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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 83553 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Giugno 23, 2008, 12:12:07 am »

Berlusconismo

Furio Colombo


Vorrei subito chiarire. Non sto dedicando questo articolo al berlusconismo a causa del fatto che Berlusconi è improvvisamente ritornato ai toni incattiviti di quel primo non dimenticato governo, quello che ha portato l’Italia alla crescita zero ma ha garantito al primo ministro tutte le leggi di utilità e convenienza personale, ha dato un colpo durissimo - e notato nel mondo - alla libertà di stampa e ridotto prestigiosi commentatori di prestigiosi giornali a dargli sempre ragione come a Mussolini.

Certo, la lettera del presidente Berlusconi, di cui ha dato compunta lettura il Presidente del Senato Schifani a un’aula di persone probabilmente stupefatte, spinge la scena della vita italiana fuori dalla Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge») e fuori dalla democrazia («La legge è uguale per tutti»). Però, onestamente, come fare a mostrare meraviglia per un leader (questa è la terza prova e la quarta volta) che ha sempre violato la Costituzione e leggi del suo Paese e ne ha imposte altre che poi sono state giudicate, a una a una, incostituzionali dalla Consulta? Ma tutto ciò senza perdere di vista i suoi interessi personali: primo, Mediaset, salvare dall’onta del satellite il soldato Fede; secondo, le intercettazioni: prigione e multe altissime per chi intercetta i sospetti di delitti odiosi pericolosi, destinati a ripetersi, e per chi, quando gli atti del processo sono legalmente e anzi doverosamente usciti dal segreto istruttorio e legalmente disponibili, osasse pubblicarli. In tutti i Paesi democratici vale il principio che «il processo è pubblico». È una garanzia per le vittime, per gli imputati, ma anche per tutti i cittadini.
Avvocati e giuristi di Berlusconi hanno già dimostrato di non provare alcun imbarazzo nel cambiare le leggi di quei processi che non si sentono in grado di vincere (hanno visto le carte e conoscono la vera storia).

Quanto ai giornalisti indipendenti italiani, sentite Bruno Vespa in una delle sue “rubriche” diffuse in tutta la provincia italiana: «La nuova controversia tra Berlusconi e i magistrati di Milano sembra l’ultima sgradevole puntata di una telenovela cominciata quindici anni fa, quando il Cavaliere decise di abbandonare la dura trincea del lavoro per scendere in campo nella politica. In realtà non è così (...). Il presidente che deve giudicare Berlusconi, Nicoletta Gandus, è un avversario politico. Da molti anni è una star di Magistratura democratica (...). Nel motivare la richiesta di cancellazione delle leggi Schifani, Pecorella, Cirami, Cirielli sostiene che esse sono state motivate al fine di perseguire l’interesse personale di pochi, ignorando la collettività. Si tratta di leggi che hanno devastato il nostro sistema di giustizia (...). Senza entrare nel merito di queste opinioni, può un dichiarato avversario politico giudicare in tribunale il capo del governo che combatte?» (Quotidiano Nazionale, 19 giugno). Avete capito il delitto imperdonabile in un Paese libero? Il giudice Gandus, che deve giudicare Berlusconi, non fa parte della P2. È membro di una libera, civile, legale associazione detta Magistratura democratica. Inevitabile inviare un pensiero al decoroso silenzio dei 62 arrestati e trecentocinquanta incriminati caduti tre giorni fa nella maxi-retata dell’Fbi contro i più potenti personaggi di Wall Street, portati via in manette tra due ali di operatori di Borsa che per alcuni minuti (succede di rado) hanno sospeso le contrattazioni. Nessuno di loro, personaggi del gran mondo finanziario americano, presidenti di Banche d’affari, patron celebri e celebrati di tutti i musei e gli ospedali di New York (dove alcuni hanno un reparto col loro nome) ha fiatato. Né lo hanno fatto i celebri avvocati a cui si sono affidati. Eppure sanno che, nella tradizione e prassi giudiziaria americana, alcuni giudici sono repubblicani e altri democratici. Alcuni giudici, nei distretti federali in cui questi imputati saranno giudicati sono stati nominati da Carter, alcuni da Reagan, alcuni da Clinton (che in silenzio si è sottoposto a tre diversi processi) e alcuni da uno o dall’altro dei due Bush.

Ma, nella civiltà democratica, i giudici non si scelgono e non si discutono e la ricusazione è ammessa solo per legami d’affari, d’amore o di famiglia di uno dei giudici con una delle parti. Altrimenti mai, per non affrontare il famoso reato americano di “oltraggio alla Corte”, che scatta quando l’imputato, invece di lasciarsi giudicare, si mette a giudicare il giudice. Tutto ciò avviene nel Paese in cui, una volta condannati, non si va in Parlamento, si va in prigione.

Particolare curioso (come si diceva una volta sulla Domenica del Corriere): tutti e quattrocento gli arrestati o incriminati di Wall Street erano sotto intercettazione da mesi. Molti dei reati contestati ai grandi di Wall Street, infatti, sono reati tipicamente telefonici, e dimostrabili solo con l’intercettazione, come l’”insider trading” (fornire a uno notizie che devono restare segrete per arricchirsi in due). E nessuno sostiene, pena il ridicolo, di essere vittima di una persecuzione politica. Chi poi, in quel Paese civile, avesse scritto, da titolare del potere esecutivo, una lettera al Presidente del Senato (istituzione legislativa) per levare accuse contro i suoi giudici (istituzione giudiziaria), avrebbe prontamente ottenuto, oltre al ridicolo (in democrazia non si può giocare il potere esecutivo contro il potere giudiziario usando il potere legislativo) una imputazione in più.

* * *

Qui mi devo confrontare con l’iniziativa appena presa dai Radicali, una proposta di legge costituzionale a firma Rita Bernardini, con cui si intende abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Vuol dire che un giudice agisce immediatamente e di propria iniziativa appena ha notizia di un reato. I codici dicono quali. Ovviamente non si tratta di cose futili.

L’idea di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale (assente quasi solo nelle legislazioni anglosassoni) è certo meritevole di attenzione e discussione. Per esempio per il fatto che identifica meglio la responsabilità dei giudici e diminuisce il numero dei processi. Stimo i miei colleghi Radicali ma non sono d’accordo.
Chiedo: si può in Italia? In questa Italia? Proprio qui passa la linea di demarcazione. Ci sono coloro che sostengono che, a parte la coloritura manageriale e padronale, non c’è niente di speciale o così diverso in Berlusconi rispetto a ogni altro capo di governo. Non esiste il berlusconismo. E se esiste è qualcosa che riguarda Giannelli o Staino, Vauro o Vincino ma non la politica.

E poi ci sono coloro che vedono il berlusconismo come una potente e ben finanziata spinta del Paese fuori dalla democrazia anche a causa di un controllo mediatico quasi totale, che tende ad estendersi attraverso i premi che derivano dal conquistare benevolenza (Berlusconi è un buon padrone) e dalle punizioni (fino alla riduzione al silenzio) di coloro che - nel suo insindacabile giudizio - sono dichiarati nemici.

In questa Italia l’obbligatorietà dell’azione penale resta l’unica garanzia che potenti e prepotenti, soprattutto sul versante politico e di affari, non restino impuniti. Cito Emilio Gentile: «Nel 1922 Amendola, Sturzo, Salvatorelli presero a usare il vocabolo “totalitarismo” quando il sistema parlamentare italiano non era ancora molto dissimile dalle altre democrazie europee. Però essi osservarono come il partito di Mussolini operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di partito incompatibile con la democrazia e inevitabilmente destinato a creare un sistema totalitario» (intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 19 giugno). L’obiezione tipica è: «Ma che cosa c’è di più democratico di una valanga di voti per qualcuno noto in tutto, compresi i suoi difetti e i suoi reati?».

Emilio Gentile ha una risposta interessante: «Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo è una tecnica politica che può essere applicata continuamente a una società di massa. Potrebbe accadere anche oggi: una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione». È un’affermazione limpida, logica, difficilmente confutabile se non per ragioni di fede. Ma la fede riguarda i berlusconiani.
Quanto a noi oppositori, quanto a quelli di noi che vedono il pericolo del singolare totalitarismo berlusconiano, non avremmo diritto di avere i nostri Amendola, Sturzo e Salvatorelli?

È con questi nomi e con queste citazioni in mente che chiedo ai miei amici Radicali del Pd, della cui presenza in Parlamento sono lieto come di una garanzia: si può in questa Italia, in cui il giornalista Vespa riproduce all’istante e con convinzione indiscutibile, solo le ragioni del premier imputato; si può in questa Italia in cui il più forte ricusa giudici, accuse, processo in nome della sua forza e dei suoi voti; si può in questa Italia in cui si è già tentata, da parte dell’allora ministro Castelli, una “riforma” che mette tutti i giudici agli ordini di pochi procuratori generali; si può in questa Italia in cui l’opinione pubblica è messa a tacere dal controllo quasi totale dei media, si può introdurre una riforma «anglosassone», cioè di Paesi in cui le istituzioni sono incalzate da un’opinione pubblica bene informata e da una stampa che non dà tregua?

* * *

Vedo nel berlusconismo una forma di potere in espansione, già molto prossima al pericolo citato da Emilio Gentile. Perciò dico no a questo regime e mi spiego.

1 - «Vogliono screditare il potere dei tribunali e decidere da soli che cosa è legalità». Cito da un editoriale del New York Times (19 giugno) che in questo modo propone l’accusa più grave alla presidenza di Bush. Perché i nostri colleghi americani vedono la portata del loro problema (scontro tra i poteri-pilastro della democrazia) e in Italia così tanti tra noi ti guardano come un disturbatore ossessionato?

2 - Lo stesso giorno la deputata Pd Linda Lanzillotta (destra della sinistra) e la ex senatrice Rina Gagliardi (sinistra della sinistra) hanno questo, rispettivamente, da dire:
Lanzillotta: «Eppure dovremo dire anche dei sì (a Berlusconi, ndr) almeno su alcune decisioni annunciate». Quali saranno queste decisioni annunciate, nei giorni in cui il politologo Giovanni Sartori scrive, a proposito di Berlusconi: «Nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono solo i dittatori» (Corriere della Sera, editoriale, 21 giugno)?

Gagliardi: «A me star lì a dire sempre no non mi piace perché mi pare un radicalismo solo apparente. Risolve il quotidiano, dà un po’ di soddisfazione ai tuoi che ti vedono con la faccia scura davanti a Berlusconi. E poi?» (Corriere della Sera 19 Giugno).

E poi, Rina Gagliardi, si fa opposizione, che vuol dire tenere testa a un governo evidentemente pericoloso, come si fa in tutti i Paesi democratici. Credo che sia utile ricordare alle due esponenti politiche ciò che l’ex ministro delle Comunicazioni-Mediaset Maurizio Gasparri ha appena detto a Walter Veltroni dopo l’annuncio di una grande manifestazione popolare proposta dal segretario Pd all’Assemblea del partito (20 Giugno): «Veltroni non ha nessun diritto di parlare, con tutti i debiti che ha lasciato. Taccia e faccia opposizione» (Tg 1, 20 Giugno, ore 20).

3 - «Tacere e fare opposizione» è il motto perfetto per definire questa Italia berlusconiana e il pericolo che corre. Se, come sta accadendo, il berlusconismo continua ad espandersi e a conquistare per il suo capo e i suoi uomini sempre più franchigia, sempre più esenzione dalle sanzioni della legge, allora il silenzio dei cittadini, che non sentono voci alte e chiare di contraddizione al regime, quel silenzio può diventare il silenzio-assenso su cui punta il movimento berlusconista, e che ha già dato la sua paurosa prova in Sicilia.

4 - Come si vede e si impara dalla clamorosa parabola discendente di George Bush (dal 70 per cento di gradimento al 70 per cento di rifiuto, nonostante la sua seconda elezione sia stata un trionfo) l’opposizione netta, vigorosa, visibile, su ogni punto chiama i cittadini e porta risultati persino a partire da una minoranza sconfitta. Quella minoranza, in America, non ha mai ceduto, non ha mai fatto cose “insieme” con il suo avversario, perché accusato di illegalità e di avere violato la Costituzione. Alla fine della lunga marcia quella minoranza ha incontrato il Paese, e, divenuta maggioranza a causa della sua testarda opposizione, si appresta a guidare una nuova epoca per gli Stati Uniti.
Perché questa non potrebbe, non dovrebbe essere la nostra storia?
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 22.06.08
Modificato il: 22.06.08 alle ore 14.40   
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« Risposta #91 inserito:: Giugno 23, 2008, 11:42:41 pm »

Pubblico un articolo di Furio Colombo tratto da l’Unità

 

C’è chi non si rassegna. Come Emma Bonino, che dice chiaro e fuori dai denti e con un po’ di maleducazione quello che pensa dello storico momento politico che il Paese sta attraversando, tra benedizioni papali, atti di sottomissione dello Stato alla Chiesa da alto medioevo (anche per esasperata, simbolica teatralità). Una Repubblica laica e indipendente che va in Vaticano rappresentata da un Gentiluomo vaticano, il sottosegretario Gianni Letta (e pensare che Filippo Facci era giunto a scrivere su Il Giornale che Fiamma Nirenstein, vice presidente della commissione Esteri della Camera, Pdl, non può parlare a nome dell’Italia sulla questione di Israele perché è ebrea) e un bel pacchetto di atti crudeli, inventati, costosi e inutili, quasi tutti contro i rom, certo più legati di Bossi e Borghezio alle radici cristiane d’Europa.

Ma ecco perché Emma Bonino è stata così duramente redarguita e rimessa al suo posto dall’editorialista del Giornale Giancarlo Perna. Perché si era permessa, da persona politica di una certa esperienza, di anticipare e interpretare le ragioni della «gioia» del Papa. Si ricorderà che parlando ai vescovi italiani, il Pontefice aveva lodato la nuova armonia (traduzione: la mancanza di confronto democratico tra opposti punti di vista di governo e minoranza) nella vita pubblica italiana. Parlare di «gioia» per l’Italia dopo la caccia ai rom di Ponticelli e prima della caccia ai rom di Venezia, «è un po’ patetico» come dice, commentando le parole del Papa, la Bonino. È vero che l’ex ministro di Prodi («La persona con cui lavoro meglio» aveva detto il professore mentre lei portava a casa, di mese in mese, risultati sempre migliori, e ormai sfumati, nel commercio con l’estero) intendeva soprattutto anticipare il senso profetico di quelle parole. In pochi giorni, il capo della Chiesa e dello Stato Vaticano avrebbe ricevuto il baciamano di sottomissione completa della Repubblica italiana, e la garanzia dei dovuti versamenti per le scuole private cattoliche.

Ma la Bonino avrebbe dovuto sapere che in questa Italia del pensiero liberale (che copre tutta l’area di consenso dalla corporazione Malpensa alla corporazione tassisti) certe cose, se riguardano il Papa, non si possono dire. O meglio si possono dire solo lodi ed esaltazioni, meglio se esagerate, come fanno, scaltri, tutti i telegiornali. Annunciano, con il tono di voce dei “Giornali Luce” di un tempo, che «è durato un’ora e mezzo l’incontro di Berlusconi con il Santo Padre». L’ora e mezza, record di tutti gli incontri mai avvenuti fra un rappresentante politico e il rappresentante di Dio, si raggiunge sommando l’incontro Berlusconi-Papa più l’incontro Berlusconi-Cardinal Bertone, più l’offerta di diamanti e pietre preziose (imbarazzante, no?) in nome della sottomessa e pacificata tribù italiana al re della Chiesa. Più i complimenti al “giovane” Gentiluomo vaticano in veste di sottosegretario italiano, più il tempo che c’è voluto a Berlusconi per aggiustare la giacca del capo del protocollo di Palazzo Chigi, a quanto pare troppo abbottonato.

La disgraziata Bonino, invece, ha parlato di “questua”, e la parola le viene buttata addosso come olio bollente, con una evidente nostalgia di celebrare la gioia papale alla Giordano Bruno.

Non c’è bisogno di essere credenti, basta essere militanti del nuovo ordine, per dare alla peccatrice radicale ciò che le spetta, e che spetta ai suoi compagni radicali di malefatte. Quali malefatte? Darsi da fare per essere eletti, se non hai santi in paradiso, se non hai in terra una mano invisibile che vede, provvede e - al momento giusto - concede. In quei casi sfortunati devi cercare fondi e sostegni alla luce del sole, devi chiederli ai cittadini e agli alleati. Ma qui cade l’asino. La logica dell’accusatore del foglio liberale Il Giornale, organo del Popolo della libertà, è implacabile: come osa una mendicante rimproverare al Papa la nobile questua con cui la Chiesa chiede allo Stato di pagare le scuole cattoliche?

«Sarà l’effetto dei 60 anni che la biondina di Bra ha appena compiuto» osserva l’articolista con delicatezza. Il suo fa parte del gruppo di giornali disposti a qualunque vendetta e ritorsione (per non parlare delle aggressioni preventive) contro chiunque osi accennare, anche per sbaglio o per equivoco, ai tratti fisici dei campioni di destra. Vorremmo ricordare (insieme a molte volonterose istituzioni religiose) che oggi - mentre scriviamo dall’Italia di Bossi-Borghezio-Calderoli-Castelli-Maroni - si celebra nel mondo “La giornata del rifugiato”. Proprio oggi (scrivo il sabato 7 giugno) dieci di quei rifugiati sono stati trovati cadaveri in mezzo al Mediterraneo da un peschereccio italiano che - in violazione della futura legge Maroni - ha soccorso i sopravvissuti, tra cui donne e bambini. Li hanno salvati con l’espediente delle gabbie del tonno (si cala la gabbia in mare e si tenta di prendere i corpi) per poi consegnarli a quel tipo di casa-albergo detto Cpt. Le cose vanno in questo modo: o finisci in fondo al mare o vieni salvato, trattato da clandestino e rispedito alla fame e alla minaccia di morte da cui speravi di fuggire in nome del tuo diritto di essere umano.

Sul senso di questa giornata ci illumina il Capo di stato maggiore della Difesa generale Vincenzo Camporini: «Gli aerei senza pilota “Predator”, impiegati anche in Afghanistan, sarebbero sicuramente un modo molto economico per pattugliare i mari e impedire lo sbarco dei clandestini» ha detto il capo dell’esercito italiano durante l’esercitazione aereo-navale italo-maltese “Canale 2008”.

«Ben venga il Predator se è un mezzo per risolvere a fondo il problema» ha commentato il sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga (Corriere della Sera, 7 giugno). La parola «a fondo» non è mai stata più appropriata per celebrare la festa italiana del rifugiato.

***

Resta la domanda, e anzi si ripropone con forza specialmente se, come sostiene l’organo del liberalismo italiano, ha torto la Bonino che, a causa dell’età, comincia a straparlare benché sia di un decennio e mezzo più giovane del giovane presidente del Consiglio. Che cosa ha il Papa di cui “gioire” nell’Italia più cattiva, punitiva, carceraria, ingegnosamente attiva in ogni aspetto e modo di perseguitare chiunque sia colto in condizioni di inferiorità e debolezza? Che cosa avrà da far festa il Papa in un’Italia che si sarà forse ingessata in certe sue funzioni politiche (come quella di dire no) ma si spezza sulla decenza, sulla tolleranza, sulla tradizione di civiltà, sul rispetto degli esseri umani. E scatena in piena guerra di camorra e in piena tempesta economica (il petrolio a 140 dollari al barile, un’impennata di dieci dollari in un solo giorno) una guerra dello Stato e della forza dello Stato contro tutti i deboli? Le vittime scelte e designate per i pogrom di Stato sono gli immigrati, da considerare tutti sospetti. Sono gli zingari, da definire tutti e pubblicamente “ladri di bambini”, persino se non è mai (mai) accaduto. Sono i clandestini, da associare alla peggiore delinquenza o alla sicura intenzione di delinquere (”vengono qui per commettere reati”), sono le prostitute, immediatamente definite “criminali”, evidentemente capaci di generare, malevolmente e da sole, l’alto patrocinio dei padri di famiglia italiani, compresa una massiccia parte di Popolo della libertà e di leghisti (per naturali, non confutabili ragioni statistiche) che affollano certe strade italiane.

La fantasia dei persecutori (per capire suggerisco di ascoltare una o due frasi di Borghezio, poi tradotte in italiano dal ministro dell’Interno Maroni, che si finge normale ma è il braccio armato di sentimenti di rivincita e di vendetta che si stanno appena rivelando) però non si placa tanto presto. Geniale l’idea di sequestrare le case affittate ai clandestini, trovata intelligente e crudele per buttare preventivamente sulla strada, con bambini e stracci, gente che lavora e che finora ha pagato cifre oltraggiose per alloggi troppo disumani anche per un film. Ma adesso il passaparola febbrile fa scattare i comportamenti da Ku Klux Klan prima che sia iniziata la discussione di ciascuna delle vergognose leggi di cui stiamo parlando. I padroni di catapecchie le svuotano subito, prima che passi la polizia e senza distinguere. Lo Stato ci sta dicendo che sono tutti feccia. A Roma la polizia si presenta nelle portinerie, rispondendo a soffiate. A Milano si fanno rastrellamenti sui tram finora vietati dalla Costituzione. Qualunque cliente stradale - tra cui ottimi padri di famiglia - si sentirà in diritto di abusare in tutti i modi, psicologici e fisici, di una prostituta. «Che lo vada a dire alla polizia». Intanto i “blitz”, bella parola militare che fa irruzione nelle notti di gente stanca di povertà e di lavoro, si ripetono in tutti i campi nomadi, Forze dell’ordine e volontari, tanto non c’è nessuna norma da rispettare. Tutto sta avvenendo mentre il “pacchetto sicurezza” è stato molto annunciato, ma nulla di esso è stato finora discusso nel luogo chiamato Parlamento.

I vescovi hanno già fatto sapere che su alcune di queste ignobili norme persecutorie non sono d’accordo. Ma l’Italia dell’asse Gentilini-Maroni-Berlusconi farà finta di niente. Dopotutto i clandestini non sono embrioni, le prostitute, nonostante il Vangelo, non c’entrano con la sacralità della famiglia, gli immigrati si adattino a venire in Italia rispettando i “flussi” (che non esistono). Se non li rispettano, sono prede libere, come in certi allucinanti giochi di delirio sul futuro.

Vorrei ricordare ai miei colleghi dell’opposizione l’esemplare storia di Tokyo Rose. Era una bella voce di donna, apparentemente americana, con lieve e gentile accento del Sud, che la propaganda giapponese ha usato con straordinario successo per fermare o rallentare l’avanzata - e persino la resistenza e la tenuta psicologica - dei soldati americani, inglesi, australiani, nascosti nelle paludi o impantanati nelle trincee in attesa di attaccare. La voce di Tokyo Rose, che ascoltavano da migliaia di altoparlanti per decine di chilometri, ricordava ai ragazzi yankee accampati in una giungla estranea, migliaia di miglia lontani da casa, come è dolce la vita, come è quieta e tranquilla se non insisti nel far la guerra ai giapponesi. Sosteneva che c’è tanto da condividere se si smette di combattere, sussurrava di donne, belle come era bella quella voce, che li aspettavano. I libri di storia americani ricordano Tokyo Rose come il più grande tentativo di guerra psicologica. Centinaia di soldati alleati hanno disertato per scomparire dall’altra parte della giungla. I giapponesi volevano soldati-ombra. Per fortuna solo pochi sono caduti nella trappola.


da andreasferrella.wordpress.com

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« Risposta #92 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:57:23 pm »

Zingari

Furio Colombo


Uno strano errore è stato commesso e ripetuto dai diversi schieramenti che, nel corso di 15 anni, si sono opposti, spesso con tollerante mitezza all’impero di Berlusconi (nel senso di tutti i soldi e tutte le televisioni con cui fa politica). È stato l’errore di dire e pensare che Roberto Maroni fosse il più umano e normale dei leghisti, niente a che fare con vergognose figure come Borghezio e Gentilini.

Un errore grande. Non c’è alcuna differenza fra Maroni e Borghezio o Gentilini. Il ministro degli Interni di un Paese democratico che ordina di prendere le impronte digitali di migliaia di bambini italiani o ospiti dell’Italia, solo perché quei bambini sono Rom, è fuori dalla nostra storia di paese libero. È estraneo allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione, è ignaro del fascismo da cui ci siamo liberati e di cui ricordiamo con disgusto, fra i delitti più gravi, l’espulsione dei bambini italiani ebrei dalle scuole italiane.

È stato uno dei peggiori delitti perché quella umiliazione spaventosa a cui sono stati sottoposti i più piccoli fra i nostri concittadini ebrei, alla fine ha generato lo sterminio. Il ministro degli Interni non è così giovane e così ignaro, per quanto la sua formazione sia immersa nella barbara e claustrofobica visione

Il ministro dell’Interno sa, e non può fingere di non sapere che obbligare i bambini di un gruppo etnico (molti radicati in Italia da decenni, alcuni da secoli) alle impronte digitali vuol dire lacerare la nostra vita, spaccare e isolare dal resto del Paese una parte di coloro che vivono e abitano con noi. Vuol dire indicare a tanti, che hanno più o meno la sensibilità morale del ministro, “gli zingari” compresi “i bambini zingari” come estranei, reietti e degni di espulsione. Chi è indicato come “da escludere” diventa per forza qualcuno da perseguitare.

Si noti un particolare davvero disgustoso e non accettabile: l’impronta verrà presa prima di tutto e più facilmente ai bambini che vanno a scuola e verranno che marchiati di fronte ai compagni. E sarà una umiliazione grave per la Polizia italiana. L’ideologia conta poco e nessuno, salvo xenofobia e razzismo, conosce uno straccio di ideologia della Lega. Ma la decisione di sottoporre i bambini di un gruppo selezionato come nemico all’umiliazione delle impronte digitali è una decisione fascista.

Mi impegno a tentare con le mie prerogative di parlamentare di impedirlo. Chiedo ai colleghi Deputati e Senatori che si riconoscono nella Costituzione di volersi unire per difendere i bambini Rom, l’onore della nostra Polizia, ciò che resta della nostra civiltà democratica.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 27.06.08
Modificato il: 27.06.08 alle ore 11.05   
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« Risposta #93 inserito:: Giugno 29, 2008, 06:45:35 pm »

Opposizione

Furio Colombo


«Chi lo ha votato lo fischia», potrebbe essere lo slogan di questi giorni. È uno slogan che descrive bene uno studio sociologico sul rapporto degli italiani con la vita pubblica. Politicamente serve poco. Perché il Berlusconi fischiato è identico al Berlusconi votato. Il Berlusconi votato non ha mai fatto nulla per nascondere il Berlusconi fischiato. C´è infatti un´unica cosa di cui non si può accusare Berlusconi: fingersi democratico. Usa la parola, certo. Ma solo per parlare di se stesso, della sua immunità, dei suoi meriti, dei suoi poteri, del suo governo. La sua è la democrazia di uno solo, una democrazia che - come si sa - non esiste, o almeno ha un altro nome, meno benevolo: autoritarismo totalitario. Ma l´uomo in questione è sempre stato così, si è manifestato e presentato esattamente così in ogni istante della campagna elettorale: accusa, sospetto, insinuazione, ansia di persecuzione, ricerca, a momenti persino affannata, di potere, di altro potere, di più potere. La controprova è nel rileggere, anche a caso, vita e avventure di Silvio Berlusconi nel suo precedente periodo di governo. Se non ci fosse il senso di pericolo ci sarebbe la noia, tanto è netta la continuità e forte la somiglianza con e tra tutto ciò che ha già detto e già fatto. È vero, ci sono istanti in cui Berlusconi prova su di se l´immagine dello statista. Ma, appunto, sono istanti. Le folte squadre di cronisti fedeli e di telecamere debitamente inclinate non fanno in tempo a stampare lodi e trasmettere servizi, che il premier ha già cancellato tutto di sua iniziativa.

Niente statista. Non gli interessa. La vita è vita se è caccia al nemico. Il nemico, a causa di un grumo di memoria privato e pubblico, fisico e politico, di paura e di battaglia, prende il nome di "cancro giudiziario". Seguìto dall´esito peggiore: i giudici come metastasi. Due terrori si impastano in un´unica lotta che è più facile da condurre: quella politica. Cercherò di fare un inventario di ciò che vedo intorno. *** Accanto a me, alla Camera, noto la vitalità di Di Pietro. Attacca tenace, riprende da capo. Non molla neppure per un istante l´impegno della legalità, come simbolo, come condizione democratica, come denuncia. Potete dire che è un ritorno all´indietro ma come definire il pauroso bradisismo italiano in cui ci fanno vivere? Siamo tutti testimoni di un Paese che si abbassa e continua ad abbassarsi di livello, qualità, dignità, e anche: quanto a risorse, forza produttiva, capacità commerciale, credibilità (ormai perduta) di ex protagonista sulla scena europea e del mondo. Ma anche per impoverimento della vita quotidiana di tanti in Italia. Si ha un bel dire che Di Pietro rifà gli stessi percorsi del giustizialismo e dei girotondi. È vero, ma è vero per forza.

L´attacco di Berlusconi ai giudici supera la pur geniale invenzione cinematografica di Moretti. Lo strano e incattivito malumore antigirotondi si sta dissipando persino nella migliore sinistra. Saranno davvero così irritati i nostri ex leader della ex sinistra se tornassero i cittadini a dire il loro no democratico, il loro sì alla Costituzione, accanto all´opposizione? Inutile negarlo. Nel momento in cui irrompe in scena l´annuncio esplicito e sincero di attacco senza quartiere all´intero impianto giuridico del Paese, si può rimproverare a Di Pietro di farsi trovare sul percorso con una barricata di irruenti argomenti che, come primo, indispensabile risultato, frenano o almeno denunciano l´istinto di devastazione del premier travolto dai suoi fantasmi? Dicono che il linguaggio di Di Pietro sia eccessivo. Certo "magnaccia" è una parola pesante, sia pure per definire Berlusconi mentre, dall´alto del suo immenso potere politico-finanziario, è impegnato a sistemare alcune ragazze. Bonaiuti e Ghedini annunciano querele. È il loro lavoro. Si può capire. Ma "cancro" e "metastasi", le parole usate da Berlusconi per descrivere i giudici, vi paiono lievi?. Il cancro si elimina col bisturi. Dunque la parola è più dura e più tragica. Chi la denuncerà? L´astuto uomo di Arcore è caduto nella trappola: fa scenate in pubblico sui suoi affari privati davanti a platee ansiose che lo avevano eletto in cerca di risposte alle paure e ai rischi di tutti. Volete dire che la gente si aggira per i mercati rionali, dove il prezzo di frutta e verdura sale ogni giorno come il petrolio, mormorando «maledetti giudici»? Pensate che nel fare il pieno di carburante il camionista scambi con l´uomo della pompa volgari ma sentiti giudizi sul CSM che blocca il loro lavoro assolvendo la Forleo e annunciando troppo presto che il lodo Schifani è anticostituzionale? Quanti commercianti sono stati stroncati dal complotto dei giudici che vogliono a tutti i costi processare Berlusconi? Sanno tutti che la piccola e media impresa era nel panico, quando Rete Quattro stava per finire sul satellite. Infatti una volta salvata la rete del premier e la sua pubblicità, la Marcegaglia, a nome di tutta l´impresa italiana, ha potuto tirare un respiro di sollievo e dire al Paese: «Finalmente un clima costruttivo». E Augusto Minzolini, il bravo "retroscenista" che coglie al volo i segni premonitori del nuovo berlusconismo (che è una dose da cavallo del berlusconismo originale) può scrivere: «Tutto questo (il normale lavoro dei giudici, ndr) ha spinto il Cavaliere a scegliere la via maestra, quella che conosce meglio: alzare la voce e decidere. Del resto è sempre più sicuro di avere la gente con sé». «Alla Confesercenti che è di sinistra, c´è stato chi mi ha fischiato ma anche chi ha applaudito le mie critiche ai magistrati (ha detto di loro «cancro» e «metastasi», ndr). Gli italiani sono con me». (La Stampa 26 giugno).

Commentare è un po´ imbarazzante. Si tratta di una situazione mentalmente fuori controllo. È bene ricordare lo stato delle cose per capire se è vero o non è vero che Di Pietro esagera, quando si lancia, ogni volta, come un pompiere da film, contro i sempre nuovi focolai accesi e disseminati tra le istituzioni italiane dal piromane di Arcore.
***
Nel paesaggio italiano, per quanto triste, ci sono altri eventi che meritano di essere osservati affinché una descrizione del momento non sembri una passeggiata nel Foro romano. Mi riferisco all´evento organizzato dai Radicali invitando tanta gente a discutere a Chianciano. E poi al dopo Chianciano e agli appuntamenti che, con il nome del primo incontro, continuano e continueranno ad avvenire a Roma. L´iniziativa di Pannella è questa: troppe persone sono rimaste fuori dalla politica, perché estranee ai partiti presenti ora in Parlamento. Questo vuol dire fuori dalla televisione. Fuori dall´inseguirsi dei dibattiti quotidiani. Vuol dire troppo silenzio. Si può dissentire in molti modi dai Radicali (io dissento nel rapporto con la giustizia, nella richiesta di abolizione dell´azione penale obbligatoria, nel giudizio drastico sui sindacati). Ma, dal mio punto di vista, è impossibile non fare causa comune con i Radicali in tutta l´attività della Associazione Luca Coscioni, del Tibet, di "Nessuno tocchi Caino", di "Iraq libero" (che voleva dire: via Saddam e niente guerra). Però - d´accordo o non d´accordo - è impossibile non cogliere nel lungo percorso di Pannella fino ai giorni nostri, il seme pedagogico dello spingere alla discussione politica, in tutti i modi e per qualsiasi ragione. Nel caso di Chianciano, la ragione più importante era evitare il silenzio. Il campo è sgombro da equivoci perché, come sempre accade dalle parti dei Radicali, non c´è l´ombra del potere. Ricordo un piccolo film scritto da Woody Allen, quando era già autore geniale ma non ancora regista. In quel film i soldati cominciano a gridarsi frasi da una postazione all´altra, poi si intestardiscono a precisare e a chiarire. Lasciano i bunkers opposti e si lanciano in una discussione di ognuno con tutti gli altri. Quasi allo stesso modo, Chianciano ha risposto (o cercato di rispondere) a una domanda che tormenta molti: e adesso con chi parlo di politica? E dove? Il senso era, mi pare, interrompere la solitudine e i tanti monologhi un po´ autistici che ti raggiungono da tutte le parti. Io non c´ero a Chianciano. Ma - ascoltando Radio radicale - ho l´impressione che la strana idea stia funzionando. In ogni caso continua. E mi piacerebbe che contagiasse il Partito democratico. *** Veltroni ha fatto tutto il possibile. Ha afferrato per i capelli una campagna elettorale che poteva essere vuota e ha riempito molte piazze. Ha perso una cosa, le elezioni, e ne ha vinta un´altra: l´inizio dell´esistenza e della vita politica di un partito che non c´era, il Pd. Adesso però comincia la prova più importante: fare del partito la piazza. Una piazza in cui la storia non comincia e non finisce nel discorso del leader e negli "interventi" dei vice leader. Una piazza in cui "si parla con" e non "si parla a". No, non sto celebrando l´assemblearismo. Sto cercando il tipo di democrazia che alza la soglia di dignità e di passione dei cittadini attraverso la partecipazione. Uno spazio nato per essere crocevia di nuovo impegno comune e di impegno urgente, in un tempo molto pericoloso. Il Pd non può diventare un circolo ufficiali, con un annesso club dei cadetti. La truppa e le salmerie aspettano fuori. Mentre il vice ammiraglio Bindi discute animatamente con il maggiore Fioroni e il colonnello Parisi avverte il Comando del suo dissenso alla presenza dell´aiutante di campo Realacci, la truppa là fuori potrebbe andarsene. «Ci sentiamo soli» hanno detto alla nostra Maria Zegarelli (l´Unità 27 giugno) i cittadini rimasti fedeli alla Festa dell´Unità di Roma (si chiama ancora così, come quando c´era la sinistra) evidentemente in attesa di essere raggiunti da un segnale che voglia dire «siamo qui, siamo insieme, ecco ciò che stiamo per fare». Difficile non capirli, dati i tempi. Sono i tempi di un feroce, nevrotico attacco alla Giustizia. si sta creando come se fosse ovvio, normale, tipica una vistosa condizione di incompatibilità mentale e ambientale tra Berlusconi e la sua carica. Sono i tempi del tentativo del premier di essere esente da ogni imputazione come nessun premier al mondo (salvo monarchi e Capi di Stato). Sono i tempi delle punizioni che si abbatteranno su chi oserà pubblicare atti veri e legali (come le intercettazioni dei giudici), in modo che il potere risulti intoccabile. Sono i tempi in cui i due ministri degli Esteri e della Difesa italiani chiedono insistentemente che i soldati italiani, che già sono impegnati a tentare progetti di aiuto e di pace, questi soldati, trattati come se fossero imboscati, vengano finalmente mandati a morire. Intanto aerei da combattimento costosi come ospedali vengono generosamente offerti in modo così precipitoso da far dire ai colleghi della Nato: «va bene, va bene, un momento di pazienza...». E certo l´ansia dei due ministri italiani deve avere provocato qualche sorpresa. Nessuno è così impaziente di spingere nei punti peggiori di un fronte i propri connazionali. Sono tempi di ronde, di vigilantes, di impronte digitali ai bambini Rom, di militarizzazione di un Paese che fino a poco fa era in pace.

Ma, diciamo la verità, sono i tempi del silenzio. E questo isola e angoscia i milioni di italiani che hanno votato per il Pd. Non potremmo, non dovremmo chiudere il circolo ufficiali e unirci con atti e parole forti, e impegni immediati, e chiarissimi "no", ai cittadini che aspettano? È vero, ci sono cose che il governo di Berlusconi sta proponendo che sono, allo stesso tempo, odiose, immorali e "ben viste" dai cittadini, dopo che con tanto impegno è stato seminato il sospetto e coltivata la paura. Adesso, come si sa, la parola-grimaldello, capace di far saltare ogni obiezione, anche a sinistra, è "sicurezza", benché, fuori dalle regioni di mafia, camorra e ‘ndrangheta a cui il severo ministro Maroni non presta alcuna attenzione né prevede alcuna ronda, l´Italia sia il Paese statisticamente più sicuro d´Europa. Ma proprio questa è la prova più ardua e più alta: dire la verità quando tutti ti fanno credere un´altra cosa. Vorrei ricordare il libro "Profili nel coraggio" che nel 1959 ha reso celebre il suo autore, John Kennedy, e ha aperto la strada alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Era una serie di esempi di statisti che hanno avuto il coraggio di battersi per una causa persa, ma moralmente necessaria, fino a rovesciare il gioco e a vincere. Non varrebbe la pena di cominciare dai bambini Rom, di proclamare che siamo noi, il Pd, la loro difesa, fino a rendere impossibile questo trauma volgare e ingiusto a danno dei bambini? Non dovremmo essere noi, il Pd, a intervenire in difesa della Polizia italiana che finora non ha mai fatto foto segnaletiche di piccoli, italiani o stranieri, e si è occupata di loro (i bambini) solo per proteggerli? Non dovremmo cominciare subito con il partecipare ad una "giornata per la Giustizia" contro il tentativo di impiantare un potere senza limiti fondato sull´umiliazione dei giudici e su un Parlamento fantasma?
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 29.06.08
Modificato il: 29.06.08 alle ore 10.17   
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« Risposta #94 inserito:: Luglio 06, 2008, 09:31:27 pm »

Le impronte di Berlusconi

Furio Colombo


C’è una frase che viene ripetuta all’infinito fin dal tempo (che ormai abbiamo dimenticato) in cui Silvio Berlusconi ha incominciato a invelenire l’Italia, creando sempre nuovi nemici e invitando sempre più cittadini a combattersi o a cedere, ciascuno nel suo campo e secondo il suo mestiere. I giornalisti o lo servono o gli gettano fango. I magistrati o si piegano o sono eversivi. I politici o accettano di chiamare «dialogo» il suo monologo, o vengono denunciati come sinistra «distruttiva» e «radicale» (con buona pace del partito di Marco Pannella il cui nome viene continuamente usato e abusato). Ma ecco la frase che viene ripetuta all’infinito: «Non basta essere contro Berlusconi. Bisogna dire per cosa si è e quale progetto di società si indica». Consciamente o no, buona fede o no, la frase finisce per suonare come un invito a posticipare: prima il grande e compiuto disegno della società che vogliamo e poi l’impegno contro Berlusconi. Questa volta colgo la frase da una pubblicazione (la rivista Left) da un articolo (l’attività tuttora in corso dei «mille di Chianciano», riuniti intorno all’invito di Pannella di discutere di una nuova politica) e da una protagonista, Elettra Deiana, già deputata della Sinistra Arcobaleno, che non si prestano all’introduzione negativa che io ne ho fatto. Vedo per forza vera ansia, vera fatica, vera ricerca sul come venirne fuori. Sia nel come partecipare non inutilmente alla vita pubblica di ogni giorno; sia come disegno di quel grande e famoso progetto a cui - ci dicono - è doveroso lavorare. Ma ci sono situazioni e momenti in cui non puoi dedicarti per prima cosa al grande progetto. Per prima cosa i cittadini ti chiedono: e adesso? E oggi? E stamattina? Mi rendo conto che questa domanda segna una linea di demarcazione fra chi, facendo politica negli anni e nei decenni, ha maturato la persuasione che i tempi lunghi ci sono comunque e che le grandi costruzioni (e le grandi speranze) richiedono tempi lunghi; e chi, entrato passionalmente in politica in un momento di emergenza (o che viene vista e vissuta come emergenza) crede alla risposta impetuosa e immediata.

Pesano su questa demarcazione anche la persuasione, a volte spazientita, del vecchio militante (sapessi quante emergenze abbiamo vissuto!) e l’irritazione dei giovani strateghi che hanno un altro senso del tempo e vogliono essere lasciati lavorare nelle diverse e «articolate» strategie. E percepiscono la tendenza a drammatizzare come il gesto di urtare il gomito di uno che, sapendolo fare, sta disegnando. Qualche lettore potrebbe chiedermi: se vedi con chiarezza le obiezioni che ti riguardano perché continui a urtare il gomito del disegnatore paziente? Non sarà un fatto umorale, che in politica conta poco?


* * *


Umorale la mia reazione al pesante e devastante ritorno di Berlusconi un po’ lo è. È addirittura una questione di età. Avevo la stessa età dei bambini Rom che questo governo italiano vuole obbligare a premere il dito sul tampone d’inchiostro per prelevare le loro impronte digitali, mentre gli altri bambini non Rom stanno a guardare.

Avevo la stessa età dei piccoli e umiliati Rom di oggi quando gli «ispettori della razza», scuola per scuola, classe per classe, hanno cominciato a fare l’appello dei piccoli ebrei per espellerli.

Ho raccontato molte volte il senso di scandalo che ho provato (i bambini possono e sanno indignarsi) di fronte al silenzio degli insegnanti. Nella mia scuola la buona maestra che ci raccontava ogni giorno una puntata di Pinocchio se stavamo bravi, il buon maestro, mutilato di guerra, che narrava episodi di eroismo da lasciarci tesi e ammirati, lo scattante giovanotto della ginnastica e il direttore didattico da cui ti mandavano a discutere (lui discuteva benevolmente con i bambini) di presunte o vere mancanze, tutti sono rimasti impassibili e in silenzio mentre continuava il tremendo appello. E persino se non sapevamo che quello era già l’appello di Auschwitz, il silenzio è stato la prima agghiacciante esperienza di molte piccole vite.

Ora vi pare che prima di impegnarmi con tutta la forza, l’offesa, l’indignazione, l’opposizione di cui sono capace contro le impronte a cui vengono obbligati i bambini Rom (metà dei quali sono italiani), vi pare che possa ammonire me stesso ripetendo la frase: «non basta essere contro Berlusconi, bisogna prima dire per cosa si è e quale progetto di società si indica»?

La mia, intanto, è una società che non perseguita nessuno e tanto meno i bambini e tanto meno i bambini Rom che sono parte di uno dei due popoli per i quali nazisti e fascisti e «difensori della razza» avevano previsto lo sterminio.

Può darsi che non abbia ancora chiare tutte le regole socio-economiche della società umana ed equilibrata che dovrà venire. Come mi insegnano Zapatero e Sarkozy, Angela Merkel e Barack Obama, forse i punti di riferimento di una più vasta azione politica potranno essere un poco più a destra o alquanto più a sinistra. Più fondati sull’impegno individuale oppure sul solidarismo che protegge i più deboli. Ma, per prima cosa, dobbiamo restare dentro il percorso della civiltà. Il decreto Maroni che impone le impronte ai bambini e obbliga ciascun Rom a dichiarare la propria religione (moduli del genere, sull’intimo e delicato territorio della religione non sono mai apparsi nella pur spaventata America dopo l’11 settembre, così come neppure una sola Moschea, in quel Paese, è divenuta territorio di incursioni delle varie polizie anti-terrorismo) il decreto Maroni colpisce la civiltà nei suoi punti vitali e tende a far uscire il Paese Italia da decenti regole civili. Io che ho visto cominciare questo percorso fondato sulla selezione di un nemico da isolare e separare cominciando dai bambini, non ho nessuna intenzione di ritornare sul problema solo dopo avere disegnato un progetto di società. L’offesa avviene adesso e adesso va fermata.


* * *


Accadono in questa Italia che ho appena finito di descrivere con ansia e costernazione, alcuni fatti che voglio elencare qui di seguito perché hanno importanza per tutti.

1. Per la prima volta nella storia italiana un alto funzionario dello Stato incaricato di eseguire, dice no alle impronte digitali dei bambini. È il Prefetto di Roma, Carlo Mosca. Non è la cosa più facile del mondo per un prefetto dire no al ministro dell’Interno. Maroni è ostinato e sordo alle ragioni che gli vengono da tante parti del suo Paese (non parlo di parti politiche, parlo di Chiese e di cultura, della comunità di Sant’Egidio, di Famiglia Cristiana, praticamente di ogni prete o associazione che abbiamo lavorato con e accanto ai Rom, della Comunità Ebraica italiana, delle Comunità Valdesi) perché rappresenta la Padania (cioè uno stato mentale fondato sulla persecuzione degli «altri») in Italia. È ministro della Repubblica italiana con i voti (tanti voti, certo) di alcune tribù del Nord che continuano a minacciare la scissione dall’Italia quando non vengono zittiti in tempo dal Capo Bossi, unico governo da loro riconosciuto.

Uno così che fa il ministro e che deve offrire vittime alle superstizioni delle sue tribù, sarà fatalmente vendicativo.

Ma il Prefetto Mosca non ha cambiato idea. Chiedo che gli italiani ricordino il caso unico del no limpido e chiaro, in nome della civiltà comune, dell’unico alto funzionario del Paese Italia (più noto nel mondo, per il diffuso opportunismo, il «tengo famiglia», una certa viltà, il silenzio dei miei maestri elementari di bambino e dei miei colleghi giornalisti di adesso) che abbia osato pubblicamente dire no al ministro di cui è rappresentante.

2. I «gagè» di tutta Italia hanno scritto, firmato e fatto circolare un appello che dichiara il decreto Maroni una violazione della Carta dei diritti dell’uomo (Nazioni Unite) della Unione Europea e di tutte le Costituzioni nazionali a cominciare da quella italiana.

Chi sono i gagè? Nella lingua rom «gagè» sono le persone non Rom (come i «goyim» nella lingua yiddish, sono i cristiani o comunque i non ebrei). Ecco un brano del loro appello, che ho avuto da Dijana Pavlovic, la giovane attrice e attivista Rom che scrive per questo giornale.

«Noi gagè credevamo che, dopo la fine della seconda guerra mondiale e le scelte della comunità internazionale, non fosse più possibile rivedere nei nostri Paesi i fantasmi di un passato che volevamo bandito per sempre. La carta dei diritti dell’uomo, le costituzioni nazionali, i trattati della comunità europea impediscono ogni forma di razzismo e ogni atto che discrimini e segreghi una minoranza etnica o religiosa (...).

Non è lecito in un Paese civile schedare i bambini. Tanto meno è ammissibile, per l’intera comunità internazionale, che questa schedatura avvenga su base etnica. Ma non è così per il nostro governo. Il suo ministro dell’Interno, uno dei capi supremi delle camicie verdi che inneggiano alla secessione padana, alla cacciata dei Rom ed extracomunitari, che percorrono in ronde minacciose le città, ha dato disposizione che i bambini Rom siano schedati con il rilievo delle impronte digitali.

(...) Questo è il volto avvelenato del nostro Paese. Ma i veri colpevoli siamo noi, i gagè, che credono nella propria superiorità etnica, esportano con la forza le proprie idee,aggrediscono un popolo che non riconosce confini, non ha terre da difendere con guerre, non ha bandiere in nome delle quali massacrare i diversi da sé».

Propongo che tanti aggiungano le loro firme a questo manifesto (tra i primi a sottoscrivere, Moni Ovadia) che si conclude con la dichiarazione «ci rifiutiamo di essere diversi. Pretendiamo che siano prelevate le nostre impronte digitali».

3. Ecco le ragioni per cui alcuni di noi hanno deciso di promuovere e partecipare all’evento dell’8 luglio. Non è un partito preso o un frivolo accanimento in luogo di una normale, serena opposizione. Non c’è niente di normale e niente di sereno in un Parlamento ingorgato di provvedimenti personali salva-Berlusconi, in cui i lavori sono diretti da presidenti che in realtà sono capi-partito e come tali vanno insieme al Quirinale a dire non ciò che provano o sentono tutti i deputati e tutti i senatori, come richiede il loro ufficio. No, vanno al Quirinale - coperti da quelle cariche - per dire ciò che vogliono i loro partiti. Ovviamente ciò richiede più che mai di dare tutto il nostro sostegno, da cittadini, prima ancora che da politici, al Capo dello Stato.

Ecco le ragioni che spingono alcuni di noi, e certo molti cittadini, e certo il popolo Rom, a incontrarsi adesso, subito, mentre il cosiddetto «pacchetto sicurezza» viene imposto al nostro Paese, triste timbro di discriminazione e razzismo. Come le leggi razziali del fascismo, questa irresponsabile serie di decisioni ci umilia in Italia, ci isola in Europa, ci separa dalla nostra Costituzione, interrompe il rapporto con la grande eredità della Resistenza a cui si deve la nostra libertà.

La nostra libertà è unica. O è intatta o non lo è. O ci riguarda tutti o costruisce una odiosa apartheid.

È bene alzarsi e dirlo adesso, con tanti cittadini e tanti Rom che ci hanno detto «veniamo», e con il loro coordinatore, Alexian Santino Spinelli (professore all’Università di Trieste) che parlerà insieme a noi. E poi ci saremo tutti in autunno, nella manifestazione politica già annunciata da Walter Veltroni con il Pd. E ci siamo ogni giorno in Parlamento per dire ben chiaro il nostro no, per tentare di cancellare sul futuro dell’Italia le impronte di Berlusconi.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 06.07.08
Modificato il: 06.07.08 alle ore 10.01   
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« Risposta #95 inserito:: Luglio 12, 2008, 11:39:28 pm »

Salviamo il Criminale Tareq Aziz

Furio Colombo


Se ci fosse - in questo Paese - un regolare flusso di notizie, molti si domanderebbero perplessi: ma perché adesso Pannella si mette a difendere Tareq Aziz? Ma Tareq Aziz non era il ministro degli Esteri e poi primo ministro di Saddam Hussein? E grande sarebbe la perplessità, e magari le e mail e gli sms per chiedere chiarimenti: che senso ha fare lo sciopero della fame per uno che era stato il numero due di Saddam Hussein? Rischiare la propria vita per la vita di un criminale, accusato di una cinquantina di impiccagioni? Tranquilli. Domande come questa non tormentano nessuno o quasi.

Perché nessuno o quasi ha mai sentito parlare, nelle fonti pubbliche e private delle notizie italiane, dell’iniziativa di Marco Pannella, deciso a salvare dalla forca l’ex gerarca iracheno. Eppure sarebbe utile e importante sapere il senso di questa storia e se è giusto, se vale la pena.

Sul senso di questa storia Pannella ricorderebbe, nelle interviste che nessuno ha voglia di fargli, che aveva tentato nel 2004 non solo di salvare la vita di Saddam Hussein, ma anche di fermare la guerra. Vi ricorda niente la frase detta e ripetuta «Iraq libero»? Non era lo slogan di un progetto di invasione. Al contrario, era un progetto così folle che - come a volte accade nella vita - stava per realizzarsi. Il progetto era salvare l’Iraq dalla guerra e mandare in esilio il suo dittatore. Qualche lettore ricorderà che il nostro giornale aveva creduto in quell’idea e l’aveva sostenuta, come del resto centinaia di parlamentari italiani ed europei. E solo da poche settimane le memorie dell’allora primo ministro spagnolo Aznar (alleato di Bush nella guerra) hanno rivelato che il piano stava per riuscire. Bastava persuadere il presidente degli Stati Uniti ad aspettare ancora pochi giorni prima di attaccare. Purtroppo Bush non ha voluto aspettare.

Come si vede non tutte le idee «folli» sono impossibili. Certo, è meglio se se ne parla, se si coinvolge l’opinione pubblica. Si può salvare dalla pena capitale Tareq Aziz? Non dovremmo noi, Paese che - per merito dei Radicali - siamo diventati leader della moratoria contro la pena di morte nel mondo, occuparci di questa esecuzione imminente e immensamente simbolica, per impedirla?
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 12.07.08
Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.13   
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 13, 2008, 04:38:34 pm »

L’interesse del conflitto

Furio Colombo


La notizia è giunta tardi e mi induce a dirvela prima di ciò che sto per scrivere perché dubito che la troverete su molti altri giornali. Venerdì al Senato americano, i democratici hanno tentato di abbattere la privatizzazione delle cure mediche per gli anziani e di tornare all’estremismo di Kennedy, Johnson, Carter e Clinton: le cure mediche sono un diritto dei cittadini. La proposta repubblicana era: abbandonare i vecchi al buon cuore delle compagnie di assicurazione.

Ha scritto l’economista di Princeton Paul Krugman (New York Times 12 luglio): «Sembrava un film. Ai democratici mancava un voto per vincere. All’improvviso si è presentato in aula il settantasettenne Senatore Kennedy, appena operato di tumore alla testa. Kennedy ha portato il voto risolutivo. Bush e il dominio delle assicurazioni private sono stati sconfitti».

È una storia che dice molto della testarda ossessione di un vecchio, grande politico americano di stare ogni momento, e fino alla fine, dalla parte dei cittadini. Per noi è solo un simbolo, ma perché non dichiarare subito che solo così, qualunque sia il suo stato anagrafico, un leader politico può definirsi «coraggioso»?

Ma ora riprendo il mio percorso fra le tristi notizie italiane.



* * *

Mi era venuto in mente, pensate, di dire in questo articolo, che il conflitto di interessi paga, che alla fine di qualunque storia che non sia una fiaba vince il più forte, non il migliore (persino se la forza è rubata attraverso l’abuso sia del potere privato che di quello pubblico), che non c’è niente di male nel sentirsi migliore di chi attacca o minaccia o ricatta tutti i poteri dello Stato e scardina, piega o abolisce con le sue leggi tutte le regole.



Mi era venuto in mente di dire che, per forza, molti perdono la testa, il filo e il sentiero della ragione dopo quindici anni di realtà berlusconiana raccontata a rovescio, deformata, amputata, pur di isolare, più o meno intatta, l’immagine di una sola persona - Berlusconi l’immune - costringendo tutti gli altri protagonisti presenti in scena a una forma di sottomissione, a un continuo addossarsi di colpe, o ad essere confinati dal consenso comune (dei buoni e dei cattivi commentatori) nell’isola degli estremisti, dove persino ciò che rimane di Rifondazione (Sansonetti, Liberazione, 10 luglio) ti ingiunge di chiedere scusa, e si unisce agli scandalizzati non dello scandalo, ma di chi lo denuncia, visto come un guastafeste, ovviamente estraneo alla sinistra, sia quando usa i toni sbagliati, sia quando usa quelli giusti.



Avrei voluto scrivere che non ci sono toni giusti perché, alla fine, come puoi presumere di essere un giudice, nel mondo in cui tutti ormai accettiamo di dire o lasciar dire che i giudici sono comunque manovrati da una forza politica, nel mondo in cui tutti, tutti più o meno, diciamo: «Basta con l’uso politico della giustizia» (alcuni usano l’assurda parola “giustizialismo”, dicono: «occorre far finire questa anomalia»; e precisano che l’anomalia sono i giudici che indagano, non coloro che - avendo grandi responsabilità politiche - ne approfittano e commettono reati). Non dirò che sono stato dissuaso dalla enormità dei fatti, che sono questi: sono stati resi immuni da ogni azione giudiziaria le quattro più alte cariche dello Stato. Ma una, il presidente della Repubblica, è già difeso dalla Costituzione. Due, se malauguratamente inquisiste, non danno luogo ad alcuna impossibilità di governare perché sono cariche elettive interne al Parlamento e in caso di necessità si possono rieleggere o alternare senza coinvolgere o negare il consenso dei cittadini. Rimane la quarta, ma la quarta è il plurimputato Silvio Berlusconi. Dunque tutto è avvenuto per una sola persona anomala. E una immensa barricata, che coinvolge persone estranee a ogni imputazione, è stata eretta, per quella sola persona deformando lo Stato, creando per la Repubblica un danno senza ritorno, una ferita sul volto dell’Italia che ci renderà unici e riconoscibili anche in futuro.



Potrei continuare raccontando il modo un po’ mussoliniano con cui stata strangolata, in questi giorni, la Camera dei Deputati, soffocandone il dibattito fino al ridicolo per una grande istituzione democratica, forzando ognuno di noi, in quel quasi silenzio, ad apparire complici del progetto in cui il presidente-imputato esige la sua legge liberatoria, e la vuole sùbito, impone tempi ridicolamente stretti al presidente della Camera e il presidente della Camera si presta, obbedisce, esegue: «Volete un solo giorno di finto dibattito (finto perché la disciplina della maggioranza era toccante; finto per l’eroismo dell’Udc di Casini, che ha scelto l’astensionismo per non ipotecare il futuro; finto per il numero di minuti dedicati al dissenso). Come no? Agli ordini». Lo sanno tutti che un Parlamento (potere democratico dello Stato) è agli ordini dell’esecutivo e dunque si impegnerà nella missione di mettere a tacere l’altro potere democratico, quello giudiziario. Potrei raccontare i veri e propri momenti di urla e rivolta fisica della maggioranza ad ogni tentativo di Pd e Italia dei Valori di porre almeno un argine alla prepotente imposizione di discussione strangolata. Pensate, persino la sinistra sembra provar piacere a condannare "l’opposizione urlata"; ma in Parlamento le sole urla che si sentono, alte e selvagge, sono quelle della maggioranza che si getta con furore su ogni spiraglio di resistenza, per quanto mite.


* * *

Invece mi fermo qui, per dire: questo è il mio millesimo editoriale, uguale agli altri. È una rappresentazione fedele di ciò che accade. Ma ciò che accade ripete un gioco di potere che in fondo non si è interrotto mai, neppure nei pochi giorni di Prodi. Perché anche in quei giorni sono rimasti intatti tutti i centri di controllo di ciò che sappiamo ogni giorno del Paese. Infatti Prodi è apparso un grave e fastidioso pericolo mentre governava, veniva additato all’Italia come un incapace ed esoso esattore di tasse e come la rovina della nostra economia, che adesso è totalmente paralizzata e in stato di abbandono. E intanto i costi e le tasse salgono ma il nuovo Parlamento italiano è impegnato a fermare i giudici.



Mi fermo anche per il modo efficace con cui il notista della Stampa Ugo Magri racconta un momento della non esemplare giornata alla Camera che abbiamo appena vissuto. Cito: «Perfino Furio Colombo viene snobbato dai colleghi Pd, i quali si vede che ne hanno le tasche piene, nel momento in cui invoca “solidarietà per i magistrati che Berlusconi considera un cancro”». Mi resta da dire che ho pronunciato questa frase in modo deliberatamente formale e non stentoreo sapendo - come è accaduto - che sarei stato subito coperto da urla. Strana cosa le urla di una larga maggioranza di potere che non rischierebbe nulla perfino ostentando una flemma tipo Anthony Eden o Lord Sandwich. Ma quelle urla ci dicono come è, come sarà l’epoca di potere che comincia adesso. Che nessuno pensi impunemente di sgarrare. Dalla gabbia mediatica non si sfugge. Provvede la gabbia mediatica, con la partecipazione straordinaria e volontaria di tanti di noi, a dire, proprio mentre urla fino al parossismo l’intero Popolo delle libertà, che l’opposizione “urlata” ed “estremista” è proprio insopportabile.



Dirò che mi fermo, in attesa di nuovi eventi che saranno, tra poco, così clamorosi, inauditi e - ripeteremo noi, pedanti - estranei alla democrazia, da prendere di sorpresa persino chi ha sempre dichiarato piena sfiducia in questo governo e nella sua maggioranza. Azzardo una previsione, e la proporrò. Sarà la descrizione di un paesaggio grave e tragico. Anche se vorranno costringerci alla percezione prevista dal copione. Ci diranno che è il “ritorno al Paese normale”.

 * * *

E’ il momento in cui si scopre che il conflitto di interessi ha un suo modo pernicioso di spandersi, anno dopo anno, in Italia. È l’interesse del conflitto, nei due sensi letterali: perché l’interesse è un continuo dividendo che il Paese deve pagare al titolare del conflitto, concedendogli ogni volta di più, visto che controlla così tanto.



Ma è anche l’interesse a mantenere vivo il conflitto perché i nemici, bene in vista e tenuti alla gogna, sono indispensabili per un governare montato come una campagna elettorale che non finisce mai. Nonostante l’effetto illusorio di una pace sempre possibile e sempre vicina, ogni accostamento viene impedito alzando bruscamente il prezzo, in modo che sia impossibile. Ma sempre per colpa dell’altro e a meno di un di un cedimento che ne cancella l’identità e lo esibisce come preda. Dunque l’interesse remunera due volte il conflitto. C’è - s’intende - la condizione del rigoroso rovesciamento mediatico. Esempio: se gli aggrediti da questo potere commettono l’errore di rispondere con un insulto a un insulto, solo l’insulto degli aggrediti sarà ricordato, ripetuto, inchiodato nella memoria collettiva. Avverrà a cura dei media, in modo che l’autore potente del primo insulto appaia sempre il mite protagonista vilmente insultato. Un esempio: Berlusconi definisce “cancro” e “metastasi” i giudici senza altra ragione che i temuti processi contro di lui. I media registrano e dimenticano all’istante. Fanno in modo che non se ne parli mai più, fino allo sbadiglio di Ugo Magri sulla Stampa per la mia frase. Ma se dite “magnaccia” (parola forse un po’ esagerata) al primo ministro sorpreso a sistemare le sue giovani amiche nella Tv di Stato, state tranquilli: se ne parlerà per sempre. Temo invece, dati i tempi e dati i media, che non si parlerà per sempre della odiosa intenzione, inclusa nel “pacchetto sicurezza” del ministro dell’interno italiano Maroni, di obbligare all’umiliazione delle impronte digitali i bambini Rom, sia quelli italiani sia quelli ospiti del Paese Italia, che sta rapidamente diventando il più barbaro d’Europa. Giovedì 10 aprile il Parlamento europeo ha condannato a larga maggioranza l’Italia per l’incivile progetto. Il ministro degli Esteri Frattini e il ministro per gli Affari europei dell’attuale governo italiano Rochi, hanno subito indossato la faccia dell’«ora fatale del destino che batte nel cielo della nostra patria» (le prime parole del discorso di Mussolini, 10 giugno 1940) per ribattere a muso duro al Parlamento europeo che le nostre impronte digitali ai bambini non sono affari loro. Ronchi ha detto giustamente: «E’ il momento peggiore del nostro rapporto con l’Europa».



Vero, ma suona ridicola una frase così solenne se detta dal colpevole colto sul fatto. Il fatto triste è che Frattini e Ronchi intendevano proprio dire: «Se noi abbiamo deciso di svergognare l’Italia e affiancarla, quanto a diritti civili, allo Zimbabwe, sono affari nostri. E nessuno ci deve impedire di infangare come vogliamo la nostra immagine». I due ministri, nel loro impegno a puntare sul peggio, sono apparsi così decisi, così sicuri che si possa buttare all’aria ogni decente e rispettoso rapporto con l’Europa, e così irrilevante essere considerati da Paesi civili come un Paese incivile, da rendere un po’ meno cupa l’immagine del ministro Maroni. Il ministro, in nome delle superstizioni della sottocultura leghista, priva di ogni soccorso, anche modesto, della cultura comune, ha dichiarato diverse guerre, tutte ai poveri e ai deboli inventati come nemici.



Pensate alla sua guerra ai Rom, che sono 150mila, metà italiani, metà donne, metà bambini. Il loro coordinatore, Xavian Santino Spinelli, ha parlato in Piazza Navona a nome dei molti Rom presenti (è la prima volta nella storia politica del nostro Paese) e a nome di tutti i Rom italiani. Forse dispiacerà alla sottocultura leghista che il Rom Spinelli oltre a essere musicista (troppo facile, diranno) sia anche docente di Antropologia all’Università di Trieste. Il fatto è che il peggio di Maroni ha fatto nascere un meglio senza precedenti nelle vita italiana: un legame con il popolo Rom. Giovedì 8 luglio, per fare un altro esempio senza precedenti, la sala conferenze della Fondazione Basso era affollata di di Rom e di intellettuali della Fondazione per discutere il che fare insieme. Il lunedì precedente l’Arci ha organizzato in Piazza Esquilino una raccolta di impronte digitali di adulti e bambini italiani, evento affollato e filmato da una decina di televisioni europee e americane.



Ma proviamo a confrontare l’indefesso lavoro del ministro Maroni contro i piccoli, i deboli, gli scampati alla traversata del mare e alle guerre e persecuzioni nei loro Paesi, con ciò che pensa (del pensiero padano, del ministro Maroni e, ovviamente dell’illustre governo di Frattini e Ronchi) il Cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi. Cito da pag. 13 de Il Giornale, 8 luglio: «Asili per gli immigrati: le materne comunali dovrebbero essere aperte anche ai figli degli immigrati clandestini. Lo sgombero dei Rom: l’impressione è che nello sgombero si sia scesi sotto la soglia di tutela dei fondamentali diritti umani. L’esercito nelle città: I soldati servono ad aumentare la paura. La sicurezza non passa per decreto legge. La moschea di Viale Jenner: Maroni sposta la moschea? Solo un regime fascista e populista usa tali metodi dittatoriali». Lo stesso giorno il ministro della Difesa La Russa aveva detto, con la sua famosa mancanza totale di humour: «Per il momento sembra chiaro che ai militari, a Milano, sarà affidata la sorveglianza del Duomo e delle chiese più importanti». Il Cardinale, che celebra ogni giorno la messa in Duomo, ha visto sùbito immagini che a uomini intelligenti e sensibili evocano Pinochet.



Come si è visto, l’interesse del conflitto è grande e sfacciato abbastanza da indurre l’editore del governo (che è anche il governo dell’editore) a pubblicare la più squallida e violenta copertina che mai settimanale politico europeo abbia pensato di pubblicare. Panorama, 10 luglio: la fotografia è quella di un bambino che i lettori sono chiamati a identificare come zingaro. Il titolo è “Nati per rubare”. Segue questo testo: «Appena vengono al mondo li addestrano ai furti, agli scippi, all’accattonaggio. E se non ubbidiscono sono botte e violenze. Ecco la vita di strada dei piccoli Rom che il ministro Maroni vuole censire, anche con le impronte digitali». So di averne già parlato, ma ripeto le citazioni e l’immagine per due ragioni. Una è l’ offesa per una pubblicazione che esalta, secondo i canoni di Goebbels, l’indegnità genetica dei bambini di un popolo. L’altra è la solidarietà ai colleghi di Panorama, molti dei quali conosco e stimo personalmente, per l’umiliazione imposta loro da un proprietario che, dovendosi salvare dai suoi processi, ha bisogno dei voti leghisti e dunque deve pagare (e far pagare) pesanti tributi alla sottocultura leghista così risolutamente respinta dal Vescovo di Milano, in piena solitudine. L’interesse del conflitto è una infezione che continua ad estendersi. Ma siamo appena all’inizio delle sue conseguenze peggiori. Purtroppo, a fra poco.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 13.07.08
Modificato il: 13.07.08 alle ore 7.54   
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« Risposta #97 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:13:36 am »

Razzismo, dal manifesto alle impronte rom

Furio Colombo


Abbiamo letto e riletto tante volte, in questi decenni resi liberi dalla distruzione del fascismo e razzismo, dal sangue dei partigiani, dalle rivisitazioni angosciate del Giorno della Memoria, il «Manifesto della razza», firmato da una decina di personaggi sconosciuti (tra essi due zoologi) detti, a quel tempo «scienziati», ma anche da un illustre clinico (Nicola Pende) che ha poi compiuto il meglio della sua carriera e ricevuto gli onori più alti nell’Italia libera, troppo presto smemorata dopo l’orrore del fascismo.

Ad ogni lettura ognuno di noi ha provato un senso di repulsione e di ridicolo, di delittuoso e di assurdo, di estrema ignobiltà ma anche di pauroso vuoto di cultura (parlo di cultura comune, generale) e di rispetto per se stessi. Immaginate quegli «scienziati» nell'atto di firmare. E intravedete un abisso di viltà così profondo da sfidare e disorientare l’immaginazione. Chi può disprezzare a tal punto se stesso? è la domanda triste e inevitabile. Quello che non ci saremmo mai aspettati, neppure il più pessimista o il più scettico di noi, sul mistero e le fenditure della natura umana, era di rileggere il «Manifesto della razza» (allora opportunamente ripubblicato sulla rivista «Difesa della razza» di Telesio Interlandi e Giorgio Almirante) come un documento dei nostri giorni, del nostro tempo. Per esempio, rileggete questa frase del «Manifesto», e immaginatela scritta o pronunciata in un ideale sequenza documentaria di ciò che è davvero accaduto nell’aula di Montecitorio alle ore 13 di mercoledì 16 luglio: «È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». Quel giorno, a quell’ora, i deputati di Berlusconi stavano tributando uno scroscio di applausi a se stessi per avere approvato la legge che autorizza a prelevare le impronte digitali ai bambini Rom, sia italiani sia ospiti dell’Italia, esattamente come quella stessa Camera nel 1938, aveva calorosamente applaudito l'approvazione dell'altro «pacchetto sicurezza», quello delle «leggi per la difesa della razza» redatte da Mussolini.

Il fatto che l’aberrante discriminazione di oggi contro i bambini Rom sia stata voluta da un uomo storicamente irrilevante, non toglie nulla all'umiliazione imposta a quei bambini. Mentre alla Camera, nel nuovo e identico tuono di applausi, il ministro Carfagna e il deputato Bocchino cercavano, una contro l'altro, di farsi vedere abbracciati al ministro Maroni (che da oggi, nonostante la ben nota modestia umana e politica, dovrà essere ricordato per la sua nuova legge che riporta l'Italia al prima della Resistenza), ho immaginato lo scorrere del testo che ha sfregiato l'Italia: «È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il regime in Italia è fondata sul razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del capo il richiamo ai concetti di razza». Se il capo a cui adesso si fa riferimento è Bossi (con Borghezio, come scorta) le parole del «Manifesto» sull’immagine di Maroni che mostra il pollice in alto nel gesto americano della vittoria, sono il commento perfetto.

Non dobbiamo più domandarci: «Ma che gente era, quella che ha approvato e sostenuto il «pacchetto sicurezza del 1938?». Basta osservare, con immensa tristezza, i deputati di Berlusconi che applaudono se stessi per avere approvato il loro «pacchetto sicurezza». Quello che proclama la pericolosa estraneità della razza Rom, e schiera i soldati a difesa della razza italiana.

Pubblicato il: 19.07.08
Modificato il: 19.07.08 alle ore 10.23   
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« Risposta #98 inserito:: Luglio 20, 2008, 06:02:04 pm »

La giustizia come intrusa

Furio Colombo


Il problema giustizia viene avanti in molti modi e molti episodi, quasi sempre per dire che la giustizia circola fuori posto, come un guidatore che - per ragioni non accertate - invade la corsia opposta.

Altri episodi, pur avendo peso e drammatica risonanza nella storia (non di una provincia italiana, nel mondo) sono ignorati del tutto.

Al momento solo Marco Pannella - fra l’indifferenza generale - sta facendo lo sciopero della fame nel tentativo di salvare una vita (si veda l’intervista di Umberto De Giovannangeli su l’Unità del 18 luglio). Impegno meritevole e irrilevante, direte voi, perché dove è ancora in vigore la pena di morte non fanno caso a Pannella. O forse - diranno altri - perché perdere tempo a occuparsi di una storia lontana, con tutte le gatte da pelare che abbiamo qui?

Il fatto è che, con un certo istinto, Pannella ha visto qualcosa che forse merita attenzione: l’imminente condanna a morte di Tariq Aziz, unico non islamico nel cerchio di Saddam, ultimo a venire a Roma e a vedere il Papa (Giovanni Paolo II) un giorno prima della guerra che quello stesso Papa ha supplicato in tutti i modi di evitare, seppellirebbe per sempre una fonte essenziale di fatti veri. Per esempio: è vero che Saddam stava per accettare l’esilio?

Qualcuno forse ricorda la follia radicale dello slogan «Iraq libero». Proponeva una di quelle cose semplici e assurde che a volte evitano le catastrofi: rimuovere Saddam (che voleva un miliardo di dollari per andarsene) e lasciare intatto e libero dal dittatore il Paese, in cui la distruzione, a un costo immenso, dura ancora. Ma qui non si tratta di rimpiangere, visto che almeno la storia ha corretto i suoi verbali, e si sa con certezza (testimone chiave l’ex primo ministro spagnolo Aznar) che una guerra così spaventosa era davvero evitabile.

Si tratta di fermare un processo finto, di invocarne uno vero, in nome dei princìpi in cui crediamo (o diciamo di credere) e impedire l’esecuzione dell’ultimo membro di governo colpevole, certo, ma anche ultimo testimone. E fermare un’altra esecuzione capitale in un mondo già spaventosamente insanguinato.

Su tutta questa questione non si muove una foglia negli illustri e storici parlamenti europei. È attivo, vivo e nervoso, invece, il Congresso americano. La Speaker (Presidente della Camera) Nancy Pelosi ha dato il via libera alla Commissione giustizia del suo ramo del Parlamento. In quel Paese la Commissione giustizia di una Camera non si occupa di bloccare il tentativo di un padre disperato di porre fine all’orrore della morte di una figlia che dura da 16 anni. In quel Paese la Commissione giustizia si riunisce per ascoltare il deputato Kucinich che, sulla base di una sua dettagliata inchiesta, vuole confrontare il Presidente degli Stati Uniti con l’accusa di avere dirottato stampa e opinione pubblica usando fatti non veri pur di cominciare la guerra che non finisce.

Un libro americano appena uscito in Italia ("The Italian Letter" di Peter Eisner e Knut Royce, distribuito in edicola dalla rivista "Il Mucchio") racconta l’intera storia e la parte italiana della vicenda (visto che politica e servizi americani non si prestavano).

Pannella però punta più alto, con il rischio di colpire nel vuoto, ma anche con un pragmatismo davvero di tipo americano. Dice: «Intanto salviamo la vita di Tariq Aziz e sentiamo che cosa ha da dire, ora che è senza potere ma non senza memoria». Ecco dunque una questione di giustizia che in luogo del silenzio meriterebbe un forte attivismo giornalistico e politico. Invece, silenzio. Capisco i media, che non possono montare retroscena. Ma le Commissioni Giustizia ed Esteri di Camera e Senato?


* * *


Domina invece, dai titoli agli editoriali, dalle interviste alle ricostruzioni cronistiche, il rapporto politica-giustizia in Italia. Non parlo di uno specifico evento, come quello del Presidente della Regione Abruzzo Del Turco, per il quale è doveroso l’augurio che possa dimostrare la sua estraneità ai fatti, la sua innocenza, nella più limpida delle inchieste, e nella più persuasiva delle difese possibili.

La questione italiana è unica e segnata da una profonda diversità rispetto al resto del mondo. Quella italiana non è una discussione tra esperti o un dibattito tra politici competenti su aspetti e modalità del rapporto fra i due poteri.

Vantare l’indipendenza del potere giudiziario di un Paese è privilegio delle democrazie. Dovunque, scorrendo i giornali del mondo, dalla Scandinavia all’India, trovate notizie del ministro sotto inchiesta (di solito dimissionario) del parlamentare indagato, di azioni probabilmente indebite compiute nell’ambito di uno degli altri due poteri, legislativo ed esecutivo, e perseguite dai procuratori e dai giudici del potere giudiziario. Poiché nel mondo del diritto la responsabilità penale è personale, ciascuno risponde in proprio, ci sono assolti e condannati (pochi, molto pochi restano o rientrano nella politica) e nessun Paese si spacca, nessun lavoro parlamentare si ferma, nessuno si esporrebbe al ridicolo di dichiararsi perseguitato, e anzi di esibire il numero delle inchieste e dei processi che lo riguardano come se fossero le decorazioni commemorative di valorose battaglie.

L’idea stessa che qualcuno manovri i giudici per i fini politici di un partito o di un gruppo, quando quell’idea torna ad essere dichiarata, come una denuncia rivelatrice, per decenni successivi, mentre intanto tutte le forze politiche (e il peso di quelle forze politiche) sono profondamente cambiate, è una denuncia malata. Oppure è la denuncia di un attentato, di un golpe. Va dimostrato con fatti, nomi, date, circostanze. Non è ammesso, non dal diritto e non dalla psichiatria, di dire: "Ce l’hanno con me".

Un momento di particolare, stridente contraddizione con la realtà, di nuovo in ambito dubbio sulla tenuta psichica o almeno la buona fede di chi fa la dichiarazione, viene raggiunto quando un inquisito assolto dichiara la sua assoluzione non la prova della giustizia che funziona, ma la prova del complotto. «Vedete? Mi perseguitano, tanto è vero che sono stato assolto».

Il lettore ha già capito che stiamo parlando sempre e solo di Berlusconi. Si può anche non nominarlo, ma la maledizione non se ne va. E’ lui che dichiara, in un mondo in cui si stanno incrinando le travi di sostegno di grandi Banche, in cui la paura è un ghibli che attraversa le Borse, in cui prezzi e inflazione salgono di giorno in giorno e anche di ora in ora, in cui il Governatore della Banca centrale americana non esita dichiararsi: «molto preoccupato», lui - Berlusconi - dichiara e ripete: «Nessuno mi fermerà; la priorità è la giustizia». Sentite i suoi rimedi alla crisi che scuote il mondo dalla City a Pechino:

«1. Ritorno all’immunità per i parlamentari (segue smentita, seguirà conferma).

2. Carriere separate per i giudici.

3. Frