile sistema di informazioni, come quello che orienta i votanti delle altre democrazie, se in Italia tutti gli scantinati del sistema notizie sono invasi dalle acque infette del conflitto di interessi?

Attenzione, questo non vuol dire che viene oscurata solo la malapolitica vicina al “principale avversario”. Tutta la politica viene oscurata. Ne guadagnano i peggiori esponenti di ogni parte, che finiscono nel generico e generale disprezzo. Infatti un tre per cento di cittadini si rifiutano di accostarsi alle urne nel giorno del voto. Nell’antipolitica, comunque, ha un ruolo grandissimo la Lega Nord, che si attribuisce, forte del successo in una sola zona del Paese, il ruolo di giudicare e sentenziare come “ladrona” sia la capitale sia l’Italia. Se si pensa che la Lega ottiene i voti dell’antipolitica con un minaccioso linguaggio di ostilità verso le istituzioni italiane e poi va a insediarsi in esse e a governarle, trasportata dal partito detto del “Popolo della Libertà”, si ha una situazione inedita e unica. L’antipolitica di solito comporta il prezzo della esclusione dalla politica. Per tutti, nel mondo, salvo che per la Lega Nord di Bossi che, grazie a Berlusconi - e al berlusconismo che non bisogna toccare - si è ritagliata una posizione parassita: si insedia nei punti chiave che logora e disprezza, e ovviamente lo fa con l’intento di peggiorarli. Si veda l’impegno di Castelli come ministro della Giustizia nel secondo governo Berlusconi. Quelle imprese stanno per ripetersi, probabilmente con qualche aggravante rispetto a ciò che abbiamo per forza imparato a conoscere. Ma qui comincia un capitolo che è nello stesso tempo nuovo e vecchio. Il vecchio lo portano in dote i vincitori. Il nuovo dovremo essere capaci di portarlo noi, in questo stranissimo pranzo al sacco.

Pubblicato il: 15.04.08
Modificato il: 15.04.08 alle ore 19.02   
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Titolo: Furio COLOMBO - Dopo la caduta
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 01:59:36 am
Dopo la caduta

Furio Colombo


Avrei preferito che Romano Prodi non si fosse dimesso. Non ora. Lui spiega che lo ha fatto prima. Ma i segreti non fanno notizia e non segnano date. L’onestà - che è sempre stato il marchio di fabbrica del governo che adesso finisce - ti induce a credere alla netta smentita del portavoce. E così noi lo sappiamo adesso, in piena sconfitta.
Capisco le «scelte di vita», come ci è stato detto. Posso immaginare sgarbi, disattenzioni o deliberati gesti ostili, che segnano le migliori democrazie del mondo. Ma Veltroni - dopo la straordinaria e generosa campagna elettorale - non meritava quel messaggio mentre dilaga la nuova e brutta destra italiana. E non se lo meritavano gli elettori del Pd, più di dodici milioni, che hanno tenacemente lavorato pensando di essere con Veltroni ma anche con Prodi. Hanno perduto e ricevono una lettera di disdetta dal capo del governo che hanno sostenuto nella buona e nella cattiva sorte.

Infatti non bisogna dimenticare che gli italiani a cui ora viene inviato un gentile saluto non sono i gruppi dell’Unione che hanno avuto frequenti momenti di ripensamento anche bruschi e improvvisi, che hanno vissuto imbarazzanti momenti pubblici di distacco dal governo di cui erano parte. No, l’addio riguarda coloro che hanno cercato di tener testa da soli al ritorno di un’Italia incattivita e usata, che adesso ci si para di fronte dichiarandosi “il nuovo”, un prodotto con data di scadenza dell’altro secolo. Avrei preferito che la sinistra di Rifondazione non scomparisse dal Parlamento, visto che è viva e presente nel Paese. Però non apprezzo la vecchia e penosa pratica di passare la colpa, come fa il direttore di Liberazione accusando Veltroni. In studio, a Porta a Porta, davanti al candidato leader che aveva appena proclamato eroe nazionale il bandito Mangano, davanti al titolare del più celebre conflitto di interessi, c’era lui, il direttore di Liberazione, in rappresentanza di gente tesa e viva e ansiosa come tanti che tutti noi abbiamo incontrato in campagna elettorale. Ma la conversazione è stata quasi solo sul Milan.

In studio, a Porta a Porta è comparso, più di tutti gli altri leader politici, Fausto Bertinotti. Non sarà per questo che i suoi voti sono drasticamente diminuiti. Eppure quante volte avevamo supplicato, da questo giornale, di non partecipare al gioco che consente a tanta gente di dire, rispondendo alla maledizione della presenza continua nello stesso contenitore Tv: «Certo, sono tutti uguali». È una persuasione che si diffonde solo a sinistra, dove non c’è cinismo, dove salotto e vetrina non sono apprezzati come a destra. E infatti si è visto.

Avrei preferito che il presidente emerito Ciampi, che parla al Corriere della Sera (17 aprile), pochi giorni dopo l’umiliante e anticostituzionale “giuramento di Pontida” e l’esortazione pubblica e mai smentita di Bossi a «imbracciare i fucili» se ciò che chiede la Lega Nord non si fa subito, quando ha ascoltato la seria e importante domanda del suo intervistatore Marzio Breda: «C’è chi teme che Bossi tenga in ostaggio il governo e punti a una secessione di fatto», avrei preferito che non rispondesse: «Non vedo questo pericolo. Quel Nord rivendica un diritto sul quale siamo tutti d’accordo: il federalismo fiscale». C’è un pericoloso distacco dalla realtà in queste ben intenzionate parole. Infatti sappiamo tutti che il federalismo fiscale della Lega ha in comune solo le prime due parole col federalismo fiscale umano, civile, solidaristico dei grandi Paesi democratici non centralisti. Oltre a invocare fucili, Bossi intende abbandonare le Regioni povere, umiliare gli immigrati e trasformare i sindaci leghisti in pericolosi e arbitrari sceriffi.

Tutto ciò è coerente con chi - come ci ha ricordato invano in campagna elettorale Veltroni - voleva mettere il tricolore nel cesso. Ma non ha niente a che fare con l’Italia che Carlo Azeglio Ciampi ha rappresentato nei suoi sette anni. Ci rassicura che adesso Giorgio Napolitano, a cui pure Berlusconi ha osato chiedere di dimettersi, rappresenti risolutamente quella stessa Italia unita.
Ma perché Ciampi, un simbolo così alto di stima e di fiducia degli italiani dovrebbe fare un mite passo indietro di fronte ai violenti e maleducati Asterix di Pontida, di fronte ai Borghezio e ai Gentilini che segano le panchine a Treviso e bruciano i giacigli degli immigrati sotto i ponti della Dora a Torino?

Avrei preferito che Fedele Confalonieri, bravo amministratore ed efficace vicario di Silvio Berlusconi nella gestione di Mediaset, non avesse sfidato l’intelligenza del mondo dichiarando il conflitto di interessi di Berlusconi «un falso problema». Certo Confalonieri ha capito che si può lasciar perdere visto che nessuno, fra gli illustri giornalisti schierati di fronte al padrone attuale o potenziale delle loro testate ha pensato di sollevare anche marginalmente la questione, la prima questione che - ogni volta che dici la parola “Berlusconi” - fa il giro del mondo. Ma, appunto, sarebbe stato più elegante, per un uomo elegante, lasciar perdere.
Avrei preferito che Walter Veltroni non avesse annunciato un governo ombra e un partito del Nord, mi auguro con tutto il cuore che non lo faccia. La sua campagna elettorale sciolta, libera, fondata sul contatto quotidiano con la gente, dovrà essere, io credo, il suo modello di capo dell’opposizione. Non ha vinto, direte, e anzi il distacco è forte. Sostengo che non è una ragione per dire, alla Bartali, che è tutto sbagliato e tutto da rifare. Io ricomincerei dai milioni di italiani che hanno votato Pd e Veltroni e Italia dei Valori.

* * *

C’è un tipico, ricorrente difetto italiano che, in caso di sconfitta elettorale, tormenta soprattutto la sinistra. È la maledetta propensione a dire: «Hai visto? Hanno capito il profondo sentimento popolare, hanno capito ciò che noi non abbiamo capito. Sono in sintonia con gli italiani».

Mentre restiamo in attesa di un lavoro sociologico serio che smetta di dirci che «la destra ha vinto perché ha vinto» (più o meno questa è la sintesi dei migliori esperti al momento), vediamo se è possibile evitare di dire ciò che ha quasi impedito una vera opposizione nel 2001, quando buona parte della sinistra leggeva la vittoria di Berlusconi come «l’aver saputo agganciare il moderno e il nuovo». Lui che dava del kapò a Martin Schultz, ha tentato il colpo cileno al G8 di Genova (fallito per merito di una parte molto grande delle forze dell’ordine, che hanno tenuto fede al giuramento costituzionale) e ha passato anni a ricucirsi il codice penale come un abito su misura. Ora, attenzione. Ci dicono che la sinistra snob va nei salotti e la Lega, invece, aggancia l’anima operaia. Se per salotto si intende la televisione quotidiana, purtroppo la prima parte della frase è giusta. Ma per capire l’infondatezza della cosidetta “svolta operaia” che sarebbe accorsa fra le braccia della Lega, occorre rifare la strada che abbiamo appena fatto. Non in campagna elettorale che, continuo a dire, è stata nuova e diversa, ma in tutti questi anni di confronto con il pericolo italiano di Berlusconi e il pericolo secessionista di Bossi. Occorre ripensare a ciò che si è fatto - o meglio, non fatto - negli ultimi anni.

Per Berlusconi si è scelto di non dire mai che - in mancanza di argini netti - il pericolo per la democrazia esiste e lo testimonia gran parte della stampa internazionale. Ed è un pericolo particolarmente grave se si tenta - come si è tentato - di amputare la Costituzione repubblicana. Un pericolo grave - ovviamente - mentre dura lo schiacciamento della libertà giornalistica.
Per la Lega il percorso adottato dai media ma anche da molti, a sinistra, è stato un benevolo oblìo, con occasionali e brevi soprassalti in caso di comportamenti barbari - come la maggior parte delle iniziative da sindaco e da pro-sindaco di Gentilini - ma passando in poche ore ad altri argomenti.

Adesso che la Lega stravince, la risposta di coloro che sono chiamati a commentare è da un lato l’ammirazione, come se si trattasse di un risultato sportivo; dall’altro la celebrazione: la Lega ha capito ciò che noi non abbiamo capito.
Sarebbe come celebrare l’America a causa della sua confermata fiducia nella pena di morte. È vero che la pena di morte - nel suo orrore di iniezione letale, che paralizza il condannato in un orrendo dolore - è voluta dalla maggioranza dei cittadini. Ed è vero che giudici e governanti che si schierano per la pena di morte interpretano - purtroppo - un’anima americana e per questo incassano successo politico. Ma questa è la parte oscura, che esiste in ogni essere umano e in ogni comunità spaventata. Tocca ai leader di un livello più alto, a chi si candida per guidare in una direzione nuova un Paese, scegliere in che modo interpretare - anche a costo di rischio elettorale - la parte migliore dei sentimenti e del destino di un popolo.

La Lega Nord, in Italia, ha trovato la sua strada verso il basso nel silenzio generale: paura dei nuovi venuti anche se è ampiamente provato che, in parte grandissima, non sono criminali e meno che mai responsabili dei peggiori - italianissimi - crimini quotidiani. Istigazione al più selvaggio egoismo detto “federalismo fiscale”. Chi se ne frega di un ospedale del Sud o di un bambino del Sud bisognoso di cure specializzate che - in un Paese come l’Italia - può esistere in un unico luogo? Ognuno provveda con le sue tasse. Ottimo l’espediente delle leggende metropolitane come le liste di attesa delle case popolari (che non esistono, che non vengono costruite da decenni) e in cui il «governo ladrone» di Roma mette davanti a te un nero o un arabo, anche se in tutte le aree leghiste quasi tutti sono proprietari di case. E che cosa c’è di meglio della periodica evocazione delle armi contro Roma in una vecchia Italia del «piove governo ladro»? E poiché non te lo impedisce nessuno - né politico né economista né sociologo - perché non continuare a dire che gli immigrati sfruttano la nostra ricchezza invece di ammettere che la producono, come ha dimostrato Milton Friedman, il maestro super conservatore della Scuola di Chicago?

A questo nobile manifesto si aggiungono le esortazioni di persone per bene a fare più figli (una esortazione che viene anche da sinistra in questo pianeta da sei miliardi di esseri umani) perché altrimenti «fanno più figli loro». Dicono «loro» come se «loro» fossero la peste e noi l’unica civiltà, e in questo modo il quadro è completo. Si capisce, allora, come hanno conquistato “l’anima operaia”. L’anima operaia è sola, ha paura, teme con buone ragioni il futuro, che non è nella mani di africani affamati che arrivano stremati a Lampedusa ma di roulette finanziarie controllate da spregiudicati personaggi del mondo che si giocano i nostri risparmi e poi si ritirano in tempo con enormi guadagni mentre salgono i prezzi e crollano i fondi in cui sono confluiti i risparmi.

L’anima operaia è stata - con tutti gli espedienti possibili della “libera stampa” - messa in condizioni di diffidare del sindacato come di un nemico; è disorientata da balzi improvvisi di “modernità” dei partiti a cui era stata abituata ad accostarsi e che improvvisamente gli raccomandano il mercato come il solo punto alto della vita; l’anima operaia non ha ancora trovato un modo per usare e spiegare la parola “riformismo” che - come una mosca estiva - gira, gira in tutti i discorsi e non si posa mai. Ovvero non viene mai avanti per definirsi.
La paura, da condividere con altri spaventati, con il gergo dialettale locale, con un senso di vita claustrofobica che però sembra antica, diventa facilmente barriera e protezione, come accade per i non credenti che pregano se c’è un pericolo. Se questa è la formula, aggiungete la documentazione accurata di certi libri, e la veemenza confusa di certe voci che dimostrano, giorno e notte, tutti i mali e la corruzione della politica e avrete la persuasione diffusissima e generalizzata che tutta la politica sia malvagia e corrotta e che tutti devono andarsene a casa. Naturalmente, se questo avviene, arrivano prontamente Castelli, Calderoli, Gentilini e Borghezio.

Ecco la strana sorte toccata all’Italia, Paese sfortunato. Ha vinto, con una spallata massiccia, l’antipolitica. E alla sua testa, destino ancora più strano, ci sono un maestro del ricatto come Bossi e un uomo ricco molto abile esclusivamente nei suoi affari. In queste ore in televisione lo vedete arrivare con il suo aereo privato e nel suo elicottero privato, nella sua villa privata (una della tante in Sardegna) fortificata in segreto a spese dello Stato, per comparire, statista travestito da Blues Brothers, accanto all’amico Putin (ricordate gli omicidi Litvinenko e Anna Politkovskaya?) e ti fa credere che tutto avviene a spese del nuovo primo ministro, e che finalmente non dobbiamo più preoccuparci del costo della politica.
Qualcuno ha detto che è cominciata la Terza Repubblica. Se è vero, comincia qui.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 20.04.08
Modificato il: 20.04.08 alle ore 8.12   
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Titolo: Furio COLOMBO - Per Rutelli
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:27:12 am
Per Rutelli

Furio Colombo


Avevo pensato di iniziare questo articolo (in cui si dice che è indispensabile partecipare al voto di ballottaggio e si ripete la persuasione che è necessario per Roma che Rutelli sia sindaco e governi questa città, come l’ha governata con indimenticato successo, compresa la incredibile stagione del Giubileo) con alcune citazioni di questi giorni.

Per esempio Calderoli, vice presidente del Senato uscente e ministro di qualche cosa entrante: «Rutelli si ritiri. Rischia la lapidazione».

Per esempio Gasparri, personaggio inesportabile dell’ex partito di An cannibalizzato da Forza Italia: «La Roma di Prodi, Rutelli e Veltroni è il regno del terrore e dello stupro».

Per esempio Alemanno, l’uomo che vuole governare Roma con la croce celtica, simbolo funebre dell’Europa che ha patito la furia delle persecuzioni: «Allontaneremo dalla città ventimila stranieri clandestini che non hanno nessun diritto a stare qui». (Il Corriere della Sera, 21 aprile).

È una scena da documentario della Seconda guerra mondiale, la deportazione in massa di ventimila uomini, donne, bambini, neonati e anziani da una sola città, con una decisione che evidentemente non prevede altro criterio che il razzismo (molti, moltissimi illegali lavorano, non pochi in mestieri cruciali). Evidentemente esiste in Italia, sotto il bello e il brutto della politica, un sottomondo che taglia corto e accetta il peggio in cambio di un voto.

Ma è da ricordare anche il mondo del futuro ministro degli Interni, Maroni, che pure è spesso indicato come “il migliore di loro” (serve per capire chi sono gli altri). Maroni raccomanda le “ronde dei cittadini”, ovvero quei “vigilantes” che tutte le democrazie considerano pericolosi, incivili, estranei alla legge. Ma alle obiezioni costituzionali e giuridiche il futuro ministro risponde : «Cavilli. C’è una emergenza criminalità collegata all’immigrazione. Prodi ha perso le elezioni su questo. Noi le abbiamo vinte sulla sicurezza».

Che Roma sia dieci volte più sicura di Londra, Parigi, e molto più della New York della famosa “tolleranza zero” (il cui predicatore, Giuliani, candidato alle Primarie per la destra repubblicana è stato prontamente scartato) evidentemente non serve al “governo della paura” di questa gente, che ostenta la croce celtica.

«La festa è finita, è tempo di riempire le prigioni», dichiara senza imbarazzo a La Stampa (20 aprile) un altro futuro ministro del governo della paura, il leghista Castelli, già noto per le devastazioni arrecate alla Giustizia, quando ne era ministro. Domandatevi in quale Paese - salvo forse il Guatemala - una nuova maggioranza eletta userebbe una simile frase per inaugurare la stagione.

* * *

Avrei voluto argomentare il sostegno a Rutelli con queste frasi (e un florilegio di molte altre affermazioni estranee non solo alla democrazia ma anche al buon gusto e al buon senso) che stanno caratterizzando una battaglia barbara e feroce per conquistare lo scalpo di Roma, da offrire in dono al vero padrone, i leghisti. Ma mi accorgo che il vasto mondo della sottopolitica in cui si sono accumulati un brutto passato e una nuova vendetta, ci serve solo per dire da chi sarebbe meglio stare lontani, se non altro per continuare ad assomigliare a Madrid o a Copenhagen.

Ma il fatto è che dobbiamo dire a chi vogliamo stare vicini in queste elezioni, e per i prossimi civili cinque anni di vita normale a Roma. È Francesco Rutelli.

Il perché è semplice. Tutta la destra fa una concitata campagna elettorale su due tragici stupri (non consola, ma nello stesso periodo a New York ce ne sono stati ventisette). Il fatto è grave e mobilita tutti. Ma spaventa che il centro dell’attenzione non siano le vittime, e non il destino delle donne, che continuano a vivere in guardia, sempre nel timore di un’aggressione o di una persecuzione a Roma come a Milano (e, purtroppo nelle buone aree del mondo). No, i veri stupratori indicati alla folla dai portatori di croce celtica sono coloro che hanno governato bene per decenni, ottenendo per la città di Roma una visibilità, desiderabilità e successo che ne ha spostato clamorosamente in alto simpatia e prestigio nel mondo.

Gli accusatori sono coloro che, negli anni, hanno dedicato a Roma solo un po’ di camerateschi riti di un nefasto passato, celebrati senza rapporto con la crescita, la vitalità, l’avanzare continuo nell’opinione del mondo di questa città. Si sono volute sporcare queste elezioni con una crudele messa in scena di xenofobia e di paura, facendo credere che il futuro sia nient’altro che cacciare i barbari, anche a ventimila per volta.

E allora diciamo che il volto nuovo di Roma che piace al mondo - e che ha fatto vivere con più orgoglio tanti romani - porta l’impronta civile, segnata di umori benevoli e di convivenza fraterna, di Francesco Rutelli, l’autore del successo unico al mondo del Giubileo preparato e gestito insieme, in modo perfetto, da due Rome diverse (il Vaticano e il Comune, le chiese e le strade).

E le maratone, le notti bianche, il teatro in piazza, le feste dei bambini, la Roma a cui subentra Veltroni, che ha dilatato in tutte le direzioni - dai bus alla cultura, dal jazz al cinema, dalle scuole alla burocrazia del Comune - il crescere continuo di una città decisa, anche e nonostante momenti difficili e brividi di emergenza, a vivere in pace, tra cittadini che si aiutano e si rispettano.

Ecco che cosa ci promette Rutelli, che viene avanti con il volto tranquillo del leader civile senza portarsi addosso la bisaccia della paura, senza avvoltoi che si aggirano sulle disgrazie per vedere se si può far credere che Roma sia quelle disgrazie e non l’immenso passo avanti degli ultimi quindici anni. Vogliono prendere possesso di cose fatte bene, diffondendo un clima di terrore.

Adesso il capolavoro di Rutelli - se riusciamo, andando tutti a votare domenica e lunedì, a tenere lontani croci celtiche e avvoltoi - sarà di riprendere il grande percorso Rutelli-Veltroni-Rutelli di Roma città di pace, che anche dopo essere diventata uno dei luoghi più ammirati e cercati al mondo, continuerà nel suo progetto di civiltà e convivenza fraterna.

E - così antica - Roma continuerà a diventare moderna. Se terremo lontani gli avvoltoi.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 23.04.08
Modificato il: 23.04.08 alle ore 8.15   
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Titolo: Furio COLOMBO - Festa di libertà
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 09:53:28 am
Festa di libertà

Furio Colombo


Un fatto nuovo e unico sta verificandosi nel nostro Paese: il tentativo, apertamente sostenuto dai leader della nuova maggioranza che sarà il nuovo governo, di cancellare la Festa della Liberazione che si celebra (si celebrava, temo che dovremo dire fra poco) il 25 Aprile.

Si tratta della più importante festa della Repubblica italiana, la sola che veramente riguarda tutti gli italiani.La ragione è semplice. Un giorno del 1945 è finito per sempre il regime detto nazi-fascismo, ovvero il legame fra fascismo italiano e nazismo tedesco che per cinque anni aveva terrorizzato tutta l’Europa, distrutto la maggior parte delle città, deportato e decimato a decine di milioni le popolazioni europee. Aveva, attraverso la stretta subordinazione del fascismo italiano al nazismo tedesco, realizzato il più grande genocidio della Storia: il tentato sterminio del Popolo ebreo, raggiunto, catturato e rinchiuso in apposite istituzioni di morte fino a raggiungere i 6 milioni di donne, bambini e uomini uccisi a uno a uno durante anni di metodica organizzazione.

Il 25 Aprile è diventato la Festa degli italiani perché quel giorno tutti gli italiani, compresi coloro che avevano preso parte al fascismo, sono tornati liberi, normali, uguali, non più divisi fra persecutori e vittime. Se il 25 Aprile non ci fosse stato, una parte degli italiani avrebbe dovuto continuare a combattere in clandestinità, fino ad essere eliminata, spesso con la tortura o il trasferimento nei campi di sterminio. E un’ altra parte di italiani avrebbe continuato a servire i tedeschi con la missione di catturare, torturare e uccidere dentro una meticolosa organizzazione di morte.

Tutti gli aguzzini avrebbero continuato a cercare tutti gli ebrei, anche nella famiglia o nella porta accanto, tutti i vecchi e i bambini dei gruppi destinati a morire, tutti gli zingari, tutti gli omosessuali, tutti gli avversari politici.

Dubito che si possa smentire questa descrizione. Se è vera, il 25 Aprile ha liberato soprattutto i fascisti dal loro tragico destino di aguzzini e di cacciatori di ebrei (per i quali ricevevano un compenso di lire cinquemila per ogni essere umano consegnato).

Allo stesso tempo è il giorno della liberazione di coloro che per dignità, decenza, amor di patria e di libertà, si sono rifiutati di piegarsi a un mondo di carceri e di campi di sterminio e hanno dato e rischiato la vita perché l’Italia tornasse a essere un Paese civile, normale, senza più teschi sui gagliardetti.

Di colpo le città italiane si sono riempite di bandiere tricolori ed è stata la festa di tutti.

* * *

Perché allora adesso ti dicono senza imbarazzo e senza arrossire che “è una Festa che divide gli italiani”? Come può dividere una Festa in cui tutti (tutti) sono diventati liberi ed è cominciata la democrazia nel nostro Paese?

Poiché è una affermazione palesemente falsa, le stesse persone ti danno, di volta in volta, risposte diverse.

Una è che alcune formazioni partigiane erano “bianche” (cattoliche) e volevano la libertà e altre erano comuniste e hanno combattuto sognando di passare da una dittatura fascista a una dittatura sovietica. Poniamo che sia vero. Era vero anche in Francia dove la parte comunista della Resistenza è stata la più combattiva (e - in seguito - molto più “sovietica” dei comunisti italiani).

Eppure un presidente di destra come Sarkozy, appena eletto, è andato a rendere omaggio ai caduti (dunque a molti comunisti) della Resistenza francese.

Un’altra risposta, un po’ sarcastica e un po’ con l’aria di chi sa meglio di noi la storia, è che «non ci hanno liberato i partigiani, ci hanno liberato gli americani». Chi, come me, c’era nella notte tra il 24 e il 25 Aprile, e con altri bambini che quella notte non hanno mai dormito, spiava la strada a curve che portava al luogo in cui eravamo nascosti, non ha mai dimenticato il rombo dei carri armati americani che abbiamo sentito per ore prima di vedere un carro comparire sulla collina, prima di vedere la bandierina a stelle e strisce, che voleva dire “siete liberi”, sopra la lunga asticella (allora non sapevo che era l’antenna radio).

Ma intorno a noi e dietro di noi, e lungo i percorsi che scendevano verso la pianura c’erano i partigiani. A loro si erano arresi i tedeschi (anche grandi reparti, ne vedevamo a centinaia seduti nell’erba senza l’elmetto che era stato per anni il primo segnale del terrore, senza la corta mitraglietta, con cui li avevamo visti abbattere giovani appena catturati, in mezzo alla strada). I partigiani portavano giù interi reparti di fascisti che avevano avuto come unico compito non “l’onore dell’Italia” ma la caccia agli italiani antifascisti, agli italiani ebrei. E al fronte non erano mai andati.

Nei due lunghi anni di occupazione di tedeschi e fascisti nelle città e nelle campagne italiane (mai stato così freddo l’inverno come in quei due anni) di chi erano i corpi dei giovani abbandonati, dopo la fucilazione, nelle strade italiane (cinque cadaveri di giovani sui vent’anni, lungo il percorso tra la chiesa e la scuola la mattina presto del due febbraio 1944)? Chi erano gli impiccati, uno per lampione, in via Cernaia, a Torino, sul lato sinistro per chi viene da Porta Susa? Se erano così inutili, così irrilevanti da non meritare nemmeno una Festa, perché ne hanno uccisi tanti? Non sarà che quei fucilati, quegli impiccati erano stati in grado, con i loro tanti compagni “bianchi” e “rossi” più vecchi e più giovani, più “conservatori” e più “sovietici” di tenere inchiodati tedeschi e fascisti, costringendo una parte di loro a non combattere contro gli americani, costringendo una parte di loro a non poter dedicare tutto il tempo alla tortura degli antifascisti e alla deportazione degli ebrei?

Oggi, 25 Aprile, vorrei ricordare uno solo di coloro che - con ben due pagine fitte di scherno e denigrazione - Il Giornale di casa Berlusconi (22 aprile) ci intima di smettere di ricordare. È Franco Cesana, un ragazzino ebreo di 13 anni, di Modena, che ha voluto seguire “in montagna” (così si diceva allora) il fratello diciassettenne e con lui è stato fucilato sull’Appennino. È stata la storica americana Susan Zuccotti a raccontare la sua storia nel testo “The Italian Holocaust” (Nebraska University Press), a esibire la lapide del cimitero di Bologna su cui c’è scritto: «Al più giovane partigiano d’Italia». Ci ricorda che con lui è nata giovane, la nostra Repubblica che ha reso liberi tutti. Lo ricorda nel capitolo fitto di nomi e di eventi «Gli Ebrei e la Resistenza italiana». Qualcuno dice che dovremmo dimenticarci di loro, perché questa data divide?

Mai sentito che la libertà divida un popolo. Quello è il mestiere, anzi la missione delle dittature.

Lo prova il fatto che nessun Paese, mai, ha abiurato o respinto o negato il giorno della Liberazione.

Vi immaginate un americano che rinunci alla Festa di Indipendenza del 4 di luglio?

Solo persone strane e vanesie o di debole identità si ostinano a cambiarsi la data di nascita. La nostra è il 25 Aprile 1945. E siamo sicuri che ci unisce.

Furio Colombo

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 25.04.08
Modificato il: 25.04.08 alle ore 8.11   
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Titolo: Furio COLOMBO - La posta in gioco
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 07:08:17 pm
La posta in gioco

Furio Colombo


Oggi, mentre vado a votare per Rutelli, mi rendo conto che la posta in gioco è molto alta, forse estrema. Ho fiducia in Rutelli per il modo in cui ha già fatto il sindaco di Roma (si vedano in proposito i grandi settimanali americani nell’anno del Giubileo).

Ma questa volta, in questo caso la scena si apre a una prospettiva molto più vasta. E con il punto di riferimento spostato. Rutelli non è tutta la sinistra ma piuttosto tutta la normalità. È la motivazione a fare un buon lavoro misurato sul piano professionale. Alemanno invece è tutta la destra, dal conservatore al naziskin, dalla svolta di Fiuggi al rito mussoliniano.

E questo non dipende dal carattere, vita o predisposizioni del candidato. Dipende dal simbolo che è diventato. Se vince, non si realizza una semplice alternativa destra-sinistra. Se vince, passa con lui un vento furioso di destra che va molto al di là dei contenitori-partito e dei confronti tradizionali. Passa un vento che abbatte limiti e moderazioni e qualunque incentivo a trattenere impeti, eccessi, smottamenti pericolosi del pezzo di terreno democratico su cui siamo accampati tutti.

Non occorre un grande approfondimento per affermare che qualunque folla (o opinione pubblica) si abbandona più facilmente a comportamenti estremi in mancanza di riferimenti anche solo simbolici. Questa volta la scelta non è fra un sindaco o un altro ma fra convivenza e vendetta, fra futuro e passato, fra lavoro insieme e provocazione squadristica. Non è necessaria l’analogia meteorologica per ricordare che le aree di bassa pressione, quando sono troppo grandi e durano troppo a lungo, trasformano i temporali in devastanti uragani.

Il senso di ciò che sto dicendo è che l’esito delle elezioni di Roma, una volta dette “amministrative” e - in questo caso - decisamente politiche, farà pesare il suo effetto più grande non (non solo) su Roma ma soprattutto in Italia.

Sarà una scossa capace di cambiare o riassestare alcuni pezzi e alcuni equilibri del governo ancora non nato. Sarà un modo di sapere in anticipo se il peggio elettorale della destra italiana diventerà regola di comportamento per governo e maggioranza, oppure se finiranno per prevalere alcuni segni di “mitezza” di cui parla un editoriale de La Stampa il 23 aprile.

Alemanno non è Attila, è solo un leader deciso a rivendicare e imporre alla sua città tutti i “valori” di destra che lo hanno formato e di cui è coerente erede.

Rutelli non è San Francesco. È un politico-organizzatore di tradizione democratica europea che - persino sotto attacco e ricatto di voti - non riesce a immaginare (come nessun suo collega dell’Ue) deportazioni di massa.

Ma il peso simbolico delle rispettive elezioni è molto grande, prima di tutto per il Paese.

Rutelli sindaco significa: c’è un’Italia saldamente democratica e rispettosa di tutti di cui tenere conto. Alemanno sindaco è il messaggio opposto (e questo non è un tratto per descrivere Alemanno ma il fatto che potrebbe accadere): non c’è nessuna altra Italia di cui tenere conto, non è necessario interpellare o ascoltare nessuno o tenere conto della storia democratica italiana. Alemanno sindaco sarebbe un drammatico e risoluto abbandonarsi al vento di una destra senza remore, senza limiti, senza controlli. Una destra che - già adesso - si permette di chiedere «le scuse della comunità ebraica romana», una vicenda che fino a poco tempo fa sarebbe stata impossibile nella città che ricorda ancora il 16 ottobre 1943.

* * *

Come si divertiva il tassista di Roma (ore 14.00, 22 aprile, taxi 3570) ad ascoltare in diretta su Radio 105, volume altissimo, un collegamento fra giovani conduttori entusiasti e Beppe Grillo. Il tassista gridava con loro, ripeteva “vaffanculo” con Grillo, era travolto dal ridere, ad ogni battuta come «le fedine penali sporche erano una trentina. Adesso sono 73, nuovo record», «tanto se non hai la fedina penale sporca non entri» e «chi ce l’ha ancora pulita adesso si affretta, non vi preoccupate».

Il tassista, del tutto coinvolto ha alzato ancora di più il volume della radio «Le piace Beppe Grillo? a me moltissimo!». Mi gridava sovrapponendo la sua voce alla radio. «Sono d’accordo su tutto! Ordine dei giornalisti? Certo che è da abolire, sono tutti puttane, i giornalisti». «Finanziamento ai giornali di partito? Facciano come me, se li guadagnino i soldi, altro che pagarli noi». E alla fine un urlo quando ha sentito Grillo nominare la Legge Gasparri «abolire, stracciare!», gridava.

La scena mi sembrava insolita per un guidatore di taxi di Roma, dove la partecipazione gridata a un programma radio avviene - se avviene - con le radio che trasmettono discussioni sul calcio. E comunque mi pareva insolito tanto militantismo, quasi a sinistra. È stato inevitabile chiedere: «Scusi, lei per chi ha votato?». «Berlusconi, ma le pare? Berlusconi! Finalmente ci divertiamo! Finalmente si cambia!». Lascia un istante il volante per sfregarsi le mani. Mi è sembrato crudele fargli notare che la Legge Gasparri era il gioiello della corona (in senso tecnico, letterale) di Berlusconi. Tanto più che il mio guidatore era impegnato a spiegarmi la vergogna di una legge elettorale come quella con cui abbiamo votato. «Comodo passare in carrozza dentro una lista blindata, roba da comunisti. Vedrà adesso Berlusconi come gli cambia il gioco!».

Troppo tardi per spiegargli che stava denigrando la legge Berlusconi-Calderoli. Il vento in quel taxi soffiava furioso. Quel vento che in aree di bassa pressione rischia di diventare l’uragano Kathrina. E peggio per chi aveva pensato a un temporale qualunque.

Lo stesso vento disordinato e impetuoso che ho visto soffiare lungo il percorso di una intervista volante del Tg 3, la sera del 22 aprile.

Il tema è: «Perché ha votato la Lega?», con questa domanda la giornalista del Tg 3 insegue una signora bionda e stanca di qualche borgo vicino a Brescia, che si ferma, si volta e dice esasperata: «Perché ci trattano come loro». «Cioè?», vuol sapere la giornalista. «Cioè ci fanno lavorare come loro, otto ore di seguito senza mangiare e mi vergogno a dire la paga». «Loro chi?» chiede per sicurezza la collega del Tg 3, «loro i negri, ha capito? Ci trattano come i negri. È per causa loro che ci fanno lavorare troppo e non ci pagano».

* * *

Un mondo a rovescio ti si presenta come se “Alice nel Paese delle Meraviglie” fosse stato scritto con cattivo umore e cattive intenzioni, da un autore dedito alla confusione. Il Cappellaio Matto fa e dice tutto, smentisce tutto, e poi il contrario di tutto, e spinge gli uni contro gli altri senza pensarci due volte.

La rissa nel saloon sembra essere il clima desiderato. La pistola sarà sfoderata dallo sceriffo al momento giusto.

Ecco dunque che cosa è in gioco nelle elezioni di Roma. È in gioco il freno a mano di un veicolo che sbanda, affollato di una destra festosa, convinta di incontrare il sole che sorge, senza notare, o fingendo di non notare che la Lega è intenta a spingere a colpi furiosi il “nuovo” veicolo lungo una discesa pericolosa di cui si intravede appena il punto di arrivo disastroso.

È in gioco il mettersi al riparo da un vento di confusione in cui le stesse persone (così sembra ascoltando nomi, nazionalità, narrazione dei fatti) appaiono come pericolosi alieni da cacciare in massa, ma sono anche coloro che muoiono accecati dalla stanchezza, mentre, dopo dodici ore di turno e chissà quante ore di di straordinario, attraversando, nel punto e nel momento sbagliato. Muoiono cadendo dai tetti, dalle impalcature, schiacciati dai carrelli della fabbrica, da tubi che rotolano, da camion scaricati in fretta, come capita, dall’aver toccato il cavo sbagliato ad alta tensione. Esseri umani da cacciare e da assumere, da incarcerare e a cui affidare la fabbrica, da accusare di tutto mentre si occupano dei vecchi che nessuno accudisce.

Qualcuno in qualche punto del Paese deve poter governare in modo civile e diverso, un punto di Italia che è anche un simbolo, come Roma.

Per capire quanto stia soffiando forte il vento di una destra che crede di non avere più limiti, neppure nel buonsenso, sentite questa. Jan Fisher, corrispondente del New York Times, dedica mezza pagina di quel giornale, che influenza l’opinione del mondo (dunque anche il turismo) per dire: «Roma è la città più sicura, anche di notte. Roma è una città di festa». È un lancio affettuoso che vale - dato il giornalista e il giornale - la famosa mela che rappresenta New York e l’ha resa simpatica nel mondo. Vale il cuore rosso di “I love N.Y.”. Sentite ora che cosa risponde il capo della destra italiana che governerà fra poco: «Tutte bugie. Tutte invenzioni. I giornalisti americani frequentano troppo la sinistra. Roma è un disastro!».

Lo sanno in molti nel mondo che Berlusconi spesso non controlla quello che dice. Ma lo dice lui, futuro primo ministro d’Italia. E ogni negoziante, ogni artigiano, ogni imprenditore di ristoranti, di alberghi vede dov’è il disastro: nelle parole irresponsabili di Berlusconi che, per beghe elettorali (e forse anche per obbedire alla Lega di Bossi) calunnia Roma come modo per aprire la stagione turistica.

Fate in modo che si senta, ben chiara, una voce diversa. Anche per far sapere che la salute mentale non è perduta del tutto in Italia. Votate Roma.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 27.04.08
Modificato il: 27.04.08 alle ore 14.52   
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Titolo: Furio COLOMBO - Camerati che sbagliano
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2008, 06:41:39 pm
Camerati che sbagliano

Furio Colombo


Il delitto di Verona è apparso subito per quello che è: un misto di balordo e politico, quel tipo di violenza estrema e torbida che ha, certo, radici patologiche ma ha bisogno di un ambiente favorevole - o interpretato come favorevole - per esprimersi. In altre parole a nessuno viene in mente che il sequestratore e violentatore austriaco che ha infierito per vent’anni sulla figlia fosse ispirato altro che dai suoi demoni privati.

Il delitto di Verona è invece collettivo, pubblico, sociale: un ragazzo col codino, visibilmente estraneo e dunque - nella versione corrente - «nemico» della squadretta fascista che lo ha intercettato isolato e di notte, meritava una severa punizione per il solo fatto di essere «uno degli altri», non uno dei nostri.
Per sapere chi sono gli altri e come dobbiamo considerarli se siamo fascisti, non c’è bisogno di memoria o ricerca filologica. Non c’è neppure bisogno di rileggere le piccole bravate del capo-orda Raffaele Delle Donne (studente di un buon liceo) che il 27 gennaio, Giorno della Memoria (Shoah), rifiuta di stare in classe, se ne va con alcuni compagni gridando che tornerà quando si parlerà di foibe, e che lui «con gli ebrei non vuole mischiarsi».

Basterà l’odio diffuso e indiscriminato suscitato dalla continua descrizione di “miseria, distruzione e morte” con cui hanno devastato l’Italia e l’onore dell’Italia quelli col codino, dunque comunisti, dunque assassini da foibe su cui è giusto rifarsi. Basterà ricordare ciò che ha detto, ripetuto e ripete il nuovo designato presidente del Consiglio: «mi fanno orrore». Perché non pestarne uno a sangue? Volevano uccidere? I migliori avvocati di Verona (e del resto ogni buon difensore) che saranno messi a disposizione di questi ragazzi non poveri, non spaesati, non perduti nella metropoli, ma anzi ben ambientati in un’area semi legale, poco scoperta e molto potente della vita politica italiana, si impegneranno a spostare l’imputazione il più lontano possibile da ciò che è stato: omicidio volontario di pericoloso nemico (estraneo e presunto comunista), uno di quelli dei gulag e delle foibe, dunque un delitto-retribuzione. I ragazzi non sono soli, come il povero morto. Saranno ben difesi, come non è accaduto alla vittima. E non ci meraviglieremo quando li rivedremo (tempo alcuni mesi) sulla stessa piazza di Verona, bene ambientati e spavaldi, visto che nessuno, nella attuale leadership di quella città ha preso risolutivamente, e in modo non equivoco, le distanze da loro.

* * *

Ci meravigliamo e continueremo a meravigliarci del gelo crudele, infastidito e distratto con cui la destra ufficiale italiana, che adesso è di istituzioni e di governo, ha cercato di scrollarsi dalle spalle l’uccisione a calci e pugni di un ragazzo come se fosse uno dei tanti atti di teppismo violento che, sfortunatamente, insanguinano le notti delle metropoli in tutto il mondo. Personalmente - se e quando chiamato a descrivere e valutare la personalità del nuovo Presidente della Camera (come mi è accaduto di fare in un think tank politico negli Usa subito dopo l’elezione di Fini) - non lo avrei mai descritto nel modo in cui ha voluto apparire a Porta a Porta: molto abbronzato, molto irritato, pronto a scansare e a parlare d’altro, senza la sensibilità umana e l’istinto politico di restare sul posto e sul caso: città di destra, delitto bestiale, e notizie già inequivocabili e disponibili sia sul delitto che sugli autori, indubbiamente di stretta osservanza.

Ci meravigliamo e continueremo a meravigliarci della freddezza burocratica con cui il fra poco ministro Mantovano si è scrollato di dosso l’odioso omicidio di Verona, con una argomentazione da repubblica di Weimar che - caso raro - ha provocato una reazione personale anche dall’attento e professionale conduttore Mannoni, nel programma del Tg 3 Primo piano.
In sostanza la posizione di Mantovano, incalzato dall'ex ministro Ferrero che non parlava da leader di partito di sinistra ma da persona colpita e impressionata dal fatto, e non ha mai invocato motivazioni politiche ma piuttosto stupore e dolore - è stata la seguente: «Ma cosa volete da me? Avete arrestato i balordi, fate il processo e smettetela di tirarci in ballo. Non vedete che hanno agito da soli?».

Mantovano, fascista o no, non è né disorientato né incolto e non può nemmeno invocare la mancanza totale di rapporto con uno o due libri che è spesso la giustificazione dei leghisti. Mantovano probabilmente sa che non si è mai trovato alcun legame organizzato fra la “Notte dei cristalli”, le botte ai negozianti ebrei, la distruzione delle vetrine, qualche morto, e il partito nazista. Erano tutti balordi, spinti ad agire così male dai loro impulsi di violenza e qualche occasionale provocazione.
Mantovano sa che l’incendio del Reichstag che ha segnato la storia tedesca è stato opera di un balordo isolato, giudicato anche un po' mentecatto, o così si è adattata a dire la stampa del tempo e a sentenziare in modo adeguato la magistratura tedesca sensibile alla nuova epoca. Eppure, il “colonnello” già di An (e ora del Popolo della libertà in cui An si è riversato) non ha avuto difficoltà a mostrare distanza e disinteresse per il ragazzo pestato a morte. E si è spazzato via dalle spalle, come una forfora, l’innegabile legame fascista del gruppo di assassini, e l’evidente ambientazione di tutto ciò nella città di Verona, nella città di Tosi, sindaco leghista.

Basterebbe la citazione di un solo discorso di Tosi in campagna elettorale per trovare lo stesso legame fra i discorsi di George Wallace, governatore razzista dell’Alabama negli anni 60, e il linciaggio e il pestaggio a morte di alcuni giovani neri. O le bombe nelle chiese dove i bambini neri imparavano il catechismo. La fortuna di quel Paese è stata che John Kennedy, proprio in quel momento terribile, è diventato presidente degli Stati Uniti. E Robert Kennedy, nuovo ministro della Giustizia, non ha perso un minuto a far sapere al governatore che - se avesse continuato nella sua politica razzista - il governo di Washington avrebbe inviato truppe federali per proteggere i neri.
È una fortuna che - in questi anni - non tocca all’Italia. Non ci resta che sperare nei media (specialmente Tv) più coraggiosi e in una opinione pubblica persuasa che fatti così gravi riguardano tutti noi. Tutti.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 08.05.08
Modificato il: 08.05.08 alle ore 11.42   
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Titolo: Furio COLOMBO - Schifani, il silenzio dell’opposizione
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:41:54 pm
Schifani, il silenzio dell’opposizione

Furio Colombo


Vi ricordate l’espressione «parla come un libro stampato»? Significava chiaro, senza ambiguità, senza sentito dire, senza equivoci.

È quello che ha fatto Marco Travaglio, la sera di sabato scorso nella trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio.

Forse è utile una precisazione. Non è una metafora definire «come un libro stampato» ciò che ha detto Travaglio nel corso della conversazione - come sempre civile e amabile - con Fazio, è cronaca.

Travaglio infatti ha citato dal libro suo e di Gomez «Se li conosci li eviti» e dal libro di Gomez e Lirio Abbate (giornalista antimafia sotto scorta) in cui si narrano alcuni episodi della vita dell’avvocato senatore Renato Schifani prima che fosse eletto, dopo la strepitosa vittoria della sua parte, presidente del Senato e dunque seconda carica dello Stato.

È vero, la carica è alta, nobile e chiede rispetto. Questo rispetto ha due facce. La prima riguarda l’Istituzione ed è, come è giusto, solenne e celebrativa. La seconda faccia è quella del cittadino di un Paese democratico il cui status non varia con la carriera. Ha già - come tutti - il pieno diritto sancito dalla Costituzione. E nient’altro.

Nessuno, in democrazia, diventa sacro, speciale o intoccabile per via di una carica. Nessuno può essere denigrato o calunniato, perché lo difende la legge e le pene che può comminare a chi mente e accusa, sia per ragioni private che per disegno politico. Faccio qualche esempio.

Molti, nel passato americano, hanno sparlato dei Kennedy, John e Bob, quando uno era presidente e l’altro ministro della Giustizia, molti hanno accusato Johnson per la sua stazione radio nel Texas (che alla fine ha dovuto vendere). Che cosa sia accaduto a Nixon a causa della fastidiosa e implacabile libera stampa americana è nei libri di storia. E per quanto secchi molto alla famiglia Bush (senior e junior) sentir dire che il padre, grande sostenitore della guerra nel Vietnam quando in America il servizio militare era ancora obbligatorio, ha mandato il figlio a fare l’aviatore in Texas (mentre 56mila giovani americani morivano tra Hanoi e Saigon), tuttavia la maleducata stampa americana - editoriali inclusi - continua a dirlo.

Quanto alle seconde cariche dello Stato, tutto il mondo ormai sa - per merito o colpa della screanzata stampa americana, che il vasto conglomerato Halliburton, azienda presieduta dal vice-presidente degli Stati Uniti Cheney fino a un momento prima di giurare alla Casa Bianca, ha vinto miracolosamente tutti (tutti) gli appalti che contano in Iraq compreso il supercontratto che garantisce a Halliburton di gestire la sicurezza in Iraq con decine di migliaia di agenti privati. Interi editoriali del New York Times e del Washington Post hanno indicato, e continuano a indicare (e provare) il filo diretto che lega il numero due degli Stati Uniti agli affari privati. E se quando (sovente) un giornalista ne parla in televisione nessun conduttore di CBS, NBC, ABC, o CNN, chiederebbe o ha chiesto scusa per il libero esercizio della sua attività professionale.

Quanto ai politici, se vogliamo restare con la esemplare vicenda della seconda carica dello Stato Dick Cheney può essere utile ricordare quanto segue: tutti i parlamentari democratici di quel fortunato Paese, difendono chi ha osato, con buone inchieste, puntare in alto, a cominciare dalla combattiva presidente della Camera Nancy Pelosi, che è nota anche per alcuni giudizi televisivi su Bush che hanno lasciato impassibili sia i giornalisti conduttori dei programmi che i consigli di amministrazione delle varie reti tv.

I repubblicani però (ecco un’altra impronta di una grande democrazia) non si schierano tutti per Cheney, a causa del dubbio. Alcuni vorrebbero far luce e saperne di più, anche se l’interessato si oppone. Un conto è la lealtà di partito e un conto è l’integrità di un autorevole leader di quel partito.

Ho già avuto occasione di dire che l’Italia è un Paese sfortunato. Cercherò di articolare questo non lieto pensiero.

Primo. Marco Travaglio, che ha fama di giornalista investigativo accurato viene invitato a Che tempo che fa per presentare un suo nuovo libro, il tipo di inchiesta-denuncia per cui è celebre e che vende a decine di migliaia di copie. Naturalmente parla del libro e di cose stampate nel libro (uscito ormai da tre mesi senza indignazioni, obiezioni, denunce o scandali).

Una breve parte di quel libro riguarda il sen. Schifani e rapporti avuti non in un’altra epoca o vita o luogo, ma in Sicilia ai nostri giorni. Il frammento citato da Travaglio è parte di una trattazione molto più ampia nel libro di Gomez e Lirio Abbate uscito da più di un anno e mai intercettato da ire, denunce e indignazioni.

Ma Travaglio (e forse anche Fazio) sembrano aver trascurato due fatti: siamo in televisione, siamo in Italia, siamo sotto Berlusconi, dove il motto sembra essere “tolleranza zero” e non importa se sei extracomunitario. Basta essere extra-maggioranza? Non trovi tutto nuovo, splendido e giusto? Sei fuori e meriti sanzioni.

Secondo. Infatti, da questo momento la domanda non è più quella giornalistica (siamo sicuri?) o giudiziaria (lo ha detto chi, in quali carte o atti o testimonianze?). La questione, fondata o infondata che sia, non riguarda più il presidente del Senato.

Non riguarda neppure la drammatica alternativa tra verità, insinuazione, calunnia.

Tutto si raggruma in un unico grido: come hanno osato? E nella neppure celata promessa: ora sì che la pagano! Si uniscono al coro di grande dignità professionale, manageriale, giornalistica: il direttore di rete, Ruffini, il direttore generale, Cappon e personale vario, consiglieri di amministrazione vari della nota azienda pubblica “in mano ai comunisti” (Silvio Berlusconi in innumerevoli dichiarazioni). Segue comunicato pubblico dei direttori, che non mostrano il minimo interesse per la vicenda dal punto di vista dei fatti. Ma proclamano una giornata di scandalo per l’offesa. E impongo al conduttore del programma - come nella Cina della rivoluzione culturale - l’autocondanna.

Questo giornale ha ricordato che uno dei migliori giornalisti della Rai è stato forzato alla stessa penosa autocondanna e richiesta di scuse, dopo una intervista in cui avevo osato definire Berlusconi (citavo la stampa estera) una barzelletta che cammina. L’avevo detto io, non lui. Ma a lui è stata imposta la gogna di chiedere scusa agli ascoltatori “per il livore” di quella battuta non sua.

Terzo. L’opposizione? Silenzio gelido, come se Travaglio fosse un rumeno caduto in mano a una ronda, mentre tentava un furto con destrezza. Fosse tutto silenzio, certo ci sarebbe da chiedersi da dove nasce tanta indifferenza per una questione di libertà. Perché questa è una questione di libertà di informazione nella sua versione più netta ed esemplare.

Purtroppo non è tutto silenzio. Due personaggi autorevoli e meritevoli di piena stima nella storia Ds e nel nuovo Pd sorprendono con dichiarazioni incomprensibili, Luciano Violante, forse senza sapere di riferirsi a ciò che ha detto e scritto un giornalista costretto a vivere blindato per minacce di mafia (eppure Violante è esperto in materia) liquida le citazioni di Travaglio come “pettegolezzo”, una forma di disprezzo inspiegabile verso chi è - intanto - sotto il fuoco incrociato di un potere vendicativo che tende al controllo totalitario.

La senatrice Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, la stessa che si era battuta con bravura e coraggio nei giorni e nelle notti in cui bisognava salvare dal linciaggio morale i senatori a vita colpevoli di sostenere Prodi, adesso condanna senza un’occhiata al testo Travaglio, mostra di approvare la gogna imposta a Fazio e l’agitato servilismo della Rai. Ma introduce un genere giornalistico inesistente, l’intervista con contraddittorio, significa che d’ora in poi dovremo equiparare l’intervista - o almeno l’intervista in Rai, per quanto bravo sia il giornalista - alla conversazione mondana in cui è di buon gusto evitare questioni roventi.

Secondo il Corriere della sera (12 maggio) il senso delle iniziative di Finocchiaro e Violante è questo: «se state dalla parte di Santoro e Travaglio, continueremo a perdere (le elezioni, ndr) per dieci anni».

Non siamo mai stati buoni profeti, a sinistra, sul possibile esito delle elezioni, né sempre geniali nello scegliere le strategie. Sul futuro è presto per parlare. Ma il presente è impegno per la libertà di informazione, è determinazione a impedire che vi siano santoni intoccabili e temi che non possono essere neppure nominati.

Vorremmo appartenere all’Europa, assomigliare all’America democratica e allontanarci da Peron. E sogniamo una opposizione che fa l’opposizione a partire dalla difesa della libertà dei giornalisti. Vorremmo ricordare al governo ombra che esiste un paese ombra che, come succede a tutti i governi, chiederà conto dell’azione di governare. E non suggerisco di cominciare schierandosi dalla parte della Rai che si inchina e che si scusa prima ancora di sapere di che cosa si sta parlando.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 8.38   
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Titolo: Furio COLOMBO - Caro Franceschini ecco cosa vorremmo
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2008, 12:06:17 am
Caro Franceschini ecco cosa vorremmo

Furio Colombo


Caro Dario,

ti sono grato per la risposta, per la gentilezza, per l’attenzione. E mi sembra molto utile ciò che tu dici per sgomitolare un po’ il filo ancora intricato che dovrebbe portarci dal «come eravamo» al «come saremo», ma che qui, adesso, nell’epoca intermedia del «dove siamo», ha ancora molti nodi che si dovranno sciogliere con pazienza.

Avrai notato anche tu che proprio nel giorno in cui l’Unità ha pubblicato la tua amichevole lettera, il giornale Europa, che un po’ ti riguarda, in un editoriale stranamente incattivito (come se fosse un comunicato dell’ufficio stampa di Schifani) chiedeva l’eliminazione di Travaglio e di questo tuo interlocutore. Per fortuna non ci sono isterismi e cacce alle streghe, nel nuovo partito che tu giustamente rivendichi. Se mai troppa quiete, dati i tempi che stiamo vivendo.

Ma alla fine è un bene perché lascia cadere nel vuoto e nel non commento l’esortazione un po’ esaltata all’inimicizia e al taglio di ogni contatto che, devi ammettere, non può che stupire e disorientare. Non conta, dirai. Non sono questi, dirai, i sentimenti di un partito che nasce con una buona dose di impegni, di speranze e di questioni comuni di cui farsi carico.

Vediamole insieme. Tu hai colto la mia domanda che un po’ echeggiava la brutta barzelletta del tempo della guerra fascista. «Sai? - diceva uno - hanno arrestato gli ebrei e i barbieri». «Perché i barbieri?» chiedeva l’altro.

La mia domanda era: perché gli antiberlusconiani dovrebbero essere tutt’uno con coloro che, in quanto massimalisti (non credo nella parola ma per comodità la uso) erano “contro”?

Se ricordo bene i nostri amici e alleati massimalisti del prima di andare da soli erano “contro” Prodi (missioni internazionali) o “contro” Padoa Schioppa (la maledizione del tesoretto) e avevano troppo da fare con le pratiche ancora inevase della “sinistra prima” per occuparsi di Berlusconi. Avrai notato che molti nomi dei soci fondatori di quello spirito ribelle confluito nell’Unità al tempo dei girotondi era liberal e sciolto, senza conti pregressi da sistemare, adeguare o cancellare. Insieme alla generosità e qualità professionale di coloro che all’Unità lavoravano prima e hanno scelto (sapessi quanti hanno detto di no) di lavorare con me che venivo dall’America e da Repubblica e con Padellaro che veniva dal Corriere e dall’Espresso, abbiamo fatto un punto di opposizione-resistenza nei confronti del governo Berlusconi che è stato notato e citato nella stampa internazionale e nei libri europei e americani che parlavano dell’Italia non felice di quegli anni.

Ma noi - ricorderai anche per gli eventi a cui abbiamo partecipato - eravamo insieme a ciò che adesso è il Pd, insieme alle varie radici, ampiamente ospitate nelle pagine della rinata Unità, l’anima Ds, l’anima laica, quella cattolica.

Quel “contro” che ha originato lo scatto della decisione di andare da soli era, a volte, anche su grandi e civili questioni che forse si potevano chiarire e districare e riagganciare (e in tanti, anche al vertice del Pd, anche nelle parti di sinistra rimaste chiuse fuori, sperano, speriamo che si farà). Però non era il “contro Berlusconi” che viene rimproverato a noi e che condividiamo con mezza Europa.

Quello che a volte sembra una ossessione è invece una sorta di orgoglio da cui alcuni di noi esitano a staccarsi. Perché dovremo essere meno liberi che negli Stati Uniti dove il New York Times del 12 maggio pubblica un durissimo editoriale contro la loro seconda carica dello Stato, il loro vice presidente che è anche - guarda caso - presidente del Senato? Perché di quell’altissima carica si può dire (citando Nancy Pelosi, leader della opposizione democratica) che beneficia di profitti di guerra (importanti contratti esclusivi in Iraq) e su quei profitti non paga le tasse? Perché nessun direttore o proprietario del quotidiano newyorkese dovrà chiedere scusa, dato che un conto è la stampa libera, un conto sono le responsabilità personali, e un conto sono le condivise istituzioni, tutte cose da non confondere mai in un impenetrabile impasto? Ecco che cosa distingue la tenace e costante opposizione che alcuni di noi si ostinano a chiedere e a fare. Non invoca alcun massimalismo né storico né ideologico, se non altro per mancanza di radici e di storia adeguata.

Vorremmo difendere il diritto di Fabio Fazio di invitare chi vuole (come i suoi colleghi inglesi e americani durante governi di destra e di sinistra) e non dover chiedere scusa, perché non si può costringere un cittadino a chiedere scusa per ciò che non ha detto, a nome di un altro. Vorremmo che il solo rischio dell’intervistato non sia la gogna (inclusa quella riservatagli da la Repubblica, il 13 maggio), ma - se c’è errore o dolo - l’autorità giudiziaria. Vorremmo Occidente e non salamelecchi orientali intorno al presidente del Senato.

Vorremmo che la frenesia delle ronde dei cittadini (che in America e in Europa si chiamano vigilantes e sono vietati dalla legge e dispersi dalla polizia) fosse fermata da parole chiare, come ha fatto il Cardinale Martino quando ha detto no al reato di clandestinità senza domandarsi se quel no netto alla evidente disumanità del progetto fosse o no popolare.

Vorremmo che il governo ombra non fosse una fascia di contenzione alla libera e piena espressione politica da parte di deputati e senatori e i nuovi quadri dirigenti locali del Pd. Vi chiediamo (chi? dirai tu, ma io provo a dirlo a nome di tanti cittadini) di non applaudire Berlusconi prima del tempo. Certo, non vogliamo neanche sdegno e condanne, prima del tempo. Solo l’occhio sospettoso e in guardia dell’opposizione.

Loro hanno vinto anche per una intensa, infaticabile opposizione quotidiana in cui mai, per nessuna ragione, hanno abbassato gli scudi un po’ selvaggi dell’ostilità continua. Persino sugli interventi internazionali delle truppe italiane hanno votato no, pur di non accostarsi a Prodi, insieme con Turigliatto.

Infine ci resta da tendere la mano a dodici (dodici) milioni di italiani che ci hanno votato, perché sognavano un’altra Italia, non questa, non Maroni, non Schifani, non Borghezio, non Alemanno con la sua croce celtica (vedi ciò che accade a disorientati ragazzini nelle scuole). Non c’è alcun estremismo nel pensare a quei dodici milioni. E nessun massimalismo nel ripetere con loro «Berlusconi no». È la nostra strada del ritorno.

Confido che - se la faremo insieme - i dodici milioni usciranno dala solitudine, diventeranno quindici, prima che Berlusconi diventi presidente della Repubblica.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 14.05.08
Modificato il: 14.05.08 alle ore 10.48   
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Titolo: Furio COLOMBO - La maschera e il volto
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:07:42 pm
La maschera e il volto

Furio Colombo


Un agente in divisa (festa della Polizia, 16 maggio, ore 10.30) si è staccato dalla sua pattuglia, si è accostato per dire: «Sono di sinistra. Mi dicono che sono l’unico. Mi aiuti a capire. Dove ho sbagliato?».

Poco prima in un altro crocevia due signori bene in arnese non tanto più giovani di me si erano piazzati alle mie spalle il più vicino possibile, e fingevano di conversare ad alta voce.

Uno: - Ha vinto Berlusconi, se lo devono mettere in testa i comunisti. Ha vinto Berlusconi.

L’altro: - Eh santo Dio, finalmente ce li siamo levati dalle palle. Per sempre, hai capito, per sempre.

Uno: - Era ora. ’Sti comunisti del cazzo che ci stavano rovinando... ’Sti comunisti di Prodi!

Alcuni giorni prima, a Fiumicino, di ritorno dal Salone del Libro, mentre ero intruppato nella piccola folla che camminava verso il ritiro bagagli, due signori, più manager che pensionati, cercavano di restare vicini per farsi sentire in una cantilena tipo “Hare Krishna” «Per fortuna ha vinto Berlusconi... per fortuna ha vinto Berlusconi. Passa parola ai comunisti...». Con loro c’era un bambino serio, con il suo zainetto, probabilmente in trasferta tra padre e madre, tra una casa e l’altra. Oltre a me, era il solo a essere imbarazzato.

Nella libreria Mondadori di via del Corso si è accostata una signora, anche lei con un bambino per mano. Dice: «Dateci una parola di speranza». Ci siamo salutati con un sorriso.

La sera prima, di fronte al televisore per guardare una memorabile puntata di “AnnoZero” (quella in cui Travaglio ha spiegato che nei Paesi democratici ci si ispira all’emendamento della Costituzione americana che vieta al governo di censurare la stampa affinché la stampa possa censurare il governo) vengo sorpreso da questo scambio di battute fra il sindaco Ds-Pd di Salerno De Luca e il sottoministro leghista Castelli.

De Luca: - Prima di tutto dobbiamo imparare dalla Lega Nord, imparare dal loro rapporto col territorio, dalla forza del loro linguaggio... lo dico a tutti ma vedo che la sinistra fa spallucce.


Castelli: - Ma no, no, quelli di sinistra non fanno spallucce. Adesso le piegano le spalle.

Lo stesso sottoministro Castelli, poco prima, dopo avere ascoltato un appassionato, civile intervento di Stefano Rodotà contro la barbarie dei rastrellamenti notturni e delle invasioni alle quattro del mattino nei campi legali abitati da Rom di cittadinanza italiana e monitorati da posti fissi di polizia, ha detto con espressione beata: «Avete notato? da quando ci siamo noi non sbarcano più».

Michele Santoro ha dovuto pazientemente ricordargli che cinquanta clandestini erano morti in mare appena pochi giorni prima. Ma non ha cancellato quell’aria di trionfo sul viso di Castelli. Ognuno ha le sue ragioni di felicità. Per fortuna, si è spostata la telecamera.

Proprio in quelle ore dal Libano (pensate, dal Libano) il nuovo ministro della Difesa La Russa, camuffato da capo a piedi in divisa da combattimento ha annunciato che l’ordine pubblico in Italia (ovvero l’argine forte e risoluto contro l’incontenibile orda degli immigrati e dei clandestini, che, come si sa, straripano lungo i viali e assediano minacciosi le chiese cristiane) sarà mantenuto dai pattuglioni composti da esercito e polizia. Soldati armati per le strade di Milano, di Torino, di Roma. È sempre più evidente che alcuni, nel nuovo, agile governo di Berlusconi Quinto, lavorano a trasformare i loro sogni in un incubo, con la loro Notte dei cristalli e i loro pogrom. Le foto dell’assedio, della fuga, dell’incendio di Ponticelli hanno guadagnato la prima pagina del New York Times di giovedì scorso. Noi italiani abbiamo immagini buone e meno buone di noi nel mondo. Ma crudeli e razzisti mai. Adesso Gentilini e Borghezio hanno vinto su Primo Levi e Piero Calamandrei.


* * *


Per caso, subito dopo “AnnoZero”, subito dopo l’immagine di un Paese in cui la voce di Stefano Rodotà resta la sola a indignarsi dell’incendio dei campi nomadi, ho ascoltato a Radio Radicale un frammento del loro archivio. Hanno ritrasmesso, proprio quella sera (notte dal 15 al 16 maggio) una riflessione di Emma Bonino sull’immigrazione che mette in luce la cieca e sorda xenofobia della Lega che ormai è il vero motore del governo di destra, mentre gli altri si dedicano a teatrali cerimonie di potere nello stesso tempo assoluto e benevolo. La Bonino ti fa capire quanto sia piccola la testa dei tanti Castelli leghisti e neo-leghisti, e la disinformazione profonda che sono riusciti a radicare in Italia. I filmati di “AnnoZero” ci hanno mostrato, in fiorenti città emiliane senza criminalità, il furore razzista di brave signore e di ex militanti di tutte le gradazioni della sinistra.

La Bonino divide la sua riflessione in tre parti. «Loro», «noi» e «il che fare». «Loro», gli immigrati devono essere visti prima di tutto, a partire dai dati: in 10 anni si è messo in moto un flusso fisso di 150 milioni di esseri umani che vengono e continueranno a venire per non morire. È un due per cento della popolazione del mondo che tenta e continuerà a tentare, contro qualunque politica di contenimento, dal mondo della penuria a quello del lavoro.

Quel due per cento potrà aumentare, se continuiamo a permettere che la penuria diventi fame e che un minimo di speranza lasci il posto alla disperazione. Ma niente al mondo potrà fermare un flusso che nessuno regola e nessuno contiene. Ed è ridicolo affermare che quel flusso lo decidiamo noi. La Bonino ricorda che centinaia di chilometri di muro fra Stati Uniti e Messico non hanno fermato un solo messicano clandestino. Poi Emma Bonino propone due punti che sembrano sfuggire, in Europa, a ogni governo, nonostante siano noti ed evidenti. Il primo è che le rimesse degli emigranti sono quasi sempre la parte più importante del Pil dei Paesi da cui fuggono. Dunque nessun accordo bilaterale potrà mai funzionare, neppure a pagamento. Le rimesse sono somme immense e non si possono negoziare contro il ritorno di spossessati.

Il secondo punto è che il mondo agiato, anche quando non è governato da politici immersi nelle xenofobia, che diventano «impresari della paura», non compra neppure uno spillo dal mondo povero. Non compra, ma preme e ricatta per vendere nel mondo povero in prodotti del mondo agiato.

In questo modo lavora alacremente a mantenere stabile quel flusso fisiologico che si stabilisce da solo e che nessun governo può regolare.

Poi - nella riflessione della Bonino - ci siamo «noi». «Noi» siamo l’Europa e gli Stati Uniti. L’atteggiamento è psicotico. Noi, le stesse persone, li vogliamo per lavorare e nessuno va per il sottile se sono clandestini. Meglio, li paghi meno.

«Noi» però siamo gli stessi che non li vogliono vicini, non li vogliono in città, non li vogliono vedere, li accusano di tutti i reati, li preferiscono in prigione, invocano l’espulsione.

La via d’uscita? Concentrare tutte le risorse, morali, materiali, legali e tecniche sull’unico percorso possibile non per bontà ma per necessità: l’integrazione.

È stata una bella sorpresa apprendere che la riflessione pubblica di Emma Bonino sulla immigrazione che ho ascoltato da Radio Radicale, subito dopo avere visto il sindaco già di sinistra De Luca e il sottoministro Castelli scambiarsi effusioni da guerrieri con grinta che sanno come trattare gli indigeni, aveva questa data: 12 dicembre 2002. Come si vede non tutta la civiltà marcia allo stesso passo.


* * *


Ma adesso, ai nostri giorni, da noi, mentre continuano brutte e difficili guerre nel mondo (Iraq, Afghanistan) mentre resta la minaccia dell’Iran e rialza la testa la doppia guerra del Libano (contro il Libano e contro Israele) e non si sa quale sarà, fra poco, il destino dell’Egitto e quello del Pakistan, ma anche il prezzo del petrolio e la tenuta della grande finanza americana, troppo posseduta dai «fondi sovrani» cinesi e arabi, adesso il ministro della Difesa italiano annuncia soldati armati contro i Rom in Italia, una misura che ricorda gli ultimi giorni della Repubblica di Weimar. E intanto molti sindaci «di sinistra» offrono le loro ronde di cittadini come pegno per la loro resa agli «impresari di paura» della Lega Nord. E gli «impresari di paura» della Lega Nord vanno a giurare fedeltà alla Padania nella squallida messa in scena teatrale di Pontida. Resta da domandarsi come possa un gruppo xenofobo locale eletto in un’area sola del Paese sulla base di un impegno per quell’unica area, sanzionato da un giuramento, governare tutto il resto del Paese che non conosce quel partito, non lo ha votato e non poteva votarlo. Infatti la Lega fuori dal Nord non presenta né liste né candidati.

Sorprende che nessun costituzionalista si sia posto il problema se si può governare un Paese in nome e per conto di un progetto di secessione da quel Paese.

Non risulta che i secessionisti scozzesi, che pure hanno ottenuto la devolution, possano governare a Londra.

E cominciamo a scoprire che le accuse di Berlusconi a Casini (ci impediva di governare) non erano infondate.

Adesso, infatti, sono gli avvocati di Berlusconi a lavorare per conto della Lega alfine di dare all’Italia una vergogna in più: il reato di clandestinità. La vergogna si rivela due volte. La prima perché accusa e macchia di un reato persone innocenti che sono note, listate, rintracciabili in quanto da anni stanno tentando di percorrere i crudeli labirinti della legge Bossi-Fini. Hanno presentato i documenti e si sono - in tal modo - autodenunciati.

Ed è vergogna perché i clandestini lavorano e tengono in piedi intere aziende e senza di loro molti settori dell’industria italiana smettono di produrre.

Dovremo ricordarci di queste date, di questi giorni, di questo anno. Al contrario di quanto è avvenuto negli anni 60 in America, dove Martin Luther King si è messo alla testa del Movimento dei diritti civili, qui, in questa Italia, fra campi nomadi bruciati, famiglie con bambini in fuga, case distrutte con la gente dentro («stranieri», si intende, è accaduto già varie volte, fra inchieste imprecise e colpevoli non rintracciati) si è messo in marcia un potente movimento contro i diritti civili. A capo ci sono i ministri della Lega secessionista, che lavora alacremente a dividere e danneggiare l’Italia. E ci sono i servizi legali del «Popolo delle Libertà» (cioè di casa Berlusconi) e ciò che resta di An disciolta nell’acido berlusconiano.

Chi ha capito tutto è Fini. Dirige la Camera abbronzato e annoiato, dà risposte sbadate, mostra poco orgoglio e poco interesse per il posto che gli hanno assegnato. Ha capito che l’involuzione sembra soft, sarà durissima. M non riserva per lui alcun posto nella catena del potere.


* * *


Scrive Massimo Franco sulla prima pagine del Corriere della Sera del 14 maggio che occorre «sconfiggere quanti continuano a ritenere più comodo lo scontro». Vorrei assicurare il collega che non è così comodo. Anche perché basta la minima critica, il più cauto dissenso per parlare di «scontro». La solitudine si rivela anche un po’ pericolosa, come dimostra l’aggressione a colpi di casco del ragazzo «comunista» a piazza San Giovanni a Roma, la sera di venerdì 16 maggio. Poi però il sindaco Alemanno gli manda la sua solidarietà. E questo è il massimo di civiltà in cui puoi sperare in questo momento.

Infatti ti capita non raramente di ricevere lettere come questa: «Egregio (?) sig. Colombo Furio, sono un simpatizzante leghista di lunga data: le scrivo queste righe per esprimere il mio più totale disprezzo sia per quello che dice in Tv nelle trasmissioni condotte dai suoi soci-amici, sia per quello che scrive sul suo vergognoso organo di disinformazione che è l’Unità. Mi domando come faccia il Pd ad accettare che un personaggio come lei faccia parte dei suoi rappresentanti. E non capiscono che lei apre bocca solo per spargere sempre veleno e rancore contro il Berlusca. È veramente autolesionistico da parte di Veltroni averle dato una poltrona. Con totale disistima. La saluto. E mi raccomando: continui a scrivere. Paolo da Milano». Sì, grazie. Conto di continuare a farlo.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 18.05.08
Modificato il: 18.05.08 alle ore 15.00   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il deputato ombra
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 11:11:06 pm
Il deputato ombra

Furio Colombo


Si muove con circospezione, lontano dal potere ma non proprio nel fiume caldo dell’opposizione, il deputato ombra. È colmo di buoni sentimenti, nel senso politico della parola, rivede le facce di coloro che lo hanno votato (quelle che ha incontrato in campagna elettorale, quelle che incontra per strada) risente le voci, le frasi che chiedono, rimproverano, vogliono sapere che cosa accadrà (il solito desiderio umano e impossibile). Vorrebbe rispondere.

Il fatto è che ha già parlato il Governo ombra, che, proprio perché esiste, si è dato un codice istituzionale, che vuol dire il più possibile positivo. È un compito di civiltà. Però introduce anche nella opposizione un antico problema italiano, il rapporto fra il Governo e il Parlamento (Deputati e Senatori). Il Governo parla subito. Quando ha parlato, o segui o disturbi. Nella tradizione italiana tutto ciò - salvo che per brevi periodi di lavoro in comune - non è co-governare, come avviene in altri Paesi, dalla Germania all’Inghilterra, dalla Scandinavia agli Stati Uniti. È una sorta di rivalità, fra parlamentari e ministri della stessa parte politica. La Costituzione divide con estrema saggezza i compiti di Governo e Parlamento e, con altrettanta saggezza, li collega e li armonizza. E tuttavia - nella tradizione democratica italiana - è il governo a lasciare il segno e a tirare la volata. E del miglior Parlamento, se c’è mai stato, non restano tracce. Anzi è sul Parlamento - e non sul governo - che pesa il duro giudizio e il disprezzo dell’antipolitica. Lo dimostra il fatto che, in piena tempesta, le onde dell’antipolitica devastano un Parlamento né meglio né peggio di tanti altri (italiani, europei, americani) ma intanto elegge il governo di un leader ricchissimo che torna al potere con tutti i suoi dirigenti d’azienda e il suo pieno di violazioni, imputazioni e illegalità. E subito dopo, di nuovo, l’occhio scrutatore di quella che possiamo chiamare la nuova professione di «critica della politica» punta su ristoranti, pensioni e barbieri dei personaggi della politica (i parlamentari) mentre lì accanto giace, intatto, un gigantesco conflitto d’interessi.

Vuol dire uso del potere per affari personali e con un tornaconto mille volte più grande di tutti i pur sgradevoli ed esecrabili abusi denunciati giustamente da chi conduce il monitoraggio della casta.

Ma appunto: uso del potere. In qualche modo il potere assolve se stesso e lascia il resto della politica, buona o cattiva, onesta o disonesta che sia, esposta al comprensibile malumore dei cittadini.

Tutto ciò per dire che, se fai politica, è meglio governare che stare a sostenere chi governa, in quasi qualunque funzione. Questo spiega la ressa nel settore dei sottosegretari, che presto saranno 102 anche sotto l’austero Berlusconi.


* * *


Il Governo ombra? È pure sempre un Governo, benché virtuale. Per ogni materia e settore c’è un ministro. Quel ministro è titolare della materia, ne ha competenza e ha il compito - del tutto ragionevole e legittimo - di dire ciò che va detto caso per caso, evento per evento, problema per problema. Certo è una testimonianza, non un atto di potere. Infatti un Governo ombra è un Governo simbolo. Ma chi fa opposizione da parlamentare è molto più indietro, molto più isolato, del suo collega parlamentare di maggioranza quanto al rapporto col suo governo. Il fatto è che il parlamentare di opposizione non ha alcun potere da condividere, alcun beneficio, anche solo ideale, da strappare a nome e per conto degli elettori. Lasciati soli, e impossibilitati a influire su decisioni che comunque non spettano all’opposizione, i deputati ombra hanno la sola via d’uscita e di esistenza nel ribattere, in modo libero e immediato, a ciò che ha detto o fatto la maggioranza e il suo governo. E pensano di farlo per identificarsi con gli elettori, che non hanno voce. Però nel momento in cui il deputato ombra è pronto ad agire, il suo ministro ombra ha già parlato. Lo richiede - ogni volta - la inevitabile simmetria di dichiarazioni, intenzioni e atti fra governo della maggioranza e governo ombra. Ma il deputato ombra si trova confinato in un angolo. Infatti il ministro ombra, dovendo tener testa ad un vero ministro, ne fa un monitoraggio costante a nome nostro (cittadini e parlamentari). Ma deve subire il corso degli eventi. In altre parole, è il ministro vero a decidere, con i suoi fatti e misfatti, ciò che dirà, per le ragioni e le necessità che ho appena detto, il ministro ombra. In tal modo il ministro ombra, sbarra la strada al deputato ombra. Nel migliore dei casi il deputato ombra ha perduto l’occasione di parlare per primo ed essere protagonista della sua piccola storia (nel senso giornalistico) del momento. Pazienza, si dirà: un piccolo colpo alla vanità. Certo, può accadere che il deputato ombra non sia d’accordo con il governo ombra. Forse lui (lei) aveva un’altra cosa da dire, forse il contrario di ciò che ha appena ascoltato dal suo “ministro”. Lui (lei) a volte è in disaccordo netto. Crede di vedere in ciò che è stato detto a suo nome, un errore. È un normale fatto della vita politica. Ma il deputato ombra non ha lo spazio di “diversa opinione” dei parlamentari di maggioranza. Di là, il distillarsi, giorno per giorno, degli atti di potere, di governo e delle relative conseguenze, compensa e alla fine armonizza in qualche modo i dissensi, attraverso i benefici del governare. Di qua, solitudine. Non è bella l’alternativa di dissentire in modo aperto e chiaro dal tuo governo ombra nel momento in cui lo stare insieme, lo stare uniti, appare il solo valore di cui si dispone.


* * *


Qui si insinua un fattore in più. Una volta, in tempi che ormai sembrano lontanissimi, era il partito a fare da legame, tessuto connettivo, camera di compensazione, luogo per stare insieme e dire “noi”, persino se e quando dissensi netti su un punto o su un altro contrapponevano persone o gruppi dello stesso partito.

E accanto al contenitore partito c’erano “gli indipendenti” che venivano invitati ad associarsi senza perdere identità e, appunto, “indipendenza”. Tutto ciò creava una vasta area di convivenza, con il suo meglio e il suo peggio, ma senza escludere presenza e iniziativa di chi voleva partecipare in modo attivo alla vita politica.

Questa volta, nei giorni di cui stiamo parlando, il partito (il Partito democratico) è come una creta fresca, appena impastata. È ragionevole che ti chiedano di non lasciare il segno nella materia ancora non definita, come fanno quei ragazzacci che vogliono che resti per sempre l’impronta della loro scarpa nel cemento fresco. Ma il problema esiste. Te lo fa notare Stefano Menichini, direttore di Europa (dicono che sia uno dei quotidiani del Pd, l’altro è certo l’Unità, ma un altro ancora potrebbe essere il Riformista) quando intitola un editoriale «Sconfiggere Travaglio e Colombo» (13 maggio). Te lo fa notare (sempre su Europa, sempre editoriale) Paolo Natale quando si domanda «Opposizione vuol dire Di Pietro?» (22 maggio). In quell’articolo leggi: «Anche nei partiti d’opposizione, una quota significativa concede fiducia al nuovo esecutivo. Ma la sintonia che sembra manifestarsi tra i due maggiori partiti, Pdl e Pd, pare far individuare nel partito di Di Pietro la reale e più agguerrita alterità nei confronti di Berlusconi».

Come si vede, una bella fetta di mercato elettorale viene regalata a Italia dei valori (come se la Fiat dicesse a Smart: “tranquilli, noi non costruiremo più Cinquecento e Panda”). Ma, allo stesso tempo, si introduce un “indice di estraneità” che serve per un giudizio istantaneo sul deputato ombra che eventualmente dissentisse dal suo ministro ombra: “Che fai, stai con Di Pietro?”. Più aspro l’editto di Andrea Romano, già area Ds, ora dirigente editoriale (Einaudi-Mondadori) ma anche opinionista de La Stampa. Scrive (22 maggio): «Fuori dal perimetro politico del Pd, sta rapidamente rafforzandosi un’entità di opposizione all’insegna dell’intransigenza e della indignazione moralistica, dominata da quel Di Pietro con cui Veltroni ha stipulato una alleanza elettorale che attende ancora di essere spiegata. Le ragioni di Di Pietro sono ragioni strutturalmente minoritarie e incapaci di arrecare il minimo danno al consenso del centrodestra. Per rendersene conto basta leggere l’Unità di questi giorni. Quello che in teoria dovrebbe essere il quotidiano del Pd, di fatto è stato appaltato alle ragioni dell’Italia dei Valori, partito alleato ma già concorrente. È questo il problema che attende di essere risolto da Veltroni».

Avete capito bene. Si tende a definire una nuova ortodossia in nome di una misteriosa “vocazione maggioritaria” che si manifesta solo evitando ogni “intransigenza e indignazione moralistica” (per esempio insistere sul conflitto di interessi e la sfacciata difesa di Rete 4 contro la decisione della Corte di Giustizia Europea).

Potrei osservare che si tratta dello stesso autore che il primo dicembre 2004 ha detto, in una sua lettera a l’Unità, che «Bondi e Schifani popolano la sua (la mia, n.d.r.) galleria personale degli orrori, un esempio inquietante di mentalità totalitaria». Qui, però mi serve per dimostrare il punto al quale cercavo di arrivare. Soltanto un partito democratico con porte e finestre aperte sulla vita e i sentimenti dei suoi elettori può liberare i molti Andrea Romano dalla riluttanza a fare opposizione in modo netto. Dicono che criticare apertamente e anche vivacemente Berlusconi risveglia un grumo di fantasmi totalitari.

A me sembra che il Partito Democratico abbia raccolto i suoi dodici milioni di voti dalla intransigenza e dalla indignazione che hanno fatto esistere Gobetti, Matteotti, i fratelli Rosselli. Non oso dire Gramsci perché, ormai, quel nome glorioso viene agitato contro l’Unità ogni volta che l’Unità, magari sbagliando, segue la lezione di Gramsci che era: mai tacere, mai rinunciare, mai scambiare il consenso (che nel fascismo era grande) con la ragione, meno che mai con la verità.

Soltanto un grande Partito Democratico può liberare i direttori di Europa e del Riformista dall’incubo di non essere influenti membri della classe dirigente del presente, ed eventualmente del futuro, se scivoleranno nell’errore dipietrista (è il nuovo nome del deviazionismo) di fare opposizione senza guanti bianchi, così come la destra la ha fatta al centrosinistra negli ultimi due anni, guadagnandosi una bella vittoria.

Forse, per un grande progetto di opposizione a nome di mezza Italia, è bene che resti viva l’indignazione del deputato ombra. Questo strano ostinato individuo, che sembra appartenere a una razza in via di estinzione nel nostro Paese, per sé non ha molto da chiedere. Ma gli resta un filo di speranza e un residuo di passione per un’Italia pulita e diversa che vorrebbe condividere persino con Menichini, Romano e Polito.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 25.05.08
Modificato il: 25.05.08 alle ore 7.42   
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Titolo: Furio COLOMBO - La Festa è finita
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2008, 05:05:50 pm
La Festa è finita

Furio Colombo


Leggo sulla prima pagina di Europa (27 Maggio) un gentile articolo dal titolo «Festa dell’Unità, una storia finita» di certo Mario Rodriguez. L’autore sembra più assai infastidito dai cittadini che si ostinano a far festa intorno al loro giornale rinato (che fa 50.000 copie nei giorni in cui butta male) che dei nuovi squadristi che brulicano nelle piazze nell’era di Tosi e di Alemanno. Nel suo piccolo, anche Europa ha diritto di scegliersi i suoi nemici.

Ma l’autore sembra non essersi posto il problema: «non avevamo deciso di convivere nel Pd, laici e credenti di un tipo e dell’altro?».

Leggo sul Corriere della Sera (26 Maggio): «La Festa dell’Unità è stata un momento di confronto eccezionale e insostituibile, il luogo della passione civile e politica per migliaia di uomini e donne. Peccato però che saranno almeno vent’anni che quell’intensità è andata precipitando fino a ridursi al lumicino. Padellaro può mettersi l’anima in pace: la Festa dell’Unità cosi come lui la dipinge è già morta da un pezzo».

Leggo e mi rendo conto che un uomo tempestato dalle interviste al telefonino, persino quando è un intellettuale, un filosofo, uno straordinario organizzatore di pensieri e parole, può cadere nel buco nero di ciò che non sa e affermare, con sicurezza, solennità e assoluta buona fede, qualcosa di falso. Falso sia nel senso di non vero, sia come dichiarazione autorevole, credibile, infondata.

L’autore di tutto ciò è Massimo Cacciari e il suo numero di cellulare è sul telefonino di tutti i cronisti d’Italia. Se c’è da dare torto a qualcuno anche vagamente critico a sinistra, chiamare Cacciari. Dispiace che Cacciari sia al gioco e dichiari su tutto. Dispiace perché neppure Cacciari sa tutto su tutto. Infatti quando sa, (parlo di esperienza, non solo di scienza) è sempre importante ascoltarlo, in un Paese in cui le voci davvero autorevoli sono poche e in diminuzione (non parlo di età, parlo dell’estendersi del silenzio).

Da quello che dice questa volta devo dedurre che da quando l’Unità è tornata ad esistere e ad essere uno dei giornali protagonisti della vita italiana, il Sindaco di Venezia non ha mai avuto occasione di attraversare una Festa dell’Unità, dai piccoli paesi alle province, alle regioni, alla Festa nazionale.

Mentre scrivo non so se sto parlando del passato o di una realtà che continua, e che continuerà. Di sicuro l’Unità è tanto amata dai suoi lettori (moltiplicati per famiglie, anziani che sono ancora orgogliosi di dirti quante copie, un tempo, riuscivamo a distribuire la domenica, volontari che lavorano molto di più e molto meglio che nei migliori Club Mediterraneè) quanto è malvista da chi non sopporta che le cose si dicano in chiaro e senza politichese. Irrita a sinistra, per ragioni che a noi, nuovi venuti ed ex di niente, riesce difficile interpretare. E ti accorgi che si irritano sia la sinistra-destra, sia la sinistra-sinistra e, a volte, tutti insieme con la destra-destra (anche perché in questo momento siamo quasi soli a non dire che “loro si che hanno capito il Paese”, anzi “il territorio”).

Ma la nuova stagione del non politichese e del “Dell’Utri a Dell’Utri” e del “Berlusconi a Berlusconi”, funziona, Cacciari, nelle Feste dell’Unità. Funziona al punto che noi, «testata omicida» (per usare una definizione della concorrenza) non abbiamo notato alcuna defezione né alcun lumicino, fino a poco, pochissimo tempo fa.

Arrivi un po’ prima delle nove di sera e hai l’impressione che - col troppo caldo o col troppo freddo, con l’orchestrina a volte troppo vicina e l’altoparlante che non funziona - la folla dell’anno prima non si sia mossa mai, che sia ancora in attesa di finire il discorso, di fare domande e di dire, a volte con sorprendente equilibrio e chiarezza, ciò che sentono e pensano e aspettano molti cittadini, molti elettori in quel momento.

No, Cacciari, soltanto chi in questi anni non ha mai messo piede in una Festa dell’Unità o nelle vicinanze (tanto da non sentire gli odori delle cucine, da non intravedere da lontano gli striscioni, da non vedere una locandina, magari per caso, da non lasciarsi attrarre dall’immancabile, invadente orchestra con cantante capace di non prendersi un solo minuto di pausa) soltanto così si può parlare in buona fede di «Feste dell’Unità al lumicino». Aggiungerò una cosa: in questi anni quella folla in attesa non è diminuita, è aumentata. E non saprei dire se ciò si deve al senso di solitudine che molti provano nel vivere, oggi, in Italia.

Mi rendo conto che l’affermazione di Cacciari, che noi si sia d’accordo o no, conta soprattutto per il peso e l’autorità innegabile della persona che lo dice (e che, purtroppo, presenta un’altra storia, non quella dell’Unità rinata e dei suoi lettori). Ma il progetto di liquidare quelle Feste sarebbe un delitto. Proprio adesso, mentre tanti, nel Pd, invidiano i nuovi protagonisti muniti di ronde, manganelli, cani lupi e odio razziale, perché, ti dicono loro “hanno un buon rapporto col territorio”, proprio adesso si propone di fare piazza pulita di una vera, profonda, radicata presenza sul territorio. Vogliono cancellare le Feste dell’Unità e la sua gente ostinata che non va via. Difficile, mi creda il Sindaco Cacciari, mettersi l’anima in pace.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 28.05.08
Modificato il: 28.05.08 alle ore 9.12   
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Titolo: Furio COLOMBO - Questi fantasmi
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 05:10:42 pm
Questi fantasmi

Furio Colombo


In poche settimane l’Italia è peggiorata così rapidamente da indurre a chiederci: se questo è il passo della Repubblica sotto il presente governo, vuol dire che dovremo vivere nella paura? Parlo della paura come attesa, non come stato d’animo.

In brevissimo tempo abbiamo avuto uccisioni (Verona) ferimenti, pestaggi, aggressioni, l’incendio di campi nomadi, la fuga di gente disperata, donne e bambini cacciati e minacciati. Che sia di destra o no, tutto ciò è cominciato ad accadere dopo la clamorosa vittoria della destra. Chi vince può anche decidere di salire di un gradino per avere un orizzonte più largo, una capacità di decisione non legata al sentimento di vendetta e di rivincita. Ma invece di ingresso in un futuro un po’ meno claustrofobico, un po’ meno segnato dalle ossessioni e dai fantasmi di leader e di partiti che - per vincere - hanno giocato tutto sulla paura, si è deciso di continuare e rilanciare la paura come modo di governare. Tiene occupati i cittadini a dare la caccia agli stranieri. A Milano sono già cominciati i rastrellamenti degli immigrati sui tram. Li individuano (dalla pelle?) a uno a uno, poi li allineano sul marciapiede in attesa del cellulare, di fronte agli altri passeggeri che, probabilmente, provano vergogna o disagio.

Purtroppo sono stati di parola. Governano, isolati in Europa, in compagnia dei loro fantasmi, della loro antica ossessione di popoli da far vivere chiusi dentro i sacri confini, con ampolle di acqua fluviale, con giuramenti in costume da film di terza serie, con un protezionismo senza alcuna consapevolezza del mondo, sempre in cerca di qualche carro potente a cui agganciarsi e ubbidire (perché un vassallo cerca sempre un imperatore) e l’inflessibile mantenimento delle posizioni di rendita. In altri secoli erano terre, valli e ponti sorvegliati da torri e guardie armate. Adesso - con lo stesso spirito - è un grosso affare di televisioni private vigilate giorno e notte da fedelissimi deputati e senatori della Repubblica.

Ma fermiamoci per un momento a osservare il mondo di cui siamo parte, sia pure attraverso i vetri appannati e le finestre a feritoia dei nostri media.

Nel mondo è improvvisamente riapparsa la penuria di cibo, un dramma finora estraneo alla economia contemporanea, che sembrava invece essere fondata sull’abbondanza e lo spreco. È vero, c’era il problema della fame in intere aree del mondo che eravamo abituati a citare nobilmente riservandoci, in ogni convegno, di fare grandi interventi il prossimo anno, o in quello dopo.

La penuria diffusa, però, è un’altra cosa. Perché avviene simultaneamente dovunque, determina paurose impennate dei prezzi, provoca vaste macchie di improvvisa povertà anche in aree di ormai lungo e stabilizzato benessere.

La causa è in parte nota (dirottamento di prodotti alimentari dal naturale mercato alle nuove fonti di energia), in parte dovuta al drastico cambiamento del clima nel pianeta, in parte alla tragica decisione adottata simultaneamente nei Paesi “moderni”, di abbandonare l’agricoltura. In parte dall’arrivo - nel mondo del consumo - di nuovi consumatori.

Il mondo è sconvolto dal costo del petrolio, che continua a crescere dopo essere rapidamente decuplicato, e pone di fronte a una ambivalenza senza soluzione: oltre certi limiti non si può pagare.

Ma, qualunque sia il costo, non si può rinunciare. Per questo sale e continuerà a salire l’inflazione.

Il mondo vede due guerre che divampano, e altre che possono esplodere in ogni momento. Vede un contesto di tensione e di violenza internazionale in cui il fuoco passa vicinissimo al petrolio e l’instabilità minaccia in tanti punti diversi un equilibrio mai così precario.

Il mondo conosce tempeste finanziarie globali sottratte ad ogni controllo democratico, capaci di attraversare in un lampo luoghi lontani e sconnessi. Il crollo di un fondo di investimenti basato su mutui inesigibili in una provincia americana può svuotare il fondo pensioni pubblico di un Paese estraneo e lontano, in Europa o in Asia.

* * *

Nell’Italia di Berlusconi e di Bossi passeggiano i fantasmi. Un Paese moderno, sesta o settima economia del mondo, è ossessionato dalla minaccia dei Rom. Non milioni di Rom, che in Italia non esistono, ma appena 150mila persone, metà delle quali italiane, metà delle quali bambini. E metà degli adulti, donne. Dunque il pericolo incombente, in una delle grandi (o ex grandi) potenze del mondo, di sessanta milioni di cittadini dei nostri giorni, sono due decine di migliaia di uomini Rom, la maggior parte dei quali, come mostra qualunque statistica, non è dedita ad alcun crimine.

Ma la credenza - una credenza alimentata dal governo e da una parte non piccola di stampa e televisione - è identica al più squallido medioevo di isolati villaggi agricoli: i Rom rubano i bambini. Alcuni episodi di denunce, allarme, accuse, drammatiche narrazioni di tentati rapimenti di nostri bambini da parte di pericolosissimi zingari sono venuti uno dopo l’altro in pochi giorni. Ci sono stati arresti, persone sono state portate via con l’accusa più bizzarra, per una comunità carica di figli (ho già detto che la metà della esigua popolazione Rom italiana è composta di bambini). Ebbene, di quelle accuse, arresti, gravissime imputazioni di rapimento, nessuna notizia, nessuna conferma, è venuta. Soltanto un oscuro silenzio. Eppure non si tratta di un problema di indagini, poiché i fatti sono avvenuti in modo istantaneo, sotto gli occhi dei denuncianti, e sempre in luoghi pubblici e con altre persone presenti. Eppure le cronache dei migliori giornali - che non hanno esitato, almeno nei titoli paurosi e nei drammatici occhielli, a gridare “rapimento” - non hanno più nulla da dirci né voglia di sapere. Era vero?

* * *

Nell’Italia di Berlusconi si aggira e minaccia il Paese il fantasma del clandestino. Intendesi per clandestino un uomo, una donna, un bambino, che vive nel nostro Paese (perché è miracolosamente arrivato vivo dalla traversata in mare) e ci vive non per turismo ma per disperato bisogno. In questo Paese il clandestino lavora, quasi sempre nei mestieri peggiori, quasi sempre per una paga da fame, senza una casa che possa chiamarsi casa, senza cure o scuola (in molte città è proibito, o lo vogliono proibire) per i bambini. Dicono tutti gli esperti - dall’America all’Europa - che gli immigranti senza diritti producono ricchezza per il Paese ospitante. Nell’Italia di Berlusconi personalità di governo variamente disposte in posizioni chiave agitano pregiudizio, paura, antagonismo, odio, in una brutta formula primitiva che in politica funziona (porta voti) ma nella vera vita punta al linciaggio, da Verona al Pigneto. Spiegate pure ai morti e ai feriti che i picchiatori e i saccheggiatori dei loro negozi non erano iscritti al fascio. Immaginate il sollievo degli zingari di Ponticelli, dei familiari del ragazzo di Verona o degli aggrediti all’Università La Sapienza o dei cittadini del Bangladesh al Pigneto nell’apprendere che le sprangate non erano politiche, o che il mandante era Che Guevara.

Mentre il mondo è percorso dal brivido penuria-fame-petrolio-guerra-rischio di nuovo terrorismo, allarmanti scossoni ai più solidi edifici finanziari, l’Italia di Berlusconi introduce nelle leggi italiane 23 nuovi reati a carico dei clandestini e dei lavoratori immigrati (fonte: Il Sole 24 ore, 26, 27 maggio). Lo sguardo sfuocato dal provincialismo disinformato e dalla vista annebbiata della Lega xenofoba guida l’azione “decisionista” di un governo che - come certi giocattoli - sbatte e torna a sbattere contro muri che non vede.

* * *

Sono i muri di un provincialismo e di una autoreferenzialità soffocante che impediscono di percepire il mondo. Mentre l’Alitalia sta per scomparire dai cieli, ti annunciano all’improvviso, con una incosciente allegria da Titanic, il Ponte di Messina, opera gigantesca per cui non esistono disegni e studi di fattibilità e di (immenso, rovinoso) impatto ambientale. E non ci sono e non possono esserci i fondi.

Ti rispondono, con sorrisi fuori posto, che provvede la finanza privata. Sarà la stessa finanza privata che sta affollandosi per rilanciare febbrilmente la grande cordata nazionale e patriottica che salverà l’Alitalia?

Intanto sta per scatenarsi anche sull’Italia impoverita (è povera una famiglia su tre, la metà vive con poco più di mille euro) la più grande tempesta economica dal 1929, ci dicono, i più credibili esperti americani. Loro - il governo fuori dal mondo e dalla realtà e immerso in un cattivo teatro dell’assurdo - si presentano ad annunciare, senza il minimo senso della parole gravissime che stanno pronunciando, il nostro glorioso “ritorno al nucleare”.

Neppure economisti fantasiosi e disinvolti come Tremonti e Brunetta hanno provato a calcolare, sia pure per scherzo, una cifra, per esempio il costo di un abbozzo di progetto di un solo impianto nucleare. Nessuno ha provato a dirci in quanti anni (o decenni) un simile gigantesco investimento sarà compensato da costi minori dell’energia elettrica in Italia, rispetto al costo di oggi. Nessuno ha tentato, magari con una solenne dichiarazione da Napoli, di parlarci della gestione delle scorie.

In questo cupo teatro si aggiunge, perfettamente giustificata dal clima di irrealtà, l’offerta del Primo ministro Berisha. Dice: «Venite a fare i vostri nuovi impianti nucleari in Albania. Noi siamo pronti».

Ecco dunque il nuovo orizzonte di azione del governo fieramente decisionista: la repubblica nucleare d’Italia e di Albania, con Berlusconi capo indiscusso.

Accade però che, dopo aver fatto la faccia feroce a clandestini e immigrati, Berlusconi si impantani nell’immondizia di Napoli, benché abbia fatto di nuovo finta di risolvere il problema con “leggi speciali” (la definizione, tristemente esatta, è di Stefano Rodotà,La Repubblica, 27 maggio).

Il problema è drammatico e invoca soluzioni urgenti di adulti competenti.

Berlusconi ha portato a Napoli il suo miglior abito elettorale (spingere in là il problema per occupare da solo tutta la scena) ma tutto ciò che ha saputo fare è una legge che nega il federalismo, cancella Comuni e Regioni, circonda di Forze armate alcune zone del Paese (la Lega accetta perché a loro importa la secessione, non il federalismo, meno che mai nel Sud). E si blocca di fronte a un nodo maledetto che nessuno dei suoi ha studiato o capito. È vero, neppure i governi locali o nazionali del centrosinistra avevano saputo farlo. Ma questa realtà, allarmante e triste, non autorizza alla celebrazione di Berlusconi che “finalmente ha deciso”. L’immondizia continua. Continuerà.

Purtroppo lo squallido film del finto governo, delle finte decisioni, delle finte soluzioni che sono o illegali o impossibili (la cattiveria di governo, le ronde spontanee contro gli immigrati e i Rom sono l’unico segno della nuova era) è seguito da due comiche finali.

Una è quella, segnata dalla concitazione di gesti e di azioni dei film da ridere di un tempo, una concitazione tipica anche dei sofferenti di iperattivismo, e del ministro Renato Brunetta. È la “Festa del fannullone” in cui la finzione è evidente: il capro espiatorio si vede al primo sguardo (il capo ti rovina quando vuole, secondo le buone regole del mobbing, che - come tutti sanno - impediscono a qualcuno di lavorare). E l’intimidazione contro i medici che rilasciano certificati finti è roba forse vera e forse falsa, e non annuncia nulla se non disprezzo per chi lavora davvero e si ammala davvero. Infatti l’accusa ai medici non viene da una rigorosa inchiesta, ma dal sentito dire sul pianerottolo del condominio. In altre parole, come sempre nell’Italia della burocrazia, volano gli stracci e zompa chi può. Ve lo immaginate, in un clima improvvisato e superficiale di questo genere, come saranno bravi i dirigenti e i funzionari peggiori nel liberarsi di rompiscatole laboriosi che, per giunta, sono inclini a denunciare le complicità fra politica e burocrazia?

Però non è tutto. Il cambio di stagione non si apprezza, nella sua triste portata, se non si dice, e si ricorda, e si dovrà ricordare, che tutta la prima fase di lavoro alla Camera dei Deputati italiana è stata spesa nel tentativo della maggioranza di difendere gli interessi e gli affari di Mediaset e di Berlusconi (salvataggio sfacciato di Rete 4). Ha fatto blocco, nell’aula di Montecitorio, l’impegno del Partito democratico, dell’Italia dei valori di Di Pietro, e - questa volta - anche del gruppo di Casini, per impedire un simile uso immorale delle Istituzioni italiane.

Questa volta, almeno un poco, almeno in parte, l’opposizione ha vinto. Il vero punto segnato, però, è quello che tanti negano e di cui si fingono annoiati. È avere dimostrato che tutto continua, che non c’è alcun nuovo Berlusconi, che il conflitto di interessi esiste, cresce e, come un totem primitivo, è l’unica cosa salda e solida al centro del disastrato paesaggio italiano.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 01.06.08
Modificato il: 01.06.08 alle ore 6.54   
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Titolo: Furio COLOMBO - Obama!
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2008, 09:45:16 pm
Obama!
Furio Colombo


Scherzi della storia. Mentre il mondo diventa carogna, chiude i confini, dirotta il cibo per farne carburante, alza muri alti quattro metri per impedire che entrino negli Stati Uniti non i terroristi ma i campesinos disperati in cerca di un lavoro che c’è (perché lo fanno solo i campesinos disperati), proprio in quel momento - in questo momento - compare sulla scena americana un candidato nero.

Ah, ma attenti. Non solo di discutibile etnia diversa, ma anche figlio di immigrato da Paese sospetto (il Kenya), nato da un matrimonio misto che i più condannano, e identificato da un nome che può bloccare la folla in attesa in qualunque cancello di immigrazione (se quei cancelli, nei Paesi che si vantano di essere civili, fossero ancora aperti).

Si chiama Barack Obama.

Chi gli vuole male e intende denigrarlo pronuncia intero tutto il suo nome - Barack Hussein Obama - Perché si percepisca tutta la sua estraneità e diversità. Chi non può sopportare il nuovo evento ha fatto circolare la voce che forse il candidato - Dio ce ne scampi - non è neppure cristiano. Poi si è scoperto che era cristiano, ma legato a una Chiesa e a un pastore così aspramente militanti, così (si direbbe in Italia) di sinistra radicale, da fare impressione e scandalo per le brave persone miti, middle class e bianche d’America, nelle pianure della Bibbia, nelle città degli operai, nei sobborghi borghesi, di cui di solito si dice “benpensanti”. Ma le brave persone miti, middle class e bianche d’America hanno continuato a votare per lui, immigrato, meticcio, e appartenente a una Chiesa sbagliata.

Scherzi della storia. Ore prima della proclamazione di un simile candidato, un aspro editoriale del New York Times descriveva in questo modo l'America ai giorni di George W. Bush. «Un giorno non riconosceremo noi stessi per ciò che stiamo facendo oggi: una nazione di immigrati tiene in schiavitù un'altra nazione di immigrati (il riferimento è ai clandestini, ndr), sfrutta il loro lavoro, ignora la loro sofferenza, ci condanna a restare fuori legge, li arresta e li espelle quando finge di scoprirli, con incursioni improvvise nelle case e nelle fabbriche, sparge terrore indiscriminato trattando lavoratori da criminali, mentre altri criminali-lavoratori prendono il loro posto illegale e fruttuoso, fino al rastrellamento, alla prigione, alla espulsione successiva. Un'America che attribuisce come unica identità di esseri umani che lavorano la condizione di clandestini; macchia di vergogna la nostra identità, la nostra storia». Scherzi della storia. In quell'America si sono fatti avanti, dal lato umano e liberale di un'America che non è morta con Martin Luther King e con Robert Kennedy, un candidato donna, con lo slancio straordinario e infaticabile di Hillary Clinton (la stessa Hillary Clinton che aveva scritto l'unica legge che avrebbe garantito completa assistenza sanitaria anche ai più poveri).

E un candidato nero che ha avuto il coraggio di dire: «Io sono questa America. Mentre la mia nonna bianca mi teneva stretto, bambino nero estraneo in tutto alla sua vita, decisa a difendermi da ogni male, aveva paura se gente nera si avvicinava a noi, incuriosita da quel piccolo nero stretto a una donna bianca, che si ritraeva con diffidenza». Nelle elezioni primarie ha vinto Barack Obama. È il candidato del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti. Chi lo ha sentito parlare crede di sapere perché. Dice che la forza gentile di Martin Luther King e il senso di giustizia non negoziabile di Robert Kennedy sono tornati con il giovane senatore che viene dal Kenya a guidare gli americani.

Gli americani ascoltano e vedono, con lui, con quella sua capacità immediata e istintiva di evocare il sogno, un altro Paese. Vedono un'America che forse c'è stata, un'America, pensano in molti, che può essere il futuro senza rabbia, senza vendette, senza solitudine, senza paure, senza guerre, senza l'orrore degli esclusi, sfruttati e cacciati. Scherzi della storia. Gli sta davanti, come avversario, un uomo bianco immensamente per bene che non vuole avere niente a che fare con l'America repubblicana che lo precede. Cerca anche lui un Paese pulito e rispettato, legato di nuovo ad amici alleati invece che ad alleati servi, con cui tentare di realizzare insieme una politica umana, in un mondo decente che si allontana dalla morte.

Troppa speranza? Per un giorno, non è peccato. Oggi, mentre scrivo, è il giorno in cui Robert Kennedy è stato ucciso, esattamente 40 anni fa. È un giorno perfetto per sognare.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 05.06.08
Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.53   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il giorno nero dell’Europa
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:49:09 pm
Il giorno nero dell’Europa

Furio Colombo


Il Parlamento europeo ha votato la direttiva dell’Unione sull’immigrazione, forse la peggiore, la più crudele e più stupida del mondo civile.
Di solito uno Stato nuovo o una nuova istituzione internazionale nascono con grandi e generose ambizioni. Spesso il tempo e le vicende del mondo impongono cambiamenti, indurimenti, negazione dei principi alti, come risposte di brutale realismo che vengono adottati con un esplicito o implicito avvertimento: non stiamo negando i nostri princìpi.

Stiamo solo fronteggiando un momento difficile. Tipicamente si invoca l’emergenza che è sempre una condizione di cui si aspetta e si invoca la fine.
Due esempi. Molti di noi che hanno sempre creduto nelle Nazioni Unite, hanno subìto delusioni pesanti, dall’inutilità dell’Unesco alla gravissima inadeguatezza della Fao. Per non parlare della strage di Srebrenica, una crudele operazione di pulizia etnica avvenuta sotto gli occhi di inerti soldati dell’Onu.

Ma l’Onu si identifica per sempre con la Carta dei Diritti dell’uomo, che ha avuto un senso e un peso grandissimo nella storia del mondo contemporaneo. E con la Carta di San Francisco a protezione dei diritti dei bambini. In altre parole, l’Onu che pure ha vissuto brutte pagine (fino ad avere un segretario generale - Kurt Waldheim - con un passato nazista), ha posto al suo inizio principi, propositi, impegni così alti da costituire riferimenti e speranze che durano ancora.

L’altro esempio, il più grande, è quello degli Stati Uniti. Si sono dati, alla nascita, una Costituzione e un “bill of rights” (carta dei diritti) talmente alti e nobili da ispirare, lungo i due secoli e mezzo della loro esistenza, tutte le azioni, iniziative e movimenti che si sono impegnati a migliorare il Paese e a correggere dislivelli gravi come il razzismo. Persino di fronte alle tragiche imprese del Ku klux Klan, Martin Luther King ha potuto invocare gli alti principi della Costituzione, ricevendo il sostegno dei tribunali e dei giudici chiamati a decidere sulla lunga sequenza del razzismo.

Persino oggi, persino mentre il 70 per cento dei cittadini americani sono contro la politica del Presidente Bush e la tragedia in Iraq, ognuno di quei cittadini è orgoglioso di essere americano perché può vantare nel mondo la sua la sua Costituzione e la sua Carta dei Diritti che recita: «E’ evidente e di immediata comprensione (self evident) che tutti gli uomini sono stati creati uguali». Quell’orgoglio di essere americano si manifesta oggi nel momento in cui un giovane senatore nero, figlio di immigrati, è candidato, con molto seguito, alla presidenza degli Stati Uniti.

* * *

Ecco qualcosa che non potrà mai accadere in una Europa gretta e spaventata, che inizia la sua esistenza politica con una serie di direttive sull’immigrazione dettate dal versante stupido della paura, un insieme di percezione ottusa e di cattiveria, magari non voluta ma che sventola come una bandiera nera su questo aggregato di Stati detto “Unione Europea”.
Avrebbe dovuto essere un nuovo futuro, il superamento e la cancellazione delle xenofobie dei singoli Stati, delle miserie dei confini e del continuo affermare, fino al ricorso alle armi, la superiorità di ognuno sugli altri.

Partendo così in basso, con principi così barbari, che negano il diritto d’asilo, prevedono la cacciata dei bambini (l’esecuzione di un simile provvedimento violerà ogni principio della civiltà di cui ci vantiamo, oltre a tutte le leggi di tutti i Paesi membri) e mettono al centro della nuova Giustizia europea un anno e mezzo di carcere per il delitto di immigrazione. Niente poteva essere pensato in modo più vergognoso e umiliante. Impedisce fin dall’inizio che l’Europa diventi simbolo e riferimento di qualcosa di buono e di nuovo.
L’Europa debutta sulla scena già triste del mondo con il volto indifferente e volgare della vecchia burocrazia.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 20.06.08
Modificato il: 20.06.08 alle ore 8.37   
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Titolo: Furio COLOMBO - Berlusconismo
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 12:12:07 am
Berlusconismo

Furio Colombo


Vorrei subito chiarire. Non sto dedicando questo articolo al berlusconismo a causa del fatto che Berlusconi è improvvisamente ritornato ai toni incattiviti di quel primo non dimenticato governo, quello che ha portato l’Italia alla crescita zero ma ha garantito al primo ministro tutte le leggi di utilità e convenienza personale, ha dato un colpo durissimo - e notato nel mondo - alla libertà di stampa e ridotto prestigiosi commentatori di prestigiosi giornali a dargli sempre ragione come a Mussolini.

Certo, la lettera del presidente Berlusconi, di cui ha dato compunta lettura il Presidente del Senato Schifani a un’aula di persone probabilmente stupefatte, spinge la scena della vita italiana fuori dalla Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge») e fuori dalla democrazia («La legge è uguale per tutti»). Però, onestamente, come fare a mostrare meraviglia per un leader (questa è la terza prova e la quarta volta) che ha sempre violato la Costituzione e leggi del suo Paese e ne ha imposte altre che poi sono state giudicate, a una a una, incostituzionali dalla Consulta? Ma tutto ciò senza perdere di vista i suoi interessi personali: primo, Mediaset, salvare dall’onta del satellite il soldato Fede; secondo, le intercettazioni: prigione e multe altissime per chi intercetta i sospetti di delitti odiosi pericolosi, destinati a ripetersi, e per chi, quando gli atti del processo sono legalmente e anzi doverosamente usciti dal segreto istruttorio e legalmente disponibili, osasse pubblicarli. In tutti i Paesi democratici vale il principio che «il processo è pubblico». È una garanzia per le vittime, per gli imputati, ma anche per tutti i cittadini.
Avvocati e giuristi di Berlusconi hanno già dimostrato di non provare alcun imbarazzo nel cambiare le leggi di quei processi che non si sentono in grado di vincere (hanno visto le carte e conoscono la vera storia).

Quanto ai giornalisti indipendenti italiani, sentite Bruno Vespa in una delle sue “rubriche” diffuse in tutta la provincia italiana: «La nuova controversia tra Berlusconi e i magistrati di Milano sembra l’ultima sgradevole puntata di una telenovela cominciata quindici anni fa, quando il Cavaliere decise di abbandonare la dura trincea del lavoro per scendere in campo nella politica. In realtà non è così (...). Il presidente che deve giudicare Berlusconi, Nicoletta Gandus, è un avversario politico. Da molti anni è una star di Magistratura democratica (...). Nel motivare la richiesta di cancellazione delle leggi Schifani, Pecorella, Cirami, Cirielli sostiene che esse sono state motivate al fine di perseguire l’interesse personale di pochi, ignorando la collettività. Si tratta di leggi che hanno devastato il nostro sistema di giustizia (...). Senza entrare nel merito di queste opinioni, può un dichiarato avversario politico giudicare in tribunale il capo del governo che combatte?» (Quotidiano Nazionale, 19 giugno). Avete capito il delitto imperdonabile in un Paese libero? Il giudice Gandus, che deve giudicare Berlusconi, non fa parte della P2. È membro di una libera, civile, legale associazione detta Magistratura democratica. Inevitabile inviare un pensiero al decoroso silenzio dei 62 arrestati e trecentocinquanta incriminati caduti tre giorni fa nella maxi-retata dell’Fbi contro i più potenti personaggi di Wall Street, portati via in manette tra due ali di operatori di Borsa che per alcuni minuti (succede di rado) hanno sospeso le contrattazioni. Nessuno di loro, personaggi del gran mondo finanziario americano, presidenti di Banche d’affari, patron celebri e celebrati di tutti i musei e gli ospedali di New York (dove alcuni hanno un reparto col loro nome) ha fiatato. Né lo hanno fatto i celebri avvocati a cui si sono affidati. Eppure sanno che, nella tradizione e prassi giudiziaria americana, alcuni giudici sono repubblicani e altri democratici. Alcuni giudici, nei distretti federali in cui questi imputati saranno giudicati sono stati nominati da Carter, alcuni da Reagan, alcuni da Clinton (che in silenzio si è sottoposto a tre diversi processi) e alcuni da uno o dall’altro dei due Bush.

Ma, nella civiltà democratica, i giudici non si scelgono e non si discutono e la ricusazione è ammessa solo per legami d’affari, d’amore o di famiglia di uno dei giudici con una delle parti. Altrimenti mai, per non affrontare il famoso reato americano di “oltraggio alla Corte”, che scatta quando l’imputato, invece di lasciarsi giudicare, si mette a giudicare il giudice. Tutto ciò avviene nel Paese in cui, una volta condannati, non si va in Parlamento, si va in prigione.

Particolare curioso (come si diceva una volta sulla Domenica del Corriere): tutti e quattrocento gli arrestati o incriminati di Wall Street erano sotto intercettazione da mesi. Molti dei reati contestati ai grandi di Wall Street, infatti, sono reati tipicamente telefonici, e dimostrabili solo con l’intercettazione, come l’”insider trading” (fornire a uno notizie che devono restare segrete per arricchirsi in due). E nessuno sostiene, pena il ridicolo, di essere vittima di una persecuzione politica. Chi poi, in quel Paese civile, avesse scritto, da titolare del potere esecutivo, una lettera al Presidente del Senato (istituzione legislativa) per levare accuse contro i suoi giudici (istituzione giudiziaria), avrebbe prontamente ottenuto, oltre al ridicolo (in democrazia non si può giocare il potere esecutivo contro il potere giudiziario usando il potere legislativo) una imputazione in più.

* * *

Qui mi devo confrontare con l’iniziativa appena presa dai Radicali, una proposta di legge costituzionale a firma Rita Bernardini, con cui si intende abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Vuol dire che un giudice agisce immediatamente e di propria iniziativa appena ha notizia di un reato. I codici dicono quali. Ovviamente non si tratta di cose futili.

L’idea di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale (assente quasi solo nelle legislazioni anglosassoni) è certo meritevole di attenzione e discussione. Per esempio per il fatto che identifica meglio la responsabilità dei giudici e diminuisce il numero dei processi. Stimo i miei colleghi Radicali ma non sono d’accordo.
Chiedo: si può in Italia? In questa Italia? Proprio qui passa la linea di demarcazione. Ci sono coloro che sostengono che, a parte la coloritura manageriale e padronale, non c’è niente di speciale o così diverso in Berlusconi rispetto a ogni altro capo di governo. Non esiste il berlusconismo. E se esiste è qualcosa che riguarda Giannelli o Staino, Vauro o Vincino ma non la politica.

E poi ci sono coloro che vedono il berlusconismo come una potente e ben finanziata spinta del Paese fuori dalla democrazia anche a causa di un controllo mediatico quasi totale, che tende ad estendersi attraverso i premi che derivano dal conquistare benevolenza (Berlusconi è un buon padrone) e dalle punizioni (fino alla riduzione al silenzio) di coloro che - nel suo insindacabile giudizio - sono dichiarati nemici.

In questa Italia l’obbligatorietà dell’azione penale resta l’unica garanzia che potenti e prepotenti, soprattutto sul versante politico e di affari, non restino impuniti. Cito Emilio Gentile: «Nel 1922 Amendola, Sturzo, Salvatorelli presero a usare il vocabolo “totalitarismo” quando il sistema parlamentare italiano non era ancora molto dissimile dalle altre democrazie europee. Però essi osservarono come il partito di Mussolini operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di partito incompatibile con la democrazia e inevitabilmente destinato a creare un sistema totalitario» (intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 19 giugno). L’obiezione tipica è: «Ma che cosa c’è di più democratico di una valanga di voti per qualcuno noto in tutto, compresi i suoi difetti e i suoi reati?».

Emilio Gentile ha una risposta interessante: «Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo è una tecnica politica che può essere applicata continuamente a una società di massa. Potrebbe accadere anche oggi: una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione». È un’affermazione limpida, logica, difficilmente confutabile se non per ragioni di fede. Ma la fede riguarda i berlusconiani.
Quanto a noi oppositori, quanto a quelli di noi che vedono il pericolo del singolare totalitarismo berlusconiano, non avremmo diritto di avere i nostri Amendola, Sturzo e Salvatorelli?

È con questi nomi e con queste citazioni in mente che chiedo ai miei amici Radicali del Pd, della cui presenza in Parlamento sono lieto come di una garanzia: si può in questa Italia, in cui il giornalista Vespa riproduce all’istante e con convinzione indiscutibile, solo le ragioni del premier imputato; si può in questa Italia in cui il più forte ricusa giudici, accuse, processo in nome della sua forza e dei suoi voti; si può in questa Italia in cui si è già tentata, da parte dell’allora ministro Castelli, una “riforma” che mette tutti i giudici agli ordini di pochi procuratori generali; si può in questa Italia in cui l’opinione pubblica è messa a tacere dal controllo quasi totale dei media, si può introdurre una riforma «anglosassone», cioè di Paesi in cui le istituzioni sono incalzate da un’opinione pubblica bene informata e da una stampa che non dà tregua?

* * *

Vedo nel berlusconismo una forma di potere in espansione, già molto prossima al pericolo citato da Emilio Gentile. Perciò dico no a questo regime e mi spiego.

1 - «Vogliono screditare il potere dei tribunali e decidere da soli che cosa è legalità». Cito da un editoriale del New York Times (19 giugno) che in questo modo propone l’accusa più grave alla presidenza di Bush. Perché i nostri colleghi americani vedono la portata del loro problema (scontro tra i poteri-pilastro della democrazia) e in Italia così tanti tra noi ti guardano come un disturbatore ossessionato?

2 - Lo stesso giorno la deputata Pd Linda Lanzillotta (destra della sinistra) e la ex senatrice Rina Gagliardi (sinistra della sinistra) hanno questo, rispettivamente, da dire:
Lanzillotta: «Eppure dovremo dire anche dei sì (a Berlusconi, ndr) almeno su alcune decisioni annunciate». Quali saranno queste decisioni annunciate, nei giorni in cui il politologo Giovanni Sartori scrive, a proposito di Berlusconi: «Nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono solo i dittatori» (Corriere della Sera, editoriale, 21 giugno)?

Gagliardi: «A me star lì a dire sempre no non mi piace perché mi pare un radicalismo solo apparente. Risolve il quotidiano, dà un po’ di soddisfazione ai tuoi che ti vedono con la faccia scura davanti a Berlusconi. E poi?» (Corriere della Sera 19 Giugno).

E poi, Rina Gagliardi, si fa opposizione, che vuol dire tenere testa a un governo evidentemente pericoloso, come si fa in tutti i Paesi democratici. Credo che sia utile ricordare alle due esponenti politiche ciò che l’ex ministro delle Comunicazioni-Mediaset Maurizio Gasparri ha appena detto a Walter Veltroni dopo l’annuncio di una grande manifestazione popolare proposta dal segretario Pd all’Assemblea del partito (20 Giugno): «Veltroni non ha nessun diritto di parlare, con tutti i debiti che ha lasciato. Taccia e faccia opposizione» (Tg 1, 20 Giugno, ore 20).

3 - «Tacere e fare opposizione» è il motto perfetto per definire questa Italia berlusconiana e il pericolo che corre. Se, come sta accadendo, il berlusconismo continua ad espandersi e a conquistare per il suo capo e i suoi uomini sempre più franchigia, sempre più esenzione dalle sanzioni della legge, allora il silenzio dei cittadini, che non sentono voci alte e chiare di contraddizione al regime, quel silenzio può diventare il silenzio-assenso su cui punta il movimento berlusconista, e che ha già dato la sua paurosa prova in Sicilia.

4 - Come si vede e si impara dalla clamorosa parabola discendente di George Bush (dal 70 per cento di gradimento al 70 per cento di rifiuto, nonostante la sua seconda elezione sia stata un trionfo) l’opposizione netta, vigorosa, visibile, su ogni punto chiama i cittadini e porta risultati persino a partire da una minoranza sconfitta. Quella minoranza, in America, non ha mai ceduto, non ha mai fatto cose “insieme” con il suo avversario, perché accusato di illegalità e di avere violato la Costituzione. Alla fine della lunga marcia quella minoranza ha incontrato il Paese, e, divenuta maggioranza a causa della sua testarda opposizione, si appresta a guidare una nuova epoca per gli Stati Uniti.
Perché questa non potrebbe, non dovrebbe essere la nostra storia?
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 22.06.08
Modificato il: 22.06.08 alle ore 14.40   
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Titolo: Furio COLOMBO - ... un articolo di Furio Colombo tratto da l’Unità
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 11:42:41 pm
Pubblico un articolo di Furio Colombo tratto da l’Unità

 

C’è chi non si rassegna. Come Emma Bonino, che dice chiaro e fuori dai denti e con un po’ di maleducazione quello che pensa dello storico momento politico che il Paese sta attraversando, tra benedizioni papali, atti di sottomissione dello Stato alla Chiesa da alto medioevo (anche per esasperata, simbolica teatralità). Una Repubblica laica e indipendente che va in Vaticano rappresentata da un Gentiluomo vaticano, il sottosegretario Gianni Letta (e pensare che Filippo Facci era giunto a scrivere su Il Giornale che Fiamma Nirenstein, vice presidente della commissione Esteri della Camera, Pdl, non può parlare a nome dell’Italia sulla questione di Israele perché è ebrea) e un bel pacchetto di atti crudeli, inventati, costosi e inutili, quasi tutti contro i rom, certo più legati di Bossi e Borghezio alle radici cristiane d’Europa.

Ma ecco perché Emma Bonino è stata così duramente redarguita e rimessa al suo posto dall’editorialista del Giornale Giancarlo Perna. Perché si era permessa, da persona politica di una certa esperienza, di anticipare e interpretare le ragioni della «gioia» del Papa. Si ricorderà che parlando ai vescovi italiani, il Pontefice aveva lodato la nuova armonia (traduzione: la mancanza di confronto democratico tra opposti punti di vista di governo e minoranza) nella vita pubblica italiana. Parlare di «gioia» per l’Italia dopo la caccia ai rom di Ponticelli e prima della caccia ai rom di Venezia, «è un po’ patetico» come dice, commentando le parole del Papa, la Bonino. È vero che l’ex ministro di Prodi («La persona con cui lavoro meglio» aveva detto il professore mentre lei portava a casa, di mese in mese, risultati sempre migliori, e ormai sfumati, nel commercio con l’estero) intendeva soprattutto anticipare il senso profetico di quelle parole. In pochi giorni, il capo della Chiesa e dello Stato Vaticano avrebbe ricevuto il baciamano di sottomissione completa della Repubblica italiana, e la garanzia dei dovuti versamenti per le scuole private cattoliche.

Ma la Bonino avrebbe dovuto sapere che in questa Italia del pensiero liberale (che copre tutta l’area di consenso dalla corporazione Malpensa alla corporazione tassisti) certe cose, se riguardano il Papa, non si possono dire. O meglio si possono dire solo lodi ed esaltazioni, meglio se esagerate, come fanno, scaltri, tutti i telegiornali. Annunciano, con il tono di voce dei “Giornali Luce” di un tempo, che «è durato un’ora e mezzo l’incontro di Berlusconi con il Santo Padre». L’ora e mezza, record di tutti gli incontri mai avvenuti fra un rappresentante politico e il rappresentante di Dio, si raggiunge sommando l’incontro Berlusconi-Papa più l’incontro Berlusconi-Cardinal Bertone, più l’offerta di diamanti e pietre preziose (imbarazzante, no?) in nome della sottomessa e pacificata tribù italiana al re della Chiesa. Più i complimenti al “giovane” Gentiluomo vaticano in veste di sottosegretario italiano, più il tempo che c’è voluto a Berlusconi per aggiustare la giacca del capo del protocollo di Palazzo Chigi, a quanto pare troppo abbottonato.

La disgraziata Bonino, invece, ha parlato di “questua”, e la parola le viene buttata addosso come olio bollente, con una evidente nostalgia di celebrare la gioia papale alla Giordano Bruno.

Non c’è bisogno di essere credenti, basta essere militanti del nuovo ordine, per dare alla peccatrice radicale ciò che le spetta, e che spetta ai suoi compagni radicali di malefatte. Quali malefatte? Darsi da fare per essere eletti, se non hai santi in paradiso, se non hai in terra una mano invisibile che vede, provvede e - al momento giusto - concede. In quei casi sfortunati devi cercare fondi e sostegni alla luce del sole, devi chiederli ai cittadini e agli alleati. Ma qui cade l’asino. La logica dell’accusatore del foglio liberale Il Giornale, organo del Popolo della libertà, è implacabile: come osa una mendicante rimproverare al Papa la nobile questua con cui la Chiesa chiede allo Stato di pagare le scuole cattoliche?

«Sarà l’effetto dei 60 anni che la biondina di Bra ha appena compiuto» osserva l’articolista con delicatezza. Il suo fa parte del gruppo di giornali disposti a qualunque vendetta e ritorsione (per non parlare delle aggressioni preventive) contro chiunque osi accennare, anche per sbaglio o per equivoco, ai tratti fisici dei campioni di destra. Vorremmo ricordare (insieme a molte volonterose istituzioni religiose) che oggi - mentre scriviamo dall’Italia di Bossi-Borghezio-Calderoli-Castelli-Maroni - si celebra nel mondo “La giornata del rifugiato”. Proprio oggi (scrivo il sabato 7 giugno) dieci di quei rifugiati sono stati trovati cadaveri in mezzo al Mediterraneo da un peschereccio italiano che - in violazione della futura legge Maroni - ha soccorso i sopravvissuti, tra cui donne e bambini. Li hanno salvati con l’espediente delle gabbie del tonno (si cala la gabbia in mare e si tenta di prendere i corpi) per poi consegnarli a quel tipo di casa-albergo detto Cpt. Le cose vanno in questo modo: o finisci in fondo al mare o vieni salvato, trattato da clandestino e rispedito alla fame e alla minaccia di morte da cui speravi di fuggire in nome del tuo diritto di essere umano.

Sul senso di questa giornata ci illumina il Capo di stato maggiore della Difesa generale Vincenzo Camporini: «Gli aerei senza pilota “Predator”, impiegati anche in Afghanistan, sarebbero sicuramente un modo molto economico per pattugliare i mari e impedire lo sbarco dei clandestini» ha detto il capo dell’esercito italiano durante l’esercitazione aereo-navale italo-maltese “Canale 2008”.

«Ben venga il Predator se è un mezzo per risolvere a fondo il problema» ha commentato il sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga (Corriere della Sera, 7 giugno). La parola «a fondo» non è mai stata più appropriata per celebrare la festa italiana del rifugiato.

***

Resta la domanda, e anzi si ripropone con forza specialmente se, come sostiene l’organo del liberalismo italiano, ha torto la Bonino che, a causa dell’età, comincia a straparlare benché sia di un decennio e mezzo più giovane del giovane presidente del Consiglio. Che cosa ha il Papa di cui “gioire” nell’Italia più cattiva, punitiva, carceraria, ingegnosamente attiva in ogni aspetto e modo di perseguitare chiunque sia colto in condizioni di inferiorità e debolezza? Che cosa avrà da far festa il Papa in un’Italia che si sarà forse ingessata in certe sue funzioni politiche (come quella di dire no) ma si spezza sulla decenza, sulla tolleranza, sulla tradizione di civiltà, sul rispetto degli esseri umani. E scatena in piena guerra di camorra e in piena tempesta economica (il petrolio a 140 dollari al barile, un’impennata di dieci dollari in un solo giorno) una guerra dello Stato e della forza dello Stato contro tutti i deboli? Le vittime scelte e designate per i pogrom di Stato sono gli immigrati, da considerare tutti sospetti. Sono gli zingari, da definire tutti e pubblicamente “ladri di bambini”, persino se non è mai (mai) accaduto. Sono i clandestini, da associare alla peggiore delinquenza o alla sicura intenzione di delinquere (”vengono qui per commettere reati”), sono le prostitute, immediatamente definite “criminali”, evidentemente capaci di generare, malevolmente e da sole, l’alto patrocinio dei padri di famiglia italiani, compresa una massiccia parte di Popolo della libertà e di leghisti (per naturali, non confutabili ragioni statistiche) che affollano certe strade italiane.

La fantasia dei persecutori (per capire suggerisco di ascoltare una o due frasi di Borghezio, poi tradotte in italiano dal ministro dell’Interno Maroni, che si finge normale ma è il braccio armato di sentimenti di rivincita e di vendetta che si stanno appena rivelando) però non si placa tanto presto. Geniale l’idea di sequestrare le case affittate ai clandestini, trovata intelligente e crudele per buttare preventivamente sulla strada, con bambini e stracci, gente che lavora e che finora ha pagato cifre oltraggiose per alloggi troppo disumani anche per un film. Ma adesso il passaparola febbrile fa scattare i comportamenti da Ku Klux Klan prima che sia iniziata la discussione di ciascuna delle vergognose leggi di cui stiamo parlando. I padroni di catapecchie le svuotano subito, prima che passi la polizia e senza distinguere. Lo Stato ci sta dicendo che sono tutti feccia. A Roma la polizia si presenta nelle portinerie, rispondendo a soffiate. A Milano si fanno rastrellamenti sui tram finora vietati dalla Costituzione. Qualunque cliente stradale - tra cui ottimi padri di famiglia - si sentirà in diritto di abusare in tutti i modi, psicologici e fisici, di una prostituta. «Che lo vada a dire alla polizia». Intanto i “blitz”, bella parola militare che fa irruzione nelle notti di gente stanca di povertà e di lavoro, si ripetono in tutti i campi nomadi, Forze dell’ordine e volontari, tanto non c’è nessuna norma da rispettare. Tutto sta avvenendo mentre il “pacchetto sicurezza” è stato molto annunciato, ma nulla di esso è stato finora discusso nel luogo chiamato Parlamento.

I vescovi hanno già fatto sapere che su alcune di queste ignobili norme persecutorie non sono d’accordo. Ma l’Italia dell’asse Gentilini-Maroni-Berlusconi farà finta di niente. Dopotutto i clandestini non sono embrioni, le prostitute, nonostante il Vangelo, non c’entrano con la sacralità della famiglia, gli immigrati si adattino a venire in Italia rispettando i “flussi” (che non esistono). Se non li rispettano, sono prede libere, come in certi allucinanti giochi di delirio sul futuro.

Vorrei ricordare ai miei colleghi dell’opposizione l’esemplare storia di Tokyo Rose. Era una bella voce di donna, apparentemente americana, con lieve e gentile accento del Sud, che la propaganda giapponese ha usato con straordinario successo per fermare o rallentare l’avanzata - e persino la resistenza e la tenuta psicologica - dei soldati americani, inglesi, australiani, nascosti nelle paludi o impantanati nelle trincee in attesa di attaccare. La voce di Tokyo Rose, che ascoltavano da migliaia di altoparlanti per decine di chilometri, ricordava ai ragazzi yankee accampati in una giungla estranea, migliaia di miglia lontani da casa, come è dolce la vita, come è quieta e tranquilla se non insisti nel far la guerra ai giapponesi. Sosteneva che c’è tanto da condividere se si smette di combattere, sussurrava di donne, belle come era bella quella voce, che li aspettavano. I libri di storia americani ricordano Tokyo Rose come il più grande tentativo di guerra psicologica. Centinaia di soldati alleati hanno disertato per scomparire dall’altra parte della giungla. I giapponesi volevano soldati-ombra. Per fortuna solo pochi sono caduti nella trappola.


da andreasferrella.wordpress.com



Titolo: Furio COLOMBO - Zingari
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 05:57:23 pm
Zingari

Furio Colombo


Uno strano errore è stato commesso e ripetuto dai diversi schieramenti che, nel corso di 15 anni, si sono opposti, spesso con tollerante mitezza all’impero di Berlusconi (nel senso di tutti i soldi e tutte le televisioni con cui fa politica). È stato l’errore di dire e pensare che Roberto Maroni fosse il più umano e normale dei leghisti, niente a che fare con vergognose figure come Borghezio e Gentilini.

Un errore grande. Non c’è alcuna differenza fra Maroni e Borghezio o Gentilini. Il ministro degli Interni di un Paese democratico che ordina di prendere le impronte digitali di migliaia di bambini italiani o ospiti dell’Italia, solo perché quei bambini sono Rom, è fuori dalla nostra storia di paese libero. È estraneo allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione, è ignaro del fascismo da cui ci siamo liberati e di cui ricordiamo con disgusto, fra i delitti più gravi, l’espulsione dei bambini italiani ebrei dalle scuole italiane.

È stato uno dei peggiori delitti perché quella umiliazione spaventosa a cui sono stati sottoposti i più piccoli fra i nostri concittadini ebrei, alla fine ha generato lo sterminio. Il ministro degli Interni non è così giovane e così ignaro, per quanto la sua formazione sia immersa nella barbara e claustrofobica visione

Il ministro dell’Interno sa, e non può fingere di non sapere che obbligare i bambini di un gruppo etnico (molti radicati in Italia da decenni, alcuni da secoli) alle impronte digitali vuol dire lacerare la nostra vita, spaccare e isolare dal resto del Paese una parte di coloro che vivono e abitano con noi. Vuol dire indicare a tanti, che hanno più o meno la sensibilità morale del ministro, “gli zingari” compresi “i bambini zingari” come estranei, reietti e degni di espulsione. Chi è indicato come “da escludere” diventa per forza qualcuno da perseguitare.

Si noti un particolare davvero disgustoso e non accettabile: l’impronta verrà presa prima di tutto e più facilmente ai bambini che vanno a scuola e verranno che marchiati di fronte ai compagni. E sarà una umiliazione grave per la Polizia italiana. L’ideologia conta poco e nessuno, salvo xenofobia e razzismo, conosce uno straccio di ideologia della Lega. Ma la decisione di sottoporre i bambini di un gruppo selezionato come nemico all’umiliazione delle impronte digitali è una decisione fascista.

Mi impegno a tentare con le mie prerogative di parlamentare di impedirlo. Chiedo ai colleghi Deputati e Senatori che si riconoscono nella Costituzione di volersi unire per difendere i bambini Rom, l’onore della nostra Polizia, ciò che resta della nostra civiltà democratica.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 27.06.08
Modificato il: 27.06.08 alle ore 11.05   
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Titolo: Furio COLOMBO - Opposizione
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2008, 06:45:35 pm
Opposizione

Furio Colombo


«Chi lo ha votato lo fischia», potrebbe essere lo slogan di questi giorni. È uno slogan che descrive bene uno studio sociologico sul rapporto degli italiani con la vita pubblica. Politicamente serve poco. Perché il Berlusconi fischiato è identico al Berlusconi votato. Il Berlusconi votato non ha mai fatto nulla per nascondere il Berlusconi fischiato. C´è infatti un´unica cosa di cui non si può accusare Berlusconi: fingersi democratico. Usa la parola, certo. Ma solo per parlare di se stesso, della sua immunità, dei suoi meriti, dei suoi poteri, del suo governo. La sua è la democrazia di uno solo, una democrazia che - come si sa - non esiste, o almeno ha un altro nome, meno benevolo: autoritarismo totalitario. Ma l´uomo in questione è sempre stato così, si è manifestato e presentato esattamente così in ogni istante della campagna elettorale: accusa, sospetto, insinuazione, ansia di persecuzione, ricerca, a momenti persino affannata, di potere, di altro potere, di più potere. La controprova è nel rileggere, anche a caso, vita e avventure di Silvio Berlusconi nel suo precedente periodo di governo. Se non ci fosse il senso di pericolo ci sarebbe la noia, tanto è netta la continuità e forte la somiglianza con e tra tutto ciò che ha già detto e già fatto. È vero, ci sono istanti in cui Berlusconi prova su di se l´immagine dello statista. Ma, appunto, sono istanti. Le folte squadre di cronisti fedeli e di telecamere debitamente inclinate non fanno in tempo a stampare lodi e trasmettere servizi, che il premier ha già cancellato tutto di sua iniziativa.

Niente statista. Non gli interessa. La vita è vita se è caccia al nemico. Il nemico, a causa di un grumo di memoria privato e pubblico, fisico e politico, di paura e di battaglia, prende il nome di "cancro giudiziario". Seguìto dall´esito peggiore: i giudici come metastasi. Due terrori si impastano in un´unica lotta che è più facile da condurre: quella politica. Cercherò di fare un inventario di ciò che vedo intorno. *** Accanto a me, alla Camera, noto la vitalità di Di Pietro. Attacca tenace, riprende da capo. Non molla neppure per un istante l´impegno della legalità, come simbolo, come condizione democratica, come denuncia. Potete dire che è un ritorno all´indietro ma come definire il pauroso bradisismo italiano in cui ci fanno vivere? Siamo tutti testimoni di un Paese che si abbassa e continua ad abbassarsi di livello, qualità, dignità, e anche: quanto a risorse, forza produttiva, capacità commerciale, credibilità (ormai perduta) di ex protagonista sulla scena europea e del mondo. Ma anche per impoverimento della vita quotidiana di tanti in Italia. Si ha un bel dire che Di Pietro rifà gli stessi percorsi del giustizialismo e dei girotondi. È vero, ma è vero per forza.

L´attacco di Berlusconi ai giudici supera la pur geniale invenzione cinematografica di Moretti. Lo strano e incattivito malumore antigirotondi si sta dissipando persino nella migliore sinistra. Saranno davvero così irritati i nostri ex leader della ex sinistra se tornassero i cittadini a dire il loro no democratico, il loro sì alla Costituzione, accanto all´opposizione? Inutile negarlo. Nel momento in cui irrompe in scena l´annuncio esplicito e sincero di attacco senza quartiere all´intero impianto giuridico del Paese, si può rimproverare a Di Pietro di farsi trovare sul percorso con una barricata di irruenti argomenti che, come primo, indispensabile risultato, frenano o almeno denunciano l´istinto di devastazione del premier travolto dai suoi fantasmi? Dicono che il linguaggio di Di Pietro sia eccessivo. Certo "magnaccia" è una parola pesante, sia pure per definire Berlusconi mentre, dall´alto del suo immenso potere politico-finanziario, è impegnato a sistemare alcune ragazze. Bonaiuti e Ghedini annunciano querele. È il loro lavoro. Si può capire. Ma "cancro" e "metastasi", le parole usate da Berlusconi per descrivere i giudici, vi paiono lievi?. Il cancro si elimina col bisturi. Dunque la parola è più dura e più tragica. Chi la denuncerà? L´astuto uomo di Arcore è caduto nella trappola: fa scenate in pubblico sui suoi affari privati davanti a platee ansiose che lo avevano eletto in cerca di risposte alle paure e ai rischi di tutti. Volete dire che la gente si aggira per i mercati rionali, dove il prezzo di frutta e verdura sale ogni giorno come il petrolio, mormorando «maledetti giudici»? Pensate che nel fare il pieno di carburante il camionista scambi con l´uomo della pompa volgari ma sentiti giudizi sul CSM che blocca il loro lavoro assolvendo la Forleo e annunciando troppo presto che il lodo Schifani è anticostituzionale? Quanti commercianti sono stati stroncati dal complotto dei giudici che vogliono a tutti i costi processare Berlusconi? Sanno tutti che la piccola e media impresa era nel panico, quando Rete Quattro stava per finire sul satellite. Infatti una volta salvata la rete del premier e la sua pubblicità, la Marcegaglia, a nome di tutta l´impresa italiana, ha potuto tirare un respiro di sollievo e dire al Paese: «Finalmente un clima costruttivo». E Augusto Minzolini, il bravo "retroscenista" che coglie al volo i segni premonitori del nuovo berlusconismo (che è una dose da cavallo del berlusconismo originale) può scrivere: «Tutto questo (il normale lavoro dei giudici, ndr) ha spinto il Cavaliere a scegliere la via maestra, quella che conosce meglio: alzare la voce e decidere. Del resto è sempre più sicuro di avere la gente con sé». «Alla Confesercenti che è di sinistra, c´è stato chi mi ha fischiato ma anche chi ha applaudito le mie critiche ai magistrati (ha detto di loro «cancro» e «metastasi», ndr). Gli italiani sono con me». (La Stampa 26 giugno).

Commentare è un po´ imbarazzante. Si tratta di una situazione mentalmente fuori controllo. È bene ricordare lo stato delle cose per capire se è vero o non è vero che Di Pietro esagera, quando si lancia, ogni volta, come un pompiere da film, contro i sempre nuovi focolai accesi e disseminati tra le istituzioni italiane dal piromane di Arcore.
***
Nel paesaggio italiano, per quanto triste, ci sono altri eventi che meritano di essere osservati affinché una descrizione del momento non sembri una passeggiata nel Foro romano. Mi riferisco all´evento organizzato dai Radicali invitando tanta gente a discutere a Chianciano. E poi al dopo Chianciano e agli appuntamenti che, con il nome del primo incontro, continuano e continueranno ad avvenire a Roma. L´iniziativa di Pannella è questa: troppe persone sono rimaste fuori dalla politica, perché estranee ai partiti presenti ora in Parlamento. Questo vuol dire fuori dalla televisione. Fuori dall´inseguirsi dei dibattiti quotidiani. Vuol dire troppo silenzio. Si può dissentire in molti modi dai Radicali (io dissento nel rapporto con la giustizia, nella richiesta di abolizione dell´azione penale obbligatoria, nel giudizio drastico sui sindacati). Ma, dal mio punto di vista, è impossibile non fare causa comune con i Radicali in tutta l´attività della Associazione Luca Coscioni, del Tibet, di "Nessuno tocchi Caino", di "Iraq libero" (che voleva dire: via Saddam e niente guerra). Però - d´accordo o non d´accordo - è impossibile non cogliere nel lungo percorso di Pannella fino ai giorni nostri, il seme pedagogico dello spingere alla discussione politica, in tutti i modi e per qualsiasi ragione. Nel caso di Chianciano, la ragione più importante era evitare il silenzio. Il campo è sgombro da equivoci perché, come sempre accade dalle parti dei Radicali, non c´è l´ombra del potere. Ricordo un piccolo film scritto da Woody Allen, quando era già autore geniale ma non ancora regista. In quel film i soldati cominciano a gridarsi frasi da una postazione all´altra, poi si intestardiscono a precisare e a chiarire. Lasciano i bunkers opposti e si lanciano in una discussione di ognuno con tutti gli altri. Quasi allo stesso modo, Chianciano ha risposto (o cercato di rispondere) a una domanda che tormenta molti: e adesso con chi parlo di politica? E dove? Il senso era, mi pare, interrompere la solitudine e i tanti monologhi un po´ autistici che ti raggiungono da tutte le parti. Io non c´ero a Chianciano. Ma - ascoltando Radio radicale - ho l´impressione che la strana idea stia funzionando. In ogni caso continua. E mi piacerebbe che contagiasse il Partito democratico. *** Veltroni ha fatto tutto il possibile. Ha afferrato per i capelli una campagna elettorale che poteva essere vuota e ha riempito molte piazze. Ha perso una cosa, le elezioni, e ne ha vinta un´altra: l´inizio dell´esistenza e della vita politica di un partito che non c´era, il Pd. Adesso però comincia la prova più importante: fare del partito la piazza. Una piazza in cui la storia non comincia e non finisce nel discorso del leader e negli "interventi" dei vice leader. Una piazza in cui "si parla con" e non "si parla a". No, non sto celebrando l´assemblearismo. Sto cercando il tipo di democrazia che alza la soglia di dignità e di passione dei cittadini attraverso la partecipazione. Uno spazio nato per essere crocevia di nuovo impegno comune e di impegno urgente, in un tempo molto pericoloso. Il Pd non può diventare un circolo ufficiali, con un annesso club dei cadetti. La truppa e le salmerie aspettano fuori. Mentre il vice ammiraglio Bindi discute animatamente con il maggiore Fioroni e il colonnello Parisi avverte il Comando del suo dissenso alla presenza dell´aiutante di campo Realacci, la truppa là fuori potrebbe andarsene. «Ci sentiamo soli» hanno detto alla nostra Maria Zegarelli (l´Unità 27 giugno) i cittadini rimasti fedeli alla Festa dell´Unità di Roma (si chiama ancora così, come quando c´era la sinistra) evidentemente in attesa di essere raggiunti da un segnale che voglia dire «siamo qui, siamo insieme, ecco ciò che stiamo per fare». Difficile non capirli, dati i tempi. Sono i tempi di un feroce, nevrotico attacco alla Giustizia. si sta creando come se fosse ovvio, normale, tipica una vistosa condizione di incompatibilità mentale e ambientale tra Berlusconi e la sua carica. Sono i tempi del tentativo del premier di essere esente da ogni imputazione come nessun premier al mondo (salvo monarchi e Capi di Stato). Sono i tempi delle punizioni che si abbatteranno su chi oserà pubblicare atti veri e legali (come le intercettazioni dei giudici), in modo che il potere risulti intoccabile. Sono i tempi in cui i due ministri degli Esteri e della Difesa italiani chiedono insistentemente che i soldati italiani, che già sono impegnati a tentare progetti di aiuto e di pace, questi soldati, trattati come se fossero imboscati, vengano finalmente mandati a morire. Intanto aerei da combattimento costosi come ospedali vengono generosamente offerti in modo così precipitoso da far dire ai colleghi della Nato: «va bene, va bene, un momento di pazienza...». E certo l´ansia dei due ministri italiani deve avere provocato qualche sorpresa. Nessuno è così impaziente di spingere nei punti peggiori di un fronte i propri connazionali. Sono tempi di ronde, di vigilantes, di impronte digitali ai bambini Rom, di militarizzazione di un Paese che fino a poco fa era in pace.

Ma, diciamo la verità, sono i tempi del silenzio. E questo isola e angoscia i milioni di italiani che hanno votato per il Pd. Non potremmo, non dovremmo chiudere il circolo ufficiali e unirci con atti e parole forti, e impegni immediati, e chiarissimi "no", ai cittadini che aspettano? È vero, ci sono cose che il governo di Berlusconi sta proponendo che sono, allo stesso tempo, odiose, immorali e "ben viste" dai cittadini, dopo che con tanto impegno è stato seminato il sospetto e coltivata la paura. Adesso, come si sa, la parola-grimaldello, capace di far saltare ogni obiezione, anche a sinistra, è "sicurezza", benché, fuori dalle regioni di mafia, camorra e ‘ndrangheta a cui il severo ministro Maroni non presta alcuna attenzione né prevede alcuna ronda, l´Italia sia il Paese statisticamente più sicuro d´Europa. Ma proprio questa è la prova più ardua e più alta: dire la verità quando tutti ti fanno credere un´altra cosa. Vorrei ricordare il libro "Profili nel coraggio" che nel 1959 ha reso celebre il suo autore, John Kennedy, e ha aperto la strada alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Era una serie di esempi di statisti che hanno avuto il coraggio di battersi per una causa persa, ma moralmente necessaria, fino a rovesciare il gioco e a vincere. Non varrebbe la pena di cominciare dai bambini Rom, di proclamare che siamo noi, il Pd, la loro difesa, fino a rendere impossibile questo trauma volgare e ingiusto a danno dei bambini? Non dovremmo essere noi, il Pd, a intervenire in difesa della Polizia italiana che finora non ha mai fatto foto segnaletiche di piccoli, italiani o stranieri, e si è occupata di loro (i bambini) solo per proteggerli? Non dovremmo cominciare subito con il partecipare ad una "giornata per la Giustizia" contro il tentativo di impiantare un potere senza limiti fondato sull´umiliazione dei giudici e su un Parlamento fantasma?
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 29.06.08
Modificato il: 29.06.08 alle ore 10.17   
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Titolo: Le impronte di Berlusconi
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2008, 09:31:27 pm
Le impronte di Berlusconi

Furio Colombo


C’è una frase che viene ripetuta all’infinito fin dal tempo (che ormai abbiamo dimenticato) in cui Silvio Berlusconi ha incominciato a invelenire l’Italia, creando sempre nuovi nemici e invitando sempre più cittadini a combattersi o a cedere, ciascuno nel suo campo e secondo il suo mestiere. I giornalisti o lo servono o gli gettano fango. I magistrati o si piegano o sono eversivi. I politici o accettano di chiamare «dialogo» il suo monologo, o vengono denunciati come sinistra «distruttiva» e «radicale» (con buona pace del partito di Marco Pannella il cui nome viene continuamente usato e abusato). Ma ecco la frase che viene ripetuta all’infinito: «Non basta essere contro Berlusconi. Bisogna dire per cosa si è e quale progetto di società si indica». Consciamente o no, buona fede o no, la frase finisce per suonare come un invito a posticipare: prima il grande e compiuto disegno della società che vogliamo e poi l’impegno contro Berlusconi. Questa volta colgo la frase da una pubblicazione (la rivista Left) da un articolo (l’attività tuttora in corso dei «mille di Chianciano», riuniti intorno all’invito di Pannella di discutere di una nuova politica) e da una protagonista, Elettra Deiana, già deputata della Sinistra Arcobaleno, che non si prestano all’introduzione negativa che io ne ho fatto. Vedo per forza vera ansia, vera fatica, vera ricerca sul come venirne fuori. Sia nel come partecipare non inutilmente alla vita pubblica di ogni giorno; sia come disegno di quel grande e famoso progetto a cui - ci dicono - è doveroso lavorare. Ma ci sono situazioni e momenti in cui non puoi dedicarti per prima cosa al grande progetto. Per prima cosa i cittadini ti chiedono: e adesso? E oggi? E stamattina? Mi rendo conto che questa domanda segna una linea di demarcazione fra chi, facendo politica negli anni e nei decenni, ha maturato la persuasione che i tempi lunghi ci sono comunque e che le grandi costruzioni (e le grandi speranze) richiedono tempi lunghi; e chi, entrato passionalmente in politica in un momento di emergenza (o che viene vista e vissuta come emergenza) crede alla risposta impetuosa e immediata.

Pesano su questa demarcazione anche la persuasione, a volte spazientita, del vecchio militante (sapessi quante emergenze abbiamo vissuto!) e l’irritazione dei giovani strateghi che hanno un altro senso del tempo e vogliono essere lasciati lavorare nelle diverse e «articolate» strategie. E percepiscono la tendenza a drammatizzare come il gesto di urtare il gomito di uno che, sapendolo fare, sta disegnando. Qualche lettore potrebbe chiedermi: se vedi con chiarezza le obiezioni che ti riguardano perché continui a urtare il gomito del disegnatore paziente? Non sarà un fatto umorale, che in politica conta poco?


* * *


Umorale la mia reazione al pesante e devastante ritorno di Berlusconi un po’ lo è. È addirittura una questione di età. Avevo la stessa età dei bambini Rom che questo governo italiano vuole obbligare a premere il dito sul tampone d’inchiostro per prelevare le loro impronte digitali, mentre gli altri bambini non Rom stanno a guardare.

Avevo la stessa età dei piccoli e umiliati Rom di oggi quando gli «ispettori della razza», scuola per scuola, classe per classe, hanno cominciato a fare l’appello dei piccoli ebrei per espellerli.

Ho raccontato molte volte il senso di scandalo che ho provato (i bambini possono e sanno indignarsi) di fronte al silenzio degli insegnanti. Nella mia scuola la buona maestra che ci raccontava ogni giorno una puntata di Pinocchio se stavamo bravi, il buon maestro, mutilato di guerra, che narrava episodi di eroismo da lasciarci tesi e ammirati, lo scattante giovanotto della ginnastica e il direttore didattico da cui ti mandavano a discutere (lui discuteva benevolmente con i bambini) di presunte o vere mancanze, tutti sono rimasti impassibili e in silenzio mentre continuava il tremendo appello. E persino se non sapevamo che quello era già l’appello di Auschwitz, il silenzio è stato la prima agghiacciante esperienza di molte piccole vite.

Ora vi pare che prima di impegnarmi con tutta la forza, l’offesa, l’indignazione, l’opposizione di cui sono capace contro le impronte a cui vengono obbligati i bambini Rom (metà dei quali sono italiani), vi pare che possa ammonire me stesso ripetendo la frase: «non basta essere contro Berlusconi, bisogna prima dire per cosa si è e quale progetto di società si indica»?

La mia, intanto, è una società che non perseguita nessuno e tanto meno i bambini e tanto meno i bambini Rom che sono parte di uno dei due popoli per i quali nazisti e fascisti e «difensori della razza» avevano previsto lo sterminio.

Può darsi che non abbia ancora chiare tutte le regole socio-economiche della società umana ed equilibrata che dovrà venire. Come mi insegnano Zapatero e Sarkozy, Angela Merkel e Barack Obama, forse i punti di riferimento di una più vasta azione politica potranno essere un poco più a destra o alquanto più a sinistra. Più fondati sull’impegno individuale oppure sul solidarismo che protegge i più deboli. Ma, per prima cosa, dobbiamo restare dentro il percorso della civiltà. Il decreto Maroni che impone le impronte ai bambini e obbliga ciascun Rom a dichiarare la propria religione (moduli del genere, sull’intimo e delicato territorio della religione non sono mai apparsi nella pur spaventata America dopo l’11 settembre, così come neppure una sola Moschea, in quel Paese, è divenuta territorio di incursioni delle varie polizie anti-terrorismo) il decreto Maroni colpisce la civiltà nei suoi punti vitali e tende a far uscire il Paese Italia da decenti regole civili. Io che ho visto cominciare questo percorso fondato sulla selezione di un nemico da isolare e separare cominciando dai bambini, non ho nessuna intenzione di ritornare sul problema solo dopo avere disegnato un progetto di società. L’offesa avviene adesso e adesso va fermata.


* * *


Accadono in questa Italia che ho appena finito di descrivere con ansia e costernazione, alcuni fatti che voglio elencare qui di seguito perché hanno importanza per tutti.

1. Per la prima volta nella storia italiana un alto funzionario dello Stato incaricato di eseguire, dice no alle impronte digitali dei bambini. È il Prefetto di Roma, Carlo Mosca. Non è la cosa più facile del mondo per un prefetto dire no al ministro dell’Interno. Maroni è ostinato e sordo alle ragioni che gli vengono da tante parti del suo Paese (non parlo di parti politiche, parlo di Chiese e di cultura, della comunità di Sant’Egidio, di Famiglia Cristiana, praticamente di ogni prete o associazione che abbiamo lavorato con e accanto ai Rom, della Comunità Ebraica italiana, delle Comunità Valdesi) perché rappresenta la Padania (cioè uno stato mentale fondato sulla persecuzione degli «altri») in Italia. È ministro della Repubblica italiana con i voti (tanti voti, certo) di alcune tribù del Nord che continuano a minacciare la scissione dall’Italia quando non vengono zittiti in tempo dal Capo Bossi, unico governo da loro riconosciuto.

Uno così che fa il ministro e che deve offrire vittime alle superstizioni delle sue tribù, sarà fatalmente vendicativo.

Ma il Prefetto Mosca non ha cambiato idea. Chiedo che gli italiani ricordino il caso unico del no limpido e chiaro, in nome della civiltà comune, dell’unico alto funzionario del Paese Italia (più noto nel mondo, per il diffuso opportunismo, il «tengo famiglia», una certa viltà, il silenzio dei miei maestri elementari di bambino e dei miei colleghi giornalisti di adesso) che abbia osato pubblicamente dire no al ministro di cui è rappresentante.

2. I «gagè» di tutta Italia hanno scritto, firmato e fatto circolare un appello che dichiara il decreto Maroni una violazione della Carta dei diritti dell’uomo (Nazioni Unite) della Unione Europea e di tutte le Costituzioni nazionali a cominciare da quella italiana.

Chi sono i gagè? Nella lingua rom «gagè» sono le persone non Rom (come i «goyim» nella lingua yiddish, sono i cristiani o comunque i non ebrei). Ecco un brano del loro appello, che ho avuto da Dijana Pavlovic, la giovane attrice e attivista Rom che scrive per questo giornale.

«Noi gagè credevamo che, dopo la fine della seconda guerra mondiale e le scelte della comunità internazionale, non fosse più possibile rivedere nei nostri Paesi i fantasmi di un passato che volevamo bandito per sempre. La carta dei diritti dell’uomo, le costituzioni nazionali, i trattati della comunità europea impediscono ogni forma di razzismo e ogni atto che discrimini e segreghi una minoranza etnica o religiosa (...).

Non è lecito in un Paese civile schedare i bambini. Tanto meno è ammissibile, per l’intera comunità internazionale, che questa schedatura avvenga su base etnica. Ma non è così per il nostro governo. Il suo ministro dell’Interno, uno dei capi supremi delle camicie verdi che inneggiano alla secessione padana, alla cacciata dei Rom ed extracomunitari, che percorrono in ronde minacciose le città, ha dato disposizione che i bambini Rom siano schedati con il rilievo delle impronte digitali.

(...) Questo è il volto avvelenato del nostro Paese. Ma i veri colpevoli siamo noi, i gagè, che credono nella propria superiorità etnica, esportano con la forza le proprie idee,aggrediscono un popolo che non riconosce confini, non ha terre da difendere con guerre, non ha bandiere in nome delle quali massacrare i diversi da sé».

Propongo che tanti aggiungano le loro firme a questo manifesto (tra i primi a sottoscrivere, Moni Ovadia) che si conclude con la dichiarazione «ci rifiutiamo di essere diversi. Pretendiamo che siano prelevate le nostre impronte digitali».

3. Ecco le ragioni per cui alcuni di noi hanno deciso di promuovere e partecipare all’evento dell’8 luglio. Non è un partito preso o un frivolo accanimento in luogo di una normale, serena opposizione. Non c’è niente di normale e niente di sereno in un Parlamento ingorgato di provvedimenti personali salva-Berlusconi, in cui i lavori sono diretti da presidenti che in realtà sono capi-partito e come tali vanno insieme al Quirinale a dire non ciò che provano o sentono tutti i deputati e tutti i senatori, come richiede il loro ufficio. No, vanno al Quirinale - coperti da quelle cariche - per dire ciò che vogliono i loro partiti. Ovviamente ciò richiede più che mai di dare tutto il nostro sostegno, da cittadini, prima ancora che da politici, al Capo dello Stato.

Ecco le ragioni che spingono alcuni di noi, e certo molti cittadini, e certo il popolo Rom, a incontrarsi adesso, subito, mentre il cosiddetto «pacchetto sicurezza» viene imposto al nostro Paese, triste timbro di discriminazione e razzismo. Come le leggi razziali del fascismo, questa irresponsabile serie di decisioni ci umilia in Italia, ci isola in Europa, ci separa dalla nostra Costituzione, interrompe il rapporto con la grande eredità della Resistenza a cui si deve la nostra libertà.

La nostra libertà è unica. O è intatta o non lo è. O ci riguarda tutti o costruisce una odiosa apartheid.

È bene alzarsi e dirlo adesso, con tanti cittadini e tanti Rom che ci hanno detto «veniamo», e con il loro coordinatore, Alexian Santino Spinelli (professore all’Università di Trieste) che parlerà insieme a noi. E poi ci saremo tutti in autunno, nella manifestazione politica già annunciata da Walter Veltroni con il Pd. E ci siamo ogni giorno in Parlamento per dire ben chiaro il nostro no, per tentare di cancellare sul futuro dell’Italia le impronte di Berlusconi.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 06.07.08
Modificato il: 06.07.08 alle ore 10.01   
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Titolo: Furio COLOMBO - Salviamo il Criminale Tareq Aziz
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 11:39:28 pm
Salviamo il Criminale Tareq Aziz

Furio Colombo


Se ci fosse - in questo Paese - un regolare flusso di notizie, molti si domanderebbero perplessi: ma perché adesso Pannella si mette a difendere Tareq Aziz? Ma Tareq Aziz non era il ministro degli Esteri e poi primo ministro di Saddam Hussein? E grande sarebbe la perplessità, e magari le e mail e gli sms per chiedere chiarimenti: che senso ha fare lo sciopero della fame per uno che era stato il numero due di Saddam Hussein? Rischiare la propria vita per la vita di un criminale, accusato di una cinquantina di impiccagioni? Tranquilli. Domande come questa non tormentano nessuno o quasi.

Perché nessuno o quasi ha mai sentito parlare, nelle fonti pubbliche e private delle notizie italiane, dell’iniziativa di Marco Pannella, deciso a salvare dalla forca l’ex gerarca iracheno. Eppure sarebbe utile e importante sapere il senso di questa storia e se è giusto, se vale la pena.

Sul senso di questa storia Pannella ricorderebbe, nelle interviste che nessuno ha voglia di fargli, che aveva tentato nel 2004 non solo di salvare la vita di Saddam Hussein, ma anche di fermare la guerra. Vi ricorda niente la frase detta e ripetuta «Iraq libero»? Non era lo slogan di un progetto di invasione. Al contrario, era un progetto così folle che - come a volte accade nella vita - stava per realizzarsi. Il progetto era salvare l’Iraq dalla guerra e mandare in esilio il suo dittatore. Qualche lettore ricorderà che il nostro giornale aveva creduto in quell’idea e l’aveva sostenuta, come del resto centinaia di parlamentari italiani ed europei. E solo da poche settimane le memorie dell’allora primo ministro spagnolo Aznar (alleato di Bush nella guerra) hanno rivelato che il piano stava per riuscire. Bastava persuadere il presidente degli Stati Uniti ad aspettare ancora pochi giorni prima di attaccare. Purtroppo Bush non ha voluto aspettare.

Come si vede non tutte le idee «folli» sono impossibili. Certo, è meglio se se ne parla, se si coinvolge l’opinione pubblica. Si può salvare dalla pena capitale Tareq Aziz? Non dovremmo noi, Paese che - per merito dei Radicali - siamo diventati leader della moratoria contro la pena di morte nel mondo, occuparci di questa esecuzione imminente e immensamente simbolica, per impedirla?
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 12.07.08
Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.13   
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Titolo: Furio COLOMBO - L’interesse del conflitto
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 04:38:34 pm
L’interesse del conflitto

Furio Colombo


La notizia è giunta tardi e mi induce a dirvela prima di ciò che sto per scrivere perché dubito che la troverete su molti altri giornali. Venerdì al Senato americano, i democratici hanno tentato di abbattere la privatizzazione delle cure mediche per gli anziani e di tornare all’estremismo di Kennedy, Johnson, Carter e Clinton: le cure mediche sono un diritto dei cittadini. La proposta repubblicana era: abbandonare i vecchi al buon cuore delle compagnie di assicurazione.

Ha scritto l’economista di Princeton Paul Krugman (New York Times 12 luglio): «Sembrava un film. Ai democratici mancava un voto per vincere. All’improvviso si è presentato in aula il settantasettenne Senatore Kennedy, appena operato di tumore alla testa. Kennedy ha portato il voto risolutivo. Bush e il dominio delle assicurazioni private sono stati sconfitti».

È una storia che dice molto della testarda ossessione di un vecchio, grande politico americano di stare ogni momento, e fino alla fine, dalla parte dei cittadini. Per noi è solo un simbolo, ma perché non dichiarare subito che solo così, qualunque sia il suo stato anagrafico, un leader politico può definirsi «coraggioso»?

Ma ora riprendo il mio percorso fra le tristi notizie italiane.



* * *

Mi era venuto in mente, pensate, di dire in questo articolo, che il conflitto di interessi paga, che alla fine di qualunque storia che non sia una fiaba vince il più forte, non il migliore (persino se la forza è rubata attraverso l’abuso sia del potere privato che di quello pubblico), che non c’è niente di male nel sentirsi migliore di chi attacca o minaccia o ricatta tutti i poteri dello Stato e scardina, piega o abolisce con le sue leggi tutte le regole.



Mi era venuto in mente di dire che, per forza, molti perdono la testa, il filo e il sentiero della ragione dopo quindici anni di realtà berlusconiana raccontata a rovescio, deformata, amputata, pur di isolare, più o meno intatta, l’immagine di una sola persona - Berlusconi l’immune - costringendo tutti gli altri protagonisti presenti in scena a una forma di sottomissione, a un continuo addossarsi di colpe, o ad essere confinati dal consenso comune (dei buoni e dei cattivi commentatori) nell’isola degli estremisti, dove persino ciò che rimane di Rifondazione (Sansonetti, Liberazione, 10 luglio) ti ingiunge di chiedere scusa, e si unisce agli scandalizzati non dello scandalo, ma di chi lo denuncia, visto come un guastafeste, ovviamente estraneo alla sinistra, sia quando usa i toni sbagliati, sia quando usa quelli giusti.



Avrei voluto scrivere che non ci sono toni giusti perché, alla fine, come puoi presumere di essere un giudice, nel mondo in cui tutti ormai accettiamo di dire o lasciar dire che i giudici sono comunque manovrati da una forza politica, nel mondo in cui tutti, tutti più o meno, diciamo: «Basta con l’uso politico della giustizia» (alcuni usano l’assurda parola “giustizialismo”, dicono: «occorre far finire questa anomalia»; e precisano che l’anomalia sono i giudici che indagano, non coloro che - avendo grandi responsabilità politiche - ne approfittano e commettono reati). Non dirò che sono stato dissuaso dalla enormità dei fatti, che sono questi: sono stati resi immuni da ogni azione giudiziaria le quattro più alte cariche dello Stato. Ma una, il presidente della Repubblica, è già difeso dalla Costituzione. Due, se malauguratamente inquisiste, non danno luogo ad alcuna impossibilità di governare perché sono cariche elettive interne al Parlamento e in caso di necessità si possono rieleggere o alternare senza coinvolgere o negare il consenso dei cittadini. Rimane la quarta, ma la quarta è il plurimputato Silvio Berlusconi. Dunque tutto è avvenuto per una sola persona anomala. E una immensa barricata, che coinvolge persone estranee a ogni imputazione, è stata eretta, per quella sola persona deformando lo Stato, creando per la Repubblica un danno senza ritorno, una ferita sul volto dell’Italia che ci renderà unici e riconoscibili anche in futuro.



Potrei continuare raccontando il modo un po’ mussoliniano con cui stata strangolata, in questi giorni, la Camera dei Deputati, soffocandone il dibattito fino al ridicolo per una grande istituzione democratica, forzando ognuno di noi, in quel quasi silenzio, ad apparire complici del progetto in cui il presidente-imputato esige la sua legge liberatoria, e la vuole sùbito, impone tempi ridicolamente stretti al presidente della Camera e il presidente della Camera si presta, obbedisce, esegue: «Volete un solo giorno di finto dibattito (finto perché la disciplina della maggioranza era toccante; finto per l’eroismo dell’Udc di Casini, che ha scelto l’astensionismo per non ipotecare il futuro; finto per il numero di minuti dedicati al dissenso). Come no? Agli ordini». Lo sanno tutti che un Parlamento (potere democratico dello Stato) è agli ordini dell’esecutivo e dunque si impegnerà nella missione di mettere a tacere l’altro potere democratico, quello giudiziario. Potrei raccontare i veri e propri momenti di urla e rivolta fisica della maggioranza ad ogni tentativo di Pd e Italia dei Valori di porre almeno un argine alla prepotente imposizione di discussione strangolata. Pensate, persino la sinistra sembra provar piacere a condannare "l’opposizione urlata"; ma in Parlamento le sole urla che si sentono, alte e selvagge, sono quelle della maggioranza che si getta con furore su ogni spiraglio di resistenza, per quanto mite.


* * *

Invece mi fermo qui, per dire: questo è il mio millesimo editoriale, uguale agli altri. È una rappresentazione fedele di ciò che accade. Ma ciò che accade ripete un gioco di potere che in fondo non si è interrotto mai, neppure nei pochi giorni di Prodi. Perché anche in quei giorni sono rimasti intatti tutti i centri di controllo di ciò che sappiamo ogni giorno del Paese. Infatti Prodi è apparso un grave e fastidioso pericolo mentre governava, veniva additato all’Italia come un incapace ed esoso esattore di tasse e come la rovina della nostra economia, che adesso è totalmente paralizzata e in stato di abbandono. E intanto i costi e le tasse salgono ma il nuovo Parlamento italiano è impegnato a fermare i giudici.



Mi fermo anche per il modo efficace con cui il notista della Stampa Ugo Magri racconta un momento della non esemplare giornata alla Camera che abbiamo appena vissuto. Cito: «Perfino Furio Colombo viene snobbato dai colleghi Pd, i quali si vede che ne hanno le tasche piene, nel momento in cui invoca “solidarietà per i magistrati che Berlusconi considera un cancro”». Mi resta da dire che ho pronunciato questa frase in modo deliberatamente formale e non stentoreo sapendo - come è accaduto - che sarei stato subito coperto da urla. Strana cosa le urla di una larga maggioranza di potere che non rischierebbe nulla perfino ostentando una flemma tipo Anthony Eden o Lord Sandwich. Ma quelle urla ci dicono come è, come sarà l’epoca di potere che comincia adesso. Che nessuno pensi impunemente di sgarrare. Dalla gabbia mediatica non si sfugge. Provvede la gabbia mediatica, con la partecipazione straordinaria e volontaria di tanti di noi, a dire, proprio mentre urla fino al parossismo l’intero Popolo delle libertà, che l’opposizione “urlata” ed “estremista” è proprio insopportabile.



Dirò che mi fermo, in attesa di nuovi eventi che saranno, tra poco, così clamorosi, inauditi e - ripeteremo noi, pedanti - estranei alla democrazia, da prendere di sorpresa persino chi ha sempre dichiarato piena sfiducia in questo governo e nella sua maggioranza. Azzardo una previsione, e la proporrò. Sarà la descrizione di un paesaggio grave e tragico. Anche se vorranno costringerci alla percezione prevista dal copione. Ci diranno che è il “ritorno al Paese normale”.

 * * *

E’ il momento in cui si scopre che il conflitto di interessi ha un suo modo pernicioso di spandersi, anno dopo anno, in Italia. È l’interesse del conflitto, nei due sensi letterali: perché l’interesse è un continuo dividendo che il Paese deve pagare al titolare del conflitto, concedendogli ogni volta di più, visto che controlla così tanto.



Ma è anche l’interesse a mantenere vivo il conflitto perché i nemici, bene in vista e tenuti alla gogna, sono indispensabili per un governare montato come una campagna elettorale che non finisce mai. Nonostante l’effetto illusorio di una pace sempre possibile e sempre vicina, ogni accostamento viene impedito alzando bruscamente il prezzo, in modo che sia impossibile. Ma sempre per colpa dell’altro e a meno di un di un cedimento che ne cancella l’identità e lo esibisce come preda. Dunque l’interesse remunera due volte il conflitto. C’è - s’intende - la condizione del rigoroso rovesciamento mediatico. Esempio: se gli aggrediti da questo potere commettono l’errore di rispondere con un insulto a un insulto, solo l’insulto degli aggrediti sarà ricordato, ripetuto, inchiodato nella memoria collettiva. Avverrà a cura dei media, in modo che l’autore potente del primo insulto appaia sempre il mite protagonista vilmente insultato. Un esempio: Berlusconi definisce “cancro” e “metastasi” i giudici senza altra ragione che i temuti processi contro di lui. I media registrano e dimenticano all’istante. Fanno in modo che non se ne parli mai più, fino allo sbadiglio di Ugo Magri sulla Stampa per la mia frase. Ma se dite “magnaccia” (parola forse un po’ esagerata) al primo ministro sorpreso a sistemare le sue giovani amiche nella Tv di Stato, state tranquilli: se ne parlerà per sempre. Temo invece, dati i tempi e dati i media, che non si parlerà per sempre della odiosa intenzione, inclusa nel “pacchetto sicurezza” del ministro dell’interno italiano Maroni, di obbligare all’umiliazione delle impronte digitali i bambini Rom, sia quelli italiani sia quelli ospiti del Paese Italia, che sta rapidamente diventando il più barbaro d’Europa. Giovedì 10 aprile il Parlamento europeo ha condannato a larga maggioranza l’Italia per l’incivile progetto. Il ministro degli Esteri Frattini e il ministro per gli Affari europei dell’attuale governo italiano Rochi, hanno subito indossato la faccia dell’«ora fatale del destino che batte nel cielo della nostra patria» (le prime parole del discorso di Mussolini, 10 giugno 1940) per ribattere a muso duro al Parlamento europeo che le nostre impronte digitali ai bambini non sono affari loro. Ronchi ha detto giustamente: «E’ il momento peggiore del nostro rapporto con l’Europa».



Vero, ma suona ridicola una frase così solenne se detta dal colpevole colto sul fatto. Il fatto triste è che Frattini e Ronchi intendevano proprio dire: «Se noi abbiamo deciso di svergognare l’Italia e affiancarla, quanto a diritti civili, allo Zimbabwe, sono affari nostri. E nessuno ci deve impedire di infangare come vogliamo la nostra immagine». I due ministri, nel loro impegno a puntare sul peggio, sono apparsi così decisi, così sicuri che si possa buttare all’aria ogni decente e rispettoso rapporto con l’Europa, e così irrilevante essere considerati da Paesi civili come un Paese incivile, da rendere un po’ meno cupa l’immagine del ministro Maroni. Il ministro, in nome delle superstizioni della sottocultura leghista, priva di ogni soccorso, anche modesto, della cultura comune, ha dichiarato diverse guerre, tutte ai poveri e ai deboli inventati come nemici.



Pensate alla sua guerra ai Rom, che sono 150mila, metà italiani, metà donne, metà bambini. Il loro coordinatore, Xavian Santino Spinelli, ha parlato in Piazza Navona a nome dei molti Rom presenti (è la prima volta nella storia politica del nostro Paese) e a nome di tutti i Rom italiani. Forse dispiacerà alla sottocultura leghista che il Rom Spinelli oltre a essere musicista (troppo facile, diranno) sia anche docente di Antropologia all’Università di Trieste. Il fatto è che il peggio di Maroni ha fatto nascere un meglio senza precedenti nelle vita italiana: un legame con il popolo Rom. Giovedì 8 luglio, per fare un altro esempio senza precedenti, la sala conferenze della Fondazione Basso era affollata di di Rom e di intellettuali della Fondazione per discutere il che fare insieme. Il lunedì precedente l’Arci ha organizzato in Piazza Esquilino una raccolta di impronte digitali di adulti e bambini italiani, evento affollato e filmato da una decina di televisioni europee e americane.



Ma proviamo a confrontare l’indefesso lavoro del ministro Maroni contro i piccoli, i deboli, gli scampati alla traversata del mare e alle guerre e persecuzioni nei loro Paesi, con ciò che pensa (del pensiero padano, del ministro Maroni e, ovviamente dell’illustre governo di Frattini e Ronchi) il Cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi. Cito da pag. 13 de Il Giornale, 8 luglio: «Asili per gli immigrati: le materne comunali dovrebbero essere aperte anche ai figli degli immigrati clandestini. Lo sgombero dei Rom: l’impressione è che nello sgombero si sia scesi sotto la soglia di tutela dei fondamentali diritti umani. L’esercito nelle città: I soldati servono ad aumentare la paura. La sicurezza non passa per decreto legge. La moschea di Viale Jenner: Maroni sposta la moschea? Solo un regime fascista e populista usa tali metodi dittatoriali». Lo stesso giorno il ministro della Difesa La Russa aveva detto, con la sua famosa mancanza totale di humour: «Per il momento sembra chiaro che ai militari, a Milano, sarà affidata la sorveglianza del Duomo e delle chiese più importanti». Il Cardinale, che celebra ogni giorno la messa in Duomo, ha visto sùbito immagini che a uomini intelligenti e sensibili evocano Pinochet.



Come si è visto, l’interesse del conflitto è grande e sfacciato abbastanza da indurre l’editore del governo (che è anche il governo dell’editore) a pubblicare la più squallida e violenta copertina che mai settimanale politico europeo abbia pensato di pubblicare. Panorama, 10 luglio: la fotografia è quella di un bambino che i lettori sono chiamati a identificare come zingaro. Il titolo è “Nati per rubare”. Segue questo testo: «Appena vengono al mondo li addestrano ai furti, agli scippi, all’accattonaggio. E se non ubbidiscono sono botte e violenze. Ecco la vita di strada dei piccoli Rom che il ministro Maroni vuole censire, anche con le impronte digitali». So di averne già parlato, ma ripeto le citazioni e l’immagine per due ragioni. Una è l’ offesa per una pubblicazione che esalta, secondo i canoni di Goebbels, l’indegnità genetica dei bambini di un popolo. L’altra è la solidarietà ai colleghi di Panorama, molti dei quali conosco e stimo personalmente, per l’umiliazione imposta loro da un proprietario che, dovendosi salvare dai suoi processi, ha bisogno dei voti leghisti e dunque deve pagare (e far pagare) pesanti tributi alla sottocultura leghista così risolutamente respinta dal Vescovo di Milano, in piena solitudine. L’interesse del conflitto è una infezione che continua ad estendersi. Ma siamo appena all’inizio delle sue conseguenze peggiori. Purtroppo, a fra poco.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 13.07.08
Modificato il: 13.07.08 alle ore 7.54   
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Titolo: Furio COLOMBO - Razzismo, dal manifesto alle impronte rom
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:13:36 am
Razzismo, dal manifesto alle impronte rom

Furio Colombo


Abbiamo letto e riletto tante volte, in questi decenni resi liberi dalla distruzione del fascismo e razzismo, dal sangue dei partigiani, dalle rivisitazioni angosciate del Giorno della Memoria, il «Manifesto della razza», firmato da una decina di personaggi sconosciuti (tra essi due zoologi) detti, a quel tempo «scienziati», ma anche da un illustre clinico (Nicola Pende) che ha poi compiuto il meglio della sua carriera e ricevuto gli onori più alti nell’Italia libera, troppo presto smemorata dopo l’orrore del fascismo.

Ad ogni lettura ognuno di noi ha provato un senso di repulsione e di ridicolo, di delittuoso e di assurdo, di estrema ignobiltà ma anche di pauroso vuoto di cultura (parlo di cultura comune, generale) e di rispetto per se stessi. Immaginate quegli «scienziati» nell'atto di firmare. E intravedete un abisso di viltà così profondo da sfidare e disorientare l’immaginazione. Chi può disprezzare a tal punto se stesso? è la domanda triste e inevitabile. Quello che non ci saremmo mai aspettati, neppure il più pessimista o il più scettico di noi, sul mistero e le fenditure della natura umana, era di rileggere il «Manifesto della razza» (allora opportunamente ripubblicato sulla rivista «Difesa della razza» di Telesio Interlandi e Giorgio Almirante) come un documento dei nostri giorni, del nostro tempo. Per esempio, rileggete questa frase del «Manifesto», e immaginatela scritta o pronunciata in un ideale sequenza documentaria di ciò che è davvero accaduto nell’aula di Montecitorio alle ore 13 di mercoledì 16 luglio: «È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». Quel giorno, a quell’ora, i deputati di Berlusconi stavano tributando uno scroscio di applausi a se stessi per avere approvato la legge che autorizza a prelevare le impronte digitali ai bambini Rom, sia italiani sia ospiti dell’Italia, esattamente come quella stessa Camera nel 1938, aveva calorosamente applaudito l'approvazione dell'altro «pacchetto sicurezza», quello delle «leggi per la difesa della razza» redatte da Mussolini.

Il fatto che l’aberrante discriminazione di oggi contro i bambini Rom sia stata voluta da un uomo storicamente irrilevante, non toglie nulla all'umiliazione imposta a quei bambini. Mentre alla Camera, nel nuovo e identico tuono di applausi, il ministro Carfagna e il deputato Bocchino cercavano, una contro l'altro, di farsi vedere abbracciati al ministro Maroni (che da oggi, nonostante la ben nota modestia umana e politica, dovrà essere ricordato per la sua nuova legge che riporta l'Italia al prima della Resistenza), ho immaginato lo scorrere del testo che ha sfregiato l'Italia: «È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il regime in Italia è fondata sul razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del capo il richiamo ai concetti di razza». Se il capo a cui adesso si fa riferimento è Bossi (con Borghezio, come scorta) le parole del «Manifesto» sull’immagine di Maroni che mostra il pollice in alto nel gesto americano della vittoria, sono il commento perfetto.

Non dobbiamo più domandarci: «Ma che gente era, quella che ha approvato e sostenuto il «pacchetto sicurezza del 1938?». Basta osservare, con immensa tristezza, i deputati di Berlusconi che applaudono se stessi per avere approvato il loro «pacchetto sicurezza». Quello che proclama la pericolosa estraneità della razza Rom, e schiera i soldati a difesa della razza italiana.

Pubblicato il: 19.07.08
Modificato il: 19.07.08 alle ore 10.23   
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Titolo: Furio COLOMBO - La giustizia come intrusa
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 06:02:04 pm
La giustizia come intrusa

Furio Colombo


Il problema giustizia viene avanti in molti modi e molti episodi, quasi sempre per dire che la giustizia circola fuori posto, come un guidatore che - per ragioni non accertate - invade la corsia opposta.

Altri episodi, pur avendo peso e drammatica risonanza nella storia (non di una provincia italiana, nel mondo) sono ignorati del tutto.

Al momento solo Marco Pannella - fra l’indifferenza generale - sta facendo lo sciopero della fame nel tentativo di salvare una vita (si veda l’intervista di Umberto De Giovannangeli su l’Unità del 18 luglio). Impegno meritevole e irrilevante, direte voi, perché dove è ancora in vigore la pena di morte non fanno caso a Pannella. O forse - diranno altri - perché perdere tempo a occuparsi di una storia lontana, con tutte le gatte da pelare che abbiamo qui?

Il fatto è che, con un certo istinto, Pannella ha visto qualcosa che forse merita attenzione: l’imminente condanna a morte di Tariq Aziz, unico non islamico nel cerchio di Saddam, ultimo a venire a Roma e a vedere il Papa (Giovanni Paolo II) un giorno prima della guerra che quello stesso Papa ha supplicato in tutti i modi di evitare, seppellirebbe per sempre una fonte essenziale di fatti veri. Per esempio: è vero che Saddam stava per accettare l’esilio?

Qualcuno forse ricorda la follia radicale dello slogan «Iraq libero». Proponeva una di quelle cose semplici e assurde che a volte evitano le catastrofi: rimuovere Saddam (che voleva un miliardo di dollari per andarsene) e lasciare intatto e libero dal dittatore il Paese, in cui la distruzione, a un costo immenso, dura ancora. Ma qui non si tratta di rimpiangere, visto che almeno la storia ha corretto i suoi verbali, e si sa con certezza (testimone chiave l’ex primo ministro spagnolo Aznar) che una guerra così spaventosa era davvero evitabile.

Si tratta di fermare un processo finto, di invocarne uno vero, in nome dei princìpi in cui crediamo (o diciamo di credere) e impedire l’esecuzione dell’ultimo membro di governo colpevole, certo, ma anche ultimo testimone. E fermare un’altra esecuzione capitale in un mondo già spaventosamente insanguinato.

Su tutta questa questione non si muove una foglia negli illustri e storici parlamenti europei. È attivo, vivo e nervoso, invece, il Congresso americano. La Speaker (Presidente della Camera) Nancy Pelosi ha dato il via libera alla Commissione giustizia del suo ramo del Parlamento. In quel Paese la Commissione giustizia di una Camera non si occupa di bloccare il tentativo di un padre disperato di porre fine all’orrore della morte di una figlia che dura da 16 anni. In quel Paese la Commissione giustizia si riunisce per ascoltare il deputato Kucinich che, sulla base di una sua dettagliata inchiesta, vuole confrontare il Presidente degli Stati Uniti con l’accusa di avere dirottato stampa e opinione pubblica usando fatti non veri pur di cominciare la guerra che non finisce.

Un libro americano appena uscito in Italia ("The Italian Letter" di Peter Eisner e Knut Royce, distribuito in edicola dalla rivista "Il Mucchio") racconta l’intera storia e la parte italiana della vicenda (visto che politica e servizi americani non si prestavano).

Pannella però punta più alto, con il rischio di colpire nel vuoto, ma anche con un pragmatismo davvero di tipo americano. Dice: «Intanto salviamo la vita di Tariq Aziz e sentiamo che cosa ha da dire, ora che è senza potere ma non senza memoria». Ecco dunque una questione di giustizia che in luogo del silenzio meriterebbe un forte attivismo giornalistico e politico. Invece, silenzio. Capisco i media, che non possono montare retroscena. Ma le Commissioni Giustizia ed Esteri di Camera e Senato?


* * *


Domina invece, dai titoli agli editoriali, dalle interviste alle ricostruzioni cronistiche, il rapporto politica-giustizia in Italia. Non parlo di uno specifico evento, come quello del Presidente della Regione Abruzzo Del Turco, per il quale è doveroso l’augurio che possa dimostrare la sua estraneità ai fatti, la sua innocenza, nella più limpida delle inchieste, e nella più persuasiva delle difese possibili.

La questione italiana è unica e segnata da una profonda diversità rispetto al resto del mondo. Quella italiana non è una discussione tra esperti o un dibattito tra politici competenti su aspetti e modalità del rapporto fra i due poteri.

Vantare l’indipendenza del potere giudiziario di un Paese è privilegio delle democrazie. Dovunque, scorrendo i giornali del mondo, dalla Scandinavia all’India, trovate notizie del ministro sotto inchiesta (di solito dimissionario) del parlamentare indagato, di azioni probabilmente indebite compiute nell’ambito di uno degli altri due poteri, legislativo ed esecutivo, e perseguite dai procuratori e dai giudici del potere giudiziario. Poiché nel mondo del diritto la responsabilità penale è personale, ciascuno risponde in proprio, ci sono assolti e condannati (pochi, molto pochi restano o rientrano nella politica) e nessun Paese si spacca, nessun lavoro parlamentare si ferma, nessuno si esporrebbe al ridicolo di dichiararsi perseguitato, e anzi di esibire il numero delle inchieste e dei processi che lo riguardano come se fossero le decorazioni commemorative di valorose battaglie.

L’idea stessa che qualcuno manovri i giudici per i fini politici di un partito o di un gruppo, quando quell’idea torna ad essere dichiarata, come una denuncia rivelatrice, per decenni successivi, mentre intanto tutte le forze politiche (e il peso di quelle forze politiche) sono profondamente cambiate, è una denuncia malata. Oppure è la denuncia di un attentato, di un golpe. Va dimostrato con fatti, nomi, date, circostanze. Non è ammesso, non dal diritto e non dalla psichiatria, di dire: "Ce l’hanno con me".

Un momento di particolare, stridente contraddizione con la realtà, di nuovo in ambito dubbio sulla tenuta psichica o almeno la buona fede di chi fa la dichiarazione, viene raggiunto quando un inquisito assolto dichiara la sua assoluzione non la prova della giustizia che funziona, ma la prova del complotto. «Vedete? Mi perseguitano, tanto è vero che sono stato assolto».

Il lettore ha già capito che stiamo parlando sempre e solo di Berlusconi. Si può anche non nominarlo, ma la maledizione non se ne va. E’ lui che dichiara, in un mondo in cui si stanno incrinando le travi di sostegno di grandi Banche, in cui la paura è un ghibli che attraversa le Borse, in cui prezzi e inflazione salgono di giorno in giorno e anche di ora in ora, in cui il Governatore della Banca centrale americana non esita dichiararsi: «molto preoccupato», lui - Berlusconi - dichiara e ripete: «Nessuno mi fermerà; la priorità è la giustizia». Sentite i suoi rimedi alla crisi che scuote il mondo dalla City a Pechino:

«1. Ritorno all’immunità per i parlamentari (segue smentita, seguirà conferma).

2. Carriere separate per i giudici.

3. Frantumazione del Consiglio superiore della magistratura.

4. Misurare la produttività dei giudici (notare la parola da Confindustria applicata alla giustizia, ovvero la sovrapposizione di un potere sull’altro).

5. Vietare e punire tutte le intercettazioni eccetto per mafia e terrorismo» (con il problema di stabilire quando e dove una questione di mafia o terrorismo comincia o finisce).


* * *


Il problema si fa più grave quando illustri commentatori di grandi giornali seguono scrupolosamente il percorso indicato dal Capo che dice: se si verifica una interferenza, per qualsiasi ragione, fra giustizia e politica, il solo rimedio è “riequilibrare i poteri” ovvero tagliare le unghie alla giustizia.

Sentite l’opinione autorevole (e osservate lo snodo logico) espresso in un editoriale di Angelo Panebianco: «L’inchiesta su presunte tangenti nella sanità (dell’Abruzzo, ndr) ricorda a tutti che i problemi fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi». E anche (sentite bene): «È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di essere di nuovo forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia che non si limiti a essere fotocopia di quella dell’Associazione magistrati?». (Corriere della Sera, 15 luglio).

Il senso di questo ammonimento è piuttosto offensivo per il nuovo Pd. L’editorialista sta dicendo: «Come pensate di governare se lasciate liberi i giudici di indagare?».

Credo di poter dire che, offensive o no, le frasi fin qui citate siano intraducibili per il New York Times. I due candidati dei due grandi partiti americani non hanno alcuna “posizione sulla giustizia” salvo le garanzie e i diritti umani e civili di tutti i cittadini. Non l’hanno e non devono averla perché tutto è già stato stabilito dalla Costituzione. E inoltre perché i candidati delle elezioni americane sono in corsa per ottenere il potere esecutivo, non quello giudiziario. Quando il Presidente e la signora Clinton sono finiti sotto inchiesta per bancarotta (una piccola proprietà dell’Arkansas gestita insieme con soci infidi), l’America non si è fermata un istante, non c’è stato alcun convegno e il Presidente ha fatto la spola fra la Casa Bianca e il Gran Jury (organo istruttorio) senza denunciare persecuzioni. Quando i Clinton sono stati assolti nessuno ha parlato di “teorema svuotato come una bolla di sapone” (sto citando l’estroso portavoce Bonaiuti). Si è limitato a dire: «È finita bene». I due Clinton, Presidente e First Lady, si sentivano protetti, come tutti i cittadini, dalla loro Costituzione.

Anche noi lo siamo dalla nostra. Ma c’è ansia e allarme quando un personaggio che ha peso, storia, rilievo politico come Massimo D’Alema dice al Corriere della Sera (15 luglio): «Sulle riforme serve un colpo di reni. Sì a ragionevoli convergenze». Convergenze con chi? Non sarebbe meglio tentare, tutti insieme, di salvare la vita a Tariq Aziz?

L’ex ministro degli Esteri sa che valore non solo simbolico avrebbe quel salvataggio.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 20.07.08
Modificato il: 20.07.08 alle ore 14.58   
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Titolo: Furio COLOMBO. Non aprite quella porta
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 11:14:14 pm
Non aprite quella porta

Furio Colombo


Dichiarano lo stato di emergenza nazionale all’improvviso, con frivola incompetenza e salda fede leghista.
Pretesto: una invasione di immigrati (succede sempre d’estate, con il mare calmo) che tormenta sempre la fantasia malata della Lega Nord e del ministro Maroni, uno che ha giurato fedeltà alla Lega prima che alla Repubblica italiana. Realtà: poter disporre del diritto di arresto, deportazione, creazione di nuovi campi, forse intenzione di fermare in mare le imbarcazione disperate. Come vedete un’emergenza c’è ed è per quel che resta di civile, di umano, di democratico nell’Italia governata da Berlusconi.
Non è solo un brutto film quello che stiamo vivendo e di cui siamo quasi tutti comparse. È anche un film fuori sincrono, nel senso che sono oscure le parole, sono oscuri i fatti. Ma anche così, anche a condizioni minime di rappresentazione e narrazione della realtà, viviamo in un pauroso fuori sincrono. È l’effetto che certe volte accade, con disorientamento del pubblico, nella proiezione di un film: colonna sonora e immagine non corrispondono. Il risultato è: guardi la scena e non riesci a credere né alle parole né alle immagini. Per esempio, un ministro della Repubblica, titolare di una funzione chiave nel governo italiano (ministro delle Riforme) dedica gesti e parole volgari a un simbolo istituzionale (l’inno della Repubblica italiana) denigra in modo stupido gli insegnanti italiani del Sud (uno di loro è accusato di avergli bocciato il non geniale figlio), ma soprattutto pronuncia queste parole: «Contro la canaglia romana quindici milioni di uomini del Lombardo-Veneto sono pronti a farla finita». In altre parole un ministro della Repubblica, eletto con voti secessionisti e portato a Roma da un premier senza scrupoli, a cui conviene la confusione che copre l’illecito, parla da secessionista con l’autorità di Ministro del Paese che occupa e disprezza, e con cui intende «farla finita». È lo stesso ministro-chiave insediato nella capitale italiana ma capo di una forza violentemente anti- italiana, che pochi giorni prima incitava la nazionale di calcio della «Padania» nel «campionato degli Stati non riconosciuti».

La Padania è infatti uno di quegli Stati. “Non riconosciuti” vuol dire non ancora liberi. Infatti, in quella occasione il grido di Bossi era un rauco “Padania” al quale la sua folla doveva rispondere con l’urlo “Libera”. Una manifestazione secessionista da fuori legge, e certamente incompatibile con l’immagine, benché logora e screditata, di Ministro della Repubblica. È chiaro a tutti che si tratta di un gesto pericoloso contro il quale, ti immagini, si rivolta con indignazione la classe dirigente di un Paese. Sono questi i casi in cui si può verificare un serio e vero sentimento trasversale di condanna, di presa di distanza, di separazione da una visione così bassa e così irresponsabile della vita pubblica italiana da parte di un garante (un Ministro importante) della vita pubblica italiana. Dopo tutto si tratta della stessa classe dirigente occupata per una decina di giorni in una staffetta di condanne esterrefatte e continue dedicate all’ormai celebre «delitto di piazza Navona», rispetto a cui impallidiscono altri fatti- pur duri- della cronaca nera italiana. Ma in piazza Navona affermazioni immensamente discutibili (che personalmente ho scelto di respingere subito) erano state fatte da due comici, celebri e popolari, certo, ma liberi da responsabilità istituzionali. Eppure non c’è confronto. Entro giorni due (due) i più autorevoli giornali e telegiornali italiani potevano scrivere e dire «archiviata la questione Bossi». Archiviata quando, da chi? E come è possibile che si sia rapidamente condonato come «colore» il gesto volgare contro l’istituzione e l’appello alla rivolta da parte di un Ministro della Repubblica?

* * *

«Archiviato» anche il problema giustizialista (ovvero di implacabile persecuzione delle compatte forze giustizialiste) di Silvio Berlusconi. Sentite il titolo (un titolo esemplare ma certo non il solo): «Tolto il macigno giustizia, niente più alibi per le riforme» (ilMessaggero, 24 luglio). Un intervistato del “Giornale Radio 3” (ore 8.45 del mattino del 23 luglio) ci spiega anche meglio: «È venuto anche meno l’alibi dell’antiberlusconismo giudiziario». Come dire: chi, d’ora in poi, si sottrae a un fitto e proficuo dialogo sulle riforme, non ha ragioni e indignazioni da invocare, perché il grande imputato non ha più problemi con la giustizia. Ognuno di quei problemi, compreso il processo Mills, con la pesante imputazione di corruzione giudiziaria, è stato allontanato da Berlusconi con una legge fatta per Berlusconi dall’ex segretario privato di Berlusconi, divenuto Ministro della Giustizia, in consultazione accurata e continua con gli avvocati di Berlusconi. Il quadro è rappresentato con triste umorismo dal vignettista Giannelli sulla prima pagina del Corriere della sera del 24 luglio: Berlusconi, vestito da mago, salta sul collo del Presidente della Repubblica e, profittando di quella elevazione e di quel livello che di suo non possiede, brandisce la bacchetta magica dell’ autoritarismo ormai senza limiti. Immagino la dispiaciuta amarezza con cui il Presidente Napolitano avrà guardato quella vignetta. È ciò che è accaduto: comporre un «pacchetto di immunità» nel quale il più onesto e disinteressato degli italiani (vedere la sua vita, prima ancora della sua carica) si trova stretto accanto all’italiano più noto nel mondo per il suo attivo, aperto e smaccato conflitto di interessi nei confronti e a danno dello Stato che governa; e per le sue innumerevoli imputazioni, che hanno indotto la rivista finanziaria inglese “The Economist” ad aprire con il titolo di copertina a piena pagina «Mamma mia!». In altre parole, Berlusconi imputato, per liberarsi dal più rischioso ed imminente dei suoi processi, ha formato una scorta composta dalle tre più alte cariche dello Stato. Due saranno forse state consenzienti, per amicizia o solidarietà o affinità. Ma il capo dello Stato, un uomo che - per esempio - l’opinione politica repubblicana e democratica degli Stati Uniti ha stimato e ascoltato fin da quando era esponente del Partito Comunista italiano, adesso, appare inserito dentro una legge-ricatto. Di essa il Capo dello Stato non ha alcun bisogno a causa delle prerogative istituzionali che disegnano il suo ruolo, al di sopra (ma anche estraneo) rispetto ad ogni altro ruolo.

Ecco in che senso è inevitabile, in questi giorni, pensare con sostegno, amicizia, solidarietà al Capo dello Stato. Ci sono cittadini che cadono nella trappola di Berlusconi o in quella dell’antipolitica e che dicono: «Andiamocene via. Sono tutti uguali, sono tutti la stessa gente». Oppure provvedono i pr di Berlusconi a farvi credere: «Non c’è differenza fra noi e il Quirinale. Vedete? Siamo tutti nello stesso pacchetto di immunità». Tocca a noi dire che la figura del Capo dello Stato non si confonde, non si identifica e non ha niente a che fare con un meccanismo un po’ ignobile pensato e usato come trappola, e che il giurista Carlo Federico Grosso ha definito «il male minore». «Ma è il male minore all’interno di una strategia fondata sulla continua minaccia di un male peggiore» (La Stampa, 25 luglio). È una trappola che in apparenza funziona perché il formalismo giuridico del ruolo presidenziale (immaginato per un Paese normale in cui tutte le altre cariche dello Stato sono pulite e non hanno la giustizia alle calcagna) richiede di firmare ciò che nella forma appare legale (dopo l’approvazione delle Camere) e costituzionale (dopo le precauzioni cosmetiche per far apparire vivo un cadavere giuridico).
Naturalmente stampa e tv in servizio permanente effettivo per il premier-padrone-imputato, sanno il loro mestiere. E dedicano alla firma, inevitabile e dovuta, (in attesa del giudizio della Corte Costituzionale) del presidente della Repubblica, minuti di tv e pagine di giornali. E sono pronti a trasformare in scandalo riflessioni come quelle proposte da Antonio Padellaro su questo giornale. Che significano: non lasciamo solo il Capo dello Stato con questa legge grave e ben congegnata. Il Capo dello Stato è l’alibi e l’ostaggio che dobbiamo negare a Berlusconi. Allo stesso modo, insieme con Padellaro mi sento di dire - finché riusciamo a dirlo -: non lasciamo soli i cittadini che hanno fiducia nella legge, nella Costituzione, nel giusto processo, nella informazione libera e responsabile, nel Capo dello Stato come garanzia.

Un popolo democratico, nei momenti di allarme, non cerca il dialogo con chi ha provocato l’allarme. Lo cerca con il suo punto alto di riferimento. Si volge in modo naturale verso il presidente della Repubblica. Come può essere un problema, o anche solo un segno di poco rispetto, questo spontaneo voltarsi di tanti cittadini verso il Presidente, mentre intorno volano insulti, minacce, volgarità di governo, promesse incalzanti di fare peggio, sia con la violenza fisica (Bossi) sia con leggi ancora peggiori (Berlusconi)? È naturale, nel cuore di una democrazia che non vuole spegnersi nonostante Berlusconi, cercare orientamento e risposta. Un’opinione pubblica fiduciosa è il più alto sostegno della democrazia. Una opinione pubblica allo sbando, o nella trappola dell’antipolitica è un grande pericolo.
Rompiamo l’antica abitudine delle istituzioni a parlare solo alle altre istituzioni. Ci sono milioni di cittadini che non vogliono essere mandati a casa dalla antipolitica che vede tutti uguali a tutti. Ma vogliono essere parte viva di una stagione di speranza, fatta di informazione, mobilitazione, partecipazione.

* * *

Nel frattempo il cielo della Repubblica è solcato da messaggi misteriosi, sullo sfondo di scenari che richiederebbero un libero sistema di informazioni e un sistema politico (Camera e Senato) funzionante. Ma la Camera e il Senato sono l’altro grande ostaggio della paralisi imposta al paese dagli interessi di Berlusconi. Ecco alcune domande che, stranamente, non sono diventate né materiale giornalistico, né spunto per una inchiesta approfondita.
1 - Chi stava parlando con chi, a nome di chi, e a proposito di che cosa, quando all’improvviso è stata lanciata una non credibile, non plausibile accusa a Fassino e a Nicola Rossi? Nel senso tetro della parola, è un gioco. Ma che gioco è, e chi sono i giocatori, e quale è la posta? Proprio perché l’insinuazione appare subito campata in aria, è evidente che si tratta di un imbroglio deliberatamente organizzato, la falsa pista di tutti i thriller . Restano le domande: che si è messo in moto? Perché adesso, in termini tanto pesanti, destinati a provocare tumulto e scandalo ma anche distrazione? È chiaro che tutto è inventato in questa storia. Ma non è una svista. È urgente decrittare il gioco, intercettare il percorso, e identificare gli autori. Dopo tutto siamo al centro della più grande vicenda di spionaggio politico mai realizzato con strutture private nel mondo occidentale.

2 - A Napoli è scomparsa la spazzatura. Manca una certificazione indipendente. Deve bastarci la parola? Ma chi si ricorda il numero di migliaia di tonnellate da smaltire dovrebbe esigere di sapere, prima di rendere il dovuto onore al successo: dove è finito l’ammasso di anni e anni di spazzatura nel miracolo della pulizia fatta in soli 80 giorni? Tutto è possibile, ma dove dirci come. Per esempio, dov’è finita la camorra, potente e presente dovunque? Si è arresa, è in ritiro, è in attesa, è in affari (forse altri affari)? Qualcuno vorrà aiutarci a sapere, magari per imparare e ammirare?
3 - Dialogando con Felice Cavallaro del Corriere della sera (24 luglio) Marcello Dell’Utri, ammette e anzi certifica, telefonate e incontri con due malavitosi di chiara fama, Aldo Miccichè, che opera dal Venezuela e si fa sentire con Dell’Utri per telefono, e Antonio Piromalli che, riuscendo a sfuggire alla polizia, fa una scappata nell’ufficio del senatore (13 marzo). Attenzione, non dite che «è il solito Dell’Utri, che tutte queste cose le sappiamo già e non conta più». Dell’Utri, in piena campagna elettorale, ha ricevuto un pubblico, esteso, drammatico elogio di Silvio Berlusconi, forse un vero e proprio messaggio a qualcuno. In quella stessa occasione Berlusconi ha proclamato «eroe» il pluriomicida mafioso Mangano, per molti anni ospite di casa Berlusconi e poi morto in prigione mentre scontava l’ergastolo.
Dell’Utri è tuttora il reclutatore e organizzatore dei giovani del partito (il suo incarico si riferisce a Forza Italia. Sarà stato esteso al partito del Popolo della libertà, dunque aperto ai giovani di An?). Ed è comunque - nell’intervista al Corriere - l’autore della seguente confessione: «Miccichè voleva contattare un azienda di petrolio russa. Io sono molto amico di questi russi. È materia di cui si occupano tutti, pure io. Una cosa normale. Niente di male. Lo stesso Miccichè mi chiese di occuparsi del voto italiano in Venezuela. Io lo misi in contatto con Barbara Contini (ricordate? La “governatrice di Nassirya”, al tempo della morte del caporale Vanzan, ndr) cioè una persona di altissimo livello che coordina questo settore». Dunque un avamposto di potere, di governo, di maggioranza è luogo ospitale di accoglienza e smistamento di persone come Piromalli, di mediazioni d’affari come quella richiesta da Miccichè, ma soprattutto di inclusione rapida del volontario Miccichè nella campagna elettorale e nel partito di Berlusconi, attraverso l’immediata messa in contatto di un celebre e ricercato personaggio (ricercato da molte polizie) che offre affari e politica, con la dirigente («altissimo livello») del partito di Berlusconi Barbara Contini.
È bene tenere presente tutto ciò per sapere in ogni momento perché dobbiamo fare cordone e stare dalla parte del Capo dello Stato. Quando è stato chiesto ad Anna Finocchiaro, «ora che è stata archiviata la questione giudiziaria di Berlusconi, si può ripartire col dialogo?», la senatrice opportunamente ha risposto: «il dialogo non è una porta che si apre e si chiude a piacimento». Ha ragione. Infatti, se la apri e corri il rischio che entrino in scena Miccichè e Piromalli. Anche se non sei giustizialista, la normale prudenza del buon padre di famiglia ti sconsiglia di aprire quella porta.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 27.07.08
Modificato il: 27.07.08 alle ore 14.38   
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Titolo: Furio Colombo. Radio Londra
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 09:04:30 am
Radio Londra

Furio Colombo


Ha ragione Il manifesto a definire "misteriosa" Radio Radicale. Come spiegare una radio simile in un Paese che ha subito (e subisce da tempo) un pauroso blocco delle informazioni, nel Paese della Rai visiva e della Rai parlata, in cui una questione testamento biologico te la spiega un vescovo, una di sospetta finanza viene affidata al presunto imputato, il presidente dell'azienda di un vasto spionaggio telefonico viene intervistato per scagionare se stesso, l'immigrazione si chiama "sicurezza", l'estate nelle città deserte "emergenza", con pattuglioni di lancieri e granatieri fra turisti storditi, l'immondizia a tonnellate scompare quando ti dicono che è scomparsa, senza uno straccio di spiegazione e di prova, e la frase: «le impronte digitali fanno bene ai bambini» viene ripetuta come un fatto ovvio, che balza agli occhi, e le reti oscurano i raid nei campi nomadi (che però l'Europa, che ha altre radio e altre televisioni, vede bene), in un Paese così una radio che non apre le notizie con il Papa, ti racconta tutto delle sofferenze di Coscioni e di Welby (e del corpo di Welby abbandonato fuori dalla chiesa), fa parlare una parte e l'altra senza giro rituale e infinto di voci fisse, ti dà le dirette dei fatti veri, ti racconta la guerra in Iraq (la vera storia) e il tentativo di salvare la vita a Tareq Aziz, questa è senza dubbio una radio misteriosa. Diciamo: estranea alla prevalente cultura italiana.
Riceve, certo, contributi per esistere. Ma trasmette tutto da tutto rendendo trasparente un Paese opaco fatto di realtà sovrapposte e impenetrabili, un Paese con le finestre murate a cura di editori, partiti, caste, e interessi speciali.
Non è né gradevole né gentile, Radio Radicale, e non è neppure la cosa più bella del mondo. Personalmente, e professionalmente, mi manca una terza parte (tutte le notizie che segnano un giorno, ripetute più volte al giorno). Ma mi mancano perché penso al solo modello "perfetto" che conosco, la «National Public Radio» americana che quasi ogni giorno dispiace ai politici di potere non perché sia di sinistra (è appena un po' liberal) ma perché non tace su nulla. Radio Radicale, per i miei gusti, è un poco di destra (è appena un po' troppo "di mercato") e come la PBS non nasconde nulla. Ma gli manca il grande notiziario.
Però come saprei di Israele e Medio Oriente e della Cambogia, di Cina e Tibet e Birmania, di sperdute e abbandonate minoranze nel mondo, senza Radio Radicale?
E come comincerebbe la giornata politica di molti italiani (va bene, parlo soprattutto di addetti ai lavori) senza «Stampa e regime», la celebre rassegna stampa mattutina di Radio Radicale?

D'altra parte il 31 luglio, mentre questa nota viene scritta, è anche il giorno in cui il governo "liberale" ha tagliato tutti i sostegni a tutti i giornali considerati "politici", a cominciare da Libero e dal Foglio, fino a l'Unità.
Perché la questione è diversa da una normale decisione di un normale governo? Perché è presa dal titolare del più grande conflitto di interessi del mondo. Quale conflitto di interessi? Quello del proprietario di quasi tutto ciò che si vede e quasi tutto ciò che si legge, che abolisce - o tenta di abolire - anche la minima concorrenza.
La questione "sostenere o no la stampa di partito" specialmente in momenti difficili è grave e seria e degna di dibattito. Il taglio di Berlusconi però finisce per apparire una museruola, una finestra murata in più. Se fossi Radio Radicale - che viene preservata, credo, soprattutto grazie alle dirette dalla Camera, dal Senato e moltissimi eventi politici del Paese (a volte unica fonte di cose veramente dette) - inserirei subito nei programmi ore messe a disposizione dei giornali morenti e delle loro voci che potrebbero finire per sempre nel polpettone quotidiano Rai-Mediaset. In un mondo di regime (che - ti dicono a Radio Radicale - non comincia con Berlusconi, è più radicato e più antico) potrebbe essere un'idea di salvezza.

Pubblicato il: 01.08.08
Modificato il: 01.08.08 alle ore 11.11   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il muro
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 07:52:06 pm
Il muro

Furio Colombo


Gli addetti lavorano svelti e senza molto disturbo o distrazioni. Dove c’era un passaggio per la giustizia, in modo che l’azione del giudice potesse intercettare il sospetto colpevole, adesso c’è il blocco di cemento del “lodo Alfano”. Tiene strettamente legati insieme colpevoli e innocenti. In questo modo i colpevoli sono salvi per sempre, come non avviene in nessun luogo del mondo democratico. Lo dimostrano le dimissioni del Primo ministro israeliano Olmert. È inseguito da un’inchiesta che non si è fermata mai (benché quel Paese sia in situazione di grande emergenza). Ma Olmert, non ha mai lamentato persecuzioni. E prima del processo si è dimesso senza tentare di coinvolgere nel suo destino le altre cariche dello Stato.

Ma - voi direte - l’Italia è la patria del diritto. Forse è per questo che, sfidando non solo il nostro diritto ma anche il diritto degli altri europei e degli altri esseri umani, si è provveduto a murare il percorso di civiltà o anche solo di media umanità che porta verso i cosiddetti campi nomadi, in modo da isolare bambini poveri senza diritti a cui vengono prese a piacimento le impronte digitali che violano ogni principio, ma aggiungendo il sarcasmo tipico del governare ottuso e totalitario. Invece de «Il lavoro rende liberi» adesso c’è scritto (e ripetuto ben oltre il ridicolo, persino dal premier italiano in pomposa conferenza stampa, lasciando un po’ indignati il collega rumeno e il commissario europeo Hammerberg) che «le impronte digitali fanno bene ai bambini». Come se, invece di essere forzati a premere, impotenti, il piccolo dito sul tampone, ricevessero una medicina. Maroni, non può sapere che sta ricreando, in tutto il suo squallore, il mondo dickensiano dei “poveri per sempre” o “poveri come razza” di Oliver Twist.

Berlusconi avrà scorso qualche sceneggiatura sul tema, sa che comunque fa “audience” (il solo tema a cui è sensibile, oltre alla sottomissione dei giudici).

E comunque ha bisogno di Bossi, Borghezio, dei leghisti peggiori, tipo Salvini con cane anti-negro al guinzaglio, tipo Cota, che invece offre il candore di non saper leggere le parole di Mameli (crede e dice alla Camera che l’Italia, e non la vittoria, è “schiava di Roma” nell’Inno che lui crede dei calciatori, e gli sfugge la metafora, seguendo l’esempio del futuro condottiero Renzo Bossi). E butta avanti la “sicurezza” presieduta dai militari come in Honduras. Lancieri e granatieri occuperanno le città italiane d’agosto e daranno man forte, insieme alla crisi di abbandono dell’Alitalia, alla fuga dei turisti. Nessuno decide di fare vacanza in un Paese in cui “la sicurezza” (parola codice per indicare il rigetto verso i Rom e gli immigrati in genere, quegli stessi immigrati che muoiono di fatica e di lavoro, ma senza pensione) diventa “emergenza” (parola gravissima, molto dannosa e mai spiegata) ed è necessaria l’azione continua e convulsa del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa, i Graziani e i Badoglio della nuova Italia di destra, finalmente tornata libera di sognare il peggio. Del resto, la sapete l’ultima? Il sindaco leghista di Novara, Massimo Giordano, vieta gli assembramenti di più di tre persone, proprio come nell’Italia del 1933.

Di là dalla barriera un po’ folle di poliziotti senza paga e senza benzina e di soldati “ad arma corta” mandati a cercare nemici che non ci sono, nelle città vuote, si intravedono ospedali sul punto di chiudere (dalla Lombardia al Lazio) per i tagli della prodigiosa nuova Legge finanziaria che rifiuta di rimborsare le Regioni. Se sono ancora in funzione e ancora senza ticket, quegli ospedali sono infestati dalla nuova piaga della Sanità italiana: i medici obiettori. Sono medici che, di giorno, negano di essere obiettori per preservare l’inclita clientela della ricca pratica privata. Ma improvvisamente diventano obiettori di notte, al Pronto soccorso, a voce ben alta, preferibilmente di fronte alle suore, in modo che la coraggiosa dichiarazione giovi alla tanto attesa promozione a primario. Quando si tratta di negare l’iniezione anti-dolore alla donna povera che viene all’ospedale pubblico per partorire, quando si tratta di negare la pillola del giorno dopo o assistenza e indicazioni anticoncezionali a sciagurate ragazze che non solo non sono caste, ma non sono neanche ricche, i medici obiettori esibiscono tutta la loro fede e ubbidienza cristiana. Qualcuno deve pur insegnare a queste pazienti pretenziose che non sono a Copenaghen o a Lione, quando cercano assistenza in un ospedale pubblico italiano. Sono in territorio Vaticano. E in territorio Vaticano “partorirai nel dolore” (roba che ha a che fare col peccato originale) ma vivrai per sempre. Vedi la condanna del Parlamento italiano e della Procura generale di Milano che comandano a Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo da 16 anni, di restare legata ai sondini per sempre perché in questo Paese è proibito, per rifiuto di fare la legge, il testamento biologico. Ed è proibito morire con dignità perché non c’è la legge.

***
Altri muri sono in corso di rapida costruzione a Sud e a Nord del Paese per impedire la libera circolazione della normalità e della media civiltà occidentale attraverso l’Italia. A Sud il separatista siciliano Lombardo, divenuto avventurosamente Presidente della Regione, ha dato il via alla spaccatura, pubblica e simbolica, di tutte le targhe di piazze e di vie che si riferiscono all’Unità d’Italia. Si spaccano davanti alle telecamere le targhe che indicano luoghi, celebrazioni o memorie di Garibaldi, dei Garibaldini, dell’impresa dei Mille, dei plebisciti che hanno votato l’Unità d’Italia, di eventi del Risorgimento italiano, di personaggi come Cavour.

Al Nord sindaci xenofobi opportunamente dotati di poteri speciali di polizia che scardinano in ogni senso la norma costituzionale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione», governano con cattiveria contro immigrati e Rom (anche se cittadini italiani) guidati dalle loro piccole menti senza storia, ispirati dalla grettezza, isolati persino dal contesto produttivo delle loro città dove le fabbriche cercano e chiedono nuovi lavoratori.

Hanno denominato il loro finto paese “Padania”, nei loro luoghi invocano la secessione, al punto di far giocare la loro “nazionale” di calcio nel campionato degli Stati non riconosciuti (che vuol dire ovviamente “non ancora riconosciuti, cioè non ancora liberati). Ma occupano a Roma vari ministeri, fra cui il ministero dell’Interno, realizzando per la prima volta l’operazione inversa: il partito secessionista occupa il Paese da cui dichiara di separarsi e impone a tutti gli altri italiani i suoi “valori”, inventati o recuperati nelle sottoculture locali. Dovreste ascoltarli a Roma, quando in Parlamento parlano e insultano in nome della Padania senza che il Presidente dell’Assemblea li interrompa per dire: «Scusi onorevole, ma lei è un deputato italiano e questo è il Parlamento italiano. In questo Parlamento nessuno ha mai detto, o anche solo discusso, che cosa sia la Padania». Indifferenti, questi secessionisti operano sul territorio per far apparire “emergenza” e allarmata richiesta di sicurezza il meno pericoloso Paese d’Europa (con l’eccezione, mai più citata, della criminalità organizzata e indisturbata che occupa tre regioni del Sud italiano, con solide filiali al Nord e le sue mattanze senza fine). E all’interno dello Stato praticano la crudeltà di privare gli immigrati di pensioni minime, anche se sono immigrati legali, anche se hanno lavorato come schiavi nella nuova civiltà padana.

Al Sud un muro isola e protegge il siciliano Lombardo, e nessuno sembra aver notato il ritorno (originariamente mafioso e fascista) del separatismo. È un muro di omertà giornalistica e di silenzio politico.

Al Nord la Lega si è ormai rivelata, come ci avverte con allarme l’Europa, il movimento secessionista più estremo, generatore di rancore, vendetta, razzismo. Non esita a dichiarare le sue intenzioni, letteralmente “di lotta e di governo”. Incassa, senza imbarazzo, autorevoli rimproveri per il grado estremo di volgarità, che è pronta a ripetere subito, contando sul fatto che le poche frasi o gesti o iniziative non apertamente offensive, non dichiaratamente minacciose della Lega Nord vengono subito salutate, più o meno da tutti, come grandiosi atti di civiltà.

Stampa e politica hanno già alzato un muro a protezione della Lega che - a quanto pare - interpreta sentimenti profondi degli italiani. Come il fascismo. Nel profondo, infatti, ci sono anche i sentimenti peggiori. Basta incoraggiarli, e alla fine avvelenano i pozzi del comportamento comune.

***
Il muro più alto, insopportabile per molti cittadini che non hanno altre fonti di informazione oltre la Tv, sono i media.

La sera del 31 luglio il Presidente del Senato Schifani era seduto nello studio del TG 1, ore 20, per spiegare se stesso. Purtroppo non come istituzione dello Stato ma come esponente del partito di governo detto “Popolo delle libertà”. È un privilegio che altrove i titolari delle istituzioni non ricevono mai in quanto militanti politici. Persino il Presidente degli Stati Uniti - se chiede di parlare al Paese - deve dire perché.

Ronald Reagan, George Bush padre e Bill Clinton si sono visti rifiutare (Reagan tre volte) le reti unificate delle più importanti televisioni americane con questa risposta: «Il suo è un discorso politico, non presidenziale. Se vuole, lo trasmettiamo a pagamento».

Renato Schifani, Presidente del Senato in veste di voce di Berlusconi, si è sentito rivolgere questa domanda dal conduttore del Tg1: «Presidente Schifani, perché la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura non è uno scandalo?».

Ma sentite come inizia il suo servizio da Napoli, il giorno 1 agosto, Sky Tg 24, ore 14: «È tornato lo Stato. Con questo spirito il presidente del Consiglio arriva per la sesta volta a Napoli». Non un tentativo di dire al pubblico se e quale rapporto c’è tra quello spirito e la realtà, ovvero la differenza fra pubbliche relazioni, che celebrano, e giornalismo, che verifica.

Quando tocca a Berlusconi, ha questo da dire sul tanto invocato dialogo: «Per ora, da parte dell’opposizione, mancano rispetto e lealtà». Ha elencato, nell’ordine, le classiche virtù dei cani.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 03.08.08
Modificato il: 03.08.08 alle ore 14.26   
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Titolo: Furio COLOMBO - Bologna, la strage nera
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2008, 10:44:57 pm
Bologna, la strage nera

Furio Colombo


Mi sembra ingiusto e mi sembra strano tacere solo perché sarebbe più facile tacere. Parlo di Bologna, della strage della stazione, della sentenza.

Quella sentenza (dopo tante sentenze) che condanna come colpevoli Mambro e Fioravanti. E parlo della cerimonia burrascosa, delle dichiarazioni del presidente della Camera Fini, delle polemiche e tensioni di questi giorni.

Molti lettori di questo giornale sanno che dai primi anni Novanta ho detto e scritto la mia persuasione sulla innocenza di Mambro e Fioravanti (cioè per il solo delitto, fra i tanti loro imputati, che essi respingono). Mantengo quella persuasione anche adesso, anche oggi, e lo faccio, in probabile dissenso con molti lettori, anche dopo che l’Unità in questi giorni ha scelto, secondo la sua storia, di confermare tutti i punti, giudiziari e politici di quella vicenda, non solo nella cronaca ma anche con un lucido intervento di Gianfranco Pasquino.

Devo tentare di dimostrare ancora una volta perché sono, allo stesso tempo, dalla parte delle vittime e della immensa e non guarita ferita che Bologna ha patito il 2 agosto 1980, e dalla parte di Francesca Mambro e di Valerio Fioravanti, che continuo a ritenere estranei da quello spaventoso evento, nonostante tutti gli altri eventi delittuosi di cui sono stati volontari iniziatori e protagonisti.

E spero di farlo, affrontando un nodo così intricato e pesante, con chiarezza e semplicità.

1. Eventi spaventosi, irrimediabili e pieni di sangue e di dolore, come la strage di Bologna, chiedono e cercano l’unica risposta civile che è la giustizia: indagare, condannare e con fermezza e certezza. Purtroppo, mentre la tragedia è riuscita nel suo pieno di morte, indagini e processi (ce ne sono stati tanti, e tante sentenze prima della condanna definitiva) sono apparsi segnati da deviazioni, ostacoli, false testimonianze, ritrattazioni, improvvise entrate in scena di nuove voci, cancellazione, per tante ragioni, di molte di esse.

2. Chi ha letto e riletto gli atti sa che un solo filo, soggettivo e di origine non chiara, porta dal tragico fatto ai “colpevoli” . Ma una volta raggiunta una visione finale, dopo tanti tentativi andati a vuoto, è sembrato a molti, con un atteggiamento del tutto comprensibile e umanamente condivisibile, di avere finalmente un punto di riferimento e di appoggio tanto forte quanto la strage: la sentenza definitiva. E di avere una ferma ragione per credere in quella versione e nella sicura colpa dei condannati.

3. Innumerevoli fatti della storia insegnano che vicende gravi e oscure che segnano e devastano la vita di un Paese, restano gravi e oscure anche durante i processi e nonostante l’impegno appassionato di investigatori e di giudici. Basta evocare i nomi di Lee Harvey Osvald e di Earl Ray James (presunti assassini di John Kennedy e di Martin Luther King, ritenuti in seguito innocenti persino dalle famiglie del presidente e del leader nero assassinati) per rendersi conto che è tipico di alcuni delitti di vasta portata politica di portare con sé anche gli esiti giudiziari, in modo che gli ostacoli di una ricerca di verità divengano insormontabili.

4. Evidentemente ciò che sta più a cuore a chi ordisce simili delitti, segnati non solo dall’orrore del momento, ma da conseguenze che continuano nel tempo, è di raggiungere il punto in cui una sentenza possa essere usata come una pietra tombale. Identificando definitivamente un colpevole troncherà per sempre ogni altra ricerca sui fatti e potrà mettere qualcun altro, organizzazione o persona, al sicuro.

5. Anche in base all’esperienza americana, sono fra coloro che hanno visto nella sentenza finale Mambro-Fioravanti una verità, non la verità. E si sono sentiti a disagio quando l’hanno vista diventare unica, assoluta bandiera, con il rischio che la manifestazione del dubbio fosse interpretata come dissacrazione di quella bandiera.

Eppure il dubbio era - ed è - più che mai fondato nel racconto e nelle immagini spaventose del 2 agosto. Non era uno scostarsi dalle vittime e dai loro cari, ma una invocazione a non smettere, a non fermarsi. Qualcosa o qualcuno potrebbe essersi messo al riparo dietro quella fragile sentenza.

6. Ho detto varie volte, e ripeto, conoscendo il rischio di fraintendimento di ciò che dico, che tutto ciò che sappiamo di Mambro e Fioravanti non li colloca in nessun modo fra gli abili e oscuri sicari, decisi a restare ignoti, di un simile spaventoso evento. Quando dico “sappiamo” non intendo notizie o informazioni che non ho. Intendo “noi” i giudici, “noi” i giornalisti, “noi” i cittadini che dei due condannati, quando erano giovani ed erano terroristi, sappiamo tutto e hanno detto tutto, senza che mai sia risultato un solo dettaglio dei loro delitti, nascosto o depistato o alterato.

7. Non è solo il profilo psicologico o il “modo di operare”, criterio così caro ai criminologi, a orientare. Non è solo la sequenza dei fatti che, senza testimonianze tarde e strane e tipicamente rivolte a coprire qualcosa o ben altro, non porta a quella stazione e a quel treno i due già notissimi protagonisti del terrore. Ma è il rapporto vistoso, clamoroso, fra tutta la loro vita di giovani fuorilegge politici che uccidono di persona, rischiando e quasi trovando la morte, e il mestiere oscuro e segreto della bomba nascosta su un treno. Quando qualcuno di noi ha detto «non Mambro, non Fioravanti» tutto il peso emotivo si è spostato sull’innocentismo. Ma il vero senso di quella affermazione, che va ripetuta anche oggi, era: «vi chiediamo per l’orrore di quel giorno, per la memoria delle vittime, per il dolore spaventoso dei sopravvissuti, continuate a cercare».

8. Non so niente di ciò che il presidente Fini ha ritenuto di dichiarare. Nella sua posizione non è, credo, la cosa giusta da fare. Come non lo è, sono certo, il porre avanti il problema se la strage fosse o no di destra. Le stragi italiane, benché tutt’ora impunite, sono apparse tutte di destra anche agli investigatori più scettici e meno politicizzati. Però ciò di cui stiamo discutendo è molto più grave e rende frivolo il precipitarsi a correggere l’etichetta sui faldoni. Nel nome delle vittime, di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nella più cupa emergenza, restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 05.08.08
Modificato il: 05.08.08 alle ore 15.02   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il concordato
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2008, 12:06:09 am
Il concordato

Furio Colombo


Dialogo o concordato? Non parlo di rapporto fra Stato e Chiesa. Parlo di opposizione e delle nuove misteriose vie di alcuni del Partito Democratico verso il potere e verso il governo. Durante le lunghe pause del lavoro alla Camera, dove tutti parlano a lungo e parlano a vuoto, «perché comunque la mia legge uscirà dal Parlamento intatta, così come è stata voluta e scritta dal mio governo» (Berlusconi, a proposito della legge finanziaria definita «rivoluzionaria», 8 agosto), durante quelle lunghe pause ripenso ai due anni trascorsi al Senato, senza uscire un minuto, per presidiare il governo Prodi.

Di fronte a noi sedeva l’opposizione, un mezzo emiciclo rabbioso, violento, insultante, fantasioso nei modi diversi di sporcare l’aula, fare pipì sotto il banco, insultare come carrettieri (è un modo di dire antico che non corrisponde alla volgarità contemporanea) Rita Levi Montalcini, il presidente emerito Scalfaro, certe volte il presidente emerito Ciampi, tutti instancabili nel rendere impossibile il lavoro del Senato fino al punto di votare «no» (loro, la destra) al rifinanziamento e adeguamento di difesa delle missioni militari italiane nel mondo. Lo so che mi ripeto. Ma rivedo quelle scene nel silenzio pacato della nostra aula, dove tanti trovano eccessivo se Di Pietro alza di un decibel la voce per denunciare la penuria di benzina e di fondi in cui è stata lasciata la polizia, e mi domando: dove saranno finiti quelli delle barricate di un Senato praticamente occupato, arringato ogni pochi minuti dal capo popolo Schifani, in un lungo tripudio di applausi, prima, durante e dopo le sue inaudite denunce di tutti i tipi di furto, menzogna e frode da parte di Prodi o di Padoa-Schioppa? Nei libri di lettura per bambini (parlo della infanzia pre-Gelmini) gente così sarebbe finita male, fuori dalla politica, che invece è - ti dicono - fatta da persone competenti e rispettose. Ma se guardi il telegiornale li riconosci, mentre parlano col nuovo tono condiscendente di chi sa come si gestiscono le istituzioni, li troviamo immersi in alte cariche dello Stato, in ministeri chiave, o in funzioni di bertoldiana memoria (ricordate «scarpe grosse e cervello fino»?) come il fiabesco Ministero della Semplificazione. Li ritrovi presidenti del Senato intenti a raccogliere sentite e trasversali testimonianze di solidarietà se subiscono attacchi pur mille volte più miti di quelli che lanciavano alla "rovinosa maggioranza di centrosinistra" (quando c’era), quella "che ha messo in ginocchio l’Italia", tanto che poi hanno dovuto rialzarla verso la crescita zero. Li ritrovi sindaci, come il sindaco di Roma, uno con la croce celtica che ha avuto il pieno sostegno di tutte le minoranze fasciste rimaste sul terreno, uno che vuole armare i vigili urbani invece di vietare la sosta in tripla fila, uno che i soldati di pattuglia li ammette solo nei quartieri poveri, dove evidentemente tutti sono brutti, sporchi e cattivi, uno che, se non era per la indignazione solitaria della comunità di Sant’Egidio (non un editoriale o corsivo della premiata stampa libera), voleva far arrestare coloro che frugano nei cassonetti. Un pronto intervento umanitario, unico ma per fortuna efficace, ha salvato il sindaco di Roma da un proposito che davvero (per una volta si può dire) non era né di destra né di sinistra ma soltanto ignobile: arrestare gli affamati in quello stato di disperazione in cui vai a frugare nell’immondizia. Dispiace che una domanda non sia stata rivolta al sindaco: ma perché una simile crudeltà che, per giunta, è stupida e inutile? Perché diffamare Roma?


* * * *


Ma c’è un’altra domanda: perché un atto così vistosamente inaccettabile non ha fermato la corsa di alcuni grandi personaggi del centrosinistra verso le stanze, il lavoro, i progetti del sindaco Alemanno? Sto continuando la riflessione del direttore di questo giornale nel suo editoriale di ieri. "Grande", è una parola senza ironia, se mai segnata di tristezza, se parlo di Giuliano Amato, di Franco Bassanini, di alcuni che sono andati o stanno andando senza esitazione verso il ragazzo della Via Almirante, sindaco di estrema destra di Roma. O verso il ministro leghista Calderoli, quello delle forbici arrugginite da riservare agli immigrati. Scambiare Alemanno o Calderoli per Sarkozy sembra davvero eccessivo. Far perdere le tracce della propria identità è un colpo grave a qualunque cosa sia l’opposizione. È vero, il fenomeno, benché inspiegabile, si allarga di ora in ora e di giornale in giornale. Per restare ai quotidiani dell’8 agosto, ho annotato: Senatore Zanda: "A me la decisione di Amato non dispiace affatto". Presidente della Provincia di Milano Penati: "Si torni a fare gioco di squadra" (intende con Moratti e Formigoni). Presidente della Regione Lazio Marrazzo: "Sono grato, nel governo c’è chi mi difende". Sindaco di Bari Emiliano: "Mi sono congratulato con il Governo per il pacchetto sicurezza" (È quello che impone le impronte digitali ai bambini rom, N.d.R.). Sindaco di Vicenza Variati: "Non si demonizza chi sta al governo". Quanto a Bassolino, Cacciari, Velardi, radici e storie e culture diverse, ma tutte "di sinistra", rifiutano con sdegno la mite firma richiesta da Veltroni "per salvare l’Italia". Sembrano davvero persuasi che, come spiegano, "non si firma contro il governo". Giustamente, lo stesso giorno il Corriere della Sera apre il paginone della cultura con il titolo: "Sinistra, hai tradito i valori della patria". Era una vecchia storia di Orwell, ma che si adatta due volte in modo perfetto alla circostanza. Una prima volta perché ti fa capire che anche arrestare chi fruga nei cassonetti è più "da statista" che stare a sinistra, rinchiusi in una identità colpevole, misera e umile, mentre la vera vita politica trionfa altrove. In quell’altrove, c’è il misterioso "berlusconismo". Se lo attacchi, vuole la leggenda, commetti un reato di estremismo che ti farà restare fuori dal potere e dai benefici del potere per altri vent’anni. Se non lo attacchi - ti dice la realtà di ogni Paese democratico in cui una vigorosa opposizione è ritenuta l’unica autocertificazione della libertà - resti per forza fuori dal potere e dai suoi benefici per tutti e cinque gli anni di una completa legislatura più i sette anni di un’intera presidenza della Repubblica. Come uscirne? Chiarisce, per noi del Pd Enrico Letta che - nelle primarie - si era candidato per esserne segretario: "l’antiberlusconismo è definitivamente archiviato. Tutti si stanno interrogando sul post-berlusconismo e noi dobbiamo essere tra quelli". Essere post-berlusconisti mentre Berlusconi ricomincia appena a governare è come essere post-fascisti negli anni Trenta. In questo clima un po’ allucinato, Orwell è più che mai di casa, lui che ha inventato "il ministero della verità". Non vi viene in mente quando sentite parlare del favoloso Ministro della Semplificazione, che siede allo stesso tavolo in cui una legge finanziaria triennale, priva di correlativa contabilità dello Stato, viene approvata in nove minuti senza che nessuno sappia che cosa c’è dentro? E senza che il ministro della semplificazione faccia una sola domanda, forse per non turbare il record dei nove minuti, non un secondo di più che ci sono voluti per approvare una manovra finanziaria triennale nel periodo più complicato e pericoloso della storia del mondo contemporaneo?


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Incombe la questione del dialogo, del fare un sacco di cose insieme, maggioranza e opposizione, "per il bene dell’Italia". Per esempio, ti chiedono i Radicali, facciamo insieme la riforma della Giustizia. È un progetto nobile e dovuto. Ma è davvero proponibile discutere quel problema con un primo ministro che è sfuggito alla giustizia solo con leggi speciali fatte per lui, dalla "Cirami" al "lodo Alfano", una fuga durata dieci anni e fino ai nostri giorni, un specie di conte di Montecristo che ha scavato nei codici il buco della sua impunità? Una volta stabilito, capito e fatto capire da chi è fatta la leadership di questo governo (alcune notizie interessanti e rivelatrici ci giungono quasi ogni giorno alla Camera dagli interventi di personaggi dell’Udc di Casini, che sanno per esperienza di che cosa parlano) "il bene dell’Italia" non sarebbe meglio garantito da una tenace, chiara, implacabile opposizione che tenga alta e ben distinta l’identità diversa di chi si oppone? "Senta, se devo proprio dirla tutta, le dirò che la questione del dialogo è stucchevole", ha detto due giorni fa Berlusconi ad una giornalista incalzante. Se volete una prova del nostro pentimento per l’uso del persistente e intrattabile "antiberlusconismo" eccola. Scrivo qui per la prima volta: "Berlusconi ha ragione". Lo so, i miei colleghi editorialisti della stampa libera lo scrivono tutti i giorni e poi si precipitano in televisione a ripeterlo. Per una volta - e pur sapendo che non trarrò gli stessi benefici e neanche un invito a "Ballarò" o a "Che tempo che fa" (parlo di fortini della resistenza televisiva) - lo dico anche io: "La questione del dialogo è stucchevole". Lo è perché Berlusconi, come ha dimostrato in tutta la sua vita, come continua a dire con assoluta chiarezza, non concepisce alcuna modifica di ciò che decide, scrive, annuncia o progetta. Meno che mai sulla Giustizia. Tutti e quattordici i punti proposti come base di discussione dal documento parlamentare dei Radicali eletti nel Pd sono importanti, storicamente fondati e di evidente urgenza. Ma ha senso discuterli con gli avvocati di Berlusconi? Non è un percorso che taglia di traverso "il bene dell’Italia" e porta altrove? A meno di pensare che si debba discutere di Giustizia con Berlusconi come il Papato scelse di discutere di diritti religiosi della Chiesa con Mussolini. Non era fiducia nella religiosità di Mussolini. Era consapevolezza che il fascismo era ormai radicato e non c’era altra soluzione che accettarlo. Quello che ci propongono, più che un dialogo, è un concordato con Berlusconi, mediato da Fini, che ha come simbolo il Campidoglio definitivamente di destra del sindaco Alemanno. Dunque l’accettazione del vincitore perenne. Chi ci ha votato merita di più. Può essere legittimo dire che Di Pietro si occupa solo del suo partito, della sua immagine, della sua propaganda, quando si alza, irruente, alla Camera per denunciare ed accusare. Ma avremo il diritto di dirglielo solo dopo avere occupato tutto lo spazio di opposizione, davanti a milioni di italiani che hanno votato per noi e che aspettano. Finché aspettano.

Pubblicato il: 10.08.08
Modificato il: 10.08.08 alle ore 14.28   
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Titolo: Furio COLOMBO - Ultima preghiera
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2008, 09:55:06 pm
Ultima preghiera

Furio Colombo


Se fossi credente pregherei per Giuliano Amato e per Franco Bassanini perché Dio li illumini sulla strada sbagliata che stanno prendendo.

Poiché non sono credente, la preghiera la rivolgo a loro: perché non rendete conto dello schiaffo che state dando a chi ha votato Partito democratico nelle elezioni nazionali e in quelle di Roma, e gli state dicendo che tutto quello che hanno fatto è inutile, che non ci sarà alcun ricambio perché non c'è alcuna diversità, e tanto valeva andare insieme subito nel «partito della maggioranza» in cui si estingue qualunque opposizione e che solo alcuni di noi continuano a trovare minaccioso?

Prendete Livia Turco, capo - dicono i giornali - della sinistra del Pd. Livia, da quando la sinistra del Pd si è schierata per Alemanno? Il nuovo sindaco di Roma ha una reputazione e una vita formata e trascorsa nella destra della destra romana, ha avuto il sostegno travolgente di ogni frangia estrema che non si fida di Fini e non lo ha seguito nella svolta di Fiuggi. È una persona seria, che tiene molto alla sua reputazione, al punto di proporre subito di intitolare una strada romana al segretario di redazione della nota rivista "La difesa della razza". È una persona determinata nella gestione autoritaria dell'immagine, al punto di disporre l'arresto dei disperati che frugano nei cassonetti.

Si rende conto, Livia Turco, che senza l'intervento della Comunità di Sant'Egidio (la Comunita di Sant'Egidio, non il Pd) quei rovistatori che rendono pessima l'immagine di Roma Capitale, sarebbero già in prigione? A meno che io abbia perso un congresso della sinistra del Pd ("Sinistra per Veltroni" che mi ha eletto piuttoso bene in Toscana) non ho mai sentito qualcuna o qualcuno di noi dire che è bene portare in omaggio al sindaco di questa destra di Roma (e ai suoi tassisti che hanno sconquassato la città per difendere la loro categoria negando ogni diritto dei cittadini) uno dei nomi più illustri del centrosinistra italiano, della sua storia, della sua cultura.

Perché un simile omaggio al vincitore? Perché è vincitore? Perché è post-fascista? Perché tutta la destra ancora esistente a Roma ha votato per lui? Perché dà la caccia agli zingari e ai rovistatori di cassonetti?

Ci vuole dire - preghiamo di cuore Giuliano Amato - perché il suo nome apparirà in testa al progetto Alemanno, ne arricchirà il lavoro, ne aumenterà prestigio e voti in modo che la destra governi felice e incontrastata a lungo?

Posso supplicare Livia Turco, a cui ho sempre guardato con amicizia, che cosa diavolo le fa dire che è una buona cosa per Giuliano Amato essere parte dello schieramento Alemanno?

Capisco, ovviamente, che una persona di valore fa un buon lavoro e che - se quel lavoro è pubblico - è un bene per tutti. Ma non va così in democrazia. Negli Usa si conoscono i nomi di giuristi illustri che - nel sondaggio discreto che precede la nomina - hanno rifiutato di essere inclusi nella lista di Bush che li avrebbe portati alla Corte Suprema. Si conoscono i nomi di personaggi politici che, come ambasciatori alle Nazioni Unite, avrebbero giovato molto agli americani, ma si sono discretamente defilati sapendo di non condividere in nulla la visione "neo-con" di Bush sulle Nazioni Unite.

Ma per restare in casa, tutti ricordiamo l'abilità del fascismo nell'assicurarsi un grande della cultura italiana come ministro dell'Educazione. Ma ha scelto un fascista, Giovanni Gentile. E non gli è mai riuscito di mettere alla testa di un ministero o di una prestigiosa commissione l'altro grande di quegli anni, grande ma non fascista, Benedetto Croce. Il caso di Franco Bassanini, incerto se partecipare alla commissione Amato o al lavoro che servirà a confermare la qualità di statista di Calderoli, è del tutto simile, quanto a simbolo di una parte viva (speriamo) e combattiva (è l'augurio insieme fervido e disperato) dell'opposizione in questo Paese. Ma se invece di fare l'offeso con chi ha messo in discussione la sua nuova avventura, ci spiegasse perché ha detto sì (non ci sono tracce, in America, di una "commissione Obama" al lavoro con Cheney per il bene di tutti), colmerebbe un vuoto pauroso di informazione e di incomprensione. Bassanini è l'inventore di un modello unico di semplificazione e restituzione di diritti ai cittadini, oltre che difensore abile e instancabile della Costituzione, con la sua Associazione Astrid. Ma - che lo voglia o no - Bassanini non è un tecnico, è un politico molto radicato in ciò che fanno, ricordano, pensano, sperano gli elettori di centrosinistra.

È chiaro che quegli elettori non capirebbero perché dovrebbe portare il suo prestigio e il suo talento ad Alemanno, raddoppiando l'errore di Amato. È chiaro che quegli elettori capiscono anche meno quando sentono dire che sarà accanto a Calderoli ovvero al gruppo del dito medio di Bossi che - una volta alzato - va nello stesso luogo anatomico in cui viene usato, dalla stessa persona, il Tricolore; al gruppo della caccia dei neri sulla spiaggia; al gruppo delle impronte digitali ai bambini rom; al gruppo che chiude le moschee e fa in modo che - per chi ha avuto la disgrazia di immigrare in Italia ai tempi della Lega - non ci può essere un luogo di preghiera; al gruppo che fa arrestare una persona senza permesso legale, quando chiama i carabinieri perché lo stanno ammazzando.

Noi, quelli che non condividono gli affari e i dividendi di Berlusconi, che non dicono cloaca ai giudici, che non proclamano "eroe dell'Italia" un pluriomicida mafioso (sì, lo sappiamo, era solo un messaggio elettorale a qualcuno), che non stanno mandando minacciosi segnali per prevenire la condanna in appello di Marcello Dell'Utri, che si oppongono con tutte le forze al secessionismo ormai aperto e dichiarato della Lega Nord e all'immenso rischio di una legge finanziaria totale, triennale, segreta,discussa da nessuno, votata con la fiducia, noi vorremo continuare questa battaglia, che a momenti ci sembra disperata. La vorremmo continuare insieme con persone che non vogliamo donare alla destra che - per giunta - è la destra peggiore mai esistita in Italia. A meno che ci siano ragioni che non sappiamo o non abbiamo capito. Se è così non vorranno Amato e Bassanini dirci qui perché abbiamo torto?

Pubblicato il: 13.08.08
Modificato il: 13.08.08 alle ore 10.39   
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Titolo: Furio COLOMBO - Né di destra, né di sinistra
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2008, 11:23:06 pm
Né di destra, né di sinistra

Furio Colombo


Che momento della storia è questo? Allarmanti analogie ci circondano. L’economia, come nel 1929, sta crollando nelle aree più ricche del mondo, per lo squilibrio tra avidità di immensi guadagni e mancanza di controlli. La Georgia, come la Polonia nel 1939, viene invasa da un vicino potente e violento che nessuno vuole sfidare.

Gli Stati Uniti sono per tante ragioni lontani e distratti, con una visione certamente sfuocata.

L’Italia è frantumata, o sta per esserlo, come i Balcani: governo nelle mani della Lega al Nord e dei separatisti al Sud, intenti a spaccare la reputazione morale e l’integrità fisica del Paese. Tra poco le rivelazioni del “federalismo fiscale” ci diranno a che punto è giunta quella volontà di spaccatura.

Un ritorno al fascismo, come dice Famiglia Cristiana? È un po’ che si vede, ha i suoi momenti esemplari, come la caccia ai neri sulle spiagge italiane, come le impronte digitali imposte con la forza ai bambini Rom. Certo l’epoca è giusta. E, come in quell’epoca, il nascente regime può contare su chi nega, chi collabora, chi sminuisce, chi guarda ad altro, chi concorda. Le ragioni sono tante e diverse, ma tutte le corde tengono su il tendone del circo.

Adesso la frase chiave per definire ogni nuova impresa del Governo è che «non è né di destra né di sinistra», frase che ormai si usa per giustificare di tutto. Il rischio è che si finisca per dirlo, in un tempo non lontano, nell’invocare la pena di morte.

«Dovremmo fermarci solo per il rischio che gli elettori non capiscano?», si domanda Franco Bassanini, della premiata ditta Bassanini-Calderoli, da non confondere con la premiata ditta Amato-Alemanno.

Vale la pena di notare quel “solo”. Se gli elettori si ostinano a non capire è chiaro che sono ottusi, privi di visione politica e che nella nostra futura maggioranza non li vogliamo. Però la domanda (formulata da Bassanini nel suo articolo-risposta sull’Unità del 15 agosto) tradisce un certo fastidio e anche un po’ di disprezzo verso lo scrivente («devo una spiegazione ai nostri lettori ben più che a lui») a proposito di un mio articolo in cui chiedevo ragione ai due professori, finora identificati in prima fila con il centro sinistra, per la loro improvvisa corsa (che non si è mai verificata nell’altro senso) verso un sindaco e un ministro di una destra davvero poco moderata. Infatti è la stesa destra che costringe alle impronte digitali i bambini rom, che vuole acciuffare chi fruga nei cassonetti e sbatte sul pavimento di una cella di sicurezza una ragazza sporca di terra, definita prostituta illegale, evidentemente trascinata a forza per le strade di Parma fino al luogo in cui è stata fotografata, una cella che - si intende - «non è né di destra né di sinistra, come le pere, le mele, le banane» (cito da Bassanini, che avrebbe dovuto aggiungere bambini rom e illegali arrestati in flagranza).

Ma torniamo alla domanda di Bassanini: «Può un grande partito democratico, come vorrebbe Colombo, rifiutarsi di partecipare costruttivamente alla sfida della modernizzazione e delle riforme solo per il rischio che i suoi elettori non capiscano? Non si tratta piuttosto di aiutare i nostri elettori a uscire da una visione rozza e selvaggia della democrazia dell’alternanza?».

* * *

Il messaggio è chiaro, come quelli che da bambini scrivevamo sulla lavagna se il maestro usciva un momento di classe. Ricordate? «Asino chi legge». Qui c’è una lieve modifica: “asino chi legge l’appello” - che era accorato, rispettoso, amichevole - di questo giornale ad Amato e Bassanini. Asino chi non ha letto per tempo le autorevoli interviste dei due ai maggiori giornali nazionali (certe cose mica si vanno a dire all’Unità!) in cui già tutto era già stato spiegato. Asino - ti dicono - è chi ci fa perdere tempo. Noi abbiamo da fare, non possiamo far aspettare statisti come Calderoli “che avrà anche detto cose deliranti e razziste. Ma il 14 luglio si è presentato al seminario delle quindici Fondazioni dichiarandosi d’accordo al novantanove per cento”. Dio mio, un evento storico a cui non avevamo fatto caso.

Non possiamo irritare la croce celtica (che, supponiamo, “non è né di destra né di sinistra”) di Alemanno, non possiamo scadere «a una visione rozza e selvaggia della democrazia dell’alternanza». Il vecchio senatore Kennedy, che un mese fa si è presentato nell’Aula del Senato americano con la testa fasciata (aveva appena sostenuto una operazione gravissima) perché non mancasse il voto risolutivo contro il Presidente Bush e contro i Repubblicani, è servito. Non ha capito che salvare o abrogare una legge di assistenza sanitaria per i bambini poveri d’America (che ovviamente non sono né di destra né di sinistra) è alternanza rozza e selvaggia da evitare come la peste. Molto più civile abbandonare una simile sterile “politica estiva, partitica e faziosa”, e dedicarsi al lavoro di una Fondazione, dove le buone idee sono un patrimonio comune della destra e della sinistra. Altrimenti? «Altrimenti offriamo pretesti per decisioni a colpi di maggioranza». L’argomento è destinato a restare, almeno come nota a pie’ di pagina, nei maggiori testi di politologia. È fatto di tre passaggi, tutti e tre cari a Bassanini.

Il primo è: «Possiamo sottrarci al dovere di dare, ciascuno di noi, il nostro contributo a soluzioni solo perché fatte proprie e realizzate da governi di destra legittimati dal voto della maggioranza degli italiani?». Traduzione: la maggioranza è tutti noi. E anche: Bonaiuti e Letta sono ormai inutili per Berlusconi.

Il secondo passaggio: «Le riforme costituzionali ed elettorali imposte a colpi di maggioranza sono il frutto avvelenato di bipolarismo selvaggio». Traduzione: collaborare sempre. Tanto, chi ha la maggioranza vince comunque. Ma almeno nel prossimo “Porcellum” ci saremo anche noi.

Terzo passaggio: gli elettori smettano di essere “rozzi e selvaggi” e di infastidire con una cosa chiamata “opposizione”. Basterà aggiungere, tra poco, che «la maggioranza, legittimata dal voto degli italiani» non è né di destra né di sinistra. Tanto è vero che il suo simbolo è il dito medio levato in alto ad indicare la strada «dell’interesse del Paese. Delle donne e degli uomini che lo abitano, e delle generazioni future». Bassanini ne è certo. Data la sua storia, dispiace.

* * *

Ora domandiamoci perché questa piccola sequenza di fatti e parole locali ci tenga inchiodati all’Italia, Paese divenuto così irrilevante che il nostro ministro degli Esteri decide di rimanere in vacanza alle Maldive mentre tutti gli altri ministri degli Esteri d’Europa si riuniscono d’urgenza perché è scoppiata una guerra. La risposta la troviamo in un editoriale del Boston Globe del 13 agosto: «Quest’uomo sfuggito alla giustizia merita attenzione non solo perché è talmente ricco o perché è celebre nel mondo. Merita attenzione perché è un magnate dei media che ha dato origine a una democrazia finta e pilotata, una democrazia che preserva le apparenze di sovranità popolare ma ne svuota la sostanza. La sua è una popolarità comprata. Ha comprato o intimidito tutti i media. Ha lanciato grandi operazioni di sicurezza senza toccare il crimine organizzato. Si sottrae ai processi che lo accusano di avere corrotto col suo potere e col suo denaro. Le affermazioni di persecuzione giudiziaria con cui lui si difende non devono essere credute. Sono palesemente pretesti politici. Solo un processo legale, completo e trasparente, potrà portare a conclusione questo clamoroso stato di illegalità. Il suo Paese dovrà liberarsi dalla condizione malata di essere governato da un uomo solo che controlla tutti i media con la sua ricchezza».

Questo editoriale, riprodotto il 14 agosto dallo “International Herald Tribune” è stato tradotto con tutta l’accuratezza possibile, evitando però di citare il nome del politico accusato. Quel nome, purtroppo, non è Berlusconi. È Thaksin Shinawatra, detto il Berlusconi asiatico, ex primo ministro e padrone della Thailandia, ora scappato a Londra perché gli è mancata la furbizia di farsi approvare un Lodo Alfano e deve sfuggire ai processi che, dice lui, lo perseguitano. Ma la coincidenza di identikit, tra Berlusconi e Thaksin, è perfetta, riga per riga, accusa per accusa, processo per processo. E dimostra con chiarezza che cosa pensa di noi, restati soli dopo la fuga di Thaksin inseguito dai processi, noi che siamo governati da Berlusconi, l’opinione del mondo libero.

Ma - dirà qualche lettore - il settimanale politico americano Newsweek gli ha appena dedicato un articolo d’elogio a firma Jacopo Bigazzi. Se cercate in Rete, troverete che Jacopo Bigazzi è l’autore di un trattato sulle fratture del cranio pubblicato a Bologna nel 1518. Troverete anche... Ma è bene non guastare il divertimento degli investigatori virtuali. Forse Amato e Bassanini lo incontreranno nelle Commissioni dove lavorano per il bene di tutti noi e di coloro - bipolari non rozzi e selvaggi - che verranno dopo di noi. E scopriranno che il medico bolognese che nel 1518 studia le fratture dei crani e nel 2008 loda per una pagina intera Berlusconi, non è né di destra né di sinistra. È solo un miracolo fra i tanti del nostro padrone.

* * *

Piccoli episodi tristi segnano le giornate italiane nei giorni d’agosto. Per esempio la Sala stampa vaticana che, del tutto indifferente ai bambini rom e alla ragazza sporca di terra buttata sul pavimento nella cella del sindaco-sceriffo, assicura tutto il sostegno della Santa Sede al cristianissimo regno di Berlusconi-Bossi-Alemanno.

Per esempio Borghezio che - commentando una vittoria olimpica - esalta la superiorità della razza padana, e fa irruzione in una chiesa di Genova per giurare la sua eterna lotta all’islamismo. Conferma, dunque il gesto dello statista Calderoli che - mostrando la maglietta offensiva per gli islamici in televisione - aveva provocato diciassette morti in una rivolta anti-italiana in Libia un paio di anni fa. Ma siamo nel gruppo del dito medio di Bossi, che piace sia al Vaticano sia ai partecipanti né di destra né di sinistra della grande impresa di modernizzazione del Paese.

Per esempio Gianni Letta, autorevole sottosegretario e alter ego di Berlusconi, prende l’iniziativa di regime di farsi trovare dalle troupe televisive in un giorno di agosto per dire “grazie” ai nostri soldati. Grazie per che cosa, se li ha mandati lui? Evidentemente per avere fatto buona guardia, con sprezzo del pericolo, e una buona dose di noia, in pieno Ferragosto, al Duomo di Milano. Tremila soldati, per presidiare lo stato di emergenza proclamato dal quartier generale della Lega Nord di Ponte di Legno. Se la guerra in Georgia richiedesse una forza europea di interposizione, il ministro La Russa ha già detto: «Al massimo potrei mandare un migliaio di uomini. Non ne ho altri». Gli altri servono alla difesa della Padania. Forse, sottovoce e defilato dalle telecamere, Gianni Letta avrà chiesto scusa ai nostri soldati per averli mandati, come in Cile, a fare i poliziotti. E avrà chiesto scusa ai poliziotti per aver tagliato stipendio, auto, straordinari e benzina.

Molto in questo Paese, in questo brutto momento della nostra Storia, è crudele, molto è inventato, molto è pura apparenza (vedi i rifiuti di Napoli) che nessuno - per non irritare Bonaiuti - si prende la briga di controllare. Molto è del tutto sprecato e inutile, benché vivamente celebrato dai migliori commentatori e da tutti i telegiornali. Molto è gretto e volgare e cattivo, come non era mai accaduto in Italia, benché spalleggiato dal Vaticano.

Ma, a parte il danno, a parte il dolore di molti e l’umiliazione di coloro che non si rassegnano, niente è rilevante o conta o contribuisce alla Storia del mondo. Purtroppo, finora, neppure l’opposizione.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 17.08.08
Modificato il: 17.08.08 alle ore 7.12   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il caso del corrispondente fantasma
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2008, 06:33:36 pm
Il caso del corrispondente fantasma


Furio Colombo


Capisco che sia imbarazzante elogiare Berlusconi su un giornale americano (Newsweek) mentre l’autore dell’elogio, italiano, sta in Italia, e dunque non rappresenta l’opinione di quel grande Paese lontano.

Capisco che lo sia ancora di più se la persona riteneva soltanto di eseguire un ordine ricevuto, da portare a termine ripetendo, frase per frase, i testi del dottor Bonaiuti.

Capisco che ti auguri che la piccola vicenda (il favore di un pacchetto azionario a un altro pacchetto azionario) fili via liscia, ma poi vedi il tuo pezzo citato da tutta la stampa italiana come «il riconoscimento tanto atteso della grande stampa americana al successo dei primi cento giorni di Berlusconi».
Capisco che ti auguri di non essere notato tra la folla, in modo da non essere professionalmente ricordato per questa impresa che è falsa o perché è falso l’autore (che in Rete risulta un medico bolognese del Sedicesimo secolo) o perché è falso il testo (non si tratta di una valutazione americana del “successo” di Berlusconi ma di un impasto fatto in casa).

Comunque, il merito di questo giornale è di avere, unico e solo, puntato il dito verso lo strano evento. Eppure siamo nel Paese che ha ventidue scuole di giornalismo (senza contare i masters).

Quel puntare il dito sul fantasma redivivo di Jacopo Barigazzi è stato fatto in sole tre righe, verso la fine dell’editoriale di domenica 17 agosto.

Le ripeto (mi ripeto e chiedo scusa) per comodità del lettore: «Se cercate in Rete troverete che Jacopo Barigazzi è l’autore di un trattato sulle fratture del cranio pubblicato a Bologna nel 1518». C’era, nel testo dell’Unità, un refuso. Ma non è questo che ha fatto saltare i nervi ai colleghi del Il Giornale.

So che chi non segue Il Giornale, organo principe della vasta editoria di Berlusconi non ci crederà. Ma un certo Federico Novella (non ho verificato, ma spero che almeno lui esista) ha dedicato alle mie tre righe una pagina intera in cui l’autore di quelle tre righe (sì, le tre righe che avete appena letto e niente altro, sull’argomento) viene accusato di “delirio” (nel titolo) di un po’ di demenza, «un parente con manie che non preoccupano più, al massimo suscitano un mezzo sorriso».

E anche: «Chissà che cosa gli sarà scattato nella testa al Colombo furioso quando ha visto il prestigioso settimanale “Newsweek” che intitolava “Miracolo Berlusconiano”».

Ma c’è di più, sempre a proposito di quelle tre righe: «Veleni quotidiani che l’editorialista continua a propagare nelle sue lenzuolate in prima pagina. Talvolta mancando non solo di buon senso ma anche di buona educazione». Come dire: “Per Dio, qualcuno lo faccia smettere”. Infatti aggiunge (sia pure per riempire, secondo il mandato non facile, l’intera pagina): «pensavamo che le invettive di Furio Colombo potessero elevarsi. Oggi scopriamo che si sono elevate troppo».

Ah, dimenticavo che la pagina, oltre che da una grande fotografia del sottoscritto, è completata da un secondo lavoro giornalistico firmato Paolo Bracalini.
Il suo contributo è offrire la seguente prova di vita umana e professionale dello “editorialista” senza volto che ha definito “miracolo berlusconiano” i cento giorni del Lodo Alfano, delle impronte digitali ai bambini Rom, dello “stato di emergenza nazionale” improvvisamente dichiarato (come in Pakistan) nell’Italia di Ferragosto: «Ho prove certe della mia esistenza, dice al telefono Jacopo Barigazzi corrispondente dall’Italia del settimanale americano».

Non una parola di più. Non una notizia di più sull’avventuroso editorialista.


* * *


Come vedete, per l’Unità un successo di cui vantarsi, anche se giungesse più o meno a conclusione di un vivace lavoro per questo giornale. Infatti una intera pagina di quotidiano, impostata sugli insulti e la denigrazione più scomposta per rispondere a un dubbio di tre righe, è una clamorosa e un po’ incauta conferma di quel dubbio. Tanto più che - nell’intera pagina - tra “deliri” e insinuazioni di fastidiosa senilità (ma stiano attenti al loro padrone, anche lui ha superato da un po’ i settanta) solo una riga è dedicata alla prova di esistenza dello editorialista fantasma. E si tratta di una prova di esistenza “per telefono”. In un thriller commerciale non si potrebbe fare di meglio.

Quanto ai fatti:

Uno: non c’è traccia del nome Barigazzi (scritto con o senza refuso) tra i centodieci nomi di giornalisti di tutto il mondo, compresi i collaboratori, che appaiono nella gerenza di ogni numero del “Newsweek”.

Due: l’ufficio di corrispondenza di Parigi non indica corrispondenti italiani con il nome Barigazzi o con altri nomi.

Tre: alla associazione Stampa estera (con sede in Via Dell’Umiltà 83/c 00187 Roma) nessuno, tesoriere incluso, ha mai sentito parlare di un Jacopo Barigazzi.

Questo non vuol dire che non esista o il nome o la persona o - in qualche altra mansione o lavoro - la reincarnazione del medico esperto di crani, quando correva l’anno 1518.

Vuol dire - e questa è la notizia - che quando “Newsweek” ha dovuto fare un favore a Berlusconi, lo ha fatto al livello più schivo e marginale possibile, in modo quasi segreto, con una persona quasi inesistente. La benevola “grande stampa” e Tv italiana hanno fatto finta di celebrare un trionfo.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 21.08.08
Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.06   
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Titolo: Furio COLOMBO - L´opposizione
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 09:54:12 pm
L´opposizione

Furio Colombo


L´Unità cambia. Uno non può sapere che cosa viene dopo, ma questa è la normale condizione umana. Sappiamo quello che è successo prima, lo abbiamo letto nell´editoriale di Padellaro e nel comunicato dell´Editore.

Molti diranno grazie a Padellaro (io lo faccio di cuore) con l´amicizia solidale di tutti questi anni, da l´Unità morta alla sua clamorosa rinascita e tenuta, unica nella storia dell´editoria, unico il lavoro che Padellaro, prima insieme, poi da solo (e con tutta la redazione, la più straordinaria che avremmo mai sognato di trovare in un giornale che era stato dichiarato finito) ha saputo fare. E noi - Padellaro e io - siamo fra coloro che danno il benvenuto e un augurio davvero sentito al nuovo direttore Concita De Gregorio.

A coloro che, amando o stimando questo giornale, si domandano che cosa sta succedendo e perché, cerco di offrire una interpretazione che a me sembra corretta della vicenda: sono due storie diverse.

Una è l´arrivo di una nuova solida proprietà e l´arrivo, contestuale, della nuova direzione. Bene arrivata. L´altra è l´uscita di Antonio Padellaro, voluta come se fosse una necessità. Quale necessità? E motivata come? Qui c´è uno spazio vuoto. Il giornale non era in pericolo e non versa in cattive acque. La redazione è tutta al suo posto e lavora bene. C´è un grado di armonia e di solidarietà raro nei giornali italiani. Allora? Allora c´è tutto per far bene, passato, redazione, firme, rapporti internazionali. Abbiamo riaperto una storia che sembrava finita, abbiamo fatto diventare questo giornale un luogo piuttosto vivace.

Ripeto, i percorsi sono due, è bene non confonderli. Arriva un nuovo direttore e, garantisce il suo passato, farà bene. Ma quale è la ragione per cui è stato detto arrivederci e grazie al direttore che ha tenuto ben ferma in questi anni la rotta difficile e felice di questo giornale di opposizione? Non è rispettoso, e neppure ragionevole, immaginare che tutto ciò accada affinché il giornale non sia più di opposizione. E sarebbe altrettanto azzardato affermare che farà una opposizione diversa. Quante opposizioni ci sono?

Ma se qualcuna di queste ombre avesse anche una minima consistenza, come non nutrire il sospetto (vedete come è mite la parola) che alcuni di noi siano parte del problema, e non della soluzione del problema, se il problema è davvero l´opposizione?

C´è un´altra questione. Berlusconi e il suo potere mediatico totalitario sono sempre sul fondo di ogni questione italiana, specialmente se riguarda l´informazione. Però non è Berlusconi ad aver detto «grazie, Padellaro, va bene così». E anche «grazie, Unità, ma sempre la stessa musica ci ha stufato». Mi sembra più ragionevole pensare che tutto ciò sia nato nell´ambito del Partito Democratico. Si sentiva sfasato rispetto all´Unità (o, viceversa, «un giornale che non ci rappresenta»)? Se è così il problema che ha di fronte a sé il nuovo direttore non è facilissimo: fare una cosa che non è il Foglio, che non è il Riformista, che non è Europa, che non è l´Unità di adesso, e, ovviamente, non è né il manifesto né Liberazione. Auguri, davvero.

Ma se è così, resta da spiegare tutto questo silenzio nell'ambito del Pd. Quale sarà stata la ragione, discrezione, cautela, segretezza, a consigliare di non dire una sola parola ad alcuno degli interessati, compresi quelli che, come me, sono lì a un passo, in Parlamento?

Come vedete, nessuna di queste questioni riguarda la persona cui tocca il nuovo mandato. Ma se questo fosse un giornale a fumetti, si vedrebbe un fumetto grande come una casa con un vistoso punto interrogativo sulla testa. Spiace non sapere dove indirizzare la domanda. Ma più ci si pensa e più sei costretto a inquadrarla dentro la storia del Pd (anche il Pd comincia ad avere una storia), non dell´editore.

Forse uno spunto di ottimismo potrebbe essere questo: finalmente il Pd comincia a prendere decisioni. Forse non è la prima decisione che dodici milioni di italiani che hanno votato centrosinistra si aspettavano, mandare a casa Padellaro, e con lui, fatalmente, qualche firma della Unità rinata, della serie rifondata dopo la fondazione di Gramsci. A questo punto non resta che vedere come la situazione si ambienterà con le altre decisioni del prossimo futuro. Qual è la linea del più grande partito di opposizione che più si armonizza con questo deliberato e netto gesto di «discontinuità» (per usare una delle parole chiave della politica. L´altra sarebbe, se Padellaro ed io parlassimo politichese, chiederci - come Chiamparino - "ma noi siamo una risorsa?")?


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Certo il momento è strano. Ti muovi in un paesaggio da fantascienza popolato di mutanti. A Milano il più importante simbolo istituzionale del Pd, il presidente della Provincia Penati, improvvisamente dichiara: «Con la Lega Nord è possibile fare un lavoro importante per Milano». E noi che pensavamo che la Lega Nord fosse impegnata soprattutto a sfrattare le Moschee e a proibire luoghi di preghiera per gli immigrati islamici. A Firenze la prima Festa Nazionale del Partito Democratico è dedicata a Bossi, Tremonti, Bondi, Fini, Matteoli, Frattini, Maroni. Praticamente tutto il governo che già domina tutte le televisioni. Prima di giudicare il senso politico c´è da domandarsi, in senso elementare e prepolitico: perché? Una Festa di partito costa, e costa ancora di più per un partito lontano dal potere e dai benefici del potere. Perché il nostro ospite d´onore deve essere Bossi, invece del giovane angolano picchiato a sangue da un branco di ragazzi italiani a Genova? Perché dobbiamo festeggiare Tremonti invece di ascoltare il macchinista delle Ferrovie dello Stato licenziato per avere fatto sapere che il treno Eurostar che stava manovrando, si è spezzato (e per fortuna non c´erano passeggeri)? Perché invitare Maroni invece di Xavian Santino Spinelli, il Rom italiano docente universitario, che rappresenta la sua gente (dunque anche la nostra: i Rom sono in buona parte italiani), ma rappresenta soprattutto i bambini forzati al trauma delle impronte digitali? Perché tutti in piedi per Frattini invece di accogliere cittadini osseti e georgiani, testimoni di una breve, sporca guerra di cui ancora sappiamo nulla, se non che uno dei protagonisti spietati, Putin è il miglior amico di Berlusconi ? Perché avere sul palco Matteoli invece dei lavoratori dell´Alitalia, che avrebbero dato voce alla paura del loro futuro, reso ormai quasi impossibile dalla falsa promessa (capitali italiani, forse anche capitali dei suoi figli) del candidato Berlusconi?

Ma la danza dei mutanti continua. Mi devo rendere conto che il maggiore partito di opposizione, di cui sono parte, produce tutto in casa, con una autonomia che sarebbe sorprendente se non fosse come un autobus che salta la fermata lasciando a terra la folla dei viaggiatori in attesa. Il più grande partito di opposizione produce da solo il dialogo, benché Berlusconi attraversi la scena pronunciando frasi altezzose e insultanti. Benché alzi ogni giorno il prezzo di un ambito contatto con lui. Il Pd produce da solo una cordiale collaborazione con la Lega, nonostante la caccia agli immigrati, il reato di clandestinità, le botte ai «negri», l´orina di maiale (iniziativa di Calderoli) sul terreno in cui si doveva costruire una Moschea, la proclamazione fatta da Borghezio - in occasione delle Olimpiadi - della superiorità della razza padana (parlava della nuotatrice Pellegrini come di una mucca). Invita e festeggia Bossi proprio quando lui dice (ripetendo con sempre maggiore frequenza la minaccia): «O si fa il federalismo come dico io o il popolo passerà alla maniere spicce».

Produce da solo una certa ostilità verso giudici, una denuncia quasi quotidiana del «giustizialismo» (sarebbero coloro che sostengono il diritto dei giudici di non essere insultati e di non essere costretti al silenzio). Dice Luciano Violante a La Stampa (22 agosto) che i magistrati «conducono una battaglia di solo potere». Sono gli stessi magistrati definiti «dementi» dal primo governo Berlusconi e «cloaca» dal presente titolare di Palazzo Chigi. Ma a quanto pare la volontà di dialogo supera questi dettagli. Si forma una cultura che trova normale lo «stato di emergenza» che ha indotto a far presidiare le strade delle città italiane dai soldati come se fossero in Pakistan, trova normale che Berlusconi si vanti di avere parlato 40 minuti con Putin senza far sapere al Paese o almeno al Parlamento una sola parola di quel suo dialogo (finalmente dialoga con qualcuno). E trova normale che - mentre scoppia la guerra in Georgia che potrebbe contrapporre Stati Uniti e Russia, Nato e impero di Putin (e di Sardegna)- il ministro degli Esteri resti in vacanza mentre i suoi colleghi europei si incontrano in una riunione di emergenza. O forse è stato un grande, scoperto favore all´ amico Putin (dimostrare che la crisi non era così grave), tanto e vero che il ministro Frattini riferirà al Parlamento (Commissioni estere Camera e Senato) soltanto il 24 agosto, dopo avere partecipato alla Festa del Partito democratico come ospite d´onore. Si forma una cultura, abbiamo detto, fatta di buone maniere e di acquiescenza al governo, sia pubblico (Berlusconi) che privato (Mediaset).

Questo spiega la necessità che sia Enrico Mentana a intervistare Veltroni in un grande incontro finale a conclusione della Festa del Pd. E spiega l´annuncio di Lilli Gruber, deputata europea di primo piano e importante giornalista italiana: sarà Berlusconi a scrivere la prefazione del suo nuovo libro sulle donne dell´Islam. Chi altro? Con l´aria che tira è già una conquista democratica che quella prefazione non sia stata commissionata a Borghezio.


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Mi ha colpito la notizia che alla Festa del Partito democratico di Firenze ci saranno collegamenti con la «Convention» del Partito Democratico americano di Denver. Spero che spiegheranno perché, a quella festosa assemblea di militanti politici di opposizione, non sia stato invitato e applaudito e festeggiato, per un bel dialogo, il vicepresidente Cheney, l´uomo delle false prove della guerra in Iraq. O qualche "neo-con" di rilievo, di quelli che amano Guantanamo e le maniere forti.

Qualcuno - spero - spiegherà che gli americani, nel loro Partito Democratico, sono un po´ più rozzi degli italiani: quando fanno opposizione, fanno opposizione. E quando vogliono essere eletti contro qualcuno che - secondo loro - ha fatto danno al Paese, prendono le distanze, dicono cose diverse, invitano e ascoltano le loro migliori voci, quelle più vibranti e appassionate, non quelle dei Repubblicani che intendono sconfiggere.

Inoltre sanno - ma forse anche questo è un segno della loro cultura elementare - che i loro leader non si fanno intervistare dai giornalisti della Fox Television, alcuni bravissimi ma tutti di destra. In tanti vanno alla convenzione democratica, scrittori, registi, celebrità delle grandi università e dello spettacolo. Ma sono tutti testardamente democratici. Vanno tutti per parlare di pace, non di guerra, di poveri, non di ricchi, di affamati del mondo e di crisi del pianeta, di bambini da salvare e di medicine salva-vita di cui bisogna abbattere i prezzi. Certo, l´ America non è un Paese perfetto. Anche là ci sono tanti Giovanardi e tante Gelmini. Ma (a differenza di quanto avviene nell´altra festa del Pd italiano, quella di Modena) i democratici americani non li invitano. Saranno primitivi ma (se starà bene) vogliono Ted Kennedy. E se Ted Kennedy starà bene dirà tutto quello che pensa con l´irruenza che l´America democratica ammira da mezzo secolo, e che da noi si chiama "politica urlata" e irrita molto persino Ritanna Armeni, ma solo se è "politica urlata" di sinistra.


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Ecco le ragioni del mio disorientamento nel Partito Democratico che ho contribuito a creare partecipando anche alle primarie («Sinistra per Veltroni») e nel quale adesso non so dove mettermi, perché ogni spazio è occupata da un ministro ombra che intrattiene la sua educata, amichevole conversazione col ministro-ministro. Ognuno di essi (i ministri-ministri) è occupato a prendere impronte, a presidiare le strade italiane con l´esercito, a insultare i giudici. Ma comunque appaiono come statisti mai smentiti e sempre in grado di incassare apprezzamenti (oltre che inviti alle nostre Feste) e di dire l´ultima parola in ogni radio e in ogni televisione. La descrizione perfetta è di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20 agosto) «Questa Italia assomiglia a una grande caserma, docile, assuefatta, mansueta. Che si tratti di persone di destra o di sinistra, la musica non sembra purtroppo cambiare: addomesticati a pensare in un modo che sembra diventato naturale come l´aria che respiriamo. Come bambini siamo fatto oggetto della cura di chi ci amministra. E come bambini bene addomesticati diventiamo così mansueti da non sentire più il peso del potere. È come se, dopo anni di allenamento televisivo, siamo mutati nel temperamento e possiamo fare senza sforzo quello che, in condizione di spontanea libertà, sarebbe semplicemente un insopportabile giogo».

Quanto sia esatto ciò che scrive Urbinati lo dimostra questa e-mail appena ricevuta: «Attento, alla sua età è pericoloso agitarsi. Ma comunque la sua perdita nessuno la noterebbe, insignificante comunista. Si spenga serenamente come giornalista e scribacchino. L´umanità e l´Unità le saranno grate eternamente».

Curiosamente la e-mail mi è giunta mentre una collega - che preparava un pezzo sul cambiamento in questo giornale -, mi chiedeva: «Ma temi la normalizzazione de l´Unità?».

La mia risposta meravigliata è stata che a me questa Unità appare un giornale normale. Un normale, intransigente, preciso giornale di opposizione. La storia del suo e del nostro futuro è tutta qui, fra questa «normalità», la descrizione di Nadia Urbinati e la e-mail che ho trascritto e che offre una bella testimonianza del ferreo contenitore culturale in cui ci hanno indotti a vivere. Non resta che attendere il nuovo giornale.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 24.08.08
Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.35


Titolo: Furio COLOMBO - La frontiera di Barack
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2008, 11:37:49 pm
La frontiera di Barack

Furio Colombo


Guardo, ascolto il discorso di Barack Obama che viene da un altro mondo nella notte del 28 agosto e mi rendo conto della distanza, come se ci fosse una profonda sfasatura nel tempo e nella Storia. Guardo e ascolto dal fondo di un fosso in cui sono stretto, spalla a spalla, fra Bossi e Borghezio, fra Marcegaglia e Berlusconi, fra Gelmini e Alfano, fra La Russa e Giovanardi. Guardo e ascolto un candidato alla presidenza degli Stati Uniti che parla fra gli applausi che non finiscono mai e dice frasi come queste: «Che cos'è il progresso? Certo non il numero di milionari, certo non la colpa di essere poveri, certo non la pena di non avere una assicurazione che paghi le spese mediche, certo non coloro che dormono per la strada, certo non i disoccupati che hanno perso il lavoro e la casa, certo non l’America che affonda mentre noi la guardiamo. Questa è l’America di Bush, l’America in cui vi dicono che se fate discorsi come questi siete lamentosi. Andate a dirlo ai cittadini di New Orleans abbandonata all’inondazione. Andate a dirlo alle famiglie dei soldati in Iraq. La prossima settimana il partito Repubblicano farà la sua “convention” e vi chiederà una proroga di altri quattro anni. Dite no, dite basta!».

Questo, voglio spiegare ai lettori, non è l’elogio di un’America che non esiste. È la descrizione di una notte in cui un uomo politico giovane, con il vantaggio immenso di essere uno straordinario predicatore e l’handicap finora imperdonabile di essere nero, racconta di un Paese che non c’è ancora, ma potrebbe, all’improvviso arrivare nel mezzo di un mondo rovinato da rancore, esosità, furore di potere e violenza. Pensate, se non altro, alla stranezza di questo giovane uomo politico che con coraggio si è messo di fronte alla barriera finora mai superata della razza. E invece che con la razza si identifica con speranza e dolore, con attesa e paura, con solitudine e caos e quando dice «fratelli» intende dire «cittadini» (e intende tutti, dalle famiglie alle coppie gay, e lo dice chiaro), pensate a questo candidato politico americano dell’anno 2008 che dice: «Questa è la notte di mia madre, è un impegno preso con lei che, dal suo letto di malata di cancro, lottava per il suo diritto con la compagnia di assicurazione. Questi sono i miei eroi, mio nonno, che aveva combattuto da volontario nella Seconda guerra mondiale ma poi aveva studiato perché c'era una legge che pagava gli studi ai soldati che tornavano dalla guerra, non li lasciava, come adesso, nell’abbandono. Mio nonno, che aveva molta immaginazione, mi raccontava di un Paese che non c’era. Io volevo chiamarmi Obama Smith oppure John Obama. Ma chiamarmi Barack Obama, pensavo, farà la mia fine. No, non se sei bravo, non se studi, continuavano a dirmi i miei eroi. Sono qui, sono bravo? No, se non mi avessero iscritto alle scuole migliori e non avessero mollato mai».

Il ritmo da gospel del giovane Obama (vi siete accorti che insisto sul «giovane» non tanto per l’età anagrafica o per l’immagine da studente, ma per la radicale novità che questo candidato americano porta nella politica del mondo) continua, incalza e trascina gli applausi che raramente si spengono per pochi secondi e sono una risposta viva come la sua voce. In quel ritmo di gospel si rintracciano citazioni, non saprei dire quanto istintive o calcolate: «the load is heavy» il peso è grande, citazione dai «country» da Johnny Cash; per descrivere la tremenda eredità lasciata da Bush, un paese impoverito e incerto, fra due guerre che non finiscono. «This is for You, John McCain», citazione da «Sacco e Vanzetti», di Joan Baez, per dire al rivale repubblicano che in lui ammira l’eroe e il soldato, ma «he does not get it», non capisce proprio che cosa voglia dire tenere il lavoro, salvare la casa, avere una assicurazione per la salute, per i bambini e gli anziani della famiglia. Però ecco la prima grande rivelazione. Obama parla di famiglia, si rivolge a ciascun americano e intende davvero tu, tua moglie o tuo marito e il tuo compagno e i tuoi piccoli e i tuoi genitori. Ma vede subito la frontiera del familismo gretto, egoista, chiuso: prima noi, per gli altri si vedrà. Il suo gospel lo aiuta a mettere «gli altri fratelli della stessa famiglia che è tutto un Paese» nella stessa frase. Ripete questa idea che sconvolge la politica tradizionale quando è programma di candidato e non esortazione morale. La sconvolge in due modi diversi. La prima: «Non è vero che non sei il custode di tuo fratello. Lo sei. E lo sei dei più giovani e dei più vecchi, nel tuo gruppo e in un altro gruppo perché o ci salviamo tutti o non si salva nessuno». La seconda: «La promessa americana, che è venuto il tempo di mantenere, è fondata sul dare e avere, su uno scambio continuo fra noi e gli altri, fra i cittadini e lo Stato, fra la comunità che diventa migliore, più moderna, più forte, e i più deboli, quelli rimasti fuori e non ancora entrati».

Si capisce che il candidato, che alla fine abbraccerà a lungo la sua Michelle (avvocato come lui, ex povera come lui e come il candidato vicepresidente Joseph Biden) vuole far capire bene che quando dice «famiglia» non intende farsi i propri interessi e chiudere fuori gli altri. Intende un mondo che si capisce e si parla e sa di vivere insieme e sa che l’immagine repubblicana del possesso esclusivo di ricchezza che prima o poi farà colare qualche goccia di beneficio sugli altri (la «trickle-down economy» raccomandata per primo da Ronald Reagan contro l’America sociale di Roosevelt) porta solo alla penuria e allo spreco. Al troppo e al troppo poco. E che tra privilegio e abbandono, tra solitudine in basso e capriccioso dominio dell’alto non si forma una società nuova, un Paese moderno, una cosa che si chiama progresso. C’è un’altra citazione, non so quanto voluta, ma scandita tra le ondate travolgenti del gospel di Obama. È questa: «The Preacher says...» la trovate in «Mercy» di Bob Dylan. Ma qui stabilisce una identificazione subliminale e istantanea di ogni americano nero con Martin Luther King. È lui «il predicatore». E allora ti accade di accorgerti che i segni sparsi nel grande sermone di Barack Obama al suo popolo (tutto il suo popolo, bianchi e neri, adulti e bambini, uomini e donne, ricchi e poveri) è colmo di segnali come una mappa del tesoro nelle storie d’avventura. Il fascino incredibile di questo leader politico (guardavo il suo discorso alla Fox Television, la più schierata a destra nel paesaggio americano, e ho avuto l’impressione che anche i suoi commentatori siano stati per un momento travolti dal «predicatore» Obama) è in una estrema semplicità che però guida verso territori non frequentati dalla politica. Barack Obama sembra muoversi con forza e passione contro tre avversari che non sono John McCain (da cui mette in guardia solo perché ti riporta al passato). Quei tre avversari sono la solitudine, che blocca tanti americani nella diffidenza e nell’affannosa ricerca di difesa; la paura, in un mondo in cui i pericoli vengono spiegati male e tardi, e in tanti hanno la sensazione che solo pochi saranno al sicuro. È la povertà, il male che torna e ritorna nel gospel di Obama, perché è il più crudele ma anche il più inaccettabile, nella parte ricca del mondo. E anche il più stupido, perché è una povertà fabbricata governando male, distruggendo l’ambiente, sprecando risorse.

Ci sono, come in una saga cavalleresca, tre grandi alleati insieme a cui battersi: il tuo vicino, in modo che ciascuno ricordi sempre che c’è un mondo altrettanto in cerca di salvezza, oltre la siepe della famiglia; i più deboli perché, dice e ricorda e ripete Obama, nessuna società vince scaricando i più deboli e ogni grande ritorno alla civiltà ricomincia dal basso; i più bravi perché, dice Obama, dobbiamo essere tutti più bravi. Predica inseguito dalla frenesia degli applausi. E qui c’è forse il punto chiave del discorso e della campagna elettorale di Barack Obama, candidato di punta benché non sia bianco, benché non si chiami Obama Smith.

La parola è «scuola». Sentite questa frase che, comunque vada, non andrà perduta nei ricordi di una campagna elettorale: «Vi prometto un’armata di insegnanti con stipendi e scuole migliori. È qui che si costruisce il futuro di un grande Paese, non nell’outsourcing (tagliare posti di lavoro dentro un’impresa per far fare lo stesso lavoro fuori), non dalla “delocalizzazione” (esportare in Paesi poveri i posti di lavoro)».

Non dite mai «buonismo» se parlate di Barack Obama. A parte l’onore delle armi, il suo giudizio su John McCain è stato aspro e chiaro: «Non capisce la sofferenza di questo Paese. Non la capisce perché gli manca ogni contatto, conoscenza o esperienza». Ciò che pensa e che dice di Bush è rappresentato, oltre che da una accurata e spietata descrizione del disastro, da quel «dite basta!» a cui ha fatto eco il grido e l’applauso più lungo e più pieno di 85mila persone nello stadio di Denver. Ma la parte del discorso che appare come un manifesto politico, comincia quando Obama decide di affrontare la parola «cambiamento» che è stato il marchio di fabbrica di tutta la sua campagna.

«Cambiamento vuol dire che la crescita di un Paese si misura sulla dignità del lavoro. Vuol dire tagliare le tasse al novanta per cento degli americani, dunque i più poveri tra coloro che lavorano, fino a tutta la classe media invece che ai più ricchi. Vuol dire ridurre il peso fiscale alla migliore tecnologia, vuol dire raggiungere in 10 anni l’indipendenza dal petrolio. Sono 30 anni che «loro» si danno da fare a importare e consumare petrolio. Vuol dire garantire a tutti i cittadini il diritto alla salute. Vuol dire premiare il lavoro volontario dei giovani per i disabili, i bambini, gli anziani, pagando loro le tasse universitarie. Vuol dire uguale paga per uguale lavoro. Cambiamento vuol dire un Paese in cui si incrociano il mutuo sostegno e la responsabilità personale. Cambiamento vuol dire affrontare i pericoli del mondo senza guerre sbagliate come in Iraq. Come comandante in capo vi prometto che non invierò mai soldati americani a combattere senza una missione precisa e senza la protezione adeguata.

Noi - i democratici - siamo il partito di Roosewelt e Kennedy. Dobbiamo ricordarlo nei giorni del disastro tra Russia e Georgia e dobbiamo dire a McCain che sono tempi troppo difficili per buttarci addosso l’un l’altro l’accusa di non essere abbastanza patriottici».

Poi viene, verso la fine, la netta e coraggiosa inclusione nella grande famiglia americana dei «nostri fratelli gays e delle nostre sorelle lesbiche», in modo che niente restasse implicito o non detto. E il diritto degli immigrati a riunire le loro famiglie chiamando i congiunti dai Paesi d’origine. Perché esaltare l’unione delle nostre famiglie e dividere per sempre le famiglie degli immigrati? E in conclusione una definizione della campagna elettorale vista da destra: «Poiché non hanno grandi idee fanno grandi campagne elettorali su piccole cose, e come unica trovata tagliano ancora una volta le tasse ai più ricchi. Tenete bene in mente che il cambiamento non viene da Washington. Il cambiamento va a Washington. Il cambiamento siete voi. Noi non possiamo tornare indietro. Noi non possiamo camminare da soli. Non con tutti quei bambini. Non con tutta quella gente che lavora o che cerca di lavorare. Noi possiamo continuare soltanto insieme».

Più che mai le ultime parole sono scandite dal ritmo del gospel, una sorta di abbandono e di grande preghiera laica. Le telecamere cambiano inquadratura e sempre mostrano volti di persone che piangono. Stranamente piangono più bianchi che neri, più giovani che anziani, i ragazzi come le ragazze. Obama stringe la moglie e le bambine e guarda la sua folla senza sorridere. La musica è jazz. Niente inni.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 30.08.08
Modificato il: 30.08.08 alle ore 8.19   
© l'Unità.


Titolo: Furio COLOMBO - Diplomazia segreta
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2008, 07:47:01 pm
Diplomazia segreta

Furio Colombo


Sappiamo molto di Franco Frattini, ministro degli Affari Esteri della Repubblica italiana. Sappiamo persino che una giovane donna di nome Chantal si è fidanzata con «Franco» attraverso un comunicato stampa, nuovo tipo di iniziativa sentimentale che costringerà Moccia e Muccino ad aggiornare in senso burocratico il loro repertorio.

Sappiamo poco da Franco Frattini. Ci offre solo tre opzioni per conoscere il mondo della sua politica estera: poche parole stentoree, pronunciate lentamente, con l’aria di un annuncio, ma a fatti già avvenuti.

Poche parole stentoree, pronunciate lentamente per dirci che il merito è dell’Italia e continuano a pervenire comunicazioni in tal senso al suo ministero (non sempre specifica quale merito è dell’Italia e come è stato acquisito); poche parole stentoree pronunciate lentamente per dire che «queste cose le decide il presidente Berlusconi» (di solito per qualunque materia).

Direte che è poco, se pensate che il segretario di Stato americano Condoleeza Rice passa ore davanti alla vivacissima e poco amichevole commissione Affari Esteri del Senato americano. Se pensate al ministro degli Esteri inglese Miliband sulla cui giovane età e inesperienza si scarica lo scontento della stampa inglese e della Camera dei Comuni per la non brillante stagione del governo Brown. Direte che è poco se avete in mente l’indipendenza e l’attivismo dell’ex medico senza frontiere Bernard Kouchner ora ministro degli Esteri di Sarkozy e sempre incline a discutere i fatti ambigui e complicati del mondo dentro e fuori il cerchio interno della vita politica.

Vorrei chiarire per chi mi legge. Il nostro ministro degli Esteri Frattini non è così generico ed evasivo (in contrasto col tono solenne e le parole scandite) solo con i cittadini o con i giornalisti. Lo è anche con i deputati e i senatori. Gli piace riunire le due commissioni Esteri, dove in molti lo ringraziano «per avere aderito all’invito», quando invece si tratta di un dovere e di un obbligo.

E quando tutti sono riuniti di fronte a lui, con voce stentorea e parole scandite il ministro ripete ciò che senatori e deputati hanno già letto su tutti i giornali. Salvo il tono della voce, da grandi occasioni, non filtra l’ombra di una notizia in più.

Farò alcuni esempi che - purtroppo - sono drammatici. Il giorno 26 agosto, di fronte alle commissioni Esteri riunite il ministro degli Esteri italiano ha riferito al Parlamento sulla breve e devastante guerra del Caucaso, Georgia contro Russia e poi Russia contro Georgia. Ci è stato anche fornito un voluminoso dossier, tutto tratto dai giornali italiani (nessuna inclusione o traduzione della stampa estera). Ora tutto ciò avveniva venti giorni dopo l’inizio di quella guerra. Sia la relazione verbale del ministro sia il dossier contenevano frequenti riferimenti al «merito che ha avuto l’Italia» nella risoluzione della vicenda e del vasto riconoscimento internazionale che l’Italia avrebbe ottenuto per quel suo merito.

Ci sono due «ma». Il primo è che «la questione» è tuttora aperta. Navi da guerra russe e navi da guerra americane sono a poca distanza nel Mare Nero. L’Herald Tribune del 2 settembre, in un articolo di Roger Cohen, ha scritto: «Purtroppo non stiamo parlando del pericolo di una nuova guerra fredda ma del pericolo di una nuova guerra».

Il secondo «ma» è che il merito dell’Italia sarebbe consistito in una lunga e abile mediazione del presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Ora noi (noi italiani) siamo stati informati di una conversazione della durata di quaranta minuti, ma con frequenti riferimenti a una «linea calda» di contatti sempre in azione fra Roma e Mosca. È un fatto che la stampa del mondo non ci da notizia, della gigantesca impresa del premier italiano che, da solo, ha fermato la guerra dei mondi. Non invocherei, però, come prova di alcunché questo silenzio della stampa internazionale. Dopotutto è un po’ come per le Olimpiadi. Nella stampa e tv di ogni Paese, gli atleti locali appaiono sempre come gli unici vincitori o più vincitore degli altri.

Quello che trovo preoccupante è che - salvo alcune simpatiche indiscrezioni depositate su La Stampa del 2 settembre da Augusto Minzolini (che doveva essere nella stanza al momento della telefonata di Berlusconi con Putin, perché le frasi chiave di Berlusconi appaiono fra virgolette)- noi, gli italiani e noi, il Parlamento italiano, non sappiamo che cosa si siano detti il primo ministro italiano e il primo ministro russo e in che modo il titolare di un Paese al momento privo di forza economica (crescita 0.1) e di un identificabile ruolo politico-internazionale (salvo l’automatismo delle alleanze) possa avere «mediato» (che vuol dire dare e avere, promettere e ottenere, impegnarsi e assicurare) con il titolare della seconda più grande, pericolosa, aggressiva potenza del mondo, che aveva appena sbriciolato, sia pure a mero titolo di esempio, la città georgiana di Gori, seconda, per importanza, in quel Paese.

In questa vicenda - mi rendo conto - c’è poco da screditare l’Italia. L’intera Europa si è sentita molto virtuosa per avere mitemente e genericamente redarguito i russi e lasciato al suo destino il presidente georgiano, giocatore d’azzardo certamente non privo di colpe e di decisioni sbagliate ma persuaso di avere «l’Occidente» al suo fianco e forse incoscientemente spinto a una azione folle. Resta però - sulle macerie provvisorie di una situazione provvisoria (e immensamente pericolosa) una domanda senza risposta: che cosa ha detto per quaranta minuti il presidente Berlusconi a Putin, oltre alle due frasi che Minzolini virgoletta e consegna alla storia? Che cosa ha promesso, che cosa ha accettato?

Non ci crederete, ma Franco Frattini non ne ha fatto cenno ai deputati e senatori delle due commissioni Esteri riunite, sia pure settimane dopo la grande emergenza di una guerra scoppiata improvvisamente in Europa in un punto e in un modo capace di scardinare tutti gli equilibri del mondo che conosciamo. È vero, Frattini ci ha taciuto molte altre cose. Per esempio, fidanzato o no, perché non ha interrotto le vacanze come tutti gli altri ministri degli Esteri d’Europa quando è scoppiata la guerra? Una simile assenza è stato un segnale alla Russia? Figurerebbe bene in un «thriller» internazionale, in cui un certo comportamento viene richiesto come condizione per trattare, e farti fare la figura del «mediatore».

Frattini, come al solito, fa un passo indietro e lascia il riflettore al suo capo, anche se la sua immagine si riduce di fronte ai suoi pari e colleghi d’Europa.

È in questa chiave che va interpretato il suo silenzio verso l’opinione pubblica italiana (che per forza non esiste, come un muscolo mai esercitato). Ma anche verso il Parlamento che stranamente si contenta - maggioranza e opposizione - di essere convocato con due settimane di ritardo per sapere un po’ meno di ciò che era già stato già detto da tv e giornali.

Non è una vanteria annotare che, nella audizione del 26 agosto, sono intervenuto (50 secondi) per chiedere di riferire sul testo e sul senso politico della telefonata «di mediazione» Berlusconi-Putin. E poi ho interrotto i gentili convenevoli del saluto finale per insistere sulla risposta che non avevo avuto. Non è una vanteria, perché la prima volta il ministro degli Esteri ha ignorato del tutto la domanda. E la seconda volta, girando le spalle, ha detto, nel modo infastidito che i superburocrati usano solo quando sanno di poterlo fare: «Ma la politica italiana è una sola, no? Che cosa pensa il presidente del Consiglio lo sappiamo tutti».

Se un Parlamento, a cominciare dalla maggioranza, si lascia maltrattare dall’esecutivo e ridurre a un organo di consulenza non vincolante, l’evento, oltre che pericoloso, è offensivo per tutti, non solo per chi ha posto la domanda, prima ignorata, poi maleducatamente respinta.

L’attenuante è che - a differenza di Minzolini - Franco Frattini del contenuto di quella telefonata che avrebbe fermato la guerra e salvato il mondo non sapeva nulla. O meglio: non più di noi e dei giornali. E, fra i giornalisti, persino il bravo Minzolini si è reso conto che bisognava far circolare almeno una frase virgolettata.

L’aggravante è ciò che è accaduto in Libia, delicatissimo evento internazionale a cui il ministro deli Esteri non ha neppure preso parte. Pochi giorni prima di quell’evento, mentre aveva di fronte deputati e senatori delle commissioni Esteri, Frattini, evidentemente estraneo all’evento, non ha avuto nulla da anticipare. Due giorni dopo, il colonnello Gheddafi ha annunciato che l’accordo Italia-Libia prevede la sospensione degli impegni internazionali italiani. In altre parole, le nostre basi non saranno mai usate per azioni che coinvolgano gli interessi del colonnello Gheddafi. Penso che l’avvertimento sia tempestivamente giunto al governo di Israele.

L’imbarazzo di Frattini, nella incredibile circostanza, appare grande, grande come quello degli altri italiani e, al momento, dei governi, dei cittadini, dell’opinione europea e di quella americana.

Per fortuna Franco Frattini, modesto e marginale viceministro degli Esteri (il posto è vistosamente occupato da Silvio Berlusconi) ha, al momento, il conforto di nuovi affetti, come da informativa di un comunicato stampa.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 07.09.08
Modificato il: 07.09.08 alle ore 8.25   
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Titolo: Furio COLOMBO - La Repubblica condivisa
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2008, 05:53:45 pm
La Repubblica condivisa

Furio Colombo


«Il Presidente della Repubblica ha ricordato la dignità dei militari italiani che furono deportati in Germania perché rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Di diverso avviso il ministro della Difesa». Cito dal Tg 1, ore 20, 8 settembre. In linguaggio deliberatamente piatto non nasconde il fatto certamente eccezionale: il ministro della Difesa La Russa, post-fascista, è di «diverso avviso» sul fascismo.

Infatti la vera frase del ministro è un omaggio alla Repubblica fascista di Salò nel giorno in cui il capo dello Stato stava celebrando, da solo, la Resistenza contro i tedeschi a Roma. C’era anche il sindaco di Roma, alla cerimonia, Alemanno, post-fascista anche lui. Il sindaco aveva detto il giorno prima il suo sentimento di rispetto verso il fascismo. Dunque, per prima cosa, è doveroso inviare da questo giornale un pensiero grato e solidale al Presidente Napolitano che ha celebrato la Resistenza italiana non con le autorità presenti ma insieme a tutti gli italiani che, come lui, credono nella Resistenza e nella Costituzione.

Per i più giovani, forse, è utile un chiarimento.

Che cos’è il fascismo? È un progetto di potere che non bada a spese di vite umane per affermare e rafforzare quel potere. Ha due nemici: chiunque all’interno di un Paese colpito dal fascismo, si opponga. E chiunque (o qualunque altro Paese) fuori dai confini nazionali, sia o diventi ostacolo all’espandersi del regime fascista. Ha tre comandamenti che, in Italia, erano scritti a caratteri immensi su tutti i muri: «Credere, Obbedire, Combattere». Il primo comandamento impone l’accettazione fanatica di una dottrina inventata. Nel caso italiano si chiamava «mistica fascista». I praticanti di quella mistica (cittadini di tutte le età) non avevano scampo. L’intimazione di credere è sempre una intimazione violenta. Significava che un livello superiore, forte abbastanza da lanciare quella intimazione, aveva conquistato potere assoluto con sangue, sottomissione, violenza e complicità.

Obbedire significava l’umiliazione di tutti davanti ai pochi che decidono di vita e di morte. Ci sono sempre, nella storia di tutti i popoli. Sono sempre i peggiori. E cadono fuori dalla storia a causa delle rivolte di libertà. Ma quando comandano non badano a sangue, dolore, umiliazione, morte per farsi ubbidire.

Combattere è il comandamento obbligato. Se sei fascista, o sottoposto al fascismo, c’è sempre qualcun altro da uccidere, persona, famiglia, gruppo o popolo.

Il fascismo per vivere ha bisogno di censura ferrea al fine di impedire anche il minimo alito di libertà. Il fascismo ha bisogno di paura perché ognuno, fascisti e non fascisti, resti al suo posto senza discutere. Il fascismo ha bisogno di miti per organizzare riti che sono sempre evocazioni di stragi. Quei miti sono invenzioni nel vuoto di cultura e di storia, e quei riti sono sempre armati, in attesa che siano pronte nuove vittime da immolare sugli altari della Patria.

La Patria è un mostro al quale, come tributo di grandezza e di difesa dei sacri confini, bisogna sempre tributare un doppio sacrificio: i propri figli, mandati comunque a combattere, dopo aver creduto e obbedito, perché non ci può essere pace fino alla vittoria del fascismo (al di là di un mare di sangue). E il sacrificio di altri popoli, scelti secondo una fantasia arbitraria (il fascismo non deve rendere conto a nessuno) dunque malata, in base a una dottrina di sangue, anch’essa malata che predica: «molti nemici molto onore». Vuol dire che a ogni guerra segue altra guerra, ad ogni persecuzione altra persecuzione.

Il fascismo italiano, giunto a uno dei momenti più alti e pieni del suo mortuario potere (1938) ha visto e identificato gli ebrei, gli ebrei italiani (italiani da secoli, al punto che persino alcuni di essi erano e si dichiaravano fascisti) come nemico finale e mortale.

Nemico da identificare, braccare, catturare, distruggere.

Per sapere quanto il progetto fosse esteso e totale, profondamente fascista e completamente auto-generato dal fascismo, basterà rileggere il pacchetto delle leggi razziali italiane. Da esse non traspare l’impeto brutale e cieco di un momento di barbarie. Si tratta invece di un disegno accurato e giuridicamente impeccabile per sradicare ogni vita, ogni professione, ogni lavoro, dal laticlavio senatoriale al lavoro manuale. L’impossibilità di dare, di avere, di possedere, di lavorare, di restare, di andare via, di essere padri, madri, coniugi, figli, fratelli, neonati, malati, vegliardi morenti, bambini nelle scuole. Tutto chiuso, impedito, escluso, proibito, vietato, ogni porta murata subito e per sempre.

Quando, da parlamentare della tredicesima legislatura, ho scritto, firmato, fatto firmare (anche da deputati di Forza Italia e di An) la «legge che istituisce il Giorno della memoria», questo ho inteso fare: affermare che la Shoah è un delitto italiano. Senza le leggi italiane e il silenzio quasi totale degli italiani, la Germania nazista non avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il suo delitto. Tremendo delitto. Ne è una prova la Bulgaria dove - come testimonia in un suo non dimenticato libro Gabriele Nissim - il presidente del Parlamento locale Dimitar Peshev, uomo di destra in un Paese occupato da tedeschi nazisti e da italiani fascisti, si è rifiutato, insieme alla sua assemblea, di approvare le «leggi per la difesa della razza» scrupolosamente copiate dal modello italiano. I persecutori tedeschi e italiani non hanno potuto toccare un solo cittadino ebreo bulgaro.

«Il Giorno della memoria», vorrei ricordare a chi ne ha discusso su questo giornale ieri, esiste non per dare luogo a una cerimonia, ma per ricordare che gli ebrei italiani e gli ebrei stranieri che avevano creduto di trovare rifugio in una Italia buona, sono stati cercati, isolati, catturati e messi a disposizione dei carnefici tedeschi da fascisti italiani. E tutto ciò è avvenuto nel silenzio di altri italiani che a quel tempo avevano un’autorità e un ruolo. I perseguitati, in Italia, sono stati aiutati e salvati, quando possibile, quasi solo da persone e famiglie che hanno rischiato in segreto la vita, dunque da persone verso cui l’Italia ha un debito immenso (l’Italia, non gli ebrei che non avrebbero dovuto essere vittime), un debito che non è mai stato riconosciuto o celebrato. È anche per questo - ricordare e onorare l’italiano ignoto che non ha ceduto, che non ha ubbidito, che non ha combattuto la sporca guerra della razza, che esiste il «Giorno della Memoria».

Ma esiste anche per ricordare che il Parlamento fascista italiano ha approvato all’unanimità, al grido di «viva il Duce» alla presenza di Mussolini, le leggi dette «per la difesa della razza», articolo per articolo, fra discorsi deliranti, il cui testo si può ancora trovare negli archivi di Montecitorio, e frenetici applausi.

«Il Giorno della memoria» esiste per rispondere a chi osi pronunciare la inaccettabile frase sull’«onore dei combattenti di Salò», per esempio l’attuale ministro Italiano della Difesa La Russa. I combattenti di Salò sono stati coloro che hanno cercato, arrestato, ammassato nelle carceri italiane e poi consegnato alle guardie e ai treni nazisti quasi tutti gli ebrei italiani che nei campi di sterminio sono scomparsi. Sono stati quegli onorati combattenti di Salò a consegnare Primo Levi ai nazisti per il trasporto ad Auschwitz. Negli Stati Uniti, nessuno, per quanto di destra, si sognerebbe di difendere la schiavitù come una onorevole pagina della storia americana. E in nessun paese d’Europa si è mai assistito a una celebrazione di governo verso coloro che hanno collaborato con i nazisti e fascisti che occupavano i loro Paesi.

Le parole del sindaco di Roma e del ministro della Difesa italiano sono più gravi perché riguardano l’immenso delitto della Shoah di cui l’Italia fascista è stata co-autrice e co-protagonista. E’ vero che l’Italia fascista, con il suo codice di violenza, il suo impossessamento crudele delle colonie (di cui Gheddafi, oggi ha chiesto e ottenuto il conto) e la sua relativa modernizzazione dell’Italia ha avuto in quegli anni un suo prestigio e un suo peso in Europa. Ma proprio per questo il delitto razziale italiano si è esteso al peggio di tutta la sanguinosa Europa fascistizzata, e la responsabilità del regime italiano in quegli anni e in quel delitto è stata immensa.

Molti avranno notato che il Presidente della Repubblica, l’8 settembre a Roma, ha parlato da solo a nome dell’Italia libera (libera dal fascismo e dalla persecuzione razziale) nata dalla Resistenza e ha indicato il solo vero valore condiviso: la Costituzione.

È un giorno di tristezza e vergogna per coloro che c’erano, in Italia, quando gli ispettori della razza entravano nelle scuole, quando le brigate nere provvedevano a trovare e consegnare ai tedeschi gli italiani ebrei. Ed è bene ricordare al ministro della Difesa di questa Repubblica, nata dalla Resistenza che gli è estranea, che nella sua Repubblica di Salò i delatori venivano compensati (dai fascisti, non dai tedeschi) con lire cinquemila per ogni ebreo catturato e mandato a morire.

È un giorno di gratitudine verso Giorgio Napolitano che ha detto agli spettatori di sequenze televisive che saranno sembrate un film brutto come un incubo, che è la Resistenza, non Salò, il fondamento dell’Italia democratica, che è la Costituzione antifascista il nostro codice condiviso.

Il resto, aggiungo in nome della memoria che ho cercato di mantenere viva nella legge che porta quel nome, è spazzatura della storia.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 09.09.08
Modificato il: 09.09.08 alle ore 13.09   
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Titolo: Furio COLOMBO - Morte di un ospedale
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2008, 05:58:55 pm
Morte di un ospedale

Furio Colombo


Avete mai visto un ospedale che muore, mentre le ambulanze continuano ad arrivare, i malati aspettano in lunghe file ordinate nei corridoi già ingombri di mobili e macchine fuori posto, i medici vengono sulla porta per dirti ciò che stanno facendo, come ogni giorno, da anni, ciò che fra pochi giorni non faranno più?

Avete mai visto l’entrare e uscire dei pazienti della dialisi? Qui sono centinaia. Come i medici, come gli infermieri, come gli altri pazienti, non sanno dove andranno. I dirigenti amministrativi fanno il nome ora di uno, ora di un altro ospedale. Quanto lontani? Con il traffico che attanaglia la città quasi in tutte le ore, sono lontani una vita. Cioè la salvezza di una vita.

C’è stata una lettera, in piena estate, appesa ai muri (solo quelli piastrellati) con nastro adesivo. Quella lettera ha stabilito all’improvviso la data di morte dell’ospedale: 31 ottobre 2008.

«Siamo sicuri che tutti continueranno, con la consueta competenza professionale, nella loro attività per il buon funzionamento dell’ospedale» (secondo paragrafo, in stile badogliano, tipo “La guerra continua”, più gli auguri e i cordiali saluti).

C’è qualcosa di involontariamente esemplare e teatrale, nella morte di un ospedale. Gli infermieri non di turno, i medici non in servizio, si fermano in gruppi. Le discussioni accese sono finite, le domande sono rimaste senza risposta, le lenzuola appese alle finestre, con la scritta che annuncia la fine, pendono flosce, come le bandiere delle sigle sindacali, nelle giornate afose e senza vento di questo strano settembre romano. Anche i pazienti, nelle lunghe file in corridoi appena ripuliti, lucidati, riverniciati con bei colori, sembrano comparse. Infatti lo spettacolo ha qualcosa di incongruente, di stravolto che si presterebbe più a uno spettacolo dell’assurdo che a un documentario-realtà.

La ragione è che fra quello che accade (l’ospedale muore) e quello che vedi, i conti con la realtà non tornano.

Infatti, come in certe storie tristi della vita, l’ospedale muore mentre è nel pieno della sua forza e della sua vita. Alzi lo sguardo dal cortile e vedi le strutture di un recente, costosissimo impianto di aria condizionata. Entri e trovi, reparto dopo reparto, sezioni completamente ricostruite, con buoni materiali e un certo gusto. Un non addetto ai lavori non può sapere. Ma quando ti dicono che la sala di rianimazione è tra le più moderne d’Europa, e te lo dicono i medici dell’ospedale, che finalmente hanno ricevuto e installato (proprio prima dell’estate) il modernissimo impianto «Tac» che avevano chiesto da anni, come fai a non credere?

E poi c’è questa contraddizione: il flusso delle ambulanze e la folla dei pazienti continua ad arrivare nel luogo appena perfezionato e ormai quasi morto, e lo stupore di coloro che i sindacati chiamano «il personale sanitario» non finisce. Sono lì fermi, sulle porte e negli androni ed è come se si domandassero senza parlare: come sarà l’ultimo giorno? Qualcuno si presenterà a nome del nuovo proprietario? Metteranno i lucchetti? Porteranno fuori gli ammalati rimasti, svuoteranno il pronto soccorso o ci sarà un cartello che dice, come per le farmacie di turno, dove rivolgersi in caso di malore?


* * *


L’ospedale morente di cui sto parlando è il San Giacomo, in Via Canova, nel centro storico di Roma. È un immenso edificio, fra Via del Corso e Via di Ripetta, dentro una casbah di vicoli e stradine. È qui, con queste stesse mura più le aggiunte e le modifiche dei secoli, dal 1326. Vuol dire che tutta la parte di Roma fra il Campidoglio e il Vaticano, è stata costruita e ricostruita intorno a questo ospizio-lazzaretto-ospedale intorno al rifugio per gli incurabili (quasi tutti, quando il San Giacomo è nato), intorno al centro medico di eccellenza che adesso fanno morire. So che molti lettori di tante parti d’Italia mi domanderanno perché parlo di una particolare vicenda di Roma, così simile alle tante che si aprono drammaticamente e si chiudono, spesso malamente, ma quasi uguali, in tante altre città.

Rispondo che abito accanto a questo ospedale. Per anni, chiudendo le imposte, ho visto le luci nei tre piani del vecchio, immenso edificio. Sapevo, e so, che non c’è altro luogo di assistenza medica qui intorno per chilometri di traffico urbano (oppure vicino, solo in linea d’aria). Si possono indicare altri ospedali nel centro di Roma cercandoli su una mappa: uno è troppo piccolo per il Pronto soccorso di una città con milioni di ospiti, uno dove non c’è la dialisi, uno che ha scavato persino sotto il Tevere per le sue sale operatorie, ma non può espandersi più neppure di un centimetro. Il resto è meno antico ma più provato dalla cattiva gestione e dai topi, più dell’ospedale di sette secoli. Oppure si può andare in campagna, di qua o di là del Raccordo Anulare, non sempre dove arrivano autobus e metropolitana.

Ma tutte queste non sono le vere - o le sole - ragioni. Comincio col dire ciò che mi manca. Mi manca di poter annunciare, con la consueta passione polemica, che questa è una cattiva decisione di destra.

Non lo è. È della giunta Marrazzo. È la decisione di persone che ho votato, che stimo, che non capisco. Legare alla storia di una giunta di sinistra la chiusura di un grande centro popolare di cura, per di più nel momento in cui era stato dotato, con costi enormi e non recuperabili, delle più recenti e nuove attrezzature sanitarie, mi sembra una brutta decisione che allarma.


* * *


Devo spiegarmi. Quando, parlando di malati e salute, uso la parola «sinistra» non intendo notare la contrapposizione politica (“se fai così perdi voti”) ma il senso profondo di solidarietà che quella parola si porta addosso.

È vero che «una sinistra moderna sa leggere i bilanci». E qualcuno ti dirà anche che «i bilanci non sono di destra né di sinistra». Ma non è vero. Per la sinistra vengono prima persone, dolore, speranza, ansia, attesa. Portare via un intero ospedale da un quartiere immensamente popoloso, abbastanza anziano e, per di più, affollato di milioni di ospiti (visitatori e turisti) per dieci mesi all’anno, non può essere la decisione giusta, nonostante i problemi del bilancio. È come un buco nel mezzo di una fotografia, come quando da un ritratto di gruppo si vuol fare scomparire qualcuno. Qui scompare il senso del perché si è votato a sinistra dopo avere patito il governo post-fascista di Storace, con la partecipazione straordinaria di signore d’area o di partito che erano diventate, proprio nel periodo Storace, imprenditrici della sanità.

Ricordate le giuste discussioni sulla scomparsa o debolezza, in Italia, dell’opinione pubblica, che vuol dire capacità critica di intervenire da parte dei cittadini? Ecco un altro motivo per cui parlo del San Giacomo e della sua chiusura annunciata con appena un mese di anticipo come di un fatto che, a titolo di esempio, ci riguarda tutti.

Invano medici noti per il loro buon lavoro, infermieri con i loro sindacati, cittadini con i loro interrogativi hanno fatto assemblee pubbliche e invitato giornali, televisioni, politici. Invano hanno raccolto sui marciapiedi di Roma migliaia e migliaia di firme, invano i negozi del centro storico hanno esposto in vetrina un insolito annuncio di morte dell’ospedale. Per discutere con persone coinvolte e allarmate e ai cittadini di una vasto quartiere, non si è presentato nessuno. È vero che l’acquirente privilegiato dell’immensa area «ristrutturabile» (una volta messo sui camion il pronto soccorso, la nuova Tac, tutta la rianimazione, la cardiologia, l’intero reparto ortopedico) è un certo Caltagirone. È un fatto che nessun giornale romano, legato o no ai palazzinari, ha mandato i suoi cronisti. E se lo ha fatto, visite fugaci, e trattare la materia come «caso umano», dal punto di vista di qualche vecchietto nostalgico o infermiere che si ostina a non essere trasferito. Quanto alle televisioni, che corrono ai matrimoni delle deputate-vallette, non se ne è presentata nessuna.

Per il resto ci raccontano l’evento come la modernità che avanza (i vecchi ospedali storici è meglio che diventino alberghi o residence, anche se spese notevoli e irrecuperabili sono appena state fatte) e come austero, manageriale rigore economico. Come se Roma fosse diventata all’improvviso una Londra thatcheriana senza la Thatcher.

Tutto ciò si fa dissipando un patrimonio umano che in altri paesi si chiama «comunità» e che non si monta e si smonta come le macchine.

Tutto ciò accade con una strana inesorabilità, senza parlare, senza spiegare, senza ascoltare, che sono le ragioni più importanti per votare a sinistra.

Tutto ciò si fa spargendo un senso di solitudine che fa apparire l’autorità lontana ed estranea, con un immenso spazio vuoto fra chi prende la decisione e chi la subisce. Diciamo che - qualunque cosa sia la sinistra - non c’è niente di sinistra, cioè fraterno, comunitario ma anche capace di legare il passato al futuro, e il destino solitario di ciascuno con i destini degli altri, nella storia dell’ospedale che muore.

Per questo - con tristezza - ho voluto narrarla su questo giornale: la morte di un ospedale viene da sinistra.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 14.09.08
Modificato il: 14.09.08 alle ore 8.14   
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Titolo: Furio COLOMBO - Caso San Giacomo. La mia replica
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:46:51 pm
Caso San Giacomo. La mia replica

Furio Colombo


È doveroso ringraziare Piero Marrazzo, Presidente della Regione Lazio per la risposta attenta a ciò che ho scritto domenica su l’Unità nell’articolo “Morte di un ospedale”.

È necessario rispondere punto per punto, anche se alcuni punti sono fattuali, altri sono politici (nel senso di un programma da realizzare e non di fatti accaduti), alcuni sono incoraggiamenti a credere e sperare. Vediamo.

1. Quanto costa un ospedale? Il Presidente Marrazzo ci dice una cifra per il San Giacomo (54 milioni). È tanto? È poco?

È produttivo o improduttivo? È parassitario o efficiente? È un lusso dei cittadini che vivono in centro o è una necessità? Il Presidente nota che ben 38 milioni se ne vanno in retribuzioni. È normale? È ingiusto profitto di personale rapace? Siamo nella media necessaria, sotto quella media, o qualcuno guadagna troppo? Si tratta di salari esosi o di cattiva organizzazione? E per rimediare si deve dare luogo a un drammatico esodo generale e quasi improvviso di medici, malati e pazienti in dialisi?

2. Il personale è eccessivo. Da oggi? Non è più facile ristrutturare un organigramma che eliminare una grande istituzione da un momento all’altro? E perché non ricordare la ragione di questo affollamento di personale, che origina nella chiusura di un altro ospedale, il Regina Elena, e nel trasferimento di quel personale al San Giacomo? E anche: a mano a mano che nuove tecnologie fanno il loro ingresso negli ospedali, aumentano tecnici e specialisti. Infatti il rapporto personale-pazienti del New York Hospital di Manhattan è di tre a uno, e viene citato ad esempio. Ma è quattro a uno al Sloan-Kettering (oncologia).

3. Il Presidente della Regione osserva che dei 54 milioni del costo, 38 milioni se ne vanno in salari e stipendi. Prego vivamente il Presidente di non seguire il percorso Gelmini, che pensa di illustrare la crisi della scuola affermando che il 90 per cento del bilancio della pubblica istruzione se ne va nelle paghe degli insegnanti. A questa affermazione, in sé priva di senso economico (sono i salari che sono troppo alti o i fondi disponibili che bastano appena a compensare - male - chi lavora?) di solito non seguono riforme ma “snellimenti” e trovate, come il maestro unico e la cancellazione di decine di migliaia di posti. Ma quella è la strada della destra. Noi avevamo votato a sinistra.

4. Tranquillizza la affermazione secondo cui il pronto soccorso del San Giacomo ha pochi “codici rossi” (casi gravi) . Il fatto ci dice: a) che la gente dell’immenso quartiere del centro storico di Roma gode di buona salute; b) che i pazienti “non scelgono” di andare altrove, come suggerisce il Presidente, perché l’ambulanza non è un taxi. Vuol dire piuttosto che il 118 manda i pazienti gravi altrove. Va benissimo, ma non c’entra con la chiusura dell’ospedale. Vuol solo dire che il 118 ha avuto altre istruzioni. Però, come valutare, sia dal punto di vista del merito sia dal punto di vista del costo i trentamila passaggi annui al Pronto soccorso dell’ospedale che sta per chiudere?

5. Leggo la lista degli altri ospedali romani che saranno disponibili una volta chiuso il San Giacomo. Corrisponde a ciò che avevo scritto anch’io e che sanno tutti. Alcuni non sono affatto a breve distanza. Le domande però sono: quanto carico in più si può addossare a questi già affollati ospedali? Sono espandibili o rigidi i loro servizi, dal pronto soccorso alla dialisi? Il San Giacomo era un ospedale vuoto e non necessario? E allora come spiegare la folla che ognuno di noi può vedere in tutti i corridoi, a tutti i piani, tutti i giorni, anche adesso?

Si tenga conto che all’ospedale San Giacomo, che sta per essere chiuso, esiste il centro di nefrologia più importante di Roma e uno dei più importanti in Italia, unico per la dialisi peritoneale. Avranno valutato questo fatto coloro che, con i libri contabili in mano, hanno consigliato al Presidente della Regione Lazio (e tuttavia non spiegato) l’opportunità di abbandonare questo ospedale?

6. “I macchinari saranno riutilizzati e valorizzati altrove”. È una affermazione rassicurante ma mancano pezzi di comunicazione essenziale fra il Presidente della Regione e i cittadini. Altrove dove? Il costo dello sradicamento e dell’altrove non sarà poca cosa. E come è possibile non tenere in conto il danno non riparabile di smembrare una comunità tecnico-medico-scientifica intorno a cui si raccoglie una comunità di pazienti che ha fiducia e che non ha mai patito, per anni, i frequenti casi di malasanità che purtroppo tormentano i cittadini altrove?

7. Tranquillizza l’affermazione, dunque l’impegno: «Nessuno perderà il posto». Ma allarma l’indicazione, implicita nella smentita di una vendita dell’immobile, che l’immenso edificio resterà vuoto. Sanno tutti quale pericolo urbano sono gli edifici vuoti nei centri storici cittadini. E tutti conoscono il costo pesante di un immenso edificio vuoto se non si vuole abbandonarlo ai vandali.

8. In conclusione se il personale funziona, i macchinari sono eccellenti, i medici e infermieri sono compatti nel sostenere i pazienti (soprattutto quelli in dialisi) e i pazienti sono compatti nel sostenere i medici, infermieri e ospedale, se non si conosce nessuno, individuo o organizzazione, che ne voglia o anche solo tolleri questa chiusura, se l’edificio, con il valore che ha (e i limiti storici di uso che ha, dati i secoli) non è in vendita e anzi si nega che ci siano pretendenti potenti, perché chiuderlo mentre è al suo meglio? Perché scaricare pesi, ovviamente impossibili, su ospedali le cui crisi ricorrenti tornano e ritornano, da anni, nella cronaca dei giornali romani?

Perché - sia pure con buone intenzioni di risparmio - fare spazio al privato che inevitabilmente colmerà il vuoto?

Perché proprio un Presidente e una giunta eletti da chi crede nelle persone, nel loro lavoro e passione prima che nei numeri (i numeri fanno vittime, le persone li salvano) dovrebbero essere ricordati come coloro che hanno chiuso un grande , efficiente ospedale, buttando all’aria migliaia di vite, senza avere risolto il problema dei “servizi migliori a costi giusti” di cui parla il Presidente?

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 18.09.08
Modificato il: 18.09.08 alle ore 13.05   
© l'Unità.


Titolo: Furio COLOMBO - IL DISSIDENTE
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:56:05 pm
18.09.08 -

Identikit di una opposizione

IL DISSIDENTE

di Furio Colombo


Se dovessi dire, nel corso di una inchiesta di polizia: “E’ tutta colpa dell’Opposizione”, e mi domandassero, come è logico: che faccia ha questa Opposizione che lei accusa, come rispondere? Chiamerebbero l’esperto che disegna gli identikit e farebbero ma, temo, inutilmente, le rituali domande:

- Occhi?
- Non lo so, sono sempre bassi.
- Statura?
- Si nota poco, tra la folla di Camera e Senato.
- Età probabile?
- Deve essere media, perché non ha la fretta impulsiva dei molto giovani, né la determinazione un po’ concitata dei molto anziani.
- Voce?
- Regolare, bassa, priva di ogni accento di indignazione.
- Maschile o femminile?
- Ugualmente difficile da ricordare.
- Segni particolari?
- Sì, uno. Ripetono sempre la frase “cultura di governo”. Sembra di capire che, secondo questa Opposizione, più uno tace più ha cultura di governo. Ah, e anche l’ombra. Ognuno è convinto di essere l’ombra di un altro, qualcuno che ha vero potere. E lo imita quasi in ogni gesto e parola.
- E’ una imitazione ironica?
- No, è compiuta con molto rispetto. Questa è una Opposizione che ha molto rispetto per il potere e cerca di assumere i modi e i toni.
- C’è il rischio che sia una tattica per infiltrazioni non notate nelle stanze del potere, al fine di mettere le mani sulle decisioni che contano?
- Improbabile, perché il potere è ben sorvegliato e, nonostante gli educati tentavi di imitazione, l’opposizione è immediatamente identificata e respinta in modo brutale, con insulti e minacce, se necessario rinfacciando all’opposizione i Gulag e le fosse di Katyn.
- Questo fatto non produce reazioni vivaci da parte di questa Opposizione scacciata?
- Al contrario. Nonostante ogni tentativo del governo di farla finita una volta per tutte, l’Opposizione resta accanto alla porta in attesa che si schiuda.
- E quale sarebbe la ragione di un così strano comportamento?
- Forse la solitudine. Continuano a ripetere: “Se non parliamo con i nemici, con chi dovremmo parlare?” Ma i nemici sbattano la porta.


APPUNTO. E ALLA FINE NON PARLANO CON NESSUNO.
GLI ELETTORI LI STANNO ANCORA CERCANDO.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/180909-identikit-di-una-opposizione/


Titolo: Furio COLOMBO - Meno di Zero
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 07:23:37 pm
Meno di Zero


Furio Colombo


Un viaggio mi è rimasto in mente fra i tanti della mia vita. Con l´Avvocato Agnelli stavo andando a dire al presidente degli Stati Uniti (in quel momento si trovava in California) che il colonnello Gheddafi non era più azionista della Fiat. L´Azienda aveva ricomprato la sua quota, decuplicata di valore nel tempo. Ma erano i giorni dell´assassinio di Klingofer, il vecchio ebreo in sedia a rotelle buttato in mare dal ponte dell´Achille Lauro per mano dei terroristi che avevano sequestrato la nave italiana. Erano i giorni in cui Gheddafi, quasi nelle stesse ore, alternava il gesto del mediatore alla funzione di complice. Consideravo quel giorno un evento importante, che valeva anni di lavoro in America: avere separato l´immagine di Gheddafi da quella del lavoro italiano, per quanto la presenza dei capitali libici fosse disponibile, conveniente e sempre alla ricerca di rispettabili opportunità di accasarsi.

Ma era già evidente allora l´andamento infido e ondivago di quelli accostamenti ai paesi democratici mentre continuava e continua la parte non visibile e non decifrabile (mai in tempo reale) di azioni, motivazioni e vere intenzioni politiche. Come non pensarci nei giorni in cui un presidente del Consiglio italiano trascorre con Gheddafi ore di festa, si scambia doni e vestiti, e tutto il mondo giornalistico, il mondo politico, l´opinione pubblica italiana sanno solo di questa festa e di un presunto impegno di Gheddafi a fermare la gran parte dell´immigrazione africana che parte dalla sue coste per arrivare in Italia. E tutto ciò in cambio di una immensa cifra che l´Italia pagherà per «danni di guerra», ma senza mettere in alcun conto, ad esempio, i ricorrenti e sanguinosi progrom contro gli ebrei italiani (si noti bene: nel dopoguerra) che sono accaduti in Libia contro persone e famiglie appena scampate alla persecuzione fascista. E senza spiegare che cosa faceva Tarik Ben Ammar, socio in affari dell´imprenditore Berlusconi ma non consigliere del primo ministro Berlusconi, in quella festa e nella foto di quella festa pubblicata da "Dagospia". C´erano altre cose da sapere dello storico incontro Berlusconi-Gheddafi in Libia. Non le abbiamo sapute né dal presidente del Consiglio né dal ministro degli Esteri. Una l´ha benevolmente condivisa con gli italiani il colonnello Gheddafi facendo sapere che il nuovo rapporto Italia-Libia firmato da Berlusconi sospende i trattati internazionali dell´Italia se e quando quei trattati fossero sfavorevoli alla Libia. Uno è stato comunicato senza troppa enfasi da alcuni giornali. Il presidente del Consiglio, nel consueto «angolo degli affari» che lo statista riserva sempre ai suoi colloqui internazionali (vedi i quaranta minuti di conversazione con Putin, mentre c´era la guerra in Georgia e di cui né i cittadini, né i politici, né gli specialisti, fuori e dentro il Parlamento, sanno nulla) ha trattato con Gheddafi la presenza di una quota di capitale libico nell´azienda Telecom italiana. In questo modo la nostra storia si rovescia: tornano i grembiulini, tornano le case chiuse e torna Gheddafi, come in un film bizzarro e privo di senso. Un´altra cosa ancora sappiamo, dei festosi e segreti accordi Italia-Libia. Lo ha spiegato Sergio D´Elia ("Nessuno tocchi Caino") in una interpellanza parlamentare e a Radio Radicale, mentre ancora duravano le celebrazioni per lo storico incontro. Come farà Gheddafi a fermare il fiume di immigrazione dal Sud del mondo verso l´Europa? Non ci riuscirà, naturalmente. Ma è una buona occasione per attivare la sua polizia e allargare i campi di morte in cui vengono rinchiusi i più sfortunati tra i profughi che cercano di scampare alla fame e alla guerra, quando cadono nelle retate, nei rastrellamenti, o vengono venduti dagli stessi mercanti di uomini. Vengono ingabbiati e lasciati morire dove la Croce Rossa o l´Onu non arriveranno mai, dove si perde (purtroppo non solo in Libia, ma questa volta con un complice italiano) ogni traccia di umanità.

* * *

L´accordo, presentato come una soluzione e una vittoria, oltre che come un giorno di spettacolo dell´unico protagonista italiano, non è un evento isolato per la nuova immagine dell´Italia nel mondo. In Europa, nella settimana appena conclusa, l´Italia ha ottenuto fischi e «buuu» in occasione della presentazione del moderno progetto italiano di incursioni notturne con obbligo di impronte digitali - bambini inclusi - nel campi rom. È stata anche l´occasione per permettere ai deputati europei più attenti di scoprire l´imbroglio Maroni. In linea con il ministro degli Esteri che (sia pure per precisa direttiva di Berlusconi) alla Russia dice una cosa e agli Stati Uniti ne dice un´altra, Maroni ha mandato in Europa un piano sforbiciato dal peggio. Ma, come hanno detto e ripetuto anche al Senato italiano deputati europei che sanno e hanno visto, il peggio resta riservato ai rom e ai raid nei campi italiani. Intanto l´On Cota capo gruppo della Lega Nord-Indipendenza della Padania, prende la parola alla Camera per chiedere «test di accesso per gli studenti stranieri nelle scuole dell´obbligo» e «in caso di bocciatura, la frequenza in una classe ponte» (leggi: "ghetto"). «In questi classi - dice il noto pedagogista Roberto Cota - si svolgeranno corsi per diversità morale e cultura religiosa del Paese accogliente e ci saranno lezioni al rispetto delle tradizioni territoriali e regionali». Le parole suonano ovviamente ridicole, dato anche l´orizzonte minimo della vita a cui si affaccia Cota. Suonano tragiche se si tiene conto della crudeltà nel Paese di Gentilini, di Borghezio dell´orina di maiale versata sulla terra in cui deve sorgere una Moschea, dell´accanito susseguirsi dei divieti di luoghi in cui pregare per gli islamici sventuratamente approdati in Italia. Ma quelle parole hanno un suono sinistro a pochi giorni dalla morte a Milano del diciannovenne Abdul Salam Guibre, cittadino italiano di origini africane, abbattuto a sprangate da una buona e unita famiglia italiana (padre e figlio, ciascuno con la sua mazza per colpire lo "sporco negro") a causa del furto di due biscotti. E tutto ciò nel silenzio del sindaco di Milano. Ma sono anche i giorni in cui l´onorevole Borghezio, capogruppo al Parlamento europeo del partito italiano di governo "Lega Nord per l´indipendenza della Padania", annuncia con orgoglio la sua partecipazione, insieme con bande dichiaratamente naziste a una serie di manifestazioni contro gli immigrati a Colonia. Ogni volta che qualcuno si fa avanti a ripetere con invidia che «la Lega è radicata nel territorio», sarà bene ricordare che anche il fascismo e il nazismo lo erano, che il radicamento in sé non è una ragione di ammirazione e di applauso. Può essere una disgrazia da combattere. Del resto, chi era più radicato nel territorio del Ku Klux Klan prima del sacrificio di Martin Luther King?

* * *

Ma questi sono anche i giorni in cui il ministro della Difesa italiano dichiara, alla presenza del Capo dello Stato, e in un giorno sacro alla Resistenza, che si devono ricordare e celebrare i soldati della repubblica fascista di Salò che hanno combattuto a fianco dei tedeschi occupanti contro gli angloamericani che, insieme ai soldati italiani del legittimo governo, insieme alla Brigata ebraica, stavano liberando l´Italia dal nazismo, dal fascismo, dal razzismo. Il ministro La Russa ha tentato, dunque, il giorno 8 settembre a Roma di esaltare come normali e rispettabili combattenti italiani coloro che stavano difendendo Auschwitz. Il presidente Napolitano ha risposto subito e con fermezza. E ha ripetuto varie volte anche dopo: «La Costituzione italiana sbarra il passo alla falsificazione della storia». Ma quella falsificazione c´è stata. L´ha fatta il ministro della Difesa, in un Paese che, da settimane, è presidiato da unità delle Forze armate. Per fortuna è stata immensamente più autorevole la risposta del Capo dello Stato. Ma il fatto, inaudito e impossibile in ogni altro Paese europeo, è accaduto in Italia in modo solenne e pubblico. Pochi giorni dopo i giovani di An hanno detto forte e chiaro, ripudiando prontamente le parole di invito alla democrazia appena ascoltate da Gianfranco Fini: «Non saremo mai antifascisti».



Mi rendo conto che tutto ciò non è che una parte del dramma italiano provocato da un legittimo e riconosciuto voto popolare. Ma il breve elenco di fatti che avete letto non è che un accenno al rischio evidente e grave a cui è esposta, con questo governo, la Costituzione italiana. Dunque la democrazia. E tutto ciò, compreso lo sdegno che l´Italia di questa destra sta suscitando in Europa (e che ha fatto dire all´imprenditore ed editore Carlo De Benedetti, nell´ultimo incontro dello Aspen Institute: «Noi, l´Italia, non siamo più nulla, siamo irrilevanti nel mondo») è solo una parte, il mezzo cerchio della asfissia che sta stringendo il Paese. L´altra metà degli eventi è economica e personale. Riguarda il presidente del Consiglio e la sua ricchezza. Una parte delle infaticabili iniziative per lo sviluppo di quella ricchezza ci è ignota. Ne possiamo solo constatare la continua crescita, come di un pane miracoloso che continua a lievitare, governando. Una parte è pubblica, sbandierata. È di questi giorni la notizia che la famiglia Berlusconi - con la figlia del premier vice presidente e tre uomini dell´uomo di Arcore nel Consiglio di amministrazione - controlla Mediobanca, la più importante e la più potente Banca d´affari, a cui fanno capo tutti i nodi, tutti gli accordi, tutte le alleanze e gli incroci del potere economico in ogni campo e settore in Italia. Questo Paese, come tutti sanno, è economicamente a zero. Le notizie ci dicono che, moralmente, questo Paese è meno di zero.



La domanda è: di fronte a una così clamorosa emergenza in cui sono in gioco l´immagine politica, l´identità storica, la natura morale, la difesa costituzionale di un Paese che sta per essere sottoposto al violento shock di frantumazione del federalismo leghista, e dove tutto il potere politico, tutto il potere mediatico e - da adesso - tutto il potere economico sono nelle stesse mani (con l´infinita possibilità di guidare qualsiasi gioco, incrociando questi poteri) in Italia si può continuare a fare opposizione di normale andatura parlamentare, come se il Parlamento non fosse stato neutralizzato e disattivato persino nella sua componente di maggioranza? Si può fare una opposizione all´ombra di un governo ombra, che vuole dire corrispondenza simmetrica e valori condivisi, quando, in realtà, alla simmetria si contrappone il segreto, e i valori condivisi sono rappresentanti solo dal Capo dello Stato? Si può fare opposizione parlamentare senza separarsi nettamente dalla finzione di un gioco impossibile, che comprende persino la celebrazione del fascismo? Chiariamo. È il governo Berlusconi che è uscito dal Parlamento per andarsene in incontri segreti o nella cancellazione della storia italiana o nelle banche. È l´opposizione che resta al suo posto nelle Camere a nome degli italiani che vogliono sapere chi li rappresenta. Ma non possiamo fare opposizione con lampi stroboscopici che alternano sprazzi di luce a una disorientante penombra. Qui si tratta di testimoniare ogni giorno, ogni ora, in ogni atto della nostra vita pubblica che il loro voto è legittimo, il loro modo di governare no.

Pubblicato il: 21.09.08
Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.46   
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Titolo: Furio COLOMBO - Partiti di Governo
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 06:48:31 pm
Partiti di Governo

Furio Colombo


Borghezio (Lega Nord) è andato a Colonia per unirsi a una manifestazione contro gli immigrati islamici e i tedeschi lo hanno subito riconosciuto: un nazista. Gli hanno chiuso il microfono dopo 20 secondi e «lo hanno portato via di peso» (dai giornali, ndr). Borghezio ha protestato e si possono capire le sue ragioni. Quelle manifestazioni lui, e quelli della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, in Italia le fanno tutti i giorni, proprio come la manifestazione proibita a Colonia. Ma da noi i giornali ne parlano con rispetto, le televisioni le includono nella regolare rassegna politica, perché in Italia Borghezio, «portato via di peso dalla piazza di Colonia» è partito di governo. Lo stesso partito del ministro delle Riforme, del ministro del federalismo fiscale, del ministro dell’Interno.

Pubblicato il: 22.09.08
Modificato il: 22.09.08 alle ore 7.39   
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Titolo: Furio COLOMBO - Quando il lavoro è un ingombro
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 04:46:13 pm
Quando il lavoro è un ingombro

Furio Colombo


Due questioni hanno tormentato il mondo del lavoro e quello dei media italiani in questi giorni. Uno è la celebre contesa intorno alla sopravvivenza dell’Alitalia, azienda di dimensioni internazionali detta «compagnia di bandiera», di cui si sono occupati, giorno e notte tutti i politici, tutti i media italiani e un po’ i media del mondo. Mentre scriviamo l’esito è ancora sospeso, anche se è innegabile che uno scatto di vita alla creatura già semi-morta è stata data dall’incontro Epifani-Colaninno,non per iniziativa del Primo ministro in cura a Todi, ma del capo della opposizione, vivamente vilipeso da Berlusconi per essersi intromesso. L’altro è la improvvisa totale chiusura di un grande ospedale, unico nel vecchio centro di Roma e unico per il livello di alcune strutture e settori clinici appena costosamente rinnovati e comunque di qualità europea (ortopedia, nefrologia, medicina di rianimazione).

È una storia locale ma esemplare. Dove, quando è stata mai chiusa, con notifica di meno di due mesi una struttura urbanisticamente collocata nei secoli nel centro del centro storico di una città, disperdendone storia e patrimonio ma perdendo anche i fondi del vasto rinnovamento appena finito? E perché - in questo è il simbolo, che riguarda tutto il Paese, non solo Roma - dovrebbe farlo un governo di sinistra (è di sinistra la Regione Lazio) aprendo uno spazio prezioso e vuoto alle bande dei palazzinari?

Una cosa hanno in comune due storie tanto diverse: il lavoro. In tutti e due i casi (con tristezza si potrebbe dire: visti da destra e visti da sinistra) tutta l’attenzione politica e giornalistica si è concentrata sulla parte impresa (quanto vale, a quanto si può comprare o vendere, quanto frutta l’una decisione o l’altra) e niente o quasi niente sul lavoro, il valore del lavoro. Ma anche del lavoro come componente essenziale dell’impresa. Per esempio, dei lavoratori dell’ospedale è stato detto che le persone saranno sparpagliate come le macchine. Ma, a differenza delle macchine, le persone andranno, più o meno a caso, dove li prendono e come si può. Ringrazino il cielo di non essere licenziati. Quanto ai lavoratori dell’Alitalia, alcuni giornali hanno già definito “aquile spennate” i piloti che hanno deciso di cedere parte dei loro stipendi. Ma tutti sono stati visti, un po’ da tutti e certo dall’universo mediatico unificato, come guastafeste disposti a rendere impossibili convenienti accordi già raggiunti.
Convenienti per chi? È la domanda mai posta e la risposta mai pervenuta. Ma restiamo un momento con Alitalia.


* * *

Raramente ci si sente in debito con la televisione. Questa volta devo dire che sono grato ad «Annozero» per avere impegnato tutte le sue risorse e la capacità giornalistica (arricchita dall’arrivo di Corrado Formigli) per restituire dignità al lavoro. Mi rendo conto, «Annozero» dura due ore mentre una continua, accanita, sarcastica denigrazione del lavoro dei dipendenti di quella impresa disastrata è continuata per settimane, dal governo agli editorialisti compatti, dalle fonti meno credibili a molte voci competenti, a cui si è aggiunta qualche autorevole voce del Partito Democratico, come quando Enrico Letta ha descritto l’impegno senza tregua di Epifani di non abbandonare la difesa del lavoratori «l’errore del secolo...». Giudicando dal seguito della vicenda si direbbe che l’errore (almeno l’errore della settimana) è stato di Enrico Letta e della sua dichiarazione leggera e scorporata dal peso drammatico dei fatti.

Il peso dei fatti si concentra, come se fosse un’evidenza processuale, su una piccola folla di assistenti di volo che - nelle riprese televisive - sembrava festeggiare l’annuncio del ritiro della cordata Cai dalla trattativa. Come in una rapina in banca, è stata identificata la «hostess con le braccia alzate», Maruska Piredda. «Annozero» le ha dato la parola, sostituendo volti veri e storie umane alla indecorosa narrazione dei media, seguita da concitati corsivi di disprezzo e condanna che accreditavano due versioni: parassiti che guadagnano troppo e non accettano anche minimi sacrifici sulla lauta paga; fannulloni che non lavorano e si indignano, mentre l’azienda muore, di un ritocco all’orario. Maruska Piredda ha potuto spiegare agli spettatori di «Annozero» che la proposta era dimezzare la paga e allungare (quasi a volontà chiamando i dipendenti anche nel tempo libero e di riposo) l’orario di lavoro, come se si trattasse di ridurre i consumi e aumentare le prestazioni di una macchina e non dell’orgoglio, dei nervi e della fatica di una persona. Moltiplicate tutto ciò per le vite e i nervi delle assistenti di volo di quella ripresa televisiva e avrete notizie vere del modo drammatico in cui hanno vissuto in pubblico la lunghissima trattativa.

La riduzione a stupidi manichini che fanno festa al «tanto peggio tanto meglio» non è soltanto un falso. È la rappresentazione di un pregiudizio contro il lavoro che si cerca di diffondere in modo da scatenare una guerra tra poveri. Squallido progetto che, tra i lavoratori dell’Alitalia maltrattati e in attesa, è quasi riuscito. Ognuno, con i suoi privilegi (povere conquiste risibili in un mondo di super ricchezze e di super manager) diventa «la casta» dell’altro. E in questo mondo frantumato è facile separare e frantumare anche i sindacati e lavoratori.

Il sindacato più tenace nel resistere al tavolo delle trattative, la Cgil, è stato descritto come delinquenziale e pericoloso, come una inaudita mancanza di rispetto verso la controparte che è sempre rimasta in una rispettosa penombra.

Qualcuno ha mai detto all’avvocato Buongiorno che è riprovevole la tenacia con cui difende i suoi imputati? Intanto i giornali italiani si stavano divertendo con la «la limousine dei piloti» (ovvero con l’auto di servizio che li preleva di giorno o di notte per andare all’aeroporto) come se, in qualsiasi parte del mondo civile, i piloti dei grandi aerei e dei viaggi che durano un giorno o una notte, facessero meglio a destreggiarsi con bravura nel traffico cittadino prima di prendersi la responsabilità in volo di quattrocento passeggeri per decine di ore.

Avrete notato che nessun bravo giornalista investigativo, impegnato a cogliere all’istante la frase incriminata di un dipendente Alitalia sull’orlo di una crisi di nervi, ci ha mai riproposto le storie dei manager che, nei decenni, con paghe infinite e la partecipazione straordinaria della politica, hanno portato l’azienda Alitalia sempre più in basso. E nessuno - tranne piloti e assistenti di volo esausti - ci ha ricordato la lunga lotta Fiumicino-Malpensa, leghisti contro «Roma ladrona», costato molto più della paghe dei dipendenti «lagnosi» prima dei tagli risanatori.


* * *

Allo stesso modo il San Giacomo. D’accordo, è solo un ospedale di Roma, ma alle spalle della chiusura improvvisa di un antico, eccellente ospedale, si intravede l’ombra di una immensa operazione immobiliare. Esattamente il tipo di operazione immobiliare che da decenni ha inquinato l’Italia. Se conoscete la città e la vastità dell’immobile, prima ancora di ricordare lo sperpero di bravura umana e di civiltà ospedaliera, che nessuno calcola, vi viene in mente l’indimenticabile film «Le mani sulla città» di Francesco Rosi. Dunque siamo di fronte a un fatto grave ed esemplare che, come ai tempi de «Le mani sulla città» riguarda una città che si chiama Italia.

Qualcosa non funziona nelle notizie che vengono date al pubblico. Non funziona l’avere migliorato in modo eccellente e con spese altissime un ospedale per poi chiuderlo all’improvviso. Non funziona il teorizzare «il luogo sbagliato» dopo sette secoli, in una città come Roma dove tutto è nel «luogo sbagliato» ma diventa giusto e accettato per la forza del tempo e perché la città è venuta modellandosi intorno ai suoi edifici unici al mondo.

Qualcosa non torna quando vi dicono che «le attrezzature mediche verranno ridistribuite» fra i vari ospedali di Roma, come se le sofisticatissime apparecchiature, portate e adattate nel prezioso ma non facile contenitore San Giacomo (con due Chiese in vendita?) fossero i mobili della nonna, qui e due poltrone più piccole, di là il divano più grande.

Qualcosa non torna quando ripetono: «Ma noi non chiudiamo ospedali, noi tagliamo posti letto». Qui i posti letto tagliati sono il cento per cento. Infatti non si sta spezzettando il San Giacomo, il famoso «spezzatino» che è il grande incubo nelle cessioni di impresa. L’intero ospedale viene eliminato e basta. E questo fatto dovrebbe allarmare l’opinione pubblica perché non è uno sgradevole evento romano,è un fatto italiano. E’ un drammatico precedente. Dice che si può cancellare una intera istituzione sanitaria pubblica persino se sono contrari tutti i suoi medici, tutto il suo personale, tutti i suoi pazienti, tutti i cittadini. Colpisce l’indifferenza della politica per questo universo umano che dissente.

Colpisce l’indifferenza verso il lavoro di una parte politica che non è una cordata di imprenditori (quelli, se mai, caleranno sull’edificio vuoto) ma un partito di sinistra.

Di nuovo, in questo quadro allarmante, il lavoro è un disturbo, la competenza un intralcio, il reclamo di ciò è stato compiuto e del come è stato compiuto è una fastidiosa vanteria. Far presente che quella di un ospedale che va bene ed è amato (amato!) dagli utenti è una comunità che lavora bene perché lavora insieme e non si può spezzare e ridistribuire per piccole parti, è una affermazione che viene vista come un antipatico ostacolo.

La grande concessione non è: rispetto il tuo lavoro, lo apprezzo e faccio di tutto perché tu possa continuare. La grande concessione è: smettila di vantare le cose buone che stavi facendo in questa comunità. La comunità adesso chiude per ragioni che non tocca a voi discutere. Voi sarete mandati via, e secondo quel tanto di disponibile, un po’ di qua e un po’ di là. Ma non sarete licenziati, non vi basta?

Il lavoro perde il suo senso, la sua dignità, quel tanto di missione che dà un valore alle tante ore di ogni giornata. La lezione è tremenda e invita al cinismo togliendo valore a quello che fai.

È la seconda triste lezione sullo stato del lavoro oggi in Italia. Il meglio che ti può capitare è di non essere licenziato subito. È un punto molto basso di quella, che una volta, chiamavamo «civiltà».

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 28.09.08
Modificato il: 28.09.08 alle ore 14.50   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il governatore ombra
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2008, 10:08:57 am
26.09.08 - Il governatore ombra

Piero Marrazzo sarebbe il Presidente della regione Lazio. Come tale è responsabile della sanità pubblica in tutta la regione e dunque, essendo stato eletto dal centro sinistra, della difesa della sanità pubblica in tutta la regione. In un periodo di vivace espansione delle cliniche e delle imprese di cura private, è facile immaginare che si tratterà di un lavoro senza sosta per la difesa e il potenziamento di ogni ospedale.

Piero Marrazzo è il commissario straordinario del governo con il compito di tagliare le spese, ridurre i posti letto, se necessario chiudere ospedali. I conti devono quadrare e finché non quadrano, il governo non darà altri soldi per la sanità (la salute) della regione Lazio. Infatti il governo ha già chiuso le casse.

Il Presidente della regione Lazio, Marrazzo, ha prontamente e vigorosamente protestato. Annuncia (24 settembre) “Per la Sanità del Lazio ci sono soldi solo per una settimana”.

Intanto il commissario straordinario per la Sanità del Lazio, Marrazzo, sta spietamente precedendo, come da istruzioni di governo, a “fare cassa”. La farà chiudendo l’ospedale San Giacomo, l’unico ospedale nel centro di Roma, nel cuore di un quartiere su cui gravitano, tra residenti, persone che vengono a lavorare e a comprare e turisti, oltre mezzo milione di persone al giorno.

Il commissario Marrazzo, come è tipico in simili circostanze, non guarda in faccia nessuno, né a personale sanitario dell’ospedale da abolire (che ha creato l’Istituto di Nefrologia, il più avanzato centro di dialisi a Roma), né ai cittadini del quartiere che si oppongono alla perdita di una delle istituzioni più antiche di Roma (1326) ma anche aggiornato fino alla sala di rianimazione appena finita (30 luglio) e considerata una delle migliori in Europa.

Il commissario Marrazzo, in azione risanatrice per conto di un governo di destra intento a dimostrare che prima, a Roma, tutto era un disastro, non guarda in faccia neanche al Presidente Marrazzo che era stato eletto Primo Cittadino della regione con i voti del centrosinistra e dunque con l’impegno principale di tutelare e di sviluppare il grande campo di responsabilità dei governi regionali: La Salute.

C’è un problema. Il commissario Marrazzo che esegue la volontà del governo di destra (che vuole sputtanare il centrosinistra, cioè l’opposizione al governo di destra) è la stessa persona del Presidente di sinistra Marrazzo.

Se non fosse tragico, la situazione evocherebbe il tipico pasticcio con scambio di persona caro a Goldoni.

MA E’ TUTTO VERO, TRAGICO, IMMINENTE.

MARRAZZO È IL GOVERNO OMBRA DI SE STESSO. LA SUA POTENTE OMBRA DI DESTRA OCCUPA E CAMBIA LO SPAZIO DOVE PRIMA C’ERA IL CENTROSINISTRA. E DIMOSTRA CHE NON BASTANO PIÙ IL VOTO E LA VITTORIA ELETTORALE PER METTERSI AL SICURO.

TU VOTI A SINISTRA MA CHI COMANDA È L’OMBRA DI DESTRA, SE L’OMBRA È SUCCUBE.

Furio Colombo

da temi.repubblica.it


Titolo: Furio COLOMBO - Marcegaglia e le altre
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 04:49:45 pm
Marcegaglia e le altre


Furio Colombo


Marcegaglia, la signora che presiede l’Associazione degli industriali italiani, è una dirigente inflessibile.
Fra poche ore potrebbe crollare la finanza del mondo ma lei non si distrae, tiene lo sguardo fisso sul punto «nuovo modo di rinnovare i contratti da lavoro in Italia per sbloccare lo sviluppo del Paese». La missione sembra piccola rispetto agli enormi problemi del momento. In realtà, così come lo vuole con perizia strategica il grosso dei suoi associati, porta l’Italia a fare, sia pure con deplorevole ritardo, ciò che è avvenuto in America ai tempi di Reagan: isolare il lavoro dipendente, umiliare i sindacati con il progetto di accantonarli, o di cooptarli con la strategia del «merito», della «produttività», della «competitività».

Ma in tutti questi bei progetti chi lavora con rischio e fatica, non c’entra niente, non può farci niente. Niente di tutto ciò dipende dai singoli lavoratori o da tutta la mano d’opera di un impresa. Però le tre parole, nate e poi risuscitate in America dalla celebre «scuola di Chicago» (il grande consigliere economico di Pinochet) e cresciute col reaganismo, suonano «moderne», fanno strage di consensi anche a sinistra (quante tesine vi hanno dedicato i giovani rampanti del Pd) e sono diventate luoghi comuni sia del liberismo che del riformismo in cerca di buona reputazione.

Ho letto della appassionata difesa del lavoro da parte di Epifani, il più competente e il meno populista, dunque il più moderno leader sindacale, in Italia, oggi (l’Unità, 3 ottobre). Infatti non subisce il fascino di parole vuote per il lavoro, che in America hanno portato all’iperfinanziarizzazione delle aziende e al crollo che adesso lascia tutti col cuore in gola. Tutti, salvo Marcegaglia e Berlusconi.

Berlusconi ha di fronte la montagna sconosciuta di detriti finanziari del mondo, non si sa quanti salvabili e quanti marci, non si sa quanti italiani e quanto importanti o, al contrario, quanti di questi debiti inesigibili siano, con discrezione non notata, diventati italiani e quanta Lehman Brothers ci sia nella filiale sotto casa, dove il direttore simpatico e rampante accostava il risparmiatore col gruzzoletto per fare proposte «interessanti». Berlusconi punta il dito come faceva a Napoli di fronte alla spazzatura e proclama: «tranquilli, ci penso io». Fa credere che anche per i prodotti tossici della finanza ci sarà un Castel Volturno, con i suoi italiani disperati e con i suoi immigrati disperati, disposti a lasciarsi portare in casa quest’altra spazzatura da nascondere.

Quanto alla Marcegaglia, donna giovane e non incolta, ci aspettavamo un soprassalto. Ovvero, per la prima volta in Confindustria, poteva accadere che finalmente qualcuno, magari perché donna, venisse avanti con le due cose che non sono state mai fatte: dire che cosa l’associazione degli imprenditori può fare per il Paese, invece di chiedere continuamente al Paese che cosa può fare, anzi deve fare per gli imprenditori.

E capire e dire ai propri consociati che la vecchia sceneggiata, comunisti cattivi contro liberisti buoni, Peppone contro Don Camillo è davvero finita, che l’incubo della finanziarizzazione tossica riporta attenzione e prestigio intorno all’impresa. Quell’incubo dice che - invece che mettersi in mano alle banche - è meglio lavorare, produrre, esportare. Ma per farlo ci vuole ricerca (qualcosa che nessuno fa e nessuno promette di fare in Italia) e un idea del tempo e del mondo. E ci vogliono lavoratori, ma non come fannulloni da rimettere al loro posto di ubbidienti subordinati che costano sempre troppo.

Chi «fa impresa» come si dice ai convegni di Confindustria con un tono ispirato, quasi religioso, come se si trattasse di prendere i voti, chi «fa impresa» sa che l’impresa è fatta di buon lavoro. Sa anche che il buon lavoro comincia come e dove l’azienda si identifica, quando si esprime con i suoi leader, nel modo in cui sa scegliere i suoi dirigenti. E sa che non è il conteggio dei minuti per andare in bagno dei dipendenti che assicura il buon lavoro ma un clima di lealtà reciproca che tiene conto del resto del mondo: quanto costa il lavoro a me imprenditore; quanto costa un minimo di dignità della vita a te che lavori.

Questa strada c’era, ed era modernissima, ai tempi di Adriano Olivetti in Italia, nelle imprese di David Rockefeller in America, dove ogni persona era una persona dall’inizio del lavoro fino ai livelli manageriali. Adesso, in questa Italia in ritardo, prevale il modello Thatcher-Reagan che era già vecchio e fallito, quando è stato riesumato dal prima della Depressione del 1929 e che, infatti, ci sta portando a un’altra depressione: distanza, diffidenza, delusione, sospetto, solitudine, tutte condizioni pessime per costruire il futuro del lavoro e dunque delle imprese.

Marcegaglia sta dicendo che preferisce che i lavoratori si presentino ad uno ad uno, per fare contratti legati al merito, alla produttività, cui segue l’eterna invocazione «per tornare a essere competitivi». Ma perché fingere di non sapere che la competitività d’impresa dipende dall’impresa, perché dipende dalla guida, dal realismo ma anche dalla visione; che la produttività è il compito e il capolavoro del manager, perché è il frutto della buona organizzazione; che il merito si misura soltanto dove si vede, ovvero se chi lavora è messo nelle condizioni psicologicamente sicure e fisicamente protette in cui può dare e mostrare (mostrare a chi? si potrebbe chiedere oggi) il meglio delle proprie capacità. Qualcuno vuole il meglio da un precario, oppure soltanto un tot di ore e un tot intercambiabile di fatica?

Ho fatto parte della vita aziendale del tipo rappresentato dalla Marcegaglia. E so che l’imprenditore si presenta a qualunque tavolo scortato da buoni avvocati, esperti fiscalisti, e dai più abili esecutori di tagli sui salari, di solito camuffati con il gentile titolo di responsabili delle risorse umane.

Il lavoratore invece - ci dice la Marcegaglia - deve presentarsi da solo e togliere di mezzo i sindacati. Che mercato è? Un simile squilibrio non ha mai generato civiltà. Questo sta dicendo Epifani. Quando insiste e tiene duro, non boicotta l’impresa. Propone il lavoro dignitoso, psicologicamente alla pari, che è parte essenziale dell’impresa.

* * *

Ma ecco che arriva sulla scena l’altra nuova dirigente di Confindustria, Federica Guidi, figlia di, Presidente dei Giovani imprenditori. Lei ha una visione del mondo. Ma lo vede da una prospettiva retrò in cui però invoca il retrò come futuro. Strano per una donna giovane, passata per buone scuole. Ma ecco quello che ha da dire, mentre i giovani industriali, tutti figli di anziani e robusti imprenditori della precedente generazione, si preparano, come i loro papà, a far festa al governo, a Berlusconi, a Tremonti, nel loro convegno di Capri. «Qui c’è qualcuno che continua a guardare al vecchio, che resta ancorato a schemi ormai passati, che nemmeno adesso, nel mezzo del crac finanziario che sta mettendo a dura prova il mondo, si rende conto di come quegli schemi siano del tutto inadeguati ad affrontare cambiamenti rapidissimi e a volte drammatici». (Corriere della Sera, 2 ottobre).

Santo cielo, ma davvero Federica Guidi pensa che Lehman Brothers, la banca che lo scorso Natale aveva pagato ai suoi top manager “bonus” (premi individuali) tra i cento e i duecento milioni di dollari, sia inciampata e caduta e scomparsa a causa della irresponsabile resistenza del sindacato dei fattorini e dei ragazzi che distribuiscono la posta ai piani bassi dell’azienda?

Non le ha raccontato nessuno che, nel Paese di Reagan e dei due Bush, una volta spezzato, troncato e poi gradatamente escluso da ogni partecipazione il sindacato, una volta reso il lavoro e anche la manodopera più specializzata una variabile di mercato di ultimo livello, un po' sotto la scelta e l’acquisto del materiale da ufficio, moltissime aziende si sono trasformate, come New Orleans, in avamposti abbandonati a raid, accorpamenti, merger, svendite delle divisioni più remunerative e preziose, perdita deliberata di personale specializzato, mentre calava l’originalità e desiderabilità dei prodotti, diminuivano le esportazioni e dalle finestre senza vetri dei piani alti passava il vento di uragani finanziari che si sta portando via l’intero management americano di generali senza esercito?

Dice ancora al Corriere la Guidi: «Persino in momenti di crescita l’Italia rimane ferma al palo». Quando, dove, quale azienda è stata bloccata dagli operai (che in Italia muoiono anche in tre al giorno, mentre lavorano, lavorano, lavorano di giorno e di notte)? Quando nell’Italia della Thyssen-Krupp (al processo i sindacati sono stati autorizzati dal giudice a costituirsi parte civile)? Quando, in questo Paese, prima di questa crisi mondiale che non ha niente di sindacale, un’azienda è rimasta al palo per colpa dei lavoratori, invece che per la responsabilità di un pessimo management?

Possibile che la giovane Guidi, Presidente dei Giovani imprenditori, non si sia accorta di suo, o non sia stata avvertita dai colleghi che stanno appena arrivando, come lei, a sostituire i padri (c’è da essere orgogliosi: sono tutti al convegno di Capri invece che al “Billionaire“) che la Fiat ha avuto una buona ripresa, che ha fatto notizia nel mondo, non per avere finalmente umiliato il lavoro, ma per avere ritrovato un management adeguato, nuovi progetti, nuovi modelli, nuovi modi di vendere?

Prendiamone atto al momento di riflettere sulle relazioni industriali: non è stata la «forte spinta» invocata dalla giovane Guidi (parola codice che significa mano dura sul sindacato) a far tornare in prima fila la Fiat. E’ stato il buon lavoro organizzato bene. Non c’è niente di più moderno che riconoscerlo. Non c’è niente di più vecchio che dare la colpa ai soldati, come facevano, ad ogni sconfitta i generali sabaudi, nella Prima Guerra mondiale.

Quasi nelle stesse ore si fa avanti Barbara Berlusconi, neolaureanda in filosofia, giovanissimo membro del consiglio di amministrazione di Fininvest. Partecipa, insieme alla madre Veronica, a un convegno sull’etica dell’impresa organizzato dai ragazzi di «Milano young», figli che esistono in nome del padre, come sempre in Italia e quasi solo in Italia. Dice Barbara Berlusconi che «Fininvest ha una struttura etica», ed è bello sentirglielo dire di una azienda fondata da e con Marcello Dell’Utri. Dice di avere imparato dal padre «il rispetto per gli altri e l’importanza di non ledere la libertà altrui». Non è il primo caso di padri affettuosi che in casa dicono una cosa e fuori gli scappa di dire che i giudici del proprio Paese o sono mentecatti o sono un cancro, e, in ogni caso, «dovranno presentarsi col cappello in mano». Sarebbe ingiusto giudicare gli affetti. Ma di nuovo si vede che cosa questi padri non hanno insegnato ai figli, persino i padri migliori di Berlusconi. Non gli hanno insegnato che un’azienda non è solo proprietà e dirigenti, altrimenti, sei i piani alti continuano a dare “bonus” a se stessi e a guardare giù con l’irritazione di Federica Guidi, ogni impresa sarà Lehman Brothers. Spiacerà a tutte queste signore, ma ha ragione Epifani: un’impresa è il lavoro.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.35   
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Titolo: Furio COLOMBO - Un Nobel contro il disastro
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 03:07:07 pm
Un Nobel contro il disastro


Furio Colombo


Alla vigilia delle più importanti elezioni presidenziali americane il Premio Nobel per l’economia è stato assegnato all’economista che, con forza, competenza e passione è stato il grande antagonista di George W. Bush e del «rovinoso governo pubblico-privato» costituito da Bush «che si è preso il compito di liquidare anche i più urgenti interventi dello Stato, aumentando a dismisura la povertà», e da Dick Cheney «che è il titolare di un vasto sistema di potere e di profitto privato che dalla Casa Bianca si estende fino all’Iraq».

Un piccolo privilegio, essere membro dell’«Advisory Council» dell’Università di Princeton, mi ha consentito di conoscere presto Paul Krugman che a Princeton insegna economia e relazioni internazionali. Ma Krugman è un collega due volte, caso rarissimo in un Paese che non ama confondere le carriere. Infatti è opinionista di punta del New York Times. Per questo quasi tutto ciò che ho scritto di economia e di lavoro su questo giornale viene dalla lezione di Paul Krugman. (Che infatti, come i lettori sanno, è stato citato in quasi ogni mio articolo su questo giornale da anni). Il suo libro politicamente più importante è stato «The Great unraveling» («Il grande disastro» oppure «Grande disfacimento») con cui Krugman si è battuto per impedire la seconda elezione di George Bush e ha dimostrato, con quattro anni di anticipo sui politici e sui grandi giornali americani, la devastazione dell’economia, lo sbilanciamento brusco e pericoloso fra pubblico e privato, non solo a causa del continuo ritiro dello Stato da impegni assoluti come la salute, ma anche dell’invasione del “privato” (politicamente manovrato) in alcuni settori chiave come la sicurezza, le scorte anche militari, l’“intelligence”, la gestione di interrogatori e prigioni, l’occupazione quasi totale della sanità.Paul Krugman ha denunciato i tagli successivi di tasse ai redditi più alti voluto da Reagan, e poi, in modo più rovinoso, dato l’immenso debito contratto con l’infinita guerra in Iraq, dal drastico taglio delle tasse ai ricchi di George W. che ha segnato la fine di essenziali servizi sociali. Il nuovo Nobel ha descritto per tempo e con chiarezza le conseguenze, «la doppia natura malefica del governare da destra»: da un lato «si espande la povertà che comincerà ad avere il costo sociale di una guerra». Dall’altro «l’abolizione di ogni regola, lo stato pericoloso che i sociologi chiamano “anomia”, e che in economia si chiama caduta nel vuoto, quando nessuna parte riconosce più il debito con l'altra». Krugman ha anticipato di anni la disperata condizione del mondo della finanza americana e del mondo che stiamo vivendo oggi.

Riceve il Nobel con motivazioni tecniche che riguardano la sua teoria sul commercio mondiale (che richiamano comunque aspetti solidaristici visti come strumento di compensazione e di equilibrio anti-conflitto e contro il tornaconto «a breve» dei potenti e dei prepotenti). Ma Krugman per molti anni ha condotto da solo la sua battaglia di economista, ma anche di formidabile comunicatore, contro i due grandi inganni del «governo cieco» e della «economia che corre veloce, senza progetti e senza guida tranne l’avidità di alcuni, e che sta per deragliare».
Ora che la finanza del mondo è deragliata «ed è come un grande, ingombrante, pericoloso malato che passerà di casa di cura in casa di cura», il Nobel a Krugman appare come il sigillo di un notaio su una serie di documenti profetici tutti scritti con precisa e analitica descrizione dei fatti, prima, molto prima che i fatti accadessero. È naturale dire - ed è consenso comune in America - che il mondo di Obama, il senatore, il leader politico, il candidato presidenziale, il possibile nuovo Presidente degli Stati Uniti, nasce qui, nella visione di un economista, ma anche di un opinionista, di grandissimo peso che vede e denuncia con forza le decisioni più gravi prima che diventino legge o tolleranza o accettazione appannata dalla teoria del «decidere insieme».
Paul Krugman si è battuto da solo contro la guerra in Iraq, contro l’immensa crescita del debito americano, contro il taglio delle tasse ai redditi alti, contro il governo “privato” di Cheney e l’abbandono dei poveri, contro del governo “pubblico” di Bush, fondato sui tagli di tasse ai ricchi e sulla eliminazione di servizi essenziali, contro l’isolamento del lavoro e della classe media, contro la solitudine dei malati senza assicurazione, contro la voracità padronale delle assicurazioni verso cui l’accademico di Princeton è molto più duro del celebre documentarista Michael Moore.Paul Krugman è di sinistra nel senso di uno competente, che sa, capisce e non cede. Sa che passerà un treno impazzito e che bisogna spingere via dai binari le vittime designate che sono sempre i più deboli. Lo fa, lo ha fatto e - per una volta nella vita -, gli arriva un premio. Il prossimo risultato del suo straordinario lavoro potrebbe essere l’elezione di Barak Obama a Presidente degli Stati Uniti.

Pubblicato il: 14.10.08
Modificato il: 14.10.08 alle ore 8.50   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il Papa in silenzio
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 12:11:56 am
Il Papa in silenzio

Furio Colombo


Una proposta sorprendente è stata avanzata da Papa Benedetto XVI come ragione importante per la beatificazione di Pio XII: il silenzio. Di fronte al dilagare delle leggi razziali in Europa e all’evidente gravità di quelle leggi prima ancora che arresti e deportazioni svelassero il progetto di distruzione completa di un popolo, Pio XII, capo della più vasta e potente organizzazione religiosa di un mondo che allora era centrato sull’Europa, ha ritenuto di tacere, di tacere anche quando, con l’occupazione tedesca di due terzi della penisola, Roma inclusa, dopo l’armistizio e il tentativo italiano di uscire dalla guerra, forze armate tedesche e fasciste erano attive, e aggressive, e vendicative nel tentativo di catturare quanti più ebrei, individui e famiglie fosse possibile, intimando la pena di morte a chi avesse aiutato i ricercati e compensando ogni delazione italiana (ce ne sono state a migliaia) con lire cinquemila.
La principale ragione per apprezzare come utile e virtuoso quel silenzio è che in tal modo il Papa ha reso possibile una vasta rete di aiuto e sostegno in Vaticano, in chiese e in conventi italiani per salvare, ospitare, nascondere moltissimi italiani ricercati per razzismo e per ragioni politiche. Si è trattato della più estesa e attiva rete di rifugio e di soccorso, ben documentata dalla Storia e di cui migliaia di sopravvissuti, in Italia e nel mondo, hanno dato atto e gratitudine al Vaticano. Ci sono però due grandi obiezioni, una nel mondo dei fatti, l’altra a livello dei principi.
I fatti ci dicono che l’Italia ha avuto un ruolo molto grande nell’orrore delle persecuzioni razziali che hanno insanguinato e marcato come indimenticabile vergogna tutta l’Europa.
L’Italia cristiana, cattolica, legata con un Concordato alla Chiesa di Roma. È importante ricordare tutto ciò, oggi, alla vigilia del 16 ottobre. Quella notte del 1943 mille e diciassette cittadini ebrei romani - dai neonati ai vecchi ai malati - sono stati arrestati nelle loro case del Ghetto di Roma da unità militari tedesche munite di nomi e indirizzi da parte dei fascisti italiani. Tutti i rastrellati sono stati tenuti prigionieri per giorni presso il Collegio militare di Roma sotto la sorveglianza di militi fascisti, e poi deportati ad Aushwitz da dove quasi nessuno è tornato. Dunque ciò che è accaduto a Roma il 16 ottobre non è stato il blitz di un terribile istante ma una lunga, meticolosa operazione nazista e fascista durata per giorni nel silenzio di Roma. L’Italia era l’altra grande potenza che ha invaso e occupato, insieme ai tedeschi. Il ruolo che l’auto-narrazione italiana si è attribuito dopo il disastro e la sconfitta fascista, è quello di uno Stato buono, sgangherato e debole dove i soldati combattevano con le scarpe di cartone. Era vero, nell’esperienza disperata dei soldati di allora, ma persino mentre il disastro italiano si compiva, l’Italia dalla Francia ai Balcani alla Russia, era l’altro grande Paese invasore, oppressore, occupante. Non tutti i diplomatici e i generali italiani ubbidivano, anzi ci sono state clamorose dissociazioni di fatto (che vuol dire cauta ma ferma disobbedienza) dalle leggi razziali. Ma l’Italia era l’altro persecutore, le leggi razziali erano state firmate dal re italiano, unico caso in Europa. Ma il re Savoia era imparentato con metà delle monarchie europee del tempo, l’esercito sabaudo era collegato con l’attivismo nazista antisemita attraverso gerarchi, ufficiali, agenti della milizia fascista, che facevano comunque del loro meglio per terrorizzare le popolazioni locali e spingere al peggio i “Gaulatier” e i governi fantoccio. Erano impegnati a terrorizzare tutte le popolazioni, a sostenere tutti i fascismi locali più sanguinosi, ad accumulare, contro l’Italia, un odio che dura ancora. Ma sopratutto erano attivissimi nella collaborazione all’immensa rete di delitti che oggi chiamiamo Shoah. Il diario di un uomo giusto come Giorgio Perlasca che, da solo, in Ungheria, ha salvato migliaia di cittadini ebrei dalla deportazione fingendosi diplomatico spagnolo testimonia del frenetico lavoro della persecuzione in regioni e Paesi di un’Europa cristiana e in gran parte cattolica. O comunque sensibilissima all’autorità della Chiesa cattolica, che riguardava anche una parte non irrilevante di soldati e ufficiali tedeschi. E che certo condizionava il fascismo.
E qui entra in campo la questione di principio. Ciò che è accaduto in Italia, sopratutto l’assenza quasi totale di voci italiane contro le leggi razziali, allo stesso tempo spaventose e folli (folli in modo evidente, a cominciare dalle enunciazioni di principio, dai presunti fondamenti storici e logici, dal titolo stesso di “leggi in difesa della razza”) è reso più inspiegabile e difficile da giustificare a causa del comportamento del Parlamento filo-fascista bulgaro. Quel Parlamento, sotto la guida del presidente Dimitar Peshev (cito da libro di Gabriele Nissim «L’uomo che fermò Hitler», Mondadori), rifiutò e respinse le leggi razziali preparate sull’odioso modello italiano. E impedì in tutto il Paese occupato “dai camerati tedeschi” qualsiasi atto contro i cittadini bulgari ebrei. Dunque dire di no da parte di chi aveva autorità era pericoloso ma possibile. Imbarazza la memoria italiana anche il ben noto gesto del re di Danimarca che, pur privo di forza militare e di qualunque strumento di resistenza, si oppose, senza cedere mai, all’imposizione della stella gialla come identificazione dei suoi cittadini ebrei.
Sono leggende, ormai, brandelli di un onore perduto. Sono tentativi di recupero di un minimo rispetto per un’Europa colta e orgogliosa della sua identità in cui è dilagato il peggior delitto della Storia. Ma quel delitto è dilagato nel silenzio. Ed è stato - poche volte - fermato dal coraggio, raro, drammatico, ma, come si vede, efficace di rompere il silenzio. Tutto dimostra che i nazisti avevano bisogno del silenzio e contavano sulla cancellazione della memoria.
C’è un rapporto fra il silenzio che ha consentito a una organizzazione non sospetta e intatta (a causa del silenzio) come la Chiesa cattolica e la salvezza di migliaia di ebrei? Certo, c’è. Ma è lo stesso silenzio che ha consentito la deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei d’Europa. Era possibile parlare? Rispondono alcune voci che, in alcuni luoghi, hanno cambiato la Storia. Era pericoloso? Lo era. Ma era anche un ostacolo grave e imbarazzante, se è vero che le radici d’Europa sono - dunque erano - cristiane e cattoliche.
Infine: si ricorda un esempio, nella lunga storia cattolica di martiri e santi, di qualcuno portato all’onore degli altari per avere taciuto? Uno solo?

Pubblicato il: 15.10.08
Modificato il: 15.10.08 alle ore 8.14   
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Titolo: Furio COLOMBO - Il giorno dell’Apartheid
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2008, 04:36:18 pm
Il giorno dell’Apartheid


Furio Colombo




Un evento triste e squallido è avvenuto nella Camera dei Deputati nei giorni 8 e 9 ottobre quando la maggioranza di governo, guidata dalla Lega, ha proposto e fatto approvare una odiosa mozione che chiede la separazione e segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane. È giusto che ci sia memoria di questo tragico evento e perciò trascrivo qui alcune parti dei verbali d’Aula di quelle sedute. On. Niccolò Cristaldi (Pdl-An): «Signor Presidente, onorevoli colleghi, io non parteciperò a questa votazione (mozione Cota, Lega nord, sulla segregazione dei bambini immigrati nelle scuole italiane, ndr) perché non ne condivido le ragioni politiche. Non condivido il contenuto della mozione della maggioranza perché sono nato e cresciuto in una città, Mazara del Vallo, nella quale il venti per cento della popolazione è mussulmana».

«La mia è una città dove l’integrazione non si è decisa con una legge né con mozioni come questa. Si è decisa attraverso il rispetto delle diverse culture, attraverso l’amicizia tra i popoli, che si è instaurata partendo da situazioni drammatiche che hanno visto tanta gente venire nella mia città per cercare lavoro. Abbiamo scambiato attività culturali, insegnando molte cose della nostra cultura occidentale, imparando a inginocchiarci davanti ai grandi musei che ci sono in Tunisia, in Marocco, nei Paesi del Maghreb e in tutto quel mondo. Non posso condividere - e come me altri deputati della maggioranza - il contenuto della mozione presentata dalla Lega Nord. Per cui abbandono l’aula e insieme a me alcuni altri deputati». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.05, applausi dei deputati del Partito democratico). On. Mario Pepe (Pdl): «Signor Presidente, vorrei ricordare agli amici della Lega che il Duca d’Aosta, quando era Governatore della Somalia emise un editto che impediva ai bambini indigeni di frequentare le scuole italiane, se prima non avevano imparato l’italiano. Oggi il popolo somalo si divide in due categorie: quelli che hanno un fucile e quelli che non ce l’hanno. Mi auguro che questo non sia il futuro dell’Italia. Per questo io voterò contro questa mozione». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.09, applausi dei deputati del Partito democratico). Emanuele Fiano, (Pd): «Signor Presidente, nella mia famiglia abbiamo saputo sessant’anni fa che cosa significa essere scacciati dalle classi delle scuole del regno, in quanto ebrei. Non userò questo argomento per rispondere agli argomenti della Lega Nord Padania. Urla dei deputati della Lega Nord Padania). Parlo di oggi, di voi. Penso che sia profondamente sbagliato proporre una separazione dei bambini per risolvere il problema della integrazione, spezzare una comunità che vive e cresce insieme. Le «classi differenziate» sono la risposta sbagliata. L’integrazione si fa insieme. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.15, applausi dei deputati del Partito democratico, grida e urla della Lega Nord e del Pdl). On. Piero Fassino (Pd): «Signor presidente, mi rivolgo all’onorevole Cota (capogruppo Lega Nord Padania alla Camera dei deputati, ndr) e a tutti i colleghi. Vi voglio raccontare un episodio vero che ci può illuminare. Un mio amico ha un bambino di sette anni che frequenta una seconda elementare per metà costituita da bambini extracomunitari. Il suo compagno di banco è il suo amico del cuore. A casa racconta ai genitori che «con Emanuel abbiamo fatto questo, abbiamo fatto quello, siamo andati qui e siamo andati là». Un giorno il padre del bambino italiano lo va a prendere a scuola e quando i bambini escono chiede per curiosità al figlio: chi è Emanuel? Il figlio si volta e indica: “eccolo là, quello col maglione rosso”. Non gli viene in mente di dire: «Quello con la pelle scura».
«Con il provvedimento che vi apprestate a farci votare voi state producendo una regressione culturale che mette in discussione i principi di uguaglianza tra gli uomini. E fate una cosa ancora più grave: introducete la discriminazione, quella moralmente più abbietta: discriminate tra i bambini, tra i più piccoli». (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.20, prolungati applausi dei deputati del Partito democratico, di Italia dei Valori, del gruppo di Unione di Centro). On Gianluca Galletti (Udc): «Signor presidente, devo dire che chi ha redatto la mozione, ne ha dato l’interpretazione autentica (si riferisce al deputato Cota, capogruppo Lega Nord Padania, che ha illustrato la mozione in aula, ndr). Dopo averlo ascoltato, noi siamo certi di non voler avere nelle nostre scuole, allievi di serie A e allievi di serie B. Ci sembra, invece, che l’obiettivo della mozione in esame sia proprio questo. Per tale ragione, dichiaro il voto contrario del nostro gruppo».
(Camera dei deputati, 9 ottobre ore 19.30, applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito democratico
On. Valentina Aprea (Pdl): «Signor presidente, vi assicuro che questa mozione è attesa dai docenti della scuola italiana, da quei docenti, onorevole Fassino, dove l’inserimento degli alunni stranieri avviene in modo selvaggio. (Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.00, proteste del Partito democratico, applausi dei deputati del gruppi Pdl, ovazioni dei deputati Lega Nord Padania).
«No, no, no!» (Furio Colombo, Pd, Camera dei deputati, 9 ottobre ore 20.05 grida e urla dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

* * *

Testo della mozione per la apartheid nelle scuole italiane presentato dalla Lega Nord alla Camera dei Deputati con l’assenso e il sostegno della maggioranza di governo: «La Lega Nord Padania impegna il governo:
- a rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, autorizzando il loro ingresso previo superamento di test e di specifiche prove di valutazione.
- istituire classi ponte (classi separate, ndr) che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test sopra menzionati di frequentare cori di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche (obbligatorie e separate, ndr) all’ingresso degli studenti nelle classi permanenti.
- a non consentire in ogni caso l’ingresso nelle classi ordinarie oltre il 31 dicembre di ciascun anno, al fine di un razionale (traduzione: limitato o impedito, ndr) inserimento degli studenti stranieri nelle nostre scuole, e a provvedere a una distribuzione degli stessi in proporzione al numero complessivo degli alunni per classe.
- a favorire l’elaborazione di un curricolo che tenga conto di lealtà e rispetto alla legge del paese accogliente, del rispetto di tradizioni territoriali e regionali del paese accogliente, del rispetto per la diversità morale e culturale (traduzione: superiorità, ndr) del Paese accogliente (prime firme: Cota, Goisis, Grimoldi, Rivolta, Aprea, Carlucci, Farina, Mazzucca, Garagnani, Rampelli)».

* * *
Furio Colombo: «Signor presidente, devo dirle a nome dei miei colleghi (spero di parlare a nome di tanti miei colleghi) che sono contento di intervenire in questo momento, in quest’aula vuota. Evito agli altri deputati di provare l’umiliazione che provo io ascoltando la presentazione di questa mozione della Lega Nord Padania che intende istituire scuole segregate per bambini immigrati, le scuole contro cui si è battuto Martin Luther King in Mississippi e Alabama 45 anni fa. Si è battuto, e ha vinto. Ma i miei colleghi si sono risparmiati l’angoscia di guardare verso i banchi della Lega e di domandarsi, dopo aver ascoltato l’elogio della scuola segregata: «Ma questi sono i miei colleghi? Facciamo lo stesso lavoro? Condividiamo lo stesso Parlamento? Siamo stati eletti dallo stesso popolo?».
Presidente: «Onorevole Colombo, in questa Camera tutti sono altrettanto onorevoli». Colombo: «No, presidente. Devo esprimere il mio sentimento di umiliazione». Presidente: «A termini di regolamento lei non può offendere un suo collega». Colombo: «Mi dica, presidente, qual è l’espressione offensiva?».
Presidente: «L’espressione offensiva è quando lei dice che si vergogna di...».
Colombo: «Ho detto che mi sento umiliato nel giorno della apartheid della scuola italiana e ho diritto di dirlo perché è il mio sentimento».
Presidente: «Mi pare che tale espressione sia l’equivalente di “mi vergogno”». Colombo: «Signor presidente, Matteotti si è sentito umiliato di fronte a ciò che aveva ascoltato in quest’aula. Ripensi per un momento al dibattito al quale oggi in questa Camera abbiamo assistito. Viviamo in un mondo in cui sta per essere eletto presidente degli Stati Uniti un nero, figlio di un immigrato di origine kenyota, educato nelle scuole americane dove nessuno lo ha separato (non più, dopo il movimento per i diritti civili di Martin Luther King) dagli altri bambini. Ed è diventato uno dei più brillanti giuristi, poi uno dei più importanti senatori, poi uno dei più carismatici candidati alla presidenza degli Stati Uniti che quel paese abbia mai avuto.
Ma lei pensi - presidente - ad un altro Paese, il nostro, nelle mani della cultura di Borghezio e di Gentilini e mi dica: quale sarebbe oggi, qui, da noi, in questa Italia occupata dalla Lega, il destino di un piccolo Obama? Forse lo aspetterebbero le sprangate e la morte in una strada di Milano dove - ci assicura il ministro dell’Interno Maroni - le sprangate che hanno ucciso il diciannovenne Abdul erano la punizione per un furto, non lo sfogo di un sentimento razzista. L’idea che i bambini che hanno difficoltà nella lingua italiana vadano prontamente segregati e rinchiusi tra loro è una delle più assurde non solo in termini di pedagogia e di psicologia ma di comune buon senso. Non parlano, non ascoltano, non imparano. L’ottusa idea leghista è il 41 bis dei bambini immigrati. Ad essi per giunta, viene imposto di imparare «le tradizioni», “l’identità”, la religione del paese ospitante. Il concetto è bene espresso dalle alte parole del pro-sindaco leghista di Treviso: “Che vadano a pisciare nelle loro moschee”. Sono parole memorabili per la loro qualità morale, umana, politica che la Lega da oggi dovrebbe scrivere sulle proprie bandiere. Alexander Hamilton, uno dei padri della Costituzione americana, ha detto ai coloni immigrati che si accingevano a fondare la nuova Repubblica degli Stati Uniti: “C’è qualcosa di unico nel nostro destino. Noi, che veniamo dai quattro angoli del mondo e fino a questo momento non abbiamo niente in comune, d’ora in poi avremo in comune il nostro futuro. Questo è il nostro destino eccezionale. Siamo i soli al mondo ad avere questo privilegio”.
Era il 1788. Qui, oggi, nell’anno 2008, si propone di isolare i bambini immigrati in corridoi chiusi come se fossero portatori di malattie infettive. Prevedo e temo che questa ignobile mozione non sarà respinta. Perciò mi unisco alla umiliazione di molti colleghi di Alleanza nazionale e di ciò che resta di Forza Italia che dovranno votare questa mozione fondata su separazione, apartheid, xenofobia, razzismo» Camera dei deputati, 8 ottobre 2008, ore 22; presiedeva il vice presidente della Camera Buttiglione).


Nota.
La mozione di apartheid per i bambini immigrati è stata votata la sera del 9 ottobre 2008 e ha ottenuto l’approvazione della Camera dei Deputati con soli venti voti in più per la maggioranza. Il margine di differenza fra maggioranza e opposizione alla Camera è di settanta voti.
È utile ricordare che una mozione non è una legge ma un «indirizzo» o suggerimento al governo. La sua votazione non significa automaticamente accettazione ed esecuzione da parte del governo. Perciò è necessario che l’opposizione contro l’apartheid continui in tutte le occasioni, in tutte le sedi, a tutti i livelli. Le manifestazioni di protesta nella scuola in questi giorni sono il luogo e il momento giusto: studenti e docenti contro l’apartheid di Bossi-Cota-Borghezio-Maroni. Tutta la scuola italiana in difesa dei bambini immigrati.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 19.10.08
Modificato il: 19.10.08 alle ore 14.51   
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Titolo: Furio COLOMBO - Avviso ai giornalisti imprudenti
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 11:49:16 pm
27.11.08 - Avviso ai giornalisti imprudenti


Strana persona, Berlusconi, avranno pensato in tanti, quando il 22 novembre, nel tripudio della folla di un cinema dell’Aquila, ha denunciato con vigore e in pubblico gli attacchi e “gli oltraggi” che gli vengono “da tutta la televisione” (in modo da far credere che persino Mentana e Carlo Rossella lo attaccano).

Strana persona nel giudizio di tante persone normali che si saranno dibattuti fra due domande.

La prima: Ma quando mai? Qualcuno ha mai assistito a un programma tv di ogni ordine e grado contro Berlusconi (a parte sporadici interventi di ospiti che però sono sempre più accuratamente pre-selezionati)?

La seconda: Ma questa strana persona non aveva appena finito di dedicare una ricca e colorata collezione di insulti (alcuni sul passato, altri sul futuro) di tutto ciò che lui considera a sinistra, che vuol dire qualunque segno di vita, anche mite e circospetto, fuori dai confini del suo potere (governo), del suo potere (azienda),del suo partito (proprietà personale con lavori in corso), del suo buon umore così festosamente disturbato da residui e disorientati miscredenti?

La risposta è ovvia e conosciuta da tutti, per entrambe le domande. Ma “tutti” non hanno più voglia di essere per sempre nella lista degli indegni e dei reietti e di perdere, a tutti i livelli, occasioni grandi e piccole, e di restare in balia dei vigili urbani, se capitano in qualche bella città leghista.

Per questo “tutti” tacciono o parlano d’altro. Ma lui, Berlusconi, vigila. E dall’Abruzzo, con quella sua strana e bizzarra protesta contro i conduttori televisivi che gli sono nemici (e che non esistono) sta dicendo: “Nessuno ci provi. So benissimo che ‘tenete famiglia’. Dunque in riga. Altrimenti la vendetta sarà immediata”.

Intanto però ricorda a tutti un principio fondamentale del suo modo di governare, a cui tiene molto, (ma guai se glielo dicono gli altri). Il principio è questo: “Il padrone sono io”. Padrone di governo e padrone, diretto o indiretto, di tutte le televisioni e aziende editoriali del Paese.

La folla del cinema “Massimo” de L’Aquila capisce bene, capisce subito e grida “cacciali via tutti”. La folla è persuasa che lui ne abbia il diritto e non ha intenzione di imbarcarsi in fastidiose distinzioni fra Tv pubblica e Tv privata e, meno che mai, nella stupida questione della libertà di stampa. L’atmosfera è molto 1922. “Puoi cacciarli? Si che puoi! E allora cacciali!”.

L’ammonimento è forte. E’ l’olio di ricino dell’Italia berlusconiana. Bevi una sorsata di servilismo e vai in onda.

Quanto alla Commissione di Vigilanza, è medico di guardia il Dottor Senator Riccardo Villari, eletto con raro fiuto e buona anticipazione dei tempi, nelle liste esclusive del Partito Democratico.

E adesso “a disposizione, Presidente”.

Furio Colombo

da temi.repubblica.it


Titolo: Furio COLOMBO - L’asse Brunetta-Ichino-Vittoria Franco
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 11:58:24 am
Il dissidente

22.12.08 - L’asse Brunetta-Ichino-Vittoria Franco


Improvvisamente vieni a sapere che il ministro - meraviglia Brunetta, quello che riesce a stare nella notizia e in video tre o quattro volte al giorno con l’espediente di una corsa frenetica fra la caccia ai fannulloni e la punizione delle donne che lavorano, improvvisamente vieni a sapere che quello di Brunetta, pur così creativo e brillante, non è un “one man show”. Brunetta non naviga in solitario.

Se si tratta di fannulloni – causa né vinta né persa perché priva di senso comune – Brunetta si trova accanto Pietro Ichino, uno dei due esperti di lavoro del Pd. L’altro, come è noto, è Tiziano Treu, sempre un po’ scontento della mitezza della destra contro la CGIL, sempre stupito che persino la Marcegaglia riservi a Epifani un minimo di riguardo.

Ma c’è Pietro Ichino che, vista la questione dei fannulloni, con entusiasmo si associa. Si associa a che cosa? A un guazzabuglio impossibile da far diventare diritto in cui “Chi lavora bene viene premiato” e “Chi lavora male, lentamente, svogliatamente o per niente viene punito”. Con piglio coraggioso Ichino afferma, insieme a Brunetta, che “Se necessario si licenzia”.

Moralmente l’idea è identica alla proposta leghista del permesso di lavoro a punti. Una gang di vigili urbani debitamente motivati dal miglior Ku Klux Klan di una città leghista è capace di creare in un mese tanti scontri e incidenti da azzerare la carta a punti di un santo. Allo stesso modo una bene organizzata gang d’ufficio o di luogo di lavoro è in grado di isolare nel vuoto nel non lavoro qualsiasi vittima designata.

Direte: Ma c’è un capo. Giusto. E, se c’è un fannullone nel gruppo, è proprio lui, il capo, da punire. Nessuno può fare il fannullone da solo e di sua iniziativa, se non all’interno di una pessima organizzazione gestita, in buona o malafede, da un pessimo capo.

Non domandiamoci neppure come si arriva al premio (nel teatro parrocchiale, suppongo) di chi lavora bene. Nel Paese in cui stiamo ancora discutendo di un modo decente e civile per selezionare i migliori docenti universitari, l’ impiegato premiato sarà sempre l’uomo di… disposto a… e sempre gentile con…

Quanto alle donne, Brunetta è del parere che più tardi vanno in pensione è meglio è. Il Pd non lo lascerà solo. Infatti la senatrice Vittoria Franco, ministra ombra alle Pari Opportunità, si schiera subito al fianco del coraggioso ministro. D’accordo, c’è anche Emma Bonino, ma almeno la Bonino era arrivata molto prima, da sola, e lungo un percorso diverso.

Tutto avviene con una fretta e una superficialità stupefacenti. Scompare dalla scena la vita tipica di una donna italiana che lavora, con figli e genitori a carico, in un paese privo di servizi sociali e mentre la riforma della scuola ha appena abolito il tempo pieno nelle scuole elementari e medie.

Per fortuna c’è il quotidiano di An “Secolo d’Italia” e il suo direttore Flavia Perina. Ci pensa lei, da destra, dal lato in cui dovrebbe elogiare Brunetta, a far notare che la proposta è stramba, stonata, in contrasto con tempi, priva di legami con la realtà.

Incredibile ma vero. E un po’ triste.

Furio Colombo
da temi.repubblica.it/micromega-online


Titolo: Furio COLOMBO - Il figlio di Brunetta
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2009, 05:21:03 pm
13.01.09 - Il figlio di Brunetta


- Che mestiere fa il tuo papà?

- Una cosa pubblica.

- Mi dispiace. Spero che tu non ti vergogni. Dopo tutto è il tuo papà.

- Un po’ mi vergogno. Ma lo ha detto lui.

- Ti ha detto che devi vergognarti del tuo papà? Non è possibile.

- Non lo ha detto proprio a me. Lo ha detto ad altri bambini che hanno il papà che fa un lavoro pubblico.

- Ha detto proprio così?

- Sì, ha detto: Se il tuo papà è impiegato al catasto invece che alla Ferrari ti devi vergognare.

- Perché alla Ferrari? E’ uno che corre in auto tuo papà?

- Noooo… lui corre in televisione.

- E’ una gara tipo "L’isola dei Famosi"?

- Sì. Si chiama "Porta a Porta". Lui grida di più che nell'isola dei Famosi.

- Ma il tuo papà grida o corre?

- Grida e corre, Signora maestra. Corre in televisione e lì grida che anche del suo lavoro di maestra suo figlio deve vergognarsi.

- Ma come si permette? Mentre lui corre e grida io insegno ogni giorno a quaranta bambini di tutte le razze.

- Sì, lui dice che è una vergogna per suo figlio avere una madre così perché non è al tornio della Ferrari. Però ho capito che devo vergognarmi anch’io

- Perché dovresti vergognarti tu? E’ lui che corre e grida. Si vergogni lui…

- Mi devo vergognare io. L’ha detto mio papà. Primo perché lui non è tornitore della Ferrari, secondo perché è nella funzione pubblica.

- Che cosa fa il tuo papà nella funzione pubblica invece di essere al tornio di una Ferrari?

- Fa un brutto mestiere, da non dirlo a nessuno.

- Su, coraggio, la funzione pubblica è grande. Magari ci sono anche cose rispettabili li dentro.

- No, Signora maestra. Lui è proprio nel mestiere da vergognarsi di più.

- Ma che cosa sarà mai?

- E’ il Ministro della Funzione Pubblica. E’ proprio il più pubblico e il meno tornitore della Ferrari di tutti...

- A beh, allora, povero bambino, ha ragione il tuo papà. C’è proprio da vergognarsi. Su, coraggio, studia. Da grande farai un altro mestiere. E di tuo papà, non dirlo a nessuno. Promesso?

Furio Colombo
da temi.repubblica.it/micromega-online


Titolo: Furio COLOMBO - Il deputato libero della Commissione Sanità
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2009, 03:38:23 pm
12.03.09 - Il deputato libero della Commissione Sanità

Un senso di consapevolezza e di pace, la certezza di avere raggiunto una soluzione alta e dignitosa, si è diffusa nelle ultime ore fra parlamentari di Casa della Libertà, parlamentari del Partito Democratico e parlamentari assortiti.

Si deve ai due leader principali, Berlusconi e Franceschini che hanno dichiarato quasi insieme: “Si vota secondo coscienza”. Restano fuori i deputati radicali, ma loro, come sempre, per i media non contano. Basta ignorarli. Per tutti gli altri la coraggiosa e rivoluzionaria dichiarazione riguarda il tormentato progetto sul “fine vita”.

Il problema non è più di rompersi la testa a domandarsi se il testo Calabrò (quello in discussione, che obbliga e impedisce escludendo responsabilità e libertà di scelta) sia costituzionale o no, anzi se abbia senso tanta discussione e tanto lavoro per giungere a una legge pontificia che impedisce e basta.

Il problema è diventato: se sono obbligato o no a votare una simile legge indiscutibile (è della Chiesa!) e non emendabile (chi siamo noi, deputati e senatori di questo mondo per emendare la verità?).

La benevolenza di Berlusconi e Franceschini ci rassicura, ci lascia liberi.

Calma ragazzi. Vediamo. No, la legge che impedisce, vieta, svuota il testamento biologico non potete cambiarla. E, in caso di tragica necessità, il sondino e relativa tortura di fine vita non ve lo leva nessuno. Sì, la legge potete anche non votarla. Poi dovrete vedervela con i Giovanardi e i Volontè che si annidano nei rispettivi elettorati e nessuno vi può garantire una rielezione persino in lista obbligatoria di partito, formato Calderoli.

Ma - vivaddio - siete liberi. Tanto il voto è pubblico, gli interventi in commissione fanno impallidire le storie dei santi, e la maggioranza trasversale sarà enorme nella migliore tradizione bulgara.

Ci sarà un affollamento di dichiarazioni laiche “rispettose del sacro”. La legge rigorosamente proibizionista sarà dichiarata “volontà del popolo”.

E noi, quattro o cinque reietti, andremo in giro a spiegare: “Ci hanno lasciato liberi e abbiamo votato no”.

Non tutti i quattro o cinque. Consideriamo anche le vocazioni tardive.

Furio Colombo
da temi.repubblica.it


Titolo: Furio COLOMBO - Renzi, più Bush che Obama
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 10:39:05 am
Furio Colombo.


13.03.09 -

Renzi, più Bush che Obama


Passano pochi giorni della clamorosa vittoria di Matteo Renzi nelle primarie per il candidato Pd a sindaco di Firenze. E subito il giovane Obama italiano (così è stato definito dai fans e dai media) dice con coraggio la sua opinione su una di quelle questioni che richiedono coraggio, capacità di andare controcorrente e di contraddire l’invadente autorità religiosa. Dunque il tipico atto non facile e non conveniente che rivela la tempra di un Obama.

Ecco la prova di Matteo Renzi. Non è ancora sindaco di Firenze. E’ solo presidente della provincia, con supervisione su alcune strade e alcuni edifici scolastici. Potrebbe tirarsi indietro. Ma è giovane, è l’Obama italiano, ha coraggio italiano, e gli sembra doveroso correre il rischio.

Qualcuno, a Firenze, ha proposto la cittadinanza onoraria per Beppino Englaro, papà di Eluana. Vuol dire dirgli grazie per il coraggio che ha avuto nel rispettare, durante diciassette anni, la Costituzione italiana nel corso della sua dolorosissima vicenda. Ma anche per la sua determinazione a esigere che le autorità di questo Paese, l’Italia, rispettassero quella legge-guida nonostante il diverso parere dell’autorità religiosa.

Entra in scena Matto Renzi, neocandidato Pd a sindaco di Firenze il cui nuovo segretario, Franceschini, ha appena giurato sulla Costituzione.

Il giovane Renzi è colui che rappresenterà alle elezioni di Firenze ciò che è nuovo, progressista, coraggioso. Ed ecco che l’Obama fiorentino dice un chiaro, alto, giovane e moderno :“NO, MAI. No a Englaro cittadino di Firenze. Non vedete? Divide la città! E’ antipatico a molta gente, è visto da tutti (leggi cattolici teocon) come un brutto simbolo”. O,come ha detto un po’ meglio monsignor Betori dell’arcidiocesi di Firenze: “Uno che ha compiuto un atto nefasto, offensivo e distruttivo”.

Ora, ammettiamolo, Matteo Renzi un certo coraggio ce l’ha. Infatti ci vuole coraggio per dire no con tanto vigore a una piccola, nobile proposta. Ma il coraggio è come un motore, dipende dove ti porta. Il motore morale e politico di Matteo Renzi sorpassa all’indietro non solo Obama ma anche il laico avversario di Obama, McCain.

La nuova, moderna Firenze (che vuole Matteo Renzi, Pd) punta all’indietro verso Bush e al miglior fondamentalismo cristiano.

Furio Colombo

(13 marzo 2009)
da micromega - micromega-online


Titolo: Furio COLOMBO - La Resistenza di un comandante turco
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2009, 11:42:26 am
La Resistenza di un comandante turco

di Furio Colombo


È stato detto, con parole belle e autorevoli, che «la Costituzione non è un residuato bellico» (Giorgio Napolitano, 22 aprile). È stato scritto, in modo limpido, da un autore incontestabile: «Non potete dividere la festa della Liberazione del Paese secondo i colori delle preferenze politiche» (Giorgio Bocca, la Repubblica, 21 aprile).

Ricorderemo le due frasi perché confermano con forza il legame fra Liberazione e Costituzione, che è anche il pilastro su cui si fonda la Repubblica. È la Storia italiana. La Storia non è un’opzione su cui si possano dire frasi allo stesso tempo futili e distruttive come quelle del primo ministro Berlusconi sulla «impronta sovietica della Costituzione italiana». O del ministro della Difesa La Russa che, benché parte dell’istituzione «governo», non ha esitato a dire, fino a poco fa, che «non si può sfilare con i partigiani rossi».

Ma su questa scena triste in cui si vede un governo che sembra non sapere nulla della vera Storia italiana e si adatta a qualche frase gentile sulla Resistenza, come se si trattasse di buone maniere, c’è un terzo protagonista che non può essere dimenticato. Si tratta del ministro dell’Interno Maroni (Lega Nord) che ha occupato il punto più sensibile di controllo della vita italiana. E lo usa per una aperta e pericolosa catena di iniziative contro gli immigrati, legali e clandestini, adulti e bambini, nei posti di lavoro e nelle scuole, cercando con metodo e accanimento di negare ai nuovi profughi un luogo per sbarcare e un luogo per pregare.

Il danno che questo ministro dell’Interno fa all’Italia e alla sua immagine è molto grande, a cominciare dalla sua frase ormai tristemente celebre: «Con gli immigrati dobbiamo essere cattivi». Una bella prova di disumanità di governo, di offesa alla Costituzione, di negazione della Resistenza.

Questo danno ha improvvisamente raggiunto dimensioni di portata mondiale con l’atroce vicenda della nave turca Pinar. Il suo comandante Asik Tuycun ha preso l’iniziativa di salvare dal mare in tempesta centocinquanta naufraghi avvistati mentre stavano annegando. I gommoni avariati partiti dalla Libia erano affondati. È inutile chiedersi quante altre navi, come la Pinar, avranno visto e ignorato, considerato l’azzardo di salvare vite umane nel Mediterraneo.

In Italia chi salva naufraghi rischia la condanna come «mercante di carne umana» se le persone giungono vive alle coste italiane. Certo il comandante Asik Tuycun ha rischiato anche con il suo armatore. Chi lo ripagherà dei giorni perduti con il suo carico umano bloccato in mare? Infatti, raccolti i superstiti (centoquarantacinque), constatata la morte di una di loro, una giovane donna incinta, e l’abbandono in mare di un bambino già morto, la nave turca si è diretta subito verso Lampedusa pensando che gli esseri umani non si impegnano in dispute sulla salvezza di esseri umani. Se mai dicono «grazie» in nome della civiltà, per ogni salvataggio. Ma appena sfiorate le acque territoriali italiane la Pinar è stata fermata e bloccata dalla corvetta militare italiana Lavinia.

Ci hanno raccontato di un «braccio di ferro» fra Italia e Malta: chi deve accogliere i salvati dal mare? Non dirò niente su Malta. Non c’erano giornalisti italiani, europei, americani, che abbiano potuto narrare del comportamento maltese. Ma il New York Times ha parlato dell’Italia. Sappiamo della corvetta Lavinia perché ne ha scritto l’inviato di Repubblica, Francesco Viviano, il solo italiano (e su l’Unità Federica Fantozzi citando il collega della radio tedesca Karl Hoffman ) salito sulla nave carica di immigrati morenti (20 aprile).

In tutta l'informazione italiana non c’è alcuna altra narrazione o annuncio o denuncia sull’intervento della corvetta militare Lavinia per fermare al largo la nave dei folli (folle il capitano a salvarli, folli gli immigrati a contare sul normale senso di civiltà dell’Italia). L’evento, che in ogni momento è stato descritto da molti giornali e tv come scontro diplomatico, è stato, invece, l’impuntatura elettorale del ministro dell’Interno leghista Maroni deciso ad offrire ai «popoli» e ai «territori» della Padania (o «alla nostra gente», come dice il capogruppo leghista Cota) la vita dei disperati della Pinar e il corpo ormai putrefatto della donna incinta.

Mentre il dramma era in corso, i due personaggi leghisti (Maroni e Cota) hanno avuto il coraggio di dire: «Non c’è alcuna emergenza sulla Pinar». In quel momento superstiti ed equipaggio erano costretti a bere acqua di mare per sopravvivere e i naufraghi stipati all’aperto sono rimasti esposti per quasi una settimana al sole a picco di giorno, al gelo delle notti. Questa volta il nome, il giorno, il pensiero della Liberazione italiana hanno un colore. È il colore dei vivi e dei morti della nave Pinar e del suo comandante che dobbiamo onorare come uno che ha fatto la sua Resistenza. L’ha fatta a nome e per conto di un’Italia assente, ostile o indifferente.

26 aprile 2009
da unita.it


Titolo: Furio COLOMBO - Il presunto giornalista antimafia
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 05:03:15 pm
30.04.09 - Il presunto giornalista antimafia

Alcuni giorni fa si è diffusa una notizia strana. L’ordine dei giornalisti si sarebbe costituito parte civile nel processo contro Pino Maniaci, conduttore, animatore e protagonista di una ormai celebre televisione locale, Telejato di Partinico.

Per chi legge un blog di Micromega, come per tanti giornalisti in Italia e in Europa non c’è bisogno di dire chi è l’accusato. E’ l’erede indifeso e solitario di una lotta senza tregua alla mafia, dunque lungo un percorso che va dal “giudice ragazzino” a Falcone e Borsellino, da Pippo Fava a Claudio Fava, da Mauro De Mauro a Peppino Impastato, da Don Pugliesi a Don Ciotti, da Caponnetto a Caselli, alcuni vivi, molti morti ammazzati, nessuna resa.

Sotto processo? Sì, in nome della legge. Sarà anche vero che Pino Maniaci rischia la vita ogni giorno a causa delle sue precise, mirate, documentate accuse di mafia.
Sarà anche vero che le minacce contro la sua vita non sono “voci” ma faldoni della Questura. Sarà anche vero che Pino Maniaci vive sotto scorta.

Ma non è un giornalista. Il suo sarà anche un nobile Tg di denuncia, ma “il Maniaci” come si legge negli atti processuali, “Non è iscritto all’ordine dei giornalisti”. Come si vede qui, ci sono due notizie che fra poco saranno lo spunto drammatico e incredibile di un buon film. La prima è che Pino Maniaci si permette di denunciare, con vere notizie di tipo giornalistico, la mafia. Ma non può farlo perché non è iscritto all’ordine dei giornalisti.

La seconda notizia è che l’ordine dei giornalisti non perde tempo con la mafia, va al vero nocciolo della questione. Inutile divagare sulla nobilità degli intenti del presunto eroe di anti-mafia. Quale eroe? Non è giornalista. Va processato per l’infame reato. E la vera parte lesa non è la Sicilia martoriata di mafia ma l’ordine dei giornalisti offeso da un ruba mestiere. Perciò: parte civile.

Purtroppo la triste storia di oggi (e l’inevitabile film di domani) non è finita. Occorre sistemare un “flashback” narrato su questo stesso blog da Beppe Giulietti (Art.21). L’ordine dei giornalisti, la federazione della Stampa e l’Unione cronisti, in tempi un po’ diversi, erano andati a Partinico a offrire “al Maniaci” la tessera onoraria di giornalista. Infatti lo sanno tutti che, con il suo rischio quotidiano, Pino Maniaci onora la professione del giornalista e il lavoro di ogni giornalista.

Resta una domanda. Che cosa è accaduto, o cambiato, per indurre l’onorevole ordine dei giornalisti d’Italia a questa corsa per punire lo sfacciato che, tessera onoraria o no, lotta alla mafia o no, fa il giornalista ma non è giornalista?

Furio Colombo

(30 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: Furio COLOMBO - Parlare male di Berlusconi
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 07:45:13 pm
Parlare male di Berlusconi

di Furio Colombo

Perché non possiamo non dirci antiberlusconiani, qualunque sia il risultato elettorale (che speriamo largamente democratico, nel senso politico, nel senso di antifascista, nel senso che Marco Pannella ha ridato alla abusata parola)? La ragione si esprime in pochi punti.

1. L’ideologia, ovvero il patrimonio di idee e di visioni che Berlusconi ha trovato abbandonati sul terreno quando è “ sceso in campo”, non c’entra. Questo non è un governo di destra. Non c’è il decoro e il senso delle istituzioni della Destra di Gianfranco Fini, né la concitazione aggressiva e xenofoba della Lega Nord che - in tante diverse incarnazioni - avvelena il clima morale e politico di mezza Europa. Berlusconi non è né Fini né Bossi. È solo se stesso. Un signore ricco, furbo, non intelligente ma svelto, svincolato dal peso della buona reputazione e ricoperto dal manto - tutto teatrale però efficace - del successo populista. Non c’è nulla prima di Berlusconi, nulla che gli assomigli. Non ci sarà nulla dopo di lui (certo non il devoto Bondi). Abbiamo a che fare con un caso unico in Europa e raro nella storia. Non è raro il leader squilibrato. È rara una così vasta sottomissione delle cosiddette classi dirigenti.

2. È vero (cito ancora Marco Pannella) che malgoverno e malaffare hanno a lungo lavorato insieme in Italia ben prima dell’uomo di Arcore. Ma sono confortato dal grido di allarme del leader radicale che, invece di scusarsi per l’antiberlusconismo dichiara, col consueto coraggio, che c’è un vero e imminente pericolo di fascismo e che la persecuzione delle persone segue, non precede, la strage di notizie. Questa strage è già in atto se pensate ai molti grandi giornali che non hanno osato pubblicare le immagini di comportamento indecente del premier alla parata del 2 giugno. Più ancora, se si ricorda a che punto estremo di manifestazione e di denuncia i nonviolenti Pannella e Bonino sono dovuti arrivare per rompere il silenzio.

3. Chiunque può avere, per un periodo, un ministro inutile come Brunetta; un capo dell’Economia impegnato a scrutare un altro orizzonte, non quello vero, come Tremonti; un finto ministro dell’Istruzione come la Gelmini (memorabile l’invenzione del 6 rosso) di cui si ricorderanno solo il tailleur alla Mary Poppins, gli occhiali e i tagli poderosi alla scuola pubblica. Ma nessuno ha avuto e continua ad avere per quindici anni un uomo troppo ricco, non nel pieno controllo del suo comportamento pubblico (la vivacità eccessiva certe volte lo aiuta, certe volte lo sputtana) e preoccupato solo di se stesso, immagine, donne (nei limiti e con la pena dell’età), e finti progetti, uno o due al giorno, annunciati e poi buttati, in un delirio di applausi che - ci siano o non ci siano gli oppositori - ad un certo punto cesserà di colpo.

4. Berlusconi siede sul groviglio dell’immondizia, del terremoto, della crisi economica senza governare. Tutte le sue leggi sono ritorsioni, punizioni, vendette, volute e votate per interesse aziendale o personale o tributo a un partito feudatario, come il disumano e incivile «pacchetto sicurezza», vero best seller di condanne nel mondo civile laico e religioso. In particolare non si registra una legge o misura o azione o strategia anticrisi che non sia una esortazione all’ottimismo e al consumo. La parola d’ordine del non-governo Berlusconi è «lavorare di più», ammonimento diretto non si sa a chi, date le cifre continuamente in crescita della disoccupazione. Lo dice mentre lo affianca la neoministro del Turismo Brambilla, di cui non si sa nulla, eccetto il colore vistoso dei capelli, e che non può far nulla in un Paese che affoga nell’immondizia e nel cemento. Infatti, nel frattempo, incombe sulla Toscana l’immensa colata di cemento detta «Spaccamaremma», l’inutile autostrada destinata a isolare la regione italiana più celebre al mondo dal suo mare (la colata di asfalto e cemento corre lungo le spiagge). E incombe su tutto il Paese il «piano casa». È un singolare condono preventivo che autorizza ciascuno al peggio, senza autorizzazioni, senza controlli, senza regole. Ma questo è il cuore del discorso. Berlusconi, da solo, siede sul Paese. Come se non bastasse lancia una frase squilibrata al giorno. L’ultima è “troppi negri a Milano”, nell’anno, nel giorno, nell’ora dello straordinario discorso al Cairo di Barack Obama, primo Presidente afro-americano degli Stati Uniti. Sua moglie - che deve averci pensato molto - ci dice che non sta bene. Alcuni italiani lo ammirano perché è ricco e sono sicuri che non usa aerei di Stato per ballerine di flamenco e chitarristi personali. Altri - come Pannella - vedono e dicono chiaro il pericolo. In Italia manca l’ossigeno delle notizie vere. Il piede sul tubo è quello di Berlusconi.

07 giugno 2009
da unita.it


Titolo: Furio COLOMBO - Onore a Berlusconi
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 06:05:13 pm
Furio Colombo 


Onore a Berlusconi

15 luglio 2009

Avete presente l’articolo del “Financial Times” dal titolo “Berlusconi treads path from playboy to Statesman (Berlusconi incrocia la strada di playboy con quella di statista) a firma Guy Dimore e George Parker apparso in data 11 luglio per l’esultanza di quasi tutta la stampa italiana (diciamo tutta, inclusi gli applausi di Sansonetti su “l’altro”, esclusa solo “La Repubblica”)?


Bene. E’ tutto vero. Ma nelle esaltate traduzioni  che hanno indetto molti ad ammonire la sinistra che “il gossip non paga” (che vuol dire che abbiamo tutti il dovere, sinistra o non sinistra, di sopprimere la notizie) manca un paragrafo. L’ultimo. Tutti ci hanno dato una versione in cui sono state censurate alcune righe. Le ultime.

Per dovere di cronaca le abbiamo fedelmente e cautamente tradotte. Eccole.

“Eppure importanti personaggi della vita diplomatica rimangono preoccupati per ragioni di sicurezza . Sono ragioni che inducono a dubitare della affidabilità di un capo di governo che, a quanto è stato detto, intrattiene ragazze squillo, alcune provenienti dall’Europa dell’Est. Lo stesso Berlusconi ha fatto sapere che una ragazza, di cui ignorava l’attività professionale di “escort” sarebbe stata pagata per incastrarlo”.

Segue la firma dei due giornalisti che precisano di averlo scritto da l’Aquila, nel momento caldo del trionfo. Ecco dunque come si conclude, in un giornale normale, l’articolo che adesso molti ci sventolano come prova del riscatto del nostro statista. I due inviati, a conclusione di una serie di dovuti riconoscimenti sulla buona ospitalità, non di riscatto parlano ma di ricatto

In poche righe esprimono alcuni concetti che un po’ guastano la festa italiana se si leggono con attenzione e con la mente sgombra dallo impulso di piegarsi in profondi inchini di omaggio e di pentimento.

Prima conseguenza. Le storie politiche di personaggi di primo piano, come quella di Berlusconi che, per ora, comincia a Casoria e si conclude con i racconti di D’Addario e le altre, non sono seguite da indulgenza plenaria che, come hanno imparato nelle loro vicende  Nixon e Clinton, in democrazia non esiste. La vicenda non si azzera come un tassametro, viene mostrata accanto ad alcune cose che sono andate bene ma non cancellano niente. E se ne traggono alcune gravi conseguenze.

Seconda  conseguenza. Un leader che ha la casa affollata di visitatrici selezionate solo fisicamente è un pericolo per la sicurezza. La sicurezza di cui è depositario Berlusconi, che comprensibilmente se ne vanta, non è solo quella italiana. I diplomatici citati dal giornale inglese suggeriscono: Attenzione, Berlusconi non è affidabile, è un rischio per la comunità internazionale.

Terza conseguenza. Alcune gradite ospiti di Berlusconi venivano da paesi che tradizionalmente usano la via del sesso per impossessarsi  di segreti economici o militari.
Non sappiamo nulla, tranne un grande andare e venire di donne giovani, delle notti di Berlusconi. Ciò che allarma non è la morale ma l’affidabilità politica.

Quarta conseguenza. Il silenzio con cui Berlusconi crede di essersi tolto dall’incredibile imbarazzo (e del quale gli esegeti di destra e di sinistra ci dicono con un curioso sarcasmo “Visto? Il gossip non  paga!”, usando la parola inventata da Bonaiuti per definire un vasto scandalo), quel silenzio non elimina ma anzi aggrava il pericolo di ricatto (“donne pagate per incastrarlo” dice lui stesso).

A  questo  pericolo è dedicato il paragrafo chiave dell’articolo inglese, il paragrafo che agli italiani è stato negato.

da antefatto.ilcannocchiale.it


Titolo: Furio COLOMBO - «Con Obama l’America è cambiata per sempre»
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 08:34:47 am
«Con Obama l’America è cambiata per sempre»

di Furio Colombo


Ripubblichiamo la conversazione di Furio Colombo con Ted Kennedy del 20 novembre scorso


Il telefono squilla alle sette di sera. Riconosco subito la voce di Katie Kruse: «Posso passarle il Senatore?». Era una consuetudine la conversazione tonante del senatore Ted Kennedy, da Washington, più o meno una volta al mese, la sua irruenza appassionata contro la visione politica di George W. Bush, la teologia neo-con della potenza solitaria che guida senza voltarsi indietro, dà ordini ma non chiede consigli, divide il mondo in volonterosi che si accodano per compiacere e senza fare domande, e tutti gli altri, confondendo il pericolo dei nemici con la lealtà dei dissenzienti.

Ma questa è la prima telefonata dopo il dramma del malore improvviso e dell’intervento chirurgico d’urgenza e del suo ostinato tornare al lavoro. Un giorno di settembre è andato a votare in Senato con la testa fasciata e contro il parere dei medici. È anche la prima volta che la conversazione con l’ultimo dei Kennedy riprende dopo l’evento più straordinario della vita americana, ma anche del mondo: Barack Obama, di origine africana, di padre keniota, diventato presidente degli Stati Uniti in una sola generazione.

Ted Kennedy è considerato da tutti, amici e nemici negli Usa, l’uomo politico che ha contato di più in questa elezione che ha colto di sorpresa (nonostante l’attesa) l’America e il mondo. Quando le primarie lunghe e difficili con un avversario di talento come Hillary Clinton sembravano non finire mai e aprire spazio al candidato repubblicano, l’anziano senatore (78 anni) e la figlia del presidente Kennedy, Caroline, hanno portato tutto il peso di un immenso prestigio.

«È Obama il nostro candidato », ha detto Ted Kennedy. «Mi ricorda mio padre», ha detto insieme a lui Caroline. Adesso, dopo questa incredibile vittoria, le sue parole sono queste: «Ogni volta un risultato elettorale porta cose nuove e diverse, questa è la grandezza della democrazia, persino quando non ti piace e non sei d’accordo. Ma adesso l’America è cambiata per sempre. Il Paese, tutto il Paese, anche coloro che non hanno votato Obama, si è spostato in avanti, in un altro spazio della storia. La lunga marcia di Martin Luther King è arrivata al sommo della collina. Molte cose possono accadere. Ma non si disfa più un evento come questo. Adesso l’America è davvero se stessa. E lo è per sempre».

Ci sono dei colpi di tosse. Incrinano un poco la voce di Kennedy che non è mai invecchiata. È rimasta quella, irruente e appassionata di tanti giorni di campagne elettorali vissute insieme. È la voce di un leader che non ha mai smesso di guidare e non ha mai smesso di cercare, e che ha dominato il Senato americano anche nel lungo periodo senza potere. «Voglio dire una cosa. Sono felice di essere qui, in questa America, in questo momento».

Dice e ripete: «Ogni elezione è una buona elezione. Ma questa ci ha cambiato per sempre». Che significa: «Nel segreto elettorale, gli americani hanno deciso di fare il salto definitivo di là dall’oscuro e insepolto spettro del razzismo». Lo riassume così: «Gli americani hanno votato per se stessi. Non per ciò che siamo già adesso. Ma per quel che saremo, da questo momento in avanti».

Ted Kennedy è un politico e uno stratega di lungo corso. E così come, durante la campagna elettorale, ti spiegava il vantaggio e il rischio di ogni decisione e di ogni parola, adesso osserva con occhio attentissimo la scena entusiasmante del presidente Barack Obama che, con una decisione al giorno, forma il governo, e lo fa con la partecipazione e con l’ansia del più grande, del più competente, del più vicino spettatore americano. Vicino - Kennedy spiega - non significa né presenza né influenza. Significa attesa.

L’attesa la racconta così: «Il nuovo presidente ha tracciato un percorso nitido per il suo lavoro. Lo ha presentato agli americani che gli hanno detto sì. Adesso quel percorso diventano persone, ciascuno con la sua immagine, la sua cultura, le sue aspettative, il suo passato. Il momento della scelta, per un governo che non sia fatto di manichini, di vice, di sottoposti, è di identificare donne e uomini che portano una vita piena e accettano non tanto il titolo quanto il ruolo, la parte del grande impegno che viene loro assegnato. Persone che non saranno niente di meno di ciò che portano come contributo e niente di diverso dal disegno comune a cui adesso partecipano. Ogni nuovo governo è soggetto a qualche sbandata. Noi (dice “noi” al modo in cui si usa spesso il plurale nelle vita politica americana, non per dire “noi, il governo”, ndr) non ce lo dobbiamo permettere».

Ma c’è una seconda affermazione che gli preme fare, in questa conversazione amichevole e inaspettata, e forse gli importa anche di più perché sta parlando con uno dei tanti amici dell’America che, in tanti Paesi del mondo, hanno aspettato con vera speranza e vera tensione questo momento. Dice: «Una cosa mi auguro: che non si crei, nella ragionevole felicità di questo momento, una “over expectation”, una attesa di prodigi e miracoli. Inizia un’epoca di politica completamente nuova e inizia su un piano più alto. Ma uno come me, dopo quattro decenni in questo Senato, può dire che la politica è sempre difficile e non è mai miracolosa. La vera promessa con cui ci confrontiamo è di rendere più morale, non più magica e miracolistica, la nostra vita comune. Ciò che ci lega adesso, noi come popolo e noi con il mondo, è il rispetto di una moralità ritrovata. Il vero miracolo è questo, ed è già cominciato col voto. Il resto è lavoro, rischio e fatica, in uno dei momenti più pericolosi di tutte le nostre vite».

Della sua salute, l’ultimo dei Kennedy dice soltanto: «Noi intanto lavoriamo e siamo in Senato. Andiamo a Cape Cod (la casa di famiglia, ndr) solo per il Thanksgiving (il giorno del Ringraziamento) e a Natale. E poi vediamo». Qui il “noi” si sdoppia. Nella prima parte della frase significa la politica. Nella seconda vuol dire la moglie Vicky (Victoria), non meno combattiva di Ted. Vuol dire figli e nipoti, figli di John e figli di Robert e delle sorelle Jean ed Eunice, e dei figli dei figli. Il clan dei Kennedy, che ha portato l’America fin qui, non finisce.

26 agosto 2009

da unita.it


Titolo: Furio COLOMBO - Il nuovo direttore di Panorama - Giorgio Mulè
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 10:09:26 am
Il Travaglio di Panorama

Il nuovo direttore di Panorama - Giorgio Mulè - entra in scena con una corsetta e un salto alla Benigni. Non è bravo come lui ma ce la mette tutta.

Parla bene di Berlusconi, parla bene di Fini, parla bene di Feltri, mostrando una visione larga e benevola degli esseri umani. Gente come noi. E se uno è bravo, è bravo. E glielo dici. E cerchi anche di darti una missione: riappacificarli. Questa, si direbbe, è la lettera di intenti.

Ma c'è di più.

Panorama esce vestito da poker, promette di dire tutto sulla nuova voglia di giocare che dilaga in Rete. La consonanza è con il dovere civico dell'ottimismo che qualcuno (adesso non ricordo chi) ci sta raccomandando. Tutto
sembra dire che, con la giusta attitudine, le cose si aggiustano, come nel film di Woody Allen ("Basta che funzioni").

Purtoppo alcuni suoi collaboratori (chi anonimo, come l'autore del pezzo su Travaglio, chi celebre, come il super partes Vespa) non sanno ancora stare al gioco. O sono amari, come Vespa ( "scusate il paradosso; ma a dover invocare la par condicio siamo noi pochi moderati, in larga e documentata minoranza alla Rai") o provano a scoprire gli altarini dei finti moralizzatori, tipo Marco Travaglio.

A pag. 47, infatti, compare un pezzo rivelatore (peccato senza firma, così non sapremo mai a chi riconoscere lo scoop) dal titolo promettente: "Che profumo i soldi di Travaglio". I lettori di Panorama, si suppone, verranno presi da sentimenti ora di
meraviglia, ora di rabbia (dipende dalla par condicio di Vespa) nell'apprendere che l'impertinente giornalista è arrivato a guadagnare, nel 2007, fino a 350mila euro. "Ma negli ultimi due anni l'azienda Travaglio ha raggiunto il picco: i 180mila euro di diritti d'autore" (dall'editore Chiarelettere per il libro "Papi") e un versamento dello stesso Travaglio al nuovo giornale di Padellaro, "Il Fatto", di cui diventa azionista.

Diavolo di un giornalista investigativo anonimo. Dove avrà trovato quelle cifre che avranno subito fatto allargare le narici al vorace avvocato Ghedini? Forse Travaglio stava profittando alla brava del condono fiscale per riportare in Italia le somme ingordamente guadagnate (da parassita, direbbe Brunetta) alle spalle di padron Berlusconi?

La risposta delude un po'. Sono tutti dati pubblicati dal fisco e resi noti dall'editore. E deludono un po' anche le cifre. Per esempio, dedotti viaggi, lavoro, famiglia, contributi e collaboratori, le escort non ci entrano. E con una simile cifra non si va neanche in Puglia, né a destra, né a sinistra.

Furio Colombo

http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-travaglio-di-panorama/


Titolo: Furio COLOMBO - La strategia del generale Von Vespa
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2009, 11:21:25 pm
L'esorcista | Furio Colombo 

La strategia del generale Von Vespa


  BIO 21 settembre 2009


Di tanto in tanto tornano film sulla Seconda Guerra Mondiale a ricordarci il mondo di Hitler: vari cerchi concentrici di "yes men" stretti intorno al Fuhrer per impedire che ogni spiraglio di realtà raggiungesse il suo bunker. Non erano buoni e protettivi, erano agli ordini. Gli ordini non erano sporadici: erano interni ad una logica che doveva prevedere solo vittoria, e dunque esagerazione di ogni evento per mantenere ben teso – fino alla fine – il clima di slancio. Nel bunker di Berlusconi – paragonabile per autismo mentale, bisogno di realtà truccata (a cominciare da se stesso), cerchi protettivi di uomini e donne fedeli che si interpongono tra il capo e i fatti realmente accaduti, ma per fortuna senza la devastante potenza distruttiva dell'antenato – la strategia è ferrea, ma rovesciata. Siamo noi a sostenere che "la sinistra" è malata o – se necessario – assassina? Diciamo che ci attaccano e ci insultano ogni giorno. Non c'è più la sinistra? Ignorare, fingere un assedio. C'è un'opposizione che chiede ogni giorno un "dialogo"? Denunciare il testardo e pericoloso rifiuto della opposizione ad ogni benevola apertura del governo. Occupiamo, controlliamo e possediamo tutte le televisioni? Gridiamo che sono tutte contro di noi, e che noi siamo il perseguitato e la vittima.

Il Consiglio di Amministrazione della Rai e tutte le posizioni direttive della Rai – meno una o due – sono in mano alla destra? Proclamiamo di essere in minoranza, perseguitati e sul punto di essere cacciati. Tutto ciò è provato da un dispaccio segreto del generale Von Vespa, descritto all'interno di un festoso settimanale (di proprietà del capo) che pretende di occuparsi di poker e altri giochi di società. Il documento è in data 24 settembre. Ecco i punti salienti:

1. Nessun direttore di giornale italiano è lontanamente riconducibile a posizioni filogovernative. L'avvertimento è chiaro.

2. La Repubblica è un giornale patologicamente antiberlusconiano. Si riferisce all'insistenza di quel solo giornale (sostenuto dalla stampa del resto del mondo) a ottenere risposte sulla vita notturna del Primo Ministro.

3. Un importante giornalista si è stracciato le vesti per lo spostamento di due giorni di Ballarò in favore di Porta a porta. Ma poi non disdegna di salire al primo piano di Palazzo Chigi a chiedere appoggi per una rilevante direzione televisiva. Notare l'utilità della minaccia all'avversario senza farne, per ora, il nome.

4. Le televisioni del proprietario-Presidente "non fanno male a nessuno", mentre non esiste al mondo una Raitre che colpisce sempre solo una parte politica. Von Vespa resta fedele al compito di sbarrare il passo alla realtà. Al Presidente-proprietario non piace.

5. Porta a porta ha un impianto chiaramente moderato. Il confronto è paritario. Von Vespa sta elogiando la sua divisione, poche truppe ma valorose, che per ora riescono ad occupare solo quattro sere alla settimana, ma sanno fare quadrato intorno ai monologhi solitari e non interrompibili del Presidente-padrone.

6. Raitre è stata, al contrario, sempre una rete di battaglia in favore della sinistra italiana e solo della sinistra. La parola codice è "al contrario". Raitre si è condannata da sola e Von Vespa, lo rende noto nel suo dispaccio, rilevando che – al quartier generale – la colpa viene ritenuta irredimibile, qualcosa da far pagare caro.

7. "A dovere invocare la par condicio siamo noi pochi moderati, in larga e documentata minoranza". Missione compiuta. Il rovesciamento è totale. Von Vespa annuncia dal suo forte – così gremito che non si troverebbe più un posto in piedi – la volontà di resistere ai due (a volte, quando non ne possono più, tre o quattro) che sostano in dissenso sotto le finestre blindate del Palazzo.

Scrupolosamente viene mantenuto il segreto: nel Palazzo le serate e le notti sono ancora cupe e desolate, dopo la disavventura di Tarantini, o si riapriranno – con la consueta discrezione – le feste?

da antefatto.ilcannocchiale.it


Titolo: Furio COLOMBO - I nuovi crociati del mercato e l’eutanasia del lavoro
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 05:16:57 pm
I nuovi crociati del mercato e l’eutanasia del lavoro

Il lavoro al tempo di Madoff

di Furio Colombo, il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2010

Sappiamo poco noi, i non esperti di finanza, della crisi che si mangia la Grecia, si dirige verso la Spagna, ha poi adocchiato il Portogallo e mostra una misteriosa tendenza a non fermarsi. Scrive Giovanni Sartori (“Corriere della Sera”, 14 maggio): “Non sarò io a spiegarvelo, ma il problema è di difficile soluzione”. Raro esempio di descrizione degli eventi di cui tanti si fingono specialisti. Soprattutto coloro che, prima della sindrome greca, ci hanno spiegato che il peggio era alle spalle (non parlo di politici, parlo di economisti) che prima della violenta scossa americana ci avevano rassicurato sull’economia della crescita, del consumo, del credito. Sono gli stessi che adesso compaiono sulle colline della nuova crisi economica che – come un’“influenza aviaria” della finanza – sembra incline a divorare i bilanci degli Stati. E brandiscono scuri e machete gridando: “Tagliare!”. Sono molto coerenti, i nuovi crociati del mercato. Sono debitamente spietati e non inclini a fare eccezioni.

Tagliare cosa? Prima di tutto – e soprattutto – stipendi e salari, tagliare “privilegi” come la sanità, le pensioni più basse (ma, riconoscetelo, le più numerose), tutti i tipi di sostegno alla scuola, ai disabili, agli anziani, che portano via lavoro ai giovani, e ai giovani per cui è finito il lusso della formazione e di ogni forma di praticantato o sostegno iniziale. Chi sta sull’isola dei senza lavoro ci resti e si dia una calmata. Se i guru di Wall Street guardano la crisi negli occhi e ti dicono “è grave”, dovete accettarlo. Del resto, a riprova che niente è locale e provinciale in questa crisi, leggo sul “New York Times” un articolo che si intitola “Nuovi spossessati”: “Ricordate tutti i posti di lavoro (milioni) scomparsi durante il peggio della crisi americana? Non tornano. Fine del discorso. È chiaro che molte imprese hanno fatto negli ultimi due anni ciò che volevano fare comunque: liberarsi di milioni di lavoratori” (Catherine Rampell, 13 maggio).

Due grandi questioni si vedono sul fondo di questa storia. La prima è un euforico slancio a tagliare o il lavoro o le paghe. E' qualcosa che viene annunciato come l’avere trovato la strada giusta, capace di diffondere immediato apprezzamento e sollievo. Si sente sul fondo della scena un corale e robusto: “Finalmente!”. La seconda è una domanda: perché? Sembra fatta di rivendicazionismo sindacale, questa domanda. Sembra ispirata a ciò che molti convegni della sinistra più “moderna” e “riformista” chiamano “conservatorismo”, e lo vedono ispirato alla vecchia immagine della fabbrica, un mondo senza mutui e senza credit card, in cui si entrava all’alba con il pentolino del pranzo e qualche rivendicazione da discutere nell’ora di pausa. Invece questa domanda pone una questione di visione economica e di governo politico. Che mondo è? E perché si è inceppato?

Vediamo il primo punto. Dagli schermi della televisione (nazionale e internazionale), dalle pagine più autorevoli (editoriali, opinioni) dei più ascoltati giornali spuntano personaggi che elogiano con slancio e sollievo la strada del ritorno al benessere: il taglio dei salari e l’abolizione dei privilegi. Per “privilegio” si intende qualcuno che – al massimo – aveva ottenuto l’insegnante di sostegno per il bambino disabile, l’assistenza a domicilio per un anziano, una tredicesima mensilità oltre le 12 da 1000 euro al mese. Si tratta del mondo in cui l’infermiera di Napoli, Mariarca Terracciano, è morta perché per ogni no che riceveva alle sue modeste richieste sottraeva un po’ di sangue al suo corpo. Si tratta di un mondo in cui chi perde il lavoro si uccide (non tutti, non tanti, ma chi lo fa racconta di un vuoto che prima – crisi o non crisi – non c’era mai stato). E si uccide sempre più spesso anche il piccolo imprenditore “disonorato” dal fatto che paga lui, senza più credito, l’immenso debito di banche e aziende dichiarate “risanate”.

C’è una vera e propria festa, come di una pecora nera tornata all’ovile, intorno al primo ministro Zapatero che finalmente si è deciso a tagliare. Non la flotta, non l’armata. Si è deciso a tagliare gli stipendi degli impiegati statali. Come in Grecia ieri. Come in Portogallo fra poco. Quale sindacato oserà tener testa ai privati, quando si sentiranno in dovere di partecipare al sacrificio nazionale, tutto a carico di chi lavora? Chi non apprezzerà il privilegio del taglio di paga invece (o in attesa) del fine vita di lavoro?

Ecco che cosa sta accadendo con la partecipazione del mondo “moderno”, qualche mite obiezione “riformista” (“se sei riformista fai le riforme, no?”) e una vera euforia dei mercati. Sta accadendo l’eutanasia del lavoro. Si taglia la paga dal lavoro di cittadini, senza notare se le loro prestazioni sono eroiche (come quelle di certi insegnanti, di certi medici e infermieri) oppure scarse e sbadate. Nelle vaste retrovie dei puniti il taglio di paga è la rivincita (causa di vero e proprio orgoglio) di chi ha lavorato male e non si è mai fidato del premio ai migliori. E la famosa meritocrazia, bandiera di modernità fino a un mese fa che fine ha fatto? Adesso, col taglio unico per tutti, arriva il grande giorno dei fannulloni. Avevano ragione loro nel non impegnarsi più di tanto in un lavoro che non interessa nessuno.

Se riprendete la citazione del "New York Times" che ho usato in questa pagina (il lavoro, una volta eliminato, non torna, al punto da svelare che la crisi asseconda una campagna contro il lavoro) e la considerate un’efficace illustrazione, la seconda domanda che ho proposto diventa: che mondo è un mondo estraneo e ostile al lavoro? Sarà una guerra per bande di pirati di Borsa, come Madoff ma peggiori di Madoff, impegnati a rastrellare ricchezza, creare miseria e accendere opportunamente la miccia di grandi conflitti, ora di armi, ora di consumi, ora fra imprese, ora fra Stati, mentre gli ex lavoratori si dissanguano come l’infermiera di Napoli. O restano da soli nell'isola.

(16 maggio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-nuovi-crociati-del-mercato-e-leutanasia-del-lavoro/


Titolo: Furio COLOMBO - La politica ai tempi di Caliendo
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2010, 10:13:17 am
Furio Colombo

La politica ai tempi di Caliendo

Mi ripetono: “Ma il discorso di Franceschini alla Camera, quel 4 agosto, è stato un discorso nobile, appassionato, una difesa emozionata della Costituzione e della Repubblica”. Lo ricordo. C’ero. A un passo da Franceschini. Assieme a tanti, ho applaudito a lungo. È stato il giorno in cui un sottosegretario alla Giustizia, certo Caliendo, accusato di appartenenza a società segreta al fine di cambiare per motivi illeciti decisioni giudiziarie, amministrative e politiche, ha lasciato le sue impronte digitali di indagato sulla storia della Repubblica e se n’è andato in vacanza, assolto dal dovere minimo di dimettersi dal governo. È stato il giorno in cui il presidente del Consiglio è comparso da teatrante dentro la Camera, in modo da non ascoltare alcun discorso, ma in preordinata coincidenza con un boato di applausi a cui ha risposto con un’imitazione del saluto romano (tanto che i deputati dell’Italia dei Valori hanno potuto gridare “Duce, duce”. E il grido non è neppure apparso un insulto, anzi più applausi e più boati di saluto). È stato il giorno in cui la leggendaria maggioranza continuamente vantata da Berlusconi e lanciata come un’orda cieca contro qualunque tentativo, anche cauto, di opposizione, quella legione di ferrea tenuta che veniva esibita come prova di santità preventiva del leader anche in caso di falso, truffa, corruzione, prescrizione per legge successiva al reato, quella prova di fedeltà del popolo che ogni volta bolliva come il sangue di San Gennaro e come tale veniva mostrato, il 4 agosto – giorno dell’indagato Caliendo – non ha avuto luogo.

Come il sanguedi San Gennaro
Quel giorno la maggioranza giaceva spezzata a causa della ritrovata dignità di una parte dello schieramento, 76 deputati, e poi la dichiarazione emozionata ed emozionante della deputata Chiara Moroni, che – da sola e senza precauzioni – si è giocata tutto quando ha detto: “Non confonderò il giustizialismo con il mettersi al sicuro, la difesa con la fuga, il giustificazionismo e il darsi ragione come bandiera politica. Non è la mia bandiera”. Cito a memoria, ma questo è il senso. E poiché Chiara Moroni è figlia di un uomo che si è suicidato in carcere, ritenendo ingiuste le accuse che lo avevano colpito, e poiché l’on. Cicchitto (capo di ciò che rimane della maggioranza sangue di San Gennaro di Berlusconi) aveva fatto riferimento a quella vicenda come ad una bandiera da alzare al passaggio dell’indagato Caliendo e come a un alibi per la sua fuga dalla responsabilità di dimettersi, i deputati normali hanno ascoltato per forza con emozione il grido solitario della figlia offesa dall’uso del suo dramma per ripulire e presentare la faccia di un uomo che – dicono i giudici – ha corrotto ancora di più questa Repubblica corrotta.

Ma quel 4 agosto è stato anche il giorno in cui, con il consueto tono squadristico, il capogruppo della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, Reguzzoni, ha avanzato senza pudore due argomenti. Il primo: sono gli immigrati e non Caliendo, che corrompono e portano disonore alla Repubblica. Il secondo si apriva con questa frase: “Abbiamo arrestato centinaia di mafiosi”. Merita di restare nei verbali del Parlamento repubblicano quella frase ridicola oltre che falsa: “Abbiamo arrestato” (come prova di pulizia morale della Lega  che sostiene e difende le attività segrete di Caliendo) facendo credere che siano stati Maroni e i leghisti ad arrestare i mafiosi invece delle indagini dei giudici, durate anni e a rischio della vita. Quel giorno, 4 agosto, dentro la maggioranza che rappresenta il popolo che rende santo Berlusconi, non importa in quanti crimini sia immerso, c’è chi si è preso a botte. E ha lasciato a prova della civiltà che rappresenta il grido di battaglia “ti faccio il culo a tarallo”, espressione non nota a tutti, prima della gran giornata di Caliendo, il bravo sottosegretario di Stato alla Giustizia (alla Giustizia!), che pare non creare imbarazzo nei suoi colleghi. Direte: ha vinto Caliendo, ma Berlusconi – per questo suo uomo in apparenza poco importante (evidentemente non è così, la sua missione deve essere più complessa) ha pagato un prezzo altissimo: 299 voti in tutto. Non ha più la santa maggioranza che è di voti 316. Fine di un’epoca?

L’inversione a Uche manca
È qui che si fermano e si interrompono l’apprezzamento dovuto e l’emozione provata per il discorso di Franceschini infatti mancava la frase finale. Mancava la risposta di ciò che per convenzione in Italia si chiama opposizione, ma è, purtroppo, solo un affiancarsi mite (più mite, ad esempio, della rottura coraggiosa e di principio di Chiara Moroni) all’infaticabile attività distruttiva Berlusconi-Lega. Avrebbe dovuto essere un’inversione a U. Inversione a U non vuol dire tornare indietro, perché non c’è nessun passato da rivivere. Vuol dire un basta netto, dignitoso e assoluto, alla totale illegalità in  cui vive la Repubblica. L’accusa avrebbe dovuto essere quella stessa che ci sarebbe oggi in tribunale, se Berlusconi – in modo illegale – non si fosse reso non processabile. Per capire il punto a cui siamo arrivati, riguardate due video del ministro della Giustizia Alfano, due frammenti di Tg3 e di Sky. Il primo è la difesa dell’indagato Caliendo da parte del ministro della Giustizia. Il ministro si sovrappone ai giudici e assolve il suo vice liquidando l’inchiesta dei giudici come materiale spregevole. Il secondo è la reazione di Alfano alla legittima frase di Bersani “Dobbiamo liberarci di Berlusconi”.  È  la normale parola d’ordine di una normale opposizione, Cameron contro Brown, Merkel contro Schroeder, Obama contro McCain. Angelino Alfano descrive la frase come “segnata da una violenza estrema, inaudita e inaccettabile”.
In questo modo, e con bravura sfacciata che non si può non riconoscergli, Berlusconi fa spazio e attenzione per il suo reclamo: andare alle elezioni quando vuole lui, quando lo dice lui. Fa apparire l’evento come una sua minaccia, come se il capo dello Stato cui spetta, in esclusiva, il compito di sciogliere le Camere, non le stesse, benché stia perdendo per conto e iniziativa propria, sia forza sia reputazione. La stampa del mondo, che è libera, ne parla come di un personaggio impotente.

Una vita “sotto Berlusconi”
Ma in questa Italia vi sono cittadini che hanno vissuto metà della loro vita – dunque tutta la vita adulta – “sotto Berlusconi”. E nessuno ha detto loro che – tra difetti e problemi che ci sono in tutto il mondo – la politica è un’altra cosa. Vi sono cittadini che hanno vissuto tutta la loro vita adulta “sotto Berlusconi” e che dunque hanno vissuto per quindici anni una ininterrotta campagna elettorale. Nessuno ha detto loro che l’Italia è una Repubblica dirottata da un uomo corrotto e malato, che potrebbe, nel suo volo pazzo verso nuove elezioni, esaurire il carburante e finire in Grecia. Direte che lo trattano bene, i suoi ministri, complici del delitto di distruzione della Repubblica (gente come Brunetta che se ne andrà senza lasciare altro segno che l’invettiva, gente come Tremonti, che avrà come unico vanto l’avere evitato le tasse ai ricchi) per evitare il peggio. Direte che l’opposizione è cauta per prudenza. Purtroppo non è vero. Chiamo a testimonianza il passato. Qualcuno ricorda quanto presto (2001) la sinistra più fiera ha cominciato ad ammonirci, poi a sgridarci e alla fine trattare come un pericolo Padellaro e me, perché chiamavamo il governo di Berlusconi “regime”, con riferimento al fascismo e ne ripetevamo il pericolo, insieme con Tabucchi e Silos Labyni ai tempi dell’Unità?

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/08/08/la-repubblica-dell%e2%80%99illegalitadove-si-vota-quando-vuole-lui/48648/


Titolo: Furio COLOMBO - La nuova opposizione
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2011, 09:44:57 am
La nuova opposizione

Furio COLOMBO

Quando inizia una seduta in Parlamento, per prima cosa si dà lettura del processo verbale, ovvero di tutto ciò che è accaduto in quell’aula il giorno prima. La frase di chi presiede l’aula è sempre la stessa, una formula burocratica per poter passare  all’ordine del giorno della nuova seduta: “Poiché non vi sono obiezioni, il processo verbale si intende approvato”. La mattina del 31 marzo il processo verbale della Camera non è stato affatto approvato.

Ricorderete che il giorno prima aveva fatto irruzione in Parlamento il ministro della Difesa in preda a concitazione per denunciare la piccola folla che aveva gridato pensieri-opinioni, su di lui e sul governo, mentre “il ministro della Guerra” entrava a Montecitorio. Di tutto ciò non c’era traccia nel verbale letto in fretta per la consueta approvazione. E forse, per la prima volta nella storia della Repubblica, quella approvazione non c’è stata. Ha vinto l’opposizione, ha perduto la maggioranza, governo incluso. Applausi, congratulazioni e passa parola: “Vedete, altro che andar via come predicavano Ignazio Marino e Rosy Bindi. Sta cambiando il vento”.

Temo che la lezione sia un’altra. La lezione è in una frase che la sera prima La Russa aveva gridato come un pericolo: “Dobbiamo impedire che quello che succede qui dentro si colleghi con quello che succede là fuori”. E qui c’è una prima riflessione per il Pd. Legittimo vantare la “vittoria del verbale” ma sarà bene non dimenticare le circostanze fortunate. Si è vinto per un voto. Comunque, l’ostinazione delle opposizioni ha pagato. A questo punto è chiaro che vi sono solo due percorsi e che la decisione è urgente. Il primo è restare in aula e non cooperare mai, come fanno i Repubblicani americani per bloccare Obama.

Il secondo è di liberarsi dello spettro incombente detto “Aventino” e avere la forza di uscire. Non occorre che sia per sempre. Deputati e senatori di Berlusconi lo hanno fatto – nel 1996 e nel 2006 – varie volte contro i governi di centrosinistra minacciando anche di dimettersi in blocco, senza sapere nulla dell’Aventino. Tutte le “Finanziarie” dei governi di centrosinistra sono state approvate a Camere vuote a metà. Si comincia da qui a dar vita all’incubo che perseguita il tormentato ministro della Guerra: stabilire finalmente il legame “fra quello che succede là fuori e quello che succede qui dentro”.

Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2011

da - ilfattoquotidiano.it/2011/04/01/


Titolo: Furio COLOMBO - Il suk della democrazia
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 12:18:02 am
di Furio Colombo | 12 aprile 2012

Il suk della democrazia

Come hanno dimostrato per tempo i Radicali in Italia, la cascata di soldi pubblici che invade ogni parte e settore della politica, compresi i partiti o gruppi che non esistono più, produce corruzione prima ancora che si metta in azione il corrotto. Come dimostrano in modo esemplare le clamorose vicende ex Margherita e Lega Nord, o si affronta la questione in modo radicale (la parola vale in tutti e due i sensi, aggettivo e sostantivo) oppure il lavoro per i giudici continuerà, insieme con tradimenti, voltafaccia, profittatori di un tipo (la mia parte di soldi subito) o dell’altro (non sono stato incluso e perciò racconto). Se le cose restano così, il futuro è di Lusi e Belsito. Il mitico tesoriere, infatti, è qualcuno. O è l’uomo di fiducia di qualcuno.

Vuol dire che la distribuzione del danaro pubblico ai vari personaggi o settori di un partito, avviene un po’ come nelle inondazioni: l’acqua invade certi spazi e ne abbandona altri, ridisegnando la mappa. Spero sia chiaro che non stiamo parlando soltanto di Lusi e Belsito, ovvero della patologia del sistema.

Stiamo parlando di tesorieri senza tentazioni penali, di galantuomini che danno ordini che possono dare (o eseguono ordini che possono ricevere) senza infrangere alcuna legge. Ovvero della fisiologia del sistema, quando si presume che sia sano. Ma ciò che fanno, decidono o eseguono i personaggi vicini alla fonte del danaro, può alterare gravemente la libera decisione di maggioranze e minoranze, di designazioni, di nomine, di votazioni parlamentari, di scontri e alleanze, di strategia d’aula, persino il posizionarsi di un intero partito in questioni chiave che coinvolgono il Paese. Come si vede, siamo al di là di Mani Pulite. Le non nobili storie della ex Margherita e della Lega (ma forse si dovrebbe dire: della ex Lega) mostrano gravi alterazioni nella condotta politica dei partiti.

Come nella profezia dei Radicali, confermata da un referendum popolare, è proprio l’inondazione di danaro pubblico a creare la privatizzazione dei partiti. Una cosa è evidente: urge la trasparenza, la prova, il rendiconto, il controllo. Urge una riduzione drastica delle somme, non per punizione, ma per stabilire un nuovo contatto con la realtà. Urge il farsi avanti di persone credibili che vogliano e possano garantire.
Ancora un minuto, e sarà troppo tardi.


Il Fatto Quotidiano, 12 Aprile 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04/12/il-suk-della-democrazia/203842/


Titolo: Furio COLOMBO - Il trono vuoto della politica
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2012, 11:40:29 pm
di Furio Colombo | 23 aprile 2012


Più informazioni su: antipolitica, classe dirigente, leader, partecipazione, Politica

Il trono vuoto della politica

II segretario di un importante partito italiano se ne va, scompare, non si trova più. Non è mai accaduto. Non si può dire: non troviamo più il segretario. Bisogna sostituirlo subito. Per fortuna il segretario scomparso ha un gemello. Identico, tanto che le televisioni non noteranno. Ma è un uomo profondamente diverso. Per esempio, è un filosofo. E di politica, nel senso in cui si intende la parola (“saperci fare”) non sa niente. Comincia per forza una storia completamente diversa.

È il romanzo di un regista diventato scrittore, Roberto Andò, (“Il trono vuoto”, Bompiani) che ha trovato una soluzione per uscire dal peggio. Ma è realtà romanzesca, naturalmente. E per quanto ben scritto, non ci porta fuori dalla politica così come la stiamo vivendo. Dice però con chiarezza che siamo arrivati a uno strano posto di blocco. Se ne esce solo con l’immaginazione. Però siamo costretti a constatare che, tranne i cittadini, il senso del tempo tragico che stiamo vivendo non ha raggiunto nessuno. Ognuno – tra i politici non ancora scomparsi – è pronto a dire che il momento è difficile. Ma a tutti loro sembra sfuggire la differenza fra malessere e disperazione. Questo salto si nota se entri e esci dai dibattiti della politica. Dentro la politica non tutti sono pazzi e non tutti sono in vendita come sentite dire. Ma anche nelle circostanze migliori (che certo non sono tante) ascoltate cose giudiziose che sarebbe stato utile dire trent’anni fa o forse trent’anni da adesso, ma che, in tempo reale, non hanno alcun rapporto con ciò che sta realmente accadendo.

Sembra restare invisibile il contesto in cui alcuni si uccidono (non appare più un isolato scatto patologico), molti promettono di non votare più (il numero, dicono i sondaggisti, è altissimo), molti si organizzano in colonne di una protesta cupa di cui non si ha memoria, perchè chi partecipa sa benissimo di entrare in un vicolo senza uscita, un grido alto ma diretto a nessuno e senza speranza. Ora il treno della politica procede alla luce artificiale di un governo tecnico che è un terzo e diverso protagonista dello strano gioco. Non ha l’ostinata persuasione di continuare a esistere che anima ancora la politica “regolare”. Non ha la disperazione dei cittadini che molto rapidamente, negli ultimi mesi, sembrano avere abbandonato ogni credo. No, il terzo protagonista ha severe misure da proporre per “gli altri”, non deve tormentarsi su se stesso, e sembra avere adottato la regola che le scuole di medicina americane inculcano fin dall’inizio ai giovani studenti: “Ricordatevi che i malati non siete voi”.

Questo atteggiamento può portare a un deficit di empatia, ma consente di programmare, quando è necessario, cose terribili, perchè l’importante non è l’approvazione del paziente ma l’efficacia della cura. Non tutti guariscono, e il medico passa ad altro. Altrimenti incasserà gratitudine, ma passerà ad altro comunque.

Tutto ciò per dire che la morsa che si stringe intorno alla politica non si può allentare o distrarre indicando i “tecnici” e le loro decisioni, come la causa di tutto. I politici devono sapere (lo avranno capito tutti?) che i cittadini non sono in così ansiosa attesa di qualcosa di meglio da loro. Sono in cerca di punizione. E conta poco se sia logico o illogico. Conta poco se i cittadini non stanno attenti a quanto funzionerebbe la nuova idea appena annunciata di cambiare così e così il finanziamento della politica, e a come si distraggono facilmente, quegli stessi angosciati cittadini, se parli, pur con serietà e competenza, di una o dell’altra nuova legge elettorale.

In questo mondo diviso fra creditori e debitori, dove i creditori non danno pace e non vogliono sentire ragione, i cittadini si sentono creditori e le ragioni sembrano a loro enormi. Sbagliano? Temo di no. Ma se anche fosse, non è il punto. Non c’è dubbio che essi sono in diritto di esigere la restituzione di ciò che hanno pagato, o in danaro o in fiducia o in passione e sostegno politico. E poi è un classico evento della Storia che anche chi non ha pagato nè in un modo nè in un altro, si unisca al corteo, che non è più di protesta ma di distacco. Sta creandosi una cultura del sommerso politico che si nota poco nelle piazze. È una fuga dai partiti di cui non si conosce ancora il percorso. Non si sa se si dirigerà verso il palazzo o no. È una cultura – si può vedere dagli infiniti documenti in rete – fraterna per chi la vive insieme, dalla stessa parte, e inesorabilmente scheggiata dove prima passavano i contatti con la politica.

La definizione di “antipolitica” è piccola. Ciò che sta accadendo aspetta ancora la sua definizione, fra anarchia, solitudine, disperazione e rivolta. Nella vera vita non c’è il gemello del segretario, che sembra uguale, ma pensa e agisce in un modo che sembra folle, e cambia tutto (come sarebbe accaduto per Robert Kennedy, se non lo avessero ucciso). Lo spazio in cui dovrebbe materializzarsi il coraggio di far nascere un’altra vita pubblica, che si chiami o non si chiami “politica”, resta vuoto. Al momento ci sono luci artificiali e alcune gelide infermerie, contro la politica come clinica di lusso che serve solo alcuni privilegiati da centomila euro di diamanti. Il pronto soccorso a volte salva la vita, ma è un luogo duro, anche scoraggiante. Il rischio vero, il rischio spaventoso è che non si presenti nessuno.

Il Fatto Quotidiano, 22 Aprile 2012

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Titolo: Furio COLOMBO - In migliaia per far scudo ai giudici
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2012, 09:57:46 am
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In migliaia per far scudo ai giudici

di Furio Colombo | 12 agosto 2012


Dove va a finire la politica che non ha partito, non ha protezione (nel senso di luogo e di leader) e si forma come una immensa forza di partecipazione e presenza che vaga nel vuoto, come un cielo gremito di nuvole senza pioggia? Facile dirlo, se questa politica che si aggrega e si accumula ha un nemico o un progetto distruttivo, come quando si parla di “antipolitica” (parola tra il minaccioso e il vacuo che raramente indica qualcosa che accade davvero). No, qui stiamo parlando di un movimento prima giornalistico e poi popolare (adesioni, firme, partecipazioni, presenze) non contro ma per. Penso alle decine di migliaia che offrono il loro assenso all’appello di questo giornale.

Hanno in mente i giudici di Palermo, sanno che quei giudici toccano lava rovente e che se li lasci soli il pericolo è immenso. Sanno anche che c’è qualcosa di strano e di difficile da spiegare nel mettersi accanto a giudici che sono e dovrebbero essere (se possibile, da vivi) eroi di tutto il Paese. Sanno anche che c’è una disputa, che è di tipo giuridico e costituzionale, una disputa seria e difficile. Ma tanti cittadini non offrono il loro nome e la loro presenza per essere giuria nella disputa. La offrono per fare da scudo ai giudici. Non contro le istituzioni, ma per le istituzioni, perché sarebbe intollerabile la ferita se venissero a mancare forza e sostegno ai giudici. Quello che stanno facendo, in mezzo a controversie drammatiche (perché sono controversie che sembrano sconvolgere le simmetrie e le contrapposizioni a cui siamo abituati e sulle quali ci eravamo assestati in anni di duri confronti) quello che stanno facendo i giudici è cercare un filo in un groviglio che si è progressivamente complicato nei decenni e in cui non sei ancora sicuro né del comesbrogliare la matassa né delle rivelazioni che al momento nasconde. È una lotta per alcune verità che continuano a sfuggire e a nascondersi, e in cui non hai la minima garanzia sull’esito, su un presunto “lieto fine”. Ora l’unica preoccupazione che ha coinvolto e messo in movimento coloro che stanno dirigendosi, come una massa automobilitata di cittadini, verso i giudici, è di fare in modo che essi non vengano fermati. L’evento, infatti, non è visto come un dibattito, con opinioni legittimamente diverse, intorno a quesiti di procedura giuridica. L’evento è la continuazione o l’interruzione di ciò che i giudici stanno tentando di fare, sia pure con decenni di ritardo. Infatti, la salvezza della Repubblica dipende da un lato dal recupero della sua forza economica, ma l’altra parte è legata alla verità di alcuni eventi, da cui dipende un’immagine certa della nostra storia. È il posto di blocco del futuro di tutto un Paese. Ora il paradosso sta in questo. Sempre più cittadini accorrono e vogliono essere contati accanto e a sostegno dei giudici. Intendono dire e garantire, e non hanno nulla a che fare con coloro che sia pure con tante ragioni (e tante guide di un tipo e dell’altro) pensano a una piazza pulita, dopo la quale il modo ricomincia da capo. In altre parole, sempre altri cittadini, che pure si rendono conto della infinita imperfezione del sistema, vogliono scortarlo fino a un punto di certezza e di verità che tende a salvare, se non i politici, certo le istituzioni. Il paradosso è questo. Le decine di migliaia di firme che qui si accumulano non sono contro, sono per, non puntano alla distruzione di un pezzo di Repubblica, ma alla sua difesa. Resta il problema della solitudine. C’è passione, c’è partecipazione, c’è voglia di prendere parte, ed essere presenti e attivi in un momento carico di rischi immensi. Ma dove vanno, in un mondo senza partiti e senza frasi politiche che possano capire, a cui possano rispondere , dove vanno mentre sono di fronte a un grande equivoco, che rischia di farli apparire nemici di ciò che intendono difendere? Non so rispondere alla domanda.

Ogni tanto diciamo che un certo momento “è il più difficile nella storia della Repubblica”. Qui la difficoltà è resa più grave da fatti procedurali e formali che hanno fatto apparire come contrapposte e ostili due parti che erano state la stessa, e con lo stesso proposito di salvezza comune. Chi arriva, adesso, con il suo nome, la sua firma, con la sua testimonianza, accanto ai giudici, questo intende fare esattamente: continuare quella difesa. D’accordo, non c’è una rete in caso di caduta, e non c’è un partito a contabilizzare partecipazione e presenze. Non c’è neppure un contenitore per tutta questa gente che non vuole far finta di non sapere e di non vedere il pericolo. Come dire che riuscirà impossibile valutarla e pesarla, per quando si dovrà andare alle urne. È vero. Ma intanto la buona politica, se c’è ancora e se è in grado di battere un colpo, farebbe meglio a osservare e ascoltare con attenzione.

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Titolo: Furio COLOMBO - La politica non si fa (più) in Parlamento
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2013, 11:57:50 pm
La politica non si fa (più) in Parlamento

di Furio Colombo | 13 gennaio 2013


Qui non si parla di politica o di alta strategia. Qui si lavora”. Credo che in pochi riconosceranno l’origine di questa frase, che era un pericoloso cartello di avvertimento in ogni luogo pubblico durante la guerra fascista.

Nel momento in cui scrivo è una perfetta descrizione del Parlamento che è stato appena sciolto. Ma anche del lavorio infaticabile e intenso, degli scontri e incontri e incroci e ripulse e improvvisi ritorni di legami perduti che la preparazione del nuovo Parlamento attraverso la composizione delle liste elettorali. Quelle che sono già disponibili sono lì a dimostrare ciò che sto dicendo: liste di dirigenti, di quadri e di impiegati per future imprese parlamentari che devono produrre con disciplina certi prodotti. Le liste che non ci sono ancora dimostrano quanto sia difficile mettere insieme persone efficienti, sottomesse, laboriose, fingendo di accumulare talenti.   

Ogni lista ha i suoi ornamenti o i suoi pezzi di antiquariato, un po’ come esporre nell’atrio della ditta il primo macchinario con cui era cominciata l’impresa. Per il resto, personale di fiducia, che non alzi la testa. Qui mi scontro – lo so – con la diffusa persuasione che “il Parlamento non lavora”. Il Parlamento, salvo quando subisce gravi incidenti di percorso, come è accaduto nella lunga agonia dell’ultimo governo Berlusconi, lavora moltissimo, ma non per fare politica. Quando si dice ‘di questo discuterà il Parlamento’, non si dice niente. Il Parlamento produce con alacrità atti amministrativi fatti di labirintici commi ed emendamenti, il cui senso e le cui conseguenze sono chiari solo ai committenti e ai destina-tari.   

Molto dipende, naturalmente, dal rapporto fra Parlamento e governo. Il Parlamento, quando è guidato da Monti, lavora intensamente ad approvare in fretta, quasi senza discutere, ciò che è stato deciso in materia economica, per ragioni di emergenza (vera emergenza provocata dall’incompetenza e tendenza a mentire di Berlusconi). L’ultimo governo “generalista” del Paese (nel senso che voleva, allo stesso tempo, produrre alcuni risultati tecnici e alcuni fatti politici) è stato il governo Prodi. Poi è diventata abituale la totale assenza del dibattito politico, salvo stentorei discorsi di parti e controparti ogni due o tre mesi, su questioni gravi, come i diritti umani, la scuola, il lavoro, la pace, questioni che non hanno mai avuto in Parlamento né un prima né un dopo. Dunque sono privi di fondamento quei “rating” che assegnano ai vari parlamentari gradi di “produttività”. Lo sono perché non si domandano “produttività” di che cosa?   

Sto descrivendo, temo in modo accurato, un Parlamento che sta alla larga dalla politica e in cui un parlamentare non può prendere alcuna iniziativa politica da solo tranne che parlare a un’aula vuota, una volta esaurito l’ordine del giorno alla cui compilazione non partecipa. Allora dov’è la politica? Come abbiamo visto il percorso verso il governo non serve. Se un governo ha interesse a non fare politica (per esempio per non compromettere una coalizione, si pensi alle “coppie di fatto”) il Parlamento rimane afasico. Infatti c’è il regolamento, stravagante, rigoroso e invalicabile delle Camere. Stabilisce che un parlamentare, persino nella o nelle Commissioni di cui fa parte, può presentare un’interrogazione solo tramite il rappresentante del suo gruppo. Stabilisce che il deputato o senatore possono proporre tutto quello che vogliono. Non arriverà mai in aula (e il parlamentare proponente non potrà parlarne in aula) fino a quando il suo gruppo, cioè il partito con cui è stato eletto, non darà il permesso . Il più delle volte non accade mai. Dunque se cercate dove comincia e dove finisce la politica (e dove si esercita o si azzera la “produttività” politica) la freccia punta ai partiti. Ed è qui che un segugio indagherebbe per rispondere alla domanda: che fine ha fatto la politica? L’indagine può cominciare benissimo dalle nuove liste elettorali che si sono composte o si stanno componendo, e ai partiti (ai loro leader) che le hanno volute. Ognuno ha cercato uno o due personaggi di valore estranei all’organizzazione, ma destinati a ornare il salotto, a depositare un discorso o una memorabile intervista e a togliere il disturbo. Ma ha voluto soprattutto numerose e ben distribuite pattuglie di lavoratori che al momento giusto restano in attesa dell l’input, qualunque esso sia (andare avanti, tornare indietro, accordarsi o scontrarsi per ragioni che non sempre vengono condivise) o anche solo spiegate).   

Come esempio pensate alla scelta Pd del dottor Galli, già direttore generale di Confindustria, dato come probabile ministro del Lavoro a nome del partito che ospita il candidato ed ex ministro del Lavoro Damiano. A Damiano non si è potuto dire di no e far finta che non esista, come è accaduto al deputato Sarubbi (che si era ostinato a parlare di politica, di diritti umani, e non di Eni, al tempo del trattato con la Libia) e in due, oltre ai Radicali, avevamo votato no. Ma la sua presenza è saggiamente compensata e “coperta” dal dottor Galli per non correre il rischio di “ali estreme”. Come esempio prendete Paola Binetti e osservate dove l’ha collocata il nuovo mondo di Monti: due volte capolista in punti essenziali delle nuove liste per rassicurare chi deve essere rassicurato sui valori non negoziabili. Sono solo due lampi nel buio, ma servono per dire che la politica ha un suo unico luogo, i partiti.

Ma i partiti, anche quelli rispettabili, hanno deciso di tenersi le mani libere “per negoziare”. Negoziano risultati che hanno a che fare con il potere, non con i cittadini. I cittadini restano soli e, di tanto in tanto, sono accalappiati nella rete di decisioni che non si sa se siano buone o cattive perché sono indecifrabili. Si sa che sono pesanti, che cambiano la vita di molti. Sarebbe importante discutere di tutto ciò in politica. Ma quale politica?

Il Fatto Quotidiano, 13 Gennaio 2013

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Titolo: Furio COLOMBO - L’America non è più quella di una volta
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2013, 05:51:32 pm
L’America non è più quella di una volta
   
Il discorso per il secondo giuramento presidenziale di Barack Obama - incentrato sul concetto di uguaglianza e su tutti i valori della tradizione "liberal" americana - è destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani. Non solo del Paese, dello Stato o delle Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini.

di Furio Colombo,
da Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2013

Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all'America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto.

Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”. Ma poiché noi parliamo dall'Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell'America che tende a tirarsi indietro”.

Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l'America non è più quella di una volta”. L'ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell'invasione del Mali, dell'intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).

Ma torniamo a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l'assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.

Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l'America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l'incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell'uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.

“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell'Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.

E dichiara, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l'assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l'intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d'avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l'America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L'America (certo l'America di Obama) non è più quella di una volta”.

(23 gennaio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99america-non-e-piu-quella-di-una-volta/


Titolo: Furio COLOMBO - Attentato Boston, identikit di una strage cristiana?
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2013, 10:20:46 pm
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Attentato Boston, identikit di una strage cristiana?

di Furio Colombo | 17 aprile 2013


Alle reclute viene detto che Dio ha aggiunto alla Costituzione americana il diritto di portare le armi per una ragione importante: se mai venisse il momento in cui il governo deviasse dal suo scopo costituzionale cristiano, la gente in possesso di armi dovrebbe usarle per costringere il governo a tornare sulla retta via. I cristiani fondamentalisti che mantengono questa visione teocratica del governo sono chiamati “dominionisti”. Anche i fedeli di Christian Identity sono dominionisti, ma la differenza è che essi desiderano stabilire una teocrazia bianca, in cui le loro interpretazioni bibliche diventerebbero la norma.  Sto citando da Harvest of Rage, uno studio di Joel Dyer pubblicato nel 1998 sul problema (e la minaccia, negli Usa) del fondamentalismo cristiano armato (in Italia: Raccolti di rabbia, Fazi Editore).
E nel farlo sto spostando la mia riflessione su ciò che è appena successo a Boston, verso una delle due risposte: terrorismo interno.

Poiché il governo americano tarderà a prendere apertamente questa strada, mi rendo conto che corro il rischio di offrire una tesi invece che una risposta bilanciata e attenta a tutti i riflessi possibili. Ma io penso che Dyer, l’autore che ho appena citato, abbia visto giusto quando da giornalista investigativo specializzato nella vita agricola americana, si è accorto che stava nascendo e diffondendosi una nuova cultura. È un peccato che non si siano avventurati lungo lo stesso percorso i giornalisti, i sociologi, ma anche i detective federali che avrebbero potuto scoprire ben di più che la responsabilità, l’arresto e la condanna di una o due persone, colpevoli ma senza mandanti e senza il sostegno di alcuno, dopo ogni tragico evento religioso-politico americano, dall’uccisione di medici ginecologi considerati nemici della vita, a magistrati che si spingono a investigare le nuove culture pseudo-cristiane.

I tragici eventi simili alla maratona di Boston, infatti, sono tanti, prima e dopo lo spaventoso choc di quell’11 settembre che si è impadronito (come poteva avvenire diversamente?) di tutta l’emozione e di tutta la forza americana. Quasi solo giornalisti non americani (nelle dirette televisive subito dopo Boston, in cui si potevano alternare i telegiornali americani e telegiornali europei) si sono ricordati di questa sequenza di eventi: aprile è il mese di molte grandi scadenze del fondamentalismo cristiano che fa capo a Christian Identity: 29 aprile 1993, l’assedio della polizia federale alla chiesa-fortino di Waco, che il pastore David Koresh aveva riempito di armi automatiche e di seguaci, tra cui molte donne e bambini, e ha preferito che tutti saltassero in aria piuttosto che arrendersi a ZOG (il governo sionista americano, nel linguaggio di quel cristianesimo); 29 aprile 1995, l’esplosione del palazzo federale (dunque del governo di ZOG) di Oklahoma City, 168 morti, oltre a tutti i bambini dell’asilo e scuola elementare interna all’edificio; il 15 aprile è il giorno delle tasse, ovvero l’ultimo giorno per presentare il proprio modulo di denuncia, una scadenza sgradita di cui si parla tutto l’anno in tutta l’America, ma che, per i Fondamentalisti è un modo di sottrarre risorse a Dio per darle a Satana. Chi è Satana, per questa parte malata della cultura cristiana americana? “Ebrei e neri sono quel che sono. È stato Dio a scegliere di fare degli ebrei la prole di Satana, e dei neri degli animali, non lo abbiamo scelto noi” (Tim Hauser, Christian Identity, 1996).

Ma questo aprile è anche il mese in cui il presidente Obama ha lanciato un’appassionata campagna contro la libera circolazione delle armi. E il presidente americano, per la prima volta nella storia di questo Paese, è un nero. Per capire se ci sia un legame fra l’oscuro e profondo sottomondo del “dominionismo” cristiano e la vita politica americana di ogni giorno, basti pensare ai Tea Party. La durezza violenta e aggressiva di quei militanti, che al momento sembrano un po’ tenuti a bada dal Partito repubblicano regolare, non può essere il frutto del cattivo carattere o dell’inclinazione rissosa di alcuni. Nella predicazione del Tea Party emergono continuamente parole, modi dire, gerghi che si possono ritrovare solo nelle investigazioni e nel lavoro giornalistico dei pochi autori come Joel Dyer.

È chiaro, in quello che dico, che una profonda e diffusa esitazione trattiene la cultura americana dal guardare fino in fondo al vasto deposito di pregiudizio razziale, culturale, religioso che si intravede nel “dominionismo” cristiano (la forma estrema di fondamentalismo) e in Christian Identity. Però questi sono anche i giorni di una lunga investigazione su fatti criminali completamente nuovi: l’uccisione di magistrati. Due procuratori distrettuali sono stati assassinati nelle scorse settimane in Texas (uno in casa con la moglie, eliminati entrambi ). Si sa che gli esecutori provengono dal mondo e dalla cultura di cui stiamo parlando, ma le indagini sono finora andate a vuoto.

Del resto, dalla famosa e celebre mattanza di Columbine fino alla strage di bambini, avvenuta da poco a Newtown, nel Connecticut si è mai trovato un complice, un legame, un ambiente che può avere formato o facilitato questi episodi che sembrano solo follia isolata? Torniamo sempre all’esplosione di Oklahoma City: un solo arrestato, il soldato Mc Veight, un solo condannato a morte, una sentenza eseguita subito, che ha evitato di discutere se Mc Veight fosse o no (come tutto faceva pensare) un militante di Christian Identity. Sarà semplice ed esemplare il percorso investigativo e la conclusione della vicenda se gli attentatori di Boston non risulteranno cristiani. Ma se lo sono?

Il Fatto Quotidiano, 17 Aprile 2013

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Titolo: Furio COLOMBO - E se non fossimo tutti puttane?
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2013, 05:33:00 pm
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E se non fossimo tutti puttane?

di Furio Colombo | 26 giugno 2013


Un fantasma si aggira nel pianeta berlusconiano. Hanno (tutti loro) creduto fermamente, per potente induzione mediatica, nel comandamento: fai ciò che ti pare (sostituire con la frase tipica delle truppe di B.) o ciò che ti conviene (badando che sia a tua insaputa). Insomma il credo è (da vent’anni): siamo tutti impegnati in concorso esterno nel reato di mafia. Siamo tutti puttane.

Nel senso che tutti – sostiene il comandamento, siamo a disposizione, per una cifra giusta, secondo il modello Lavitola-De Gregorio. All’improvviso una sentenza molto discussa (“reggerà la politica?” si domanda con ansia il quotidiano Pd Europa) decide che la prostituzione è una cosa che richiede un padrone, dei mezzani delle ragazze sottomesse, in cambio di adeguate somme di danaro. E richiede una buona organizzazione, persone che procurano, persone che coprono, persone che pagano, case semichiuse che ospitano a spese di, con il controllo di, e dove si imparano buone maniere, come le regole di condotta nelle feste e – all’occorrenza – come testimoniare il falso. Ma eccoci al punto chiave della vita di Berlusconi e della sentenza che lo riguarda.

Per organizzare per bene la prostituzione ci vuole il potere. È il potere che spiega la severità dei giudici, che ha provocato costernazione tra i migliori amici. Infatti per la prima volta certe avventure del capo di un grande partito italiano e, a lungo, capo del governo, vengono chiamate con le parole appropriate: prostituzione minorile, vincoli di obbedienza, pagamenti puntuali e proporzionati al reato, con il concorso di abili e autorevoli complici.

La via di fuga era pronta: dire e ripetere che siamo tutti puttane. La frase viene dal cuore e da una persuasione profonda. Si pronuncia con una solennità paraevangelica, tipo “siamo tutti fratelli”.

Ma i giudici hanno smantellato la chiesa delle ragazze nude, vestite da suore, e il grosso del partito non si dà pace. Ecco dove i giudici guastano il gioco, non in un anno in più o in meno di galera (che fa effetto nel mondo, ma in Italia sarà scontato tra un salto a Palazzo Chigi e una capatina in Parlamento).

Ma nel dover ammettere che i complici e le Ruby (e l’altra giovanissima Noemi, che lo chiamava “papi” e di cui ci eravamo quasi dimenticati) sono tanti. Tanti, ma non tutti. Anzi, si chiama fuori una buona parte degli italiani, e molti pentiti. In questo, colpa della Boccassini, nonostante le adunate di chi si proclama puttana, il gioco è fallito

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Titolo: Furio COLOMBO - A chi giova stravolgere la nostra Costituzione
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2013, 10:11:01 am
A chi giova stravolgere la nostra Costituzione

di Furio Colombo | 7 luglio 2013


Sta accadendo un fatto strano e difficile da spiegare, che appare più fisiologico che politico o giuridico: la Costituzione si sta trasformando. Cambia di colpo in punti vitali.

Per esempio è in atto un progetto che sta svolgendosi all’insaputa dei cittadini, ed è bene saperlo. Il progetto è di mettere mano all’art. 138 della Costituzione, o meglio di cominciare di lì. Quell’articolo è un cardine: impedisce che la Costituzione possa essere facilmente e liberamente manomessa al di fuori della complessa procedura costituzionale. Prescrive due volte il voto di ciascuna camera, e un referendum popolare di approvazione finale.

Invece la Commissione dei 40, che segue, nella stranezza e nella anomalia, quella dei dieci saggi che all’inizio di tutta questa vicenda, erano stati chiamati a consigliare il Quirinale, comincerà proprio da qui, (queste sono le istruzioni) da un ritocco che renda inutile la barriera dell’art. 138. Si può fare senza una garanzia – ovvero senza che il progetto sia previsto e concordato, fra la politica (così come essa è rappresentata nel governo) e le Istituzioni?    SE È

Così, ciò che sta accadendo punta verso una Costituzione ignota, che ancora non abbiamo e ancora non conosciamo. A quanto pare la Costituzione ignota ha già corretto in senso verticale le sue istituzioni. Il potere adesso discende dal potere, invece di risalire dal voto. Non solo gli elettori appaiono abbandonati sul fondo, ma anche i parlamentari. Discutono a vuoto, votano a vuoto e non contano niente. Di questo fatto, che è strano perché mai deciso e mai votato dagli eletti, trovo una attendibile descrizione in un editoriale del quotidiano Il Tempo : “Le prerogative del Parlamento non possono tradursi in una sorta di diritto di veto sui programmi di ammodernamento delle Forze Armate (…) Il comunicato diffuso ieri dal Quirinale al termine della riunione del Consiglio Superiore della Difesa, presieduto dal Capo dello Stato ha aggiunto una pietruzza sulla strada, cara al presidente della Repubblica, delle riforme istituzionali (…) indicando in modo fermo e non equivoco , i limiti alla attività del Parlamento. Tutto ciò dimostra come sia già in atto, nella prassi, un processo di trasformazione delle istituzioni nel senso di un rafforzamento dell’Esecutivo. In altre parole, si sta affermando una nuova Costituzione reale ben diversa dalla Costituzione formale. (…)

Anziché parlare di uno schiaffo al Parlamento, come fanno i grillini e le vestali di una Costituzione ingessata e superata dai tempi, sarebbe bene che si cogliesse l’invito implicito a mettere mano, finalmente, alle riforme. Per il bene del Paese”. (Francesco Perfetti, 4 luglio). L’articolo è interessante perché è ispirato (dal comunicato della Presidenza della Repubblica), perché dimostra in modo chiaro e persuasivo di quali riforme si tratta (la verticalizzazione presidenzialista o semi- presidenzialista del potere politico in Italia, la marginalizzazione del Parlamento, le istruzioni per l’uso della Commissione dei 40, a cui viene assegnata la prova da svolgere con obbligo di copiatura di istruzioni già date.   

E quel tanto di scherno (“le vestali di una Costituzione ingessata e superata dai tempi” ) che è sempre stato il canto di guerra della vasta e disordinata aggregazione berlusconiana. Ma allora le rivelazioni che ci vengono consegnate come una notizia, con fermo invito ad adeguarci subito, sono due. La prima, abbiamo appena appreso, è che, fin dal primo momento delle votazioni presidenziali, il progetto era già completo, con tutte le sue istruzioni per l’uso, e significava trasformazioni profonde, mai concordate e mai votate, alla Costituzione. La seconda è la vistosa e pesante asimmetria delle forze che sono state associate (la forma passiva dei verbi è necessaria) per formare il “governo insieme”.

Ecco la formula di quel governo. Da una parte tutti gli interessi personali, proprietari, giudiziari di Berlusconi più tutte le forme diverse di reazione e ostilità alla esigente e coerente Costituzione italiana. Dall’altra, figure sparse dette, per pura esigenza di identificazione, “di sinistra” (di solito intente a respingere con sdegno quella definizione) che non hanno, come riferimento, né un partito deciso a guidare né una Istituzione disposta a difendere. Un peso preponderante, dunque, è dalla parte di coloro che militano con furore e passione contro la Costituzione nata dalla Resistenza. E le figure sparse se ne accorgono quando ricevono, se si scostano, sgridate durissime e autorevoli, di solito interpretate bene, e tempestivamente espresse, dal capogruppo di Berlusconi, Brunetta.

A questo punto il discorso si fa drammatico e semplice: il dovere democratico è difendere la Costituzione senza accettare alcuna manomissione, contro un simile squilibrio di intenti e di forze. Pretendere una urgente e decente legge elettorale come unico impegno verso il Paese, il solo che si può fare a carte scoperte. Subito dopo dovremo persuadere i cittadini che per il 50 per cento si sono astenuti nelle ultime elezioni, a tornare al voto.

il Fatto Quotidiano, 7 Luglio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/07/a-chi-giova-stravolgere-nostra-costituzione/649067/


Titolo: Furio COLOMBO - Fabbriche scomparse, il silenzioso furto del lavoro
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2013, 09:50:37 am
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Fabbriche scomparse, il silenzioso furto del lavoro

di Furio Colombo | 1 settembre 2013


Qualcuno ricorda l’abigeato? Voleva dire rubare a un contadino e a tutta la sua famiglia il bestiame, cioè la vita. Le pene erano severe, e la sanzione sociale durissima: espulsione dalla comunità, perché in quel reato si coglieva disprezzo e crudeltà: intaccavano il legame umano e i doveri fondamentali del vivere accanto. Il furto della fabbrica è più grave. Lo è perché è fondato sull’inganno e perpetrato da persone che restano rispettabili. Torni dalle ferie e trovi un lucchetto ai cancelli, non c’è più il nome della ditta o della persona. Se riesci a entrare, trovi i capannoni vuoti. Tutte le macchine sono state portate via. A volte accade che qualcuno si trovi a passare davanti alla sua fabbrica mentre dovrebbe essere “in ferie”, e scopra il furto in corso, veda con stupore incredulo che stanno caricando le macchine del suo lavoro su camion senza identificazione, forse vendute, forse in trasferta, per un altrove sconosciuto. Succede che si possano radunare altri operai e bloccare il trasloco, ma quando te ne accorgi non sei mai in tempo.

Per questo furto, più grande del furto rubricato dai codici, non esiste “flagranza di reato”. Qualcuno, che tu credevi il tuo “principale” ha venduto, e qualcuno ha comprato, e poi qualcun altro, e nessuno si farà vivo per spiegare la storia. È una storia macabra con tre vergognose spiegazioni; liberarsi della fabbrica senza tante storie sindacali, vendendo il macchinario; cedere la fabbrica a qualcuno che la rivende a qualche altro finché non si trova più il padrone (e intanto nessuno paga i dipendenti, persino se il lavoro continua e l’organizzazione del lavoro rimane intatta); delocalizzare l’impianto, che vuol dire che io continuo a produrre, ma con altri operai, in un altro Paese, dove non esistono leggi del lavoro. C’è anche l’imprenditore del tutto persuaso di avere diritti medievali che dice agli ex dipendenti che protestano: “Se volete, io vi riassumo in Polonia. Qui costa troppo”. E così si torna alle due superstizioni che umiliano sia chi le dice sia chi se le sente dire (e inutilmente due premi Nobel come Amartya Sen e Joseph Stiglitz le hanno confutate da anni): “Il lavoro si salva solo se ha più flessibilità” (vuol dire che, se l’avesse, non ci sarebbe bisogno di andare in Polonia, basterebbe licenziare e poi riassumere pagando la metà dei salari). E: “Il nostro vero problema è il costo del lavoro”. La frase è falsa fin dall’inizio (i salari italiani sono sempre stati i più bassi in Europa).

Ma c’è di peggio dello scarico di responsabilità dai padroni ai dipendenti, dai dirigenti ai lavoratori di una fabbrica, dove l’incapacità di amministrare e di vendere viene gettata addosso a chi scrupolosamente provvede a produrre. Il furto della fabbrica, infatti, avviene quasi sempre mentre non solo i lavoratori, ma anche i fornitori e i clienti non hanno alcuna ragione di sospettare, e infatti, inizia regolarmente per tutti il periodo di “ferie”. Nessuno ne parla in anticipo perché si tratta di una azione ovviamente vergognosa, che però non trova nella vita sociale alcuna censura e in quella giuridica alcuna condanna, benché vi siano varie evidenti violazioni di natura penale e civile. Il fatto è che rispettati economisti spiegano la delocalizzazione come inevitabile effetto della globalizzazione, che consente – e anzi suggerisce – di spostare la propria fabbrica dovunque sia più conveniente per le buste paga. E infatti si sono creati nuovi luoghi di schiavitù, come i centri di produzione di Taiwan e molte fabbriche cinesi, in cui i suicidi degli operai sono molto frequenti, quando i lavoratori riescono a raggiungere i piani alti delle loro prigioni di lavoro. Spiego in che senso ho detto “prigioni”. Dovunque si uniscono, con una ferrea e assurda alleanza Stato e impresa, impegnati ad abbassare drasticamente le paghe con un dirigismo che è l’opposto del libero mercato, le condizioni di chi lavora diventano lavoro forzato e il legame con il posto di lavoro, pagato una miseria per un numero sproporzionato di ore, diventa una caienna.

La catena delle vendite false (ovvero di cessioni di fabbriche in sequenza per far perdere le tracce di un responsabile), è l’altro problema che ha coinvolto anche aziende con intatta reputazione e capacità produttiva, e senza alcuna perdita di quote di mercato. Si tratta di un irresponsabile progetto di abbandono di impegno imprenditoriale e di rapida e clandestina capitalizzazione di valori ben più grandi (per non parlare delle persone). Moralmente è un fenomeno spregevole, molto simile a quello dell’abbandono dei cani in autostrada. Legalmente, la clandestinità o semi clandestinità dell’operazione, solo in apparenza ammissibile, dovrebbe essere intercettata da norme civili e penali che costringano alla continua identificazione pubblica dei passaggi, delle responsabilità, degli intenti.

Lo svuotamento estivo di uno stabilimento a cui vengono segretamente asportate le macchine dovrebbe essere considerato un vero furto ai cittadini e non solo al lavoratori, se si pensa al reticolato di impegni e doveri che una impresa stabilisce con il luogo e le persone del luogo in cui si è insediata, compresa l’apertura di negozi e di altre imprese. Non credo che politica, Stato e governi locali debbano osservare a distanza, come se si trattasse della forza brutale del “mercato”: si tratta di furto.

Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/01/fabbriche-scomparse-silenzioso-furto-del-lavoro/697980/


Titolo: Furio COLOMBO - I sette giorni di follia prima del disastro
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:12:31 pm
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I sette giorni di follia prima del disastro

di Furio Colombo | 29 settembre 2013


La settimana finisce così: i ministri di Berlusconi si dimettono su ordine e per le ragioni di un condannato in via definitiva per grossa frode fiscale. Una condanna che non può essere cambiata trasforma il legame politico con il leader in favoreggiamento con chi ha commesso il reato. È incredibile che chi ha messo insieme questo infelice governo, comunque soggetto al giudice di sorveglianza, non abbia previsto un simile disastroso esito. Ma tutto cio è pieno di sintomi e di segnali nella settimana che si è appena conclusa. Ce lo dicono una serie di eventi insensati. Provo a elencarli.

Il Presidente del Consiglio va a New York, in apparenza per l’Assemblea generale dell’Onu, ma con il vero scopo di un “roadshow” per “vendere” l’Italia. Tradotto, significa incontrare analisti finanziari (non gli imprenditori, come dicono i sottomessi Tg) e non segue rinfresco, segue dibattito. Qui il progetto si fa nebbioso. Sicuro che era il momento giusto per farlo
Intanto il suo vice Alfano, “con cui Letta – dicono con linguaggio di regime i Tg – è in costante contatto”, va in Val di Susa e dice ai disperati valligiani, ai disperati lavoratori, ai disperati poliziotti del più costoso e inutile cantiere del mondo: “Nessuno ci fermerà”.

Nelle stesse ore la Commissione europea annuncia che la produttività in Italia è a picco, che sta avvenendo una rapida deindustrializzazione, che c’è una forte perdita di competitività in termini di costo del lavoro. La denuncia del costo del lavoro italiano appare un po’ azzardata, nella terra afflitta dai più bassi salari d’Europa. Ma in casa non c’è nessuno a rispondere. E poiché non c’è nessuno, c’è chi compra alla svelta Telecom e chi offre a prezzi d’affezione l’Alitalia.

Alla fine accade un fatto che sembra sconnesso e sembra folle ma non lo è, anzi è logico. Deputati e senatori del Pdl (gruppo di incerta identità politica, detto anche Forza Italia) si sono improvvisamente riuniti in una sera di cattivo umore, e hanno gridato insieme la loro decisione. Se va via Berlusconi (che deve andar via dal Senato, per legge, dopo la condanna definitiva per una grossa frode fiscale), si dimettono tutti dal Parlamento a causa della loro indignazione democratica. L’avevo detto, una settimana folle.

Ma cominciamo dalle vendite di Telecom e Alitalia. Sono vendite che, a quanto pare, non rispecchiano interessi delle imprese, che stanno per essere date via sottocosto. Ma vanno bene per gli azionisti che stanno vendendo: facile acquisto (a suo tempo), niente rischio, buon profitto e liberi tutti. Tutto avviene all’interno di un suk protetto, dove le trattative riguardano gente intenta a scambiarsi liberamente informazioni non disponibili per gli operatori normali. Il suk include governi, politici, autorità che dovrebbero vigilare, interi partiti e investitori che, a guardar bene, sono quasi solo dei prestanome. Inevitabile dire che questa vendita o svendita non riguarda in alcun modo il Paese Italia. Mettetevi nei panni di questa gente: quale Paese?

Meglio non fingere un curioso neo – patriottismo esercitato sul vuoto. Infatti qui, nella patria espropriata e abbandonata, non c’è niente, tranne una bandiera al Quirinale, un inno nazionale che Radio Uno trasmette a mezzanotte ogni notte, e un governo guardiaporte che, fino ad ora, e prima della rivolta, è stato comprensivo e cortese nei limiti della sua funzione che è (lo dicono tutti) la stabilità. E proprio mentre è stabile, e Letta è in giro per il mondo a vantare quest’unico pregio, tutti i Pdl e Forza Italia che compongono, con il Pd, la maggioranza alle Camere , tutti i deputati, senatori, ministri, vice e sottosegretari, prendono la rincorsa e abbattono la vetrata. Avete ragione. Non l’abbattono, la fanno tremare con un grido possente di solidarietà estrema al loro condannato.

Che cosa non si fa pur di recare grave danno al Paese. Tutti si dichiarano fieri di stare col condannato. Se ne va di colpo la stabilità, il famoso valore aggiunto. Oltre all’equilibrio mentale italiano.

Possiamo , volendo, esercitarci a riflettere sul come siamo arrivati a questo punto. Ci sono due protagonisti: c’è la sinistra, triste, isolata, trascurata dai media, tormentata da una irreversibile solitudine, perché ha abbandonato e respinto il lavoro, che credeva nella sinistra, e abbracciato un presunto capitalismo monopolistico che non la vuole. E c’è un vasto aggregato populista del tutto estraneo alla storia e alla legge, che guida a curarsi solo dei fatti propri. Il progetto politico è di trarre tutto il profitto o vantaggio possibile e di non farsi trovare sul posto al momento del crollo.

Attenzione, l’aggregato populista di cui stiamo parlando non ha mai veramente mentito. Non ha mai parlato di Italia, ma di interessi privati. La promessa: non una buona Italia, che non interessa nessuno. Ma una buona vita per gli addetti ai lavori, con la ragionevole possibilità di allontanarsi per tempo, con adeguate risorse, dopo il saccheggio.

Bisognerà prendere atto di tre fatti unicamente italiani: gli imprenditori rubano le fabbriche, ovvero le abbandonano come farebbero in un remoto terzo mondo, impedendo agli operai di tornare a produrre. E mentre uomini e donne spossessati gridano “lavoro!” per le strade, l’Europa ti dice che i costi del lavoro sono troppo alti nel Paese che paga i salari più bassi in Europa. Comuni e Regioni, intanto, tagliano tutto, dagli ospedali alla cultura, ai rifiuti, senza piani o spiegazioni, rispondendo alla cieca a decisioni prese alla cieca dal governo, che a sua volta obbedisce a ordini estranei, come eliminare all’improvviso l’Imu. Il governo è stato, finora, un ente fisso, una presenza estranea circondata da una grande solitudine. Fino a quando esplode una clamorosa dimostrazione di identità con un condannato in via definitiva per fatti gravi, fingendo di scambiare la complicità per la democrazia e il bene del Paese con il favoreggiamento. Se almeno l’Europa prestasse più attenzione, forse chiederebbe altre cose all’Italia. O manderebbe una polizia internazionale.

Il Fatto Quotidiano, 29 Settembre 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/29/sette-giorni-di-follia-prima-del-disastro/727206/


Titolo: Furio COLOMBO - Il corpo (di Berlusconi) di cui nessuno vuole disfarsi
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 10:14:05 am
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Il corpo (di Berlusconi) di cui nessuno vuole disfarsi

di Furio Colombo | 21 ottobre 2013


Questo sfortunato e disorientato Paese, che continua a essere forzato, piuttosto che guidato e persuaso a fare qualcosa, è ingombro di corpi. I corpi di vittime innocenti che non hanno trovato pietà e accoglienza. I corpi di colpevoli che, paradossalmente, si vendicano della civiltà con cui sono stati trattati da vivi e si vantano della barbarie con cui hanno tolto la vita ai loro morti. E il corpo di Berlusconi. Berlusconi è vivo e gli auguriamo lunga vita. Ma è politicamente finito e dunque anche nel suo caso bisogna rimuovere l’ingombro. Questa, infatti, è stata – una volta condannato – la strategia di Berlusconi: lasciarsi andare a corpo morto. Lo portino via i suoi, se ne hanno il coraggio. Di quel coraggio non si vede traccia. Ma poiché Berlusconi ha una gran folla di congiunti politici che continuano ad accorrere sul posto, sarebbe sgradevole – pensano i non berlusconiani (che non si sa mai quanto siano non berlusconiani) – intervenire mentre ci sono i parenti.

E così per l’ex presidente Berlusconi accade l’opposto che per l’ex capitano Priebke. Priebke giace ancora a Pratica di Mare perché è stato rifiutato come soldato dal suo Paese e come padre dai figli. Berlusconi di figli ne ha troppi che gli si stringono intorno impedendogli di andarsene decentemente da solo o – a qualcuno – di portarlo via. Sul suo Paese continua a pesare come un ingombro che è durato vent’anni e continua. Senza dubbio la trovata di lasciarsi cadere è stata geniale, e del resto si faceva, un tempo, nelle aule dei primi processi di mafia, fingendo un malore. Qui il malore è istituzionale.

Oscilla fra sette od otto diverse interpretazioni della legge Severino sull’espulsione dal Senato, ha a che fare con voti palesi o segreti, conta sulle astensioni di tutti i tipi, il presidente del Senato, il presidente della Commissione, i capigruppo alle Camere, i suoi ministri al governo, i suoi deputati falchi e i suoi deputati colombe. Ha a che fare anche con la faccia mite – feroce (secondo le occasioni, ma senza pericoli per gli astanti) – della sua ex opposizione con cui adesso governa insieme. Come potrebbero essere loro a trasportare il corpo di Berlusconi decaduto, senza arrecare un’offesa ai congiunti inerti intorno al caro estinto politico?

E così, lui rilancia ogni giorno la sfida: rimuovetemi, se ne avete il coraggio. In questo modo l’Italia è costretta a muoversi in cerchio intorno al corpo caduto, stando tutti attenti al tono garbato e alle buone maniere, e guardandosi bene dall’affrettare i tempi. Al contrario, l’unica soluzione decente (e astuta) sembra aspettare. Se ci comportiamo con la dovuta buona educazione, se mostriamo un comportamento umano ed estraneo all’antiberlusconismo viscerale, forse il corpo può restare qui e ogni danno sarà evitato. Lo sanno anche loro che arriveranno le mani lunghe dei giudici, con nuove sentenze e nuove imputazioni e nuovi processi.

Ma quello è il capitolo scandaloso e illegale dell’eliminazione per via giudiziaria dell’avversario politico che “loro” non riescono a eliminare per via politica. Non riescono chi, dato che i presunti avversari (che non sono stati mai invadenti e non hanno mai preteso di volere, sapere, denunciare) governano insieme, lo fanno con una certa grazia e mostrano una certa naturale propensione a stare vicini e insieme? Non preoccupatevi, c’è un tempo per vivere e celebrare l’alleanza e un tempo per mordere a sangue l’avversario (per esempio, se bisogna salvare Mediaset dal vistoso decadimento, mandi qualcuno in un programma Rai di successo a portare accuse personali al conduttore, e poi non solo non molli l’osso, perché la situazione Mediaset è grave e urge danneggiare il più possibile la ex concorrente, ma continui, raddoppiando la cattiveria come nella spietata scorreria di un giustiziere). L’aspetto curioso di questa strategia è un esperimento, signore e signori, mai tentato prima: mordere a sangue e – nello stesso tempo – governare insieme. E anche: governare insieme e sghignazzare ogni giorno su quel che fa (e certo non fa, non può fare) questo governo alleato delle “grandi intese”.

Approvare alle Camere e svergognare sui giornali (non solo i loro giornali) attraverso le fonti controllate (ancora moltissime). Ma il corpo dell’uomo che si è buttato per terra e lancia ogni giorno la sfida “rimuovetemi se ne avete il coraggio!” fa ben altri danni. Mettetevi nei panni di Letta, persino se non simpatizzate per la sua strana iniziativa del presiedere con grazia, buona educazione e buon inglese, un governo immobile. Letta deve trascorrere i suoi giorni di governo, in Italia e all’estero, con Berlusconi aggrappato al piede, un ingombro che fatalmente impedisce ogni passo. È stato gentile Obama a fingere di non vedere, ma Berlusconi è li, aggrappato e ci resta. Al momento possiamo calcolare il danno che ha fatto. Ma la sua bravura, riconosciamolo, è questa. Non sappiamo ancora il danno che farà. Pensate che sono in ansia, su questo, persino Alfano e Cicchitto.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/10/21/corpo-di-berlusconi-di-cui-nessuno-vuole-disfarsi/750894/


Titolo: Furio COLOMBO - I Forconi e la paralisi democratica che li genera
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 04:57:38 pm
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I Forconi e la paralisi democratica che li genera

di Furio Colombo | 15 dicembre 2013

Forconi, chi siete? In ogni momento potrei imbattermi in un vostro posto di blocco senza sapere se devo avere paura o capire, se siamo dalla stessa parte del mondo (difendersi o aggredire), se la vostra è rivendicazione o vendetta, se ci unisce il desiderio che questa brutta giornata finisca, o il desiderio di prolungarla dentro una notte di compensazione violenta del debito. So benissimo che la parola “Forconi” serve solo per la cronaca giornalistica, che un movimento con quel nome avventuroso è solo una piccola parte, che c’è una aggregazione “9 dicembre” che ha persino un portavoce di nome Zunino, che – sento alla radio – è molto professionale e molto espressivo (benché alcune cose che dice mi spaventino, non come cittadino che ha paura di andare in strada, ma come persona che ha visto il passato e ha già incontrato quelle frasi e ha già visto le paurose conseguenze).

C’è un’altra via d’uscita: tentare di buttare tutto sul ridicolo. Infatti un certo Galvani, che parla come un leader e dice di non esserlo, arriva sul posto in Jaguar. Può darsi che si tratti di una provocazione calcolata, come quelle dada o futuriste, che infatti si esibiscono un po’ prima delle vere rivoluzioni. Troppo facile, però, acciuffare pretesti e incongruenze, mentre intorno tutto è incongruo, illogico, presentato come logico e vero da tutti i potenti media, ma privo di riscontro nel reale. Non fa scandalo se qui o là ci sono i Casa Pound. Nessuno ha diramato inviti o messo barriere, e se ci sono i fascisti non è una ragione per dire subito che la loro presenza contamini tutto. Certo non è una bella compagnia, ma sento dire che voi non cercate nessuno, non vi fidate di nessuno e ripetete in un coro tempestoso, ma (finora) nonviolento “tutti a casa”. Le volte (non tante) che i media vi consentono di parlare, spiegate che fuori vuol dire fuori, via tutti dal palazzo. Le poche volte che vi domandano chi è il leader rispondete “Nessuno”, una buona idea, non so se, inconsapevolmente, tratta dallo scherzo giocato a Polifemo da Ulisse nel racconto di Omero. Quello scherzo come sapete, funziona.

Vi immaginano disperati e sprovveduti e invece forse siete pronti al momento giusto. Ma pronti a che cosa? Mi arrampico in su, sospettando un grave pericolo. Poi scivolo giù, al livello del come stanno le cose, e mi rendo conto che non poteva andare diversamente. Il Paese è bloccato, il governo è fermo, ogni atto politico è una finta, c’è una grande sosta inspiegata e inspiegabile, da quando è stato interrotto il voto per il nuovo presidente della Repubblica. Tutto si è immobilizzato di colpo, come in uno strano presepio, tranne la perdita di lavoro, di case, di paghe, di partita Iva e la scomparsa di centinaia di migliaia di piccoli lavori e di aiuto dei meno poveri ai più poveri adesso altrettanto poveri. Un angoscioso spostarsi verso il basso che continua anche adesso.

E allora, poiché è scomodo muoversi nel fango, che potrebbe essere – cominciate a temere – sabbia mobile, siete scesi in piazza da tante strade come dopo una inondazione. E noi ci domandiamo: chi sono? Vi siete accorti che sto parlando di “voi” e “noi”? È un discorso di classe, ma la classe non è sociale, alla vecchia maniera, è nella testa. Cioè alcuni (“noi”) continuiamo a vedere cose che non ci sono (organizzazioni, partiti, elezioni, leader) e ad aspettarne altre che forse non accadranno. Evidentemente abbiamo torto perché siamo redarguiti con durezza dal capo dello Stato perché parliamo – pensate – “dannatamente” di elezioni. Voi vedete il vuoto. E per esorcizzare la paura, ci entrate dentro.

Qui però accade qualcosa di strano e di inspiegabile. Marco Revelli, in un bell’articolo su il manifesto scrive “L’unico volantino che mi mostravano (in Piazza Castello, a Torino, ndr) diceva: siamo italiani, a caratteri cubitali”. Sì, però, subito dopo, ai vari microfoni uno con quel manifesto in mano diceva: “I soldi e le case non li date a noi italiani li date agli zingari”. Un altro: “Siamo qui perché siamo italiani e abbandonati. Tutti gli aiuti sono per gli immigrati, che ci portano via il lavoro”. Sono molte le voci che si distaccano dal vasto gridare della piazza, mentre gli agenti si tolgono i caschi, e sentite ripetere ancora e ancora la storia degli zingari. Siamo al livello un po’ animale di Borghezio il leghista, che di suo, molto prima dei forconi, incendiava i giacigli di immigrati che dormivano sotto i ponti a Torino. Come in una strana fiaba, c’è il rischio di precipitare a un livello più basso di cattiveria contro gli ancora più poveri.

Purtroppo non è tutto. Spiega Andrea Zunino, il portavoce (che poi nega, ma nega male) nell’intervista di Radio 3: “Siamo ridotti così perché l’Italia è schiava dei banchieri ebrei”. E fa il nome di Rothschild, che avrà pescato in rete, negli angoli in cui sopravvivono i resti di un profondo antisemitismo sempre in agguato, di un vetero-fascismo che credevamo morto e sepolto. Queste povere e squallide dichiarazioni vanno messe sul conto di chi ha fermato la democrazia e tagliato fuori i cittadini da ogni partecipazione politica. Ma quando il presidente delle Comunità ebraiche italiane Gattegna dice che “quelle parole appartengono a un periodo storico di morte, violenza, negazione di ogni diritto” lancia un grido di indignazione, condanna, dolore che devo condividere per illudermi di vivere in un mondo normale e civile.

Mi rendo conto che c’è un solo modo per sapere chi siete e dove andate: con tanta rabbia e un buio profondo, movimenti 9 dicembre e forconi: rompere l’incantesimo della grande fermata e rimettere in moto la democrazia. Se Renzi fosse davvero nuovo, dopo il rito di famiglia detto “segreteria” alle 7 del mattino, sarebbe in strada alle 8, rompendo e rifiutando subito la gelida separazione fra cittadini e palazzo che spinge alla disperazione. O a brutte, umilianti allucinazioni.

Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2013

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/15/i-forconi-e-la-paralisi-democratica-che-li-genera/814205/


Titolo: Furio Colombo. Fiat-Chrysler, chi ha comprato chi.
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2014, 04:30:05 pm
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Fiat-Chrysler, chi ha comprato chi

di Furio Colombo | 3 gennaio 2014

Un colpo da maestro che lascia stupite le Borse e ammirati i manager. Gli azionisti della Fiat di Torino (Italia) hanno l’intero pacchetto azionario della Chrysler di Detroit (Stati Uniti d’America), dopo avere acquistato dal Fondo pensioni dei sindacati americani ciò che mancava e averlo pagato, per due terzi, con i soldi della Chrysler e per il resto con liquido Fiat, senza avventure bancarie e senza aumenti di capitale. Da questo momento, la terza industria automobilistica americana è italiana. O è avvenuto il contrario? O è accaduto che la Fiat sia diventata la parte minore ed estera di una grande azienda americana?

Naturalmente il discorso non riguarda la proprietà, saldamente controllata dagli azionisti italiani (in passato un simbolo importante come una bandiera). E non riguarda neppure il trasloco. Mirafiori resta a Mirafiori e il Lingotto resta al Lingotto, con qualche dubbio (ma tipico del brutto momento) per le sedi minori. Certo, un flash di telefonino potrebbe dirci, in qualunque momento, che il quartier generale, per ragioni di agilità logistica, non è più a Torino. Il fatto è che, mentre l’immensa operazione (Torino o Detroit) restava in bilico, si potevano lasciare in sospeso gli investimenti, gli insediamenti, i milioni di ore di cassa integrazione, la non produzione e le non vendite italiane, mentre Detroit filava (e fila) a gonfie vele. Ma vi sarete accorti che, nel corso di una crisi tutta economica e tutta industriale, di Fiat, del suo peso, del suo futuro italiano, non si è mai discusso. Globalizzazione? Delocalizzazione? Mi sembra che tutto l’evento, benché avvenga adesso, sia legato a qualcosa che non era mai avvenuto in Italia e neppure in Europa.

Una grande azienda americana, salvata da un bravo manager libero da nostalgie e legami, ma anche da qualunque senso di appartenenza, ha comprato la Fiat che diventa, da adesso, la rappresentanza italiana del compratore. S’intende, fino a che i costi (le cose sono messe in modo che in Italia non si guadagna) lo consentiranno. Poi accadrà ciò che è accaduto per la Costituzione. L’economia formale mostra che la Fiat è la nuova padrona. Ma l’economia materiale farà capire presto che Fiat (la Fiat di Torino, di Agnelli e, come piaceva dire in questo Paese, la grande industria degli italiani) adesso è una filiale di una grande azienda americana, soggetta agli alti e bassi di un altro mercato in cui non contiamo. In altre parole: ottimo affare per alcuni azionisti, e per alcuni manager. L’Italia invece (qualcuno lo dica a Letta e a Napolitano) non ha più la Fiat.

il Fatto Quotidiano, 3 Gennaio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/03/fiat-chrysler-chi-ha-comprato-chi/830919/


Titolo: Furio COLOMBO - Alexis Tsipras: Europa e Italia, la speranza parla greco
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2014, 05:10:41 pm
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Alexis Tsipras: Europa e Italia, la speranza parla greco

di Furio Colombo
9 febbraio 2014

Roma, ai giorni nostri. Siamo in un teatro (il Valle occupato) affollato all’inverosimile. C’è folla anche in strada, al punto da bloccare il traffico. In uno dei palchetti in cui ho trovato uno spazio, forzando un po’ fra il gruppo che era già entrato, una signora mi dice, indicando la folla, sopra e sotto di noi: “Ma le pare che alla nostra età dobbiamo ricominciare a cercare casa?”. Si vede al primo colpo d’occhio che, con l’eccezione di un dieci per cento di figli e di giovani occupanti del teatro, che fanno da “maschere” e da servizio d’ordine, l’intero spazio è occupato da persone decisamente sopra i cinquanta. Non sto per dirvi che adesso i giovani fanno politica da soli, in silenzio davanti allo schermo del computer. Ma devo ricordare i messaggini che ogni due o tre minuti arrivavano, via telefonino, dalle fonti a cui sei collegato.

Ore 15: “Il Quirinale per il rilancio di Letta”. Ore 16,15: “Renzi preme per la staffetta”. Ore 17: “Il segretario: Enrico ci dia risposte”. Ore 17,39: “Nel caso di Renzi capo del Governo, scatterà una crisi formale, ma non al buio”. E anche: “Enrico: Matteo ci porta al voto, Alfano sei avvertito”. Ore 18: “Toti non si sbilancia. Renzi al governo? Facciano loro. Berlusconi mantiene i patti”. Alla stessa ora, nel teatro stracolmo, arriva il deputato greco Alexis Tsipras, 42 anni, leader di un partito chiamato Syriza, che i commentatori definiscono “di sinistra radicale” e che, nel suo Paese è in testa a tutti i sondaggi. Resta in piedi, ai bordi del palco, e accanto a lui ci sono alcuni di coloro che lo hanno chiamato (Spinelli, Flores d’Arcais, Luciano Gallino). Lo hanno fatto perchè, come dice la vignetta sulla prima pagina del Manifesto, “La politica è uno di quei mestieri che gli italiani non vogliono più fare”.

Tsipras saluta col pugno chiuso. E bisogna dire subito che in tutta quella folla non c’è ovazione o tripudio, c’è molta attesa, una grande attenzione. E silenzio, come se Tsipras – pur ben tradotto – non parlasse greco. Perché ciò che ha da dire è qualcosa che non si sente da tempo in questo Paese affamato di buon senso. Sta parlando non di sé ma di politica. Sta parlando di Europa non come se fosse imminente il giudizio universale o la rivoluzione di Ottobre.

Sta parlando per coinvolgere, non per annunciare cose già decise altrove, da altri, e dare ordini. La gente qui dentro respira nonostante la folla che preme, perché, ascoltando quest’uomo normale, si sente liberata da due incubi: le esibizioni del duo Enrico-Matteo, che più si chiamano per nome e più si fanno scherzi che non ci riguardano. E la voce dalle alture della rete, sempre parecchio al di sopra dei toni umani, e come in preda a una ispirazione spaziale.

Le proposte che il giovane deputato greco vuole condividere con la sua folla di militanti anziani di tante sinistre italiane che non sanno più dove andare o per chi votare, sono di due tipi: una strategia di salvezza da una crisi che non è affatto finita e che può fare ancora molte vittime. E un assetto diverso dell’Europa. Dunque una cosa è chiara, e appare subito opposta alle due mortali visioni italiane: l’Europa non si rinnega anche se ha imposto un percorso di errori. Ma gli errori non si venerano come se fossero le tavole di una legge superiore. Le democrazie si cambiano o si correggono con le elezioni.

Il primo punto della intensa presentazione di Tsipras è il debito. Sotto il peso del debito, se l’Europa continua a esigerlo da implacabile esattore, come ai tempi di Dickens, ci sono Paesi destinati a morire. Come avevano detto e ripetuto, finora invano, i due Nobel per l’economia Stiglitz e Krugman, nessuna grande crisi, da quella del 1929 negli USA alla rinascita della Germania nell’ultimo dopoguerra, è mai avvenuta senza la remissione del debito.

Quando si dice “piano Marshall per l’Europa” è di qui che bisogna partire: affrontare con una visione chiara e realistica il problema del debito che attanaglia tutti i Paesi del Sud e che gli stessi generatori del debito (governi, banche, classi agiate) tendono ad attribuire alla esosità dei poveri. Qui si colloca il tema immenso del costo del lavoro che Tsipras propone così: “Come salvare l’Europa dall’Europa”, visto che la minaccia non è la povertà (a meno di farla crescere invece di affrontarla) e non è il costo del lavoro, poiché isolando e abbandonando chi lavora si blocca ogni ripresa e si resta a languire nella deflazione. Il problema è una politica del lavoro che non esiste. E un controllo attento, intelligente, delle grandi risorse economiche, affinché non svaniscano, senza tasse, in pura finanza apolide.

Nell’immaginazione realistica e concreta del deputato greco, il parlamento europeo dovrà avere un ruolo vero, vincolante, finora mai avuto. La attuale camera di consultazione che lascia libere le mani di tutti, e si espone alle decisioni di centri di potere extra-politici, legati a ben altri interessi, ci inchioda alla crisi. Tsipras introduce due concetti che non dovrebbero mancare nella campagna elettorale del maggio prossimo: il problema del debito, che non può essere abbandonato sulle spalle dei poveri, del lavoro e di una nuova vasta classe di esclusi. E i Paesi del Sud, che sono indispensabili all’Europa ma usati troppo facilmente come capri espiatori e colpevoli perenni, esposti a un giudizio e a una condanna senza fine.

A questo punto il lettore ha intravisto l’immensa distanza fra l’Italia di Matteo, di Enrico, del Mago virtuale e dei suoi associati dai fatti veri. E ha capito perché è necessaria in Italia una lista Tsipras di persone vere per le prossime elezioni europee.

Il Fatto Quotidiano, 9 Febbraio 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/09/alexis-tsipras-europa-e-italia-la-speranza-parla-greco/874958/


Titolo: Furio COLOMBO - (senza commento ... è meglio evitare).
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2014, 07:24:20 pm
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Il governo come un talent: Renzi non vuole l’esperienza
di Furio Colombo | 23 febbraio 2014

Il fatto è che a questa compagine di governo non manca Emma Bonino, come in tanti hanno detto. Manca Simona Ventura, per organizzare il nuovo XFactor. Manca la De Filippi per ricordare ai giovani concorrenti le regole del talento italiano. Non ci hanno presentato un governo. Ci hanno presentato un concorso di giovani talenti che ti prende di sorpresa per l’alto rischio e la regola chiave: il concorrente non deve essere informato sulla materia in cui è chiamato a competere. Gli spettatori seguiranno lo spettacolo col cuore in gola. Perché c’è quest’altra regola: se non vince il giovane che compare per la prima volta su questa scena, ne risponde lo spettatore. Formula nuova, no? Certo l’eliminazione della Bonino, mandata a casa mentre faceva il ministro degli Esteri in uno dei momenti più delicati della storia della Repubblica, per questo governo era indispensabile. Che cosa ci faceva una competente nel nuovo tipo di gara? D’accordo, dal punto di vista dei nostri interessi internazionali questa improvvisata “staffetta” tra chi sa e chi non sa, sia pure per il gusto del brivido, è una decisione alla cieca.

Prendete la questione dei fucilieri di Marina consegnati alla polizia indiana da un armatore privato a cui erano stati concessi benevolmente dallo Stato italiano come scorta. Se c’è una trattativa, il brusco cambio la ferma. Se è in corso un confronto di credibilità e autorevolezza, lo liquida. Dettagli. A Renzi premeva far pesare un criterio assoluto, semplice e antico: io sono io, e voi (ovvero chiunque non sia un mio fedelissimo), non contate e non dovete contare niente (ho semplificato il concetto). Ma la decisione sembra anche dettata da un criterio ossessivo di età e di “lookkismo” (che si scatena in Renzi se si tratta di donne, alla faccia delle pari opportunità) di cui non si può che dare le due definizioni correnti: delusione (per coloro che avessero creduto nel Renzi “il nuovo”) ed errore. Non perché la Bonino sia la più brava del mondo. Ma perché, a quel livello, la sostituzione non c’era. Si è dovuto ricorrere a personale locale fornito dagli uffici Pd. Il risultato è un cast che potrà soddisfare il pubblico interno (non il popolo Pd, solo la Direzione del Pd). Interessa poco ricostruire il gioco rovesciato del presidente della Repubblica, che ha mezzo perso, perché ha dovuto accettare tutta la lista meno uno, e ha mezzo vinto perché, in cambio, ha imposto un suo uomo e ha fatto durare quasi tre ore “l’incontro formale” affinché le porte, che restavano chiuse, dimostrassero chi comanda. Renzi darà una sua versione dell’Italia, dell’Europa, della vita, nel suo discorso di investitura. Ormai si sa che sarà “giovane”, tenderà alla battuta (che riguarda lui solo ed è un tantino fuori posto), trasuderà compiacimento e non avrà alcuna visione del mondo. Niente crisi con l’India, niente attenzione al dramma ucraino, niente percezione delle rivolte nel mondo, niente Medio Oriente, niente Africa, niente Nord Africa, niente immigrati, tutte materie di cui i suoi amici giovani non hanno molte idee. Poteva, questo spensierato club di girl e boy scouts sedere allo stesso tavolo con Emma Bonino, rischiando di sentirsi ascoltati a ogni intervento, di svelare l’incredibile distanza fra i nuovi talenti in concorso e la realtà? Non potevano. Far fuori un testimone ingombrante era più facile che trattenerla e tentare di tenerla a bada.

Difficile che la nuova titolare della Farnesina che appena appena si stava facendo una esperienza nei percorsi non proprio semplici del Pd, che è intelligente, ma quasi del tutto estranea agli affari del mondo, possa prendere in mano senza danno segretari generali, ambasciatori e organismi internazionali e concepire una strategia e dettare una linea. Le ci vorrà del tempo, tutto a carico di chi deve restare sulla porta delle prigioni indiane. Tutto a carico delle crisi mondiali in cui l’Italia avrebbe un ruolo e un peso politico che non avrà. Cerco un’altra ricostruzione dell’insolito evento. Diciamo che la scelta è stata di formare il governo come uno di quei centri di formazione e riqualificazione del personale tra un impiego e l’altro. Tutta gente che un giorno potrà far bene e intanto impara. Ma nella concezione del fondatore della nuova “scuola della politica”, un simile corso di formazione deve avere un solo maestro, Renzi stesso, che può davvero farti capire perché, per prima cosa, se vuoi riuscire nella vita, devi pensare e guardare a te.

Il fastidioso intromettersi nei fatti che non ti riguardano, diritti umani, diritti civili, fermenti e pericoli negli altri Paesi, persecuzioni e discriminazioni, che non erano purtroppo nell’agenda del Pd già prima di Renzi, non avrebbe giovato al corso di formazione dei nuovi ministri giovani. Difficile dimenticare che il partito di cui Renzi è diventato trionfalmente segretario è lo stesso che, poco prima della rovinosa caduta del dittatore Gheddafi, persecutore di ogni diritto civile, lo ha dichiarato, contrattato vivamente sostenuto dal Pd, il migliore amico dell’Italia. Lo stesso partito che ha accettato, in questi giorni, che i giovani con le bocche cucite, illegalmente detenuti nel Cie di Roma, fossero espulsi, ovvero rimandati da dove erano fuggiti senza accertare se avessero diritto d’asilo o se rischiassero la pena di morte. Con i discorsi alle Camere, inizia non un governo ma un percorso molto ambito di formazione politica, e un vivace concorso Tv. Ti insegna che il centro sei tu e che la simpatia della giovinezza fa miracoli. Per te. Gli altri, se non sono fedelissimi, sono una perdita di tempo. Il mondo si stringe, in questa strana fase della globalizzazione. O almeno si stringe il mondo politico italiano. Da una parte Grillo, che possiede la parola assoluta, dall’altra Renzi, che possiede l’immagine assoluta. Poi ci sono armadi pieni di Berlusconi dismessi e di ambizioni da viale del tramonto. Peccato non aver notato che, proprio lì, sul banco del governo, non era il caso di abbandonarsi a esibizioni di flamenco e tip tap. Non resta che attendere l’opinione della giuria popolare.

Il Fatto Quotidiano, 23 Febbraio 2013

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/23/il-governo-come-un-talent-renzi-non-vuole-lesperienza/891390/


Titolo: Furio COLOMBO - Renzi, il nuovo catalogo e il catalogo del nuovo
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2014, 12:09:59 pm
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Renzi, il nuovo catalogo e il catalogo del nuovo

di Furio Colombo | 16 marzo 2014


Matteo Renzi, giovane leader di un partito indeterminato sostenuto da una maggioranza indeterminata (che, però, alla prova dei fatti, tiene) assomiglia a un manifesto sovietico del primo periodo, quando nel Pcus la grafica era importante. Il tratto di sfida e di guida dell’immagine suggerisce folla dietro di lui, ma è solo lui che si vede. E si ascolta. E si finisce per dire “bravo”, in un coro di ammirazione che cresce. Questo Renzi “è pulito”, come direbbero i guardaspalle, in un thriller, mentre il personaggio che forse segna pericolo e forse porta il fatto nuovo, entra nella stanza segreta. E infatti tutti abbassano le armi e si dispongono ad ascoltare. Che vuol dire accettare, come dimostrano i titoli dei giornali e telegiornali che si scavalcano in titoli e lanci enfatici e accatastano preannunci.

Il primo punto da notare è proprio questo, il preannuncio, che, nel paese degli annunci, appare un espediente mai sperimentato prima. Certo ha colpito e travolto un po’ di corpo giornalistico e due terzi di opinione pubblica (come ci dicono molti sondaggi attendibilissimi del tipo “senza valore scientifico”). Il preannuncio vuol dire che, come nelle Scritture, invece di un evento, vi racconto il mondo che viene. Nelle scritture si faceva secoli prima, adesso si tratta di contare i giorni. Però funziona, se pensate a Marchionne. Certo, nel privato ci sono vie di fuga (per esempio l’America) precluse al politico (salvo la vicenda del primo ministro libico appena fuggito in Germania). Ma, a somiglianza del primo ministro libico, Renzi dice e ripete con forza che se “l’Italia non cambia verso” lui se ne va, esce dalla politica. Dunque non vuole discutere dettagli. O tutto riesce, o via per sempre. Questa forte drammatizzazione (il tutto invece di una cosa, il preannuncio invece dell’annuncio) sta funzionando alla grande, anche perché, in luogo dello stato d’animo precedente, che era un impasto di noia, attesa e paura, ha fatto irruzione la novità, che non è una cosa o un fatto o un oggetto, nella società renziana, ma, appunto, uno stato d’animo. La novità non la tocchi ma è lì, davanti a te.

Ottima pensata, perché fin da bambini tutti noi abbiano sempre associato la cosa nuova alla cosa migliore, con l’ingrediente della sorpresa e l’inevitabile aspettativa di un premio.

Per capire, dedichiamo un minuto al ricordo. Dopo l’infinita e costosissima carnevalata Berlusconi-Lega, c’era stato il severo governo in loden che, come nella storia del Piccolo Lord, invece di punire Berlusconi, puniva e sgridava tutti noi cittadini che avevamo vissuto per vent’anni sotto Berlusconi. Subito dopo il processo e la punizione del Tribunale Monti, siamo stati ricoverati, per decisione e sollecitudine del Primario, nella Clinica Letta, specialista in grandi intese, dove gentili camici bianchi somministravano medicine sgradevoli, però in dosi e combinazioni, si è capito dopo, inutili.

A questo punto l’irrompere di Renzi e della sua squadra giovane (salvo l’addetto alla sala macchine dell’Economia) è sembrato un pigiama party, l’ingresso in un mondo festoso (che deve venire) in cui tutto è possibile perché Renzi, proprio lui, Renzi, ci ha messo la faccia. Certo, a mano a mano che si diradano i fumi dei fuochi artificiali di festa, dal pigiama party si staccano gruppi scontenti, a cominciare dai pensionati. Hanno appena imparato che lo slogan “Le pensioni non si toccano” è come una preghiera che non occorre essere credenti per ripetere . Ma hanno anche imparato che le famose “pensioni d’oro” non sono quelle da 90 mila al mese, che cosa avevate capito? Quelle sono poche e ben difese. Stiamo parlando di pensioni da duemila o poco più, cioè tantissime, esattamente la classe media, esattamente quelle di chi ha lavorato molto, ha guadagnato decentemente, secondo le retribuzioni del tempo, ha pagato molte tasse alla fonte (quasi sempre lavoro dipendente), ha versato molti contributi (quelli che tengono in piedi la baracca previdenziale) e contribuito a tenere a galla le famiglie che si sono salvate fino a poco fa (compresi molti giovani senza lavoro però dottorandi), e che fra poco cadranno fra i corpi morti della classe media. Ma i nuovi giovani non commettono l’errore di guardare ai dettagli e agli errori. Ce ne saranno stati anche nel piano Eisenhower per lo sbarco in Normandia. Troppi morti, dice qualcuno. Sarà, ma Eisenhower ha vinto.

Vediamo piuttosto il metodo operativo di questo successo che, non negatelo, si accumula. Renzi è come i Future, come i derivati. Ogni cosa si gioca sul fatto che la cosa precedente sarà certamente andata bene. Però, come per i derivati, devi tenere lo sguardo sull’ultima cosa promessa. È su di essa che si scommette e, se si vince, si vince grosso. A scommettere sulla prima sono capaci tutti, hai un tuo piccolo margine e “non cambi verso”. Per “cambiare verso” all’Italia, devi tenere lo sguardo fisso avanti e lontano, verso un mondo tutto nuovo che, ti garantisco, sta per venire. No, non quello di adesso, quello dopo. Se questo è il contesto, è chiaro che la vendita conta più del prodotto.

Il Segreto di Matteo Renzi è tutto qui. Invece di rivisitare il passato o di lasciarsi inchiodare dagli irrisolvibili problemi del presente, si gioca il futuro. Ha lasciato indietro le retroguardie pericolose della spending review inventata da altri, ma tenuta in vita per raccogliere tutto ciò che si può ramazzare dalle spese inutili. Sono spese inutili tutte quelle che il Commissario dichiarerà tali. Ci sono vittime, ma nel passato. Le risorse recuperate saranno offerte in dono, dal Commissario delle spese, al giovane vincitore del futuro, che tiene lontane le vecchie vittime (chi ha bisogno dei pensionati?) e brandisce le ex spese inutili come una conquista di cui gli altri, prima di lui, erano stati incapaci.

da - ilfattoquotidiano


Titolo: Furio COLOMBO - Elezioni Francia, il disastro calmo
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2014, 10:49:04 am
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Elezioni Francia, il disastro calmo

Di Furio Colombo
 25 marzo 2014

Una buona immagine della vittoria di Le Pen in Francia potrebbe essere quel costone siciliano che, in una diretta televisiva, si muoveva verso il basso, spostando case che sembravano intatte, spaccando strade che apparivano nuove, rendendo impossibile avvicinarsi e salvare, benché tutto fosse lì a un passo, e il disastro era calmo e si vedeva bene. Ma troppo tardi. Voglio dire che quasi nessuno al mondo può desiderare il programma odioso e fascista di Le Pen e votarlo se non come rivolta e vendetta. Purtroppo la storia conosce questo tipo di rappresaglia. È un modo pazzesco di dire basta.

A questo punto, ci si accorge di brancolare in una paurosa mancanza di realismo da cui le spacconate di un giovane leader, in vena di stare in scena, non ci salveranno. Manca la comprensione, prima che il giudizio sui fatti. È come discutere su un motore che intanto sta fermo e le ore passano e scende la notte. Qui la notte sono elezioni alla cieca in cui molta gente non andrà a votare (il 40 per cento in Francia) e molta voterà non per salvarsi, ma per fare male, dopo le umiliazioni subìte.

Ci sono tre domande rimaste senza risposta, mentre le imprese se ne vanno (la Fiat, che almeno è fuori di Confindustria), minacciano di andarsene (Squinzi, che è presidente di Confindustria) o vengono abbandonate benché funzionanti e cariche di ordinativi (una lunga lista). Però manca il tentativo di risposta. Prima domanda: che cosa è l’Europa, un esattore, un persecutore o un salvatore? I governi tacciono, i vari enti preposti esigono. I cittadini pagano di nuovo e nessuno torna per spiegare. Vi ricordate quante volte l’ostinato Pannella e i suoi Radicali volevano riportare il discorso sul manifesto di Ventotene e su Altiero Spinelli e il perché del sogno Europa? Seconda domanda: e dopo? Che cosa accade di bello se mi sveno come mi chiedono ogni giorno? Si torna a vivere? Come, di che cosa? La Grecia sarà mai più come prima? Terza domanda: ma non dovremmo dibattere, invece dello zero virgola e del come uno furbo approfitta della differenza fra il 2, 6 e il 3 per cento, della differenza debito-Pil sull’Europa che vogliamo, guida, destinazione, programmi, doveri, protezione, futuro? Perché il governo italiano, che si è buttato avanti con tanta baldanza, non accende i fari? È molto buio fuori.

Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/25/elezioni-francia-il-disastro-calmo/925453/


Titolo: Furio COLOMBO - Una bella mente surgelata dal passato. Che peccato!
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:43:48 pm
Furio Colombo
Giornalista e scrittore

Non solo Pd: il partito bussa sempre due volte
di Furio Colombo | 13 aprile 2014

Strani tempi. Strani legami si sono formati fra parti politiche opposte, dopo avere scoperto di avere lo stesso programma. Adesso a volte lo scontro è se l’idea di chiudere il Senato sia tua o sia mia.

Più o meno tutto ciò che era la politica, un tempo, adesso governa insieme, con legami sempre più stretti, e intanto minaccia – l’uno all’altro, quasi per le stesse ragioni – il divorzio. Gli oppositori sono venuti di recente e da fuori. E senti che sono portatori di rigore e alla ricerca di un campo di gioco nel quale far pesare la propria diversità, non si sa se venendo più vicino o spostandosi più lontano, anche perché, incalzando la crisi, diventa difficile rispondere alla domanda: lontano dove? Lontano da cosa? Resta il felice slogan “tutti a casa”, che vuol dire proprio tutti. Ma resta anche il problema del vuoto. È mai esistita, salvo imposizioni violente, una politica vuota di avversari sul cui torto costruire le proprie ragioni? Eppure, ora che si avvicinano le elezioni europee qualche altra cosa si vede. È bel un problema e non si sa come se la caveranno. Ogni partito sono due. Due ce ne sono dentro, due se ne vedono da fuori, e lo sguardo forzatamente sdoppiato degli elettori crea una nuova, inedita fatica, che rischia di esprimersi in una vasta astensione. 

Ci sono due Pd, è innegabile. Non Renzi e contro Renzi. Il problema è molto più complicato perché dentro ogni aggregazione politica due mondi o visioni o futuri combattono dentro la stessa persona collettiva che è il partito in modo quasi psichiatrico. Due Pd vogliono vincere, l’uno con un legame ormai fisiologico e non districabile con gli ex avversari, prima tutti uniti nella lotta, poi solo con alcuni, che però vengono accettati come la irrinunciabile pietra di governo. L’altro è il partito che ha l’orgoglio esclusivo delle riforme. È convinto, e lo dice, di avere aperto finalmente le porte del nuovo mondo. E infatti le riforme si moltiplicano, si accelerano, si celebrano (si autocelebrano) e diventano un valore in sé, di cui si trascura persino di illustrare l’urgente necessità (pensate alla brusca abolizione del Senato), perché diventa un bene in se stesso e un marchio di fabbrica. In ciascuno dei due Pd c’è polvere di opposizione, ma è lo sdoppiamento che dovrebbe attrarre attenzione, visto che il progetto è di far durare a lungo (per anni) questa strana storia.   

Ci sono due partiti di Alfano, come si chiama, Ncd? Non lasciatevi distrarre da modesti espedienti elettorali, per esempio l’alleanza con Casini per la campagna elettorale europea. Il punto è che ci sono due Alfano, un sottomesso ministro dell’Interno, a cui sfuggono ogni tanto gesti e comportamenti del prepotente passato (il caso Shalabayeva, madre e bambina, arrestate di notte dalla polizia italiana e consegnate subito a un governo persecutore, gravissimo evento che, avrete notato, nessuno gli ha fatto pagare) ma che il più delle volte appare come un fedele top burocrate, bene attento a stare nei limiti dello strano legame con “la sinistra”. Ma l’altro Alfano, che compare all’improvviso senza cravatta nei giorni festivi, ha proclami di rottura da lanciare: uno è che le “riforme” non sono che l’attuazione del programma di Berlusconi (qualcuno va un po’ più indietro, ai tempi di Licio Gelli); un altro è che questo è il governo che la destra ha sempre voluto.   

E infine, in un modo o nell’altro, fa sapere che nessun legame dell’illustre passato è stato tagliato per sempre, il che appare ovvio, dati i precedenti di tutti loro. Se dico che ci sono due Forza Italia, l’immediata obiezione è che si tratta di un grosso oggetto frantumato. Eppure è vero se consideriamo ciò che resta della forza politica nell’insieme e del suo elettorato.    Osservate la scena: una Forza Italia è per la partecipazione immediata assoluta e per sempre al governo denominato, all’inizio, “delle larghe intese”, in quanto naturale governo di destra con programma di destra e autore delle riforme annunciate e mai fatte. Un’altra Forza Italia è per la lotta senza quartiere, casa per casa, seggio per seggio, finché tutto ciò che, con un po’ di fantasia, si può chiamare “sinistra” non sarà raso al suolo, politica, professori e giudici. Nella descrizione che ne ho fatto si noterà che ognuna delle situazioni che ho proposto, più che spaccatura e contrapposizione (come accade quando un partito si divide sulla base di visioni che appaiono inconciliabili) si tratta di una curiosa situazione di ambivalenza, di tipo più psicanalitico che politico.   

Guardate Brunetta mentre annuncia fuoco e fiamme nel caso che accada qualcosa che sta già accadendo. Guardate la Boschi mentre letteralmente intima ai professori di togliersi di mezzo, con il più bel sorriso del mondo, beata per la sua età più che per il potere che prematuramente brandisce. Guardate la Gens Alfana, popolazione che presidia i confini “moderati” della destra (mentre a quelli estremi provvedono i “Fratelli d’Italia”). Ognuno vuole e non vuole questa (la situazione così com’è, dove più o meno tutti governano) e quell’altra soluzione (rottura, rivolta e ritorno alle origini). E vi rendete conto all’istante che ogni riforma uscirà storta (ma ci sarà, in modo da nutrire critica e gloria), la pace sarà turbolenta (ma fondata sulla larga intesa), e le elezioni in Italia restano lontane (se si sentirà la necessità di farle). Per quelle europee, allacciarsi le cinture.

il Fatto Quotidiano, 13 Aprile 2014

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/13/non-solo-pd-il-partito-bussa-sempre-due-volte/949843/


Titolo: Furio COLOMBO - Lauren Bacall, con lei a casa Kennedy
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 07:07:12 pm
Lauren Bacall, con lei a casa Kennedy

Di Furio Colombo | 15 agosto 2014

Una volta è capitato Pertini. Lo avevano portato a mangiare (lui non mangiava, ma si divertiva molto a guardare, domandare, andare in cucina) da Peter Luger, sotto il ponte di Brooklyn, e credo che, con l’intero “motorcade” – la lunga carovana di macchine nere – abbiamo mandato all’aria molti progetti della malavita locale per quella notte. Poi abbiamo suonato al portoncino illuminato della 74′ strada a Manhattan. Lauren Bacall ha aperto la porta. Si scendevano tre scalini e c’erano grandi stanze una dopo l’altra. Dal fondo Michael Feinstein, suonava al piano Cole Porter, e faceva segni di saluto senza interrompere My Funny Valentine. Sembrava un club proibizionista ma era la casa di Jean Kennedy Smith, la sorella “politica” del presidente Kennedy (che infatti sarebbe stata nominata anni dopo, da Clinton ambasciatore in Irlanda).

Jean Kennedy ha composto subito un piccolo comitato di accoglienza, con il marito Steve, con Arthur Schlesinger, con Lauren Bacall, e l’allora celebre attore Adolph Greene, in semicerchio. A parte la prolungata stretta di mano e l’impaccio della pipa, Pertini non voleva davvero conoscere Lauren Bacall, che a quel tempo era quasi intatta, come appena uscita da uno dei suoi film, stessi occhi con una capacità di dominio imbarazzante, ma senza languori di dolcezza, stessi capelli lucenti con la stessa pettinatura dei tempi indimenticati, la voce di donne che hanno fumato molto e amano ridere ad alta voce.

Dopo la stretta di mano (quella della Bacall era salda, decisa, fatto raro nelle donne americane della sua generazione) Pertini però si è spostato un po’ indietro per non fare gruppo, costringendo Arthur Schlesinger a seguirlo. “Non voglio attraversare lo schermo”, è stata la sua spiegazione (anche se allora non si era ancora visto il film di Woody Allen La Rosa del Texas). “Voglio ricordarmela così, cioè come l’ho sempre vista al cinema”.

Eppure, a casa di Jean Kennedy, il luogo in cui di frequente ci incontravamo, con altri amici del presidente, di Bob e di Ted Kennedy (che a volte veniva da Washington) era difficile che il gruppo non si stringesse subito intorno alla politica, un po’ perché Jean aveva sempre notizie fresche del partito democratico, un po’ perché Arthur Schlesinger era una specie di “presidente” del gruppo, e sedersi sui braccioli delle poltrone o per terra, (allora ero tra i più giovani), per ascoltare il “che cosa c’è dietro o prima di un evento” o il vero contesto di una notizia, era una esperienza da non perdere e lo sapevi in tempo reale.

Ma anche perché quasi solo la politica – da accanita militante democratica – interessava Lauren Bacall. E la sua voce alta e forte, da donna di teatro, guidava subito la conversazione. Lo show business le interessava più come le interessavano i libri e gli scrittori che come rivelazione del “dietro le quinte”. Certo, non mancavano, qua e la, notizie e pettegolezzi, e “si dice” e “si sa di sicuro” su nuovi film e nuove aperture a Broadway (e, per esempio, lunghe discussioni su Edward Albee, che le avevo fatto conoscere al tempo di Morte di Bessie Smith), su Tom Stoppard, su Bob Wilson, su Antonioni (altro incontro felice ) e non mancavano occasionali presenze di attori ancora attivi e da “nome in ditta” come Peter Ustinov e Michel Douglas. Siamo andati da Larry Rivers, che era, in quel momento – almeno a New York – il più famoso e quotato dei grandi Pop Art americani, per vedere i ritratti che Rivers stava facendo di Primo Levi.
Aveva cominciato a disegnare (a carboncino, su grandi cartoni) e poi a dipingere, dopo che io gli avevo regalato la prima versione americana di Sommersi e Salvati. “Non sapevo nulla di Primo Levi”, aveva raccontato Larry Rivers alla Bacall, nella prima visita al suo studio (13 strada East) dove bisognava sapere come manovrare un montacarichi esterno all’edificio per arrivare in alto, al terrazzo, totalmente isolato dal mondo, (“come un rifugio di Superman”, dicevamo).

Eccoli di fronte, due grandi americani ebrei che sapevano a malapena di essere ebrei, e nello stesso tempo lo erano in modo profondo, per esempio, in quegli anni, nel loro modo di essere sempre contro il troppo potere e sempre dalla parte dei più deboli, minoranze, diversi o isolati. Su quella terrazza Rivers ha raccontato Levi (che io avevo raccontato a Rivers) a Lauren Bacall (che intanto aveva cominciato a leggere il libro, e io avevo l’impressione di meritare più attenzione ai suoi occhi, per il fatto di averlo conosciuto, e perchè era appena uscito in America The Italian Holocaust storia della persecuzione degli ebrei italiani, con la mia prefazione). Al gruppo della terrazza si era unito (seconda e terza visita) Gianni Agnelli, a cui avevo raccontato di questo insolito evento, che era amico di lunga data della

Bacall e aveva grande interesse per il lavoro di Rivers. E così è accaduto che tre dei dodici ritratti, o immagini ispirate dai testi di Primo Levi (destinati a un’unica mostra) di un artista che stava scoprendo il suo ebraismo, siano stati acquistati da Agnelli e inviati a Torino. Per anni sono stati nel salone de La Stampa e poi al Lingotto, dove solo pochi mesi fa si è posta, in famiglia e nella comunità ebraica di Roma, (che li ha esposti nel Museo della Sinagoga nel maggio scorso) la domanda: “Come mai a Torino? Da dove vengono?”. La spiegazione è in quegli incontri sulla terrazza della 13 Strada East di Manhattan, in quel piccolo gruppo insolito.

Ma negli incontri frequenti, in casa Kennedy-Smith e in casa Schlesinger, era la politica il cuore della discussione, allo stesso tempo intensa e unanime. Lauren Bacall, con questo gruppo di amici quasi fisso, voleva sempre partire o tornare alla celebre e indimenticabile frase di un discorso di Robert Kennedy nel viaggio in America Latina del 1967: “Niente, di ciò che concorre a formare il Pil, ha a che fare con la vostra felicità”. La figlia di un ebreo polacco e di una ebrea rumena, fuggiti appena in tempo alla persecuzione, e adottata come la diva più grande, quando non aveva ancora vent’anni (ai tempi del suo primo film con Humphrey Bogart), da un immenso pubblico americano, ha creduto per decenni e fino alla fine a questa versione grande del sogno americano.

Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2014

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/15/lauren-bacall-con-lei-a-casa-kennedy/1091760/


Titolo: Furio COLOMBO - Il nostro triste e muto Parlamento senza qualità
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2014, 04:01:55 pm
Il nostro triste e muto Parlamento senza qualità
Di Furio Colombo | 22 settembre 2014

Il Parlamento è bloccato e non può funzionare. Il Parlamento fermo vuol dire che è fermo il motore del Paese, persino se i giri del motore governo fanno pensare a una velocità impazzita. Quello che sfugge è il disegno che si manifesta con ostinazione in una forma molto strana. Primo, si impongono al Parlamento decisioni ineludibili. Secondo, il Parlamento recalcitra. Terzo, il governo insiste nella imposizione e il Parlamento insiste nel rifiuto. Tredici volte (ricordare che le votazioni per la presidenza della Repubblica sono state solo due “per non fermare il Paese”). Quarto, il presidente della Repubblica rimprovera il Parlamento e dichiara futili e faziose le sue ragioni. Ovvero non offre un pensiero o una preoccupazione ma un giudizio sulla disciplina di un Parlamento in cui la disciplina riguarda il regolamento ma non l’obbedienza ai partiti o al governo, rispetto ai quai è autonomo. Quinto, si impone al Parlamento di continuare con lo stesso ordine del giorno (che non è del Parlamento ma dell’esecutivo) e si dichiara in anticipo che non sottomettersi è una sorta di tradimento.

Sembra sfuggire, anche ai costituzionalisti silenziosi che intervengono con fervore se è in discussione la soglia di sbarramento della legge elettorale, che nessuno può imporre un ordine del giorno al Parlamento se non il Parlamento stesso. Questa non è una esaltazione del Parlamento. È la descrizione della legalità in normali condizioni di vita istituzionale e politica. Importa poco analizzare le cause interne, fatte di opinioni, giudizi e decisioni di gruppi parlamentari contro altri gruppi parlamentari, che hanno portato a questo disastro (fermata assoluta e per ora irrisolvibile delle Camere) perché non si tratta di un braccio di ferro tra Parlamento e governo. Si tratta di un Parlamento da molti anni assoggettato al governo – ovvero ai partiti di maggioranza – che non decide ma riceve gli ordini del giorno di ciò che deve fare. Attenzione. L’impossibilità di decidere non è né legge né Costituzione né regolamento.

E’ triste prassi dettata, in altri contesti, dalla partitocrazia, e denunciata già in tempi lontani (nel cuore della Prima Repubblica) dalla pattuglia dei deputati Radicali allora presenti alla Camera, che arrivavano al punto di autoconvocarsi al mattino presto per discutere ciò che altrimenti, nell’orario regolare di seduta, era vietato discutere. Questa volta i parlamentari in dissenso (prevalentemente il Movimento Cinque Stelle) contro l’imposizione dell’esecutivo, hanno meno fantasia dei Radicali (ora si protesta di solito solo con cartelli e dichiarazioni) oppure meno prestigio (i deputati della Lega Nord).

Però l’evidenza ci dice che, accanto a nuclei identificati di opposizione (che sono comunque parte essenziale della vita di un Parlamento), c’è un vagare di parlamentari zombie che sembrano non sapere da dove vengono e dove vanno e chi rappresentano e perché. Insomma il lungo massacro del Parlamento, mai rispettato nelle sue prerogative di indipendenza da un potere e dall’altro, sta dando i suoi frutti. Infatti né Camera né Senato hanno mai discusso chi e perché doveva andare alla Corte costituzionale o al Csm.

I nomi ti appaiono sul cellulare non per essere discussi ma per eseguire. Se vogliamo parlare di dolorosi ed esemplari precedenti italiani, possiamo ricordare il trattato di fraterna e perenne amicizia con Gheddafi, votato in pochi giorni da un Parlamento già deformato da “larghe intese” (tutto il Pd meno due, tutto il Popolo delle libertà, tutta la destra, tutta la Lega) prima delle vere larghe intese, volute dalla stessa ditta, mentre tutti i votanti sapevano dell’orrore che fra poco avrebbe fatto crollare il regime con cui si votava il

perenne legame. Anche in quella occasione solo il gruppetto di Radicali (con un paio di deputati Pd, poi prontamente esclusi da ogni attività di quel partito) si sono appassionatamente e inutilmente opposti. E anche in quel raro episodio si toccava con mano il fastidio creato da parlamentari che mettono in discussione decisioni già prese altrove da adulti che sanno. “I trattati non si discutono, si ratificano” ti dicevano fermi e autorevoli coloro che facevano da cerniera fra partito (dove gli adulti prendono le decisioni) e il parco giochi delle Camere.

Se vogliamo parlare di altri Paesi, in cui i partiti, come organizzazione e come centro di decisione politica, non mettono piede in aula, ricordiamo gli Stati Uniti. In piena presidenza Reagan (una presidenza forte e popolare) la nomina presidenziale del giudice Thomas a giudice a vita della Corte suprema (nomina che richiede l’approvazione della Commissione giustizia del Senato) ha dovuto attendere mesi di pubbliche testimonianze, di denunce, di violenta opposizione contro la decisione di Reagan, prima di spuntarla, con un solo voto di maggioranza. Per parafrasare Humphrey Bogart nel suo celebre film, “È la politica, bellezza”.

Non da noi. Da noi ordini incoerenti, confusi e ostinati bloccano e umiliano un Parlamento senza qualità. Infatti non ha l’iniziativa e il coraggio (sarebbe bello se avvenisse sotto la guida dei due presidenti) di autoconvocarsi, di stilare e votare una sua lista di candidati per la Corte costituzionale e il Csm, e poi di decidere da quale parte della disordinata matassa di Renzi, ricominciare il lavoro per non fermare il Paese.

 Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/22/il-nostro-triste-e-muto-parlamento-senza-qualita/1129093/


Titolo: Furio Colombo L’Italia di Renzi: un Paese senza casa e senza volto
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2015, 11:38:55 am
Politica
L’Italia di Renzi: un Paese senza casa e senza volto

Di Furio Colombo | 26 gennaio 2015

In televisione Firenze, vertice bilaterale Renzi-Merkel (Ballarò, 20 gennaio), vedi un curioso faccia a faccia fra il ministro Lupi, che c’è sempre, parla sempre e sa tutto, e una giovane ragazza madre, con due bambini e uno in arrivo, che sta fronteggiando uno sfratto esecutivo. Quando toccava al ministro di parlare (lui ha sequenze lunghe, senza punteggiatura, come nel romanzo di Balestrini Vogliamo tutto) veniva elencata, con velocità e precisione, una catena di miracoli, case, casette, grattacieli, quartieri, nuove città. Quando toccava a lei, che aveva già tolto il materasso dalla branda e lo teneva con fatica un po’ sollevato, la ragazza ripeteva, con una sua disperazione pacata: “Sì, ma io intanto dove vado a vivere?”.

La casa è un problema tragico in Italia. Pendono sulla vita e il destino di tante famiglie 150 mila sfratti subito. C’è un governo moderno, in Italia, che crede nelle soluzioni dei problemi, non nell’assistenzialismo pietoso. E dunque quei 150 mila sfratti saranno eseguiti tutti e subito, anche per incentivare la costruzione di nuove case e remunerare secondo giustizia i proprietari. E c’è un governo riformista in Italia, che le cose le fa subito. Per farle, le annuncia. Ed ecco che entra in scena il ministro Lupi e racconta.

Non si può accusarlo di mania dell’annuncio, il ministro deve pur dire che cosa intende fare, tanto più che parla veloce come gli annunci dei pericolosi effetti collaterali delle medicine. Il problema è il non fare. Ma attenzione, non si tratta di malafede. Si tratta della naturale differenza fra il tempo di parlare e il tempo di agire. L’unico punto di malafede è passare all’incasso dopo il dire invece che dopo il fare. Tu dici che in questo modo, dopo due o tre scherzi del genere, paghi in perdita di fiducia e di voti. E poiché nessuno sembra avere questo timore, e anzi annuncia a vuoto successi mai visti, a questo punto diventa chiaro che il problema della casa è allo stesso tempo la rappresentazione più chiara e drammatica di ciò che è urgente, umano, indispensabile alla vita delle persone, e non si fa (benché valanghe di soldi si rovescino su Alta Velocità, armi inutili e autostrade spacca-ambiente).

Ma è anche efficace metafora di ciò che sta succedendo ai cittadini in politica: sono senza casa. Il giovane e deciso Matteo Renzi ha realizzato, con procedura d’urgenza, lo sfratto esecutivo di quanti, dislocati o orientati nel Pd, credevano di abitare a sinistra. Via, fuori, non interessano, sono i veri anziani anche se hanno 18 anni. Il passato (dal New Deal a Obama) non ha più senso. Il futuro sono Reagan e la Thatcher. E in questo mondo rovesciato, tipo Alice nel Paese delle Meraviglie, il cappellaio matto sfila con la Merkel a Firenze, intento a paragonarsi a Michelangelo, senza raccogliere la minima ironia da chi, giustamente, protegge il proprio lavoro di giornalista sempre in pericolo.

Anche perché, in circostanze internazionali, Renzi parla una lingua globalizzata causa di un buon umore utile all’esito degli incontri, e mette in chiaro due cose. Primo: qui non c’è trippa per gatti di sinistra. I Fassina e Cuperlo saranno anche molto gentili nel chiedere, i Bersani si adeguano “per disciplina” prima ancora di sapere a che cosa, ma nessuno si aspetta che abbiano qualcosa da dire o possano farlo. Secondo: Renzi e Verdini, entrambi disturbati da una massa frantumata e indisciplinata di persone che pretenderebbero di mettere becco, sono sicuri che un partito finisce lì, al loro livello.
Gli altri, che siano dentro il Parlamento, dentro il partito, o legati ancora alla vecchia abitudine di dire “noi”, si tolgano dalla testa di avere opinioni o consigli da dare o di menarla con la loro pretesa di partecipare alle decisioni. Come tanti proprietari, Renzi e Verdini preferiscono la casa vuota (ce ne sono decine di migliaia in Italia e, come vedete, la metafora della casa rimbalza continuamente sulla realtà) perché in tal modo non si deve minacciare o mandar via nessuno, e non c’è pericolo che qualcuno si metta in testa di contare qualcosa per il solo fatto di avere una tessera (scoraggiata) o di essere titolari di un voto.

La nuova definizione di partito è la zona di comando, non i cittadini, simpatizzanti o no. Il tramite, usato con una decisa sfrontatezza degna di Berlusconi, è un’informazione in cui la politica parla solo di se stessa e quasi solo del suo leader, che a volte torna e ritorna con la stessa frase nello stesso telegiornale, o viene tradotto in italiano da voce sovrapposta, mentre sta parlando in una lingua nuova e coraggiosa della quale anche i traduttori professionali più esperti hanno poche notizie.

Dunque il sogno del partito leggero e della casa vuota si sono realizzati. Non dimenticate che molti luminari della politica a sinistra hanno teorizzato molto presto che tocca ai professionisti decidere e agli altri seguire, qualunque fosse il loro grado di competenza. Gradatamente coloro che avrebbero potuto interferire con la decisione dei soli esperti, i professionisti della politica, sono andati via. Renzi è un ardimentoso. Però ha trovato un partito non ancora liquido ma molto molle, non ancora “ larghe intese” (e poi “partito unico della Nazione”) ma già molto incline a una strana vita condivisa con chi rigetta la Costituzione. È stato facile liquidare o spingere al muro chi era già così vicino a cedere, in base a non si sa quale pacificazione, che non esiste in politica, perché si chiama rinuncia di ideali e princìpi e, nel nostro caso, dell’Intera Costituzione. È come se Obama avesse accettato di non proteggere il diritto delle donne all’aborto, nella sua nuova legge sulla salute, pur di votare insieme ai repubblicani. Adesso la casa è vuota e gli italiani sono senza casa. Quando vivono e quando votano.

Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2015
Di Furio Colombo | 26 gennaio 2015

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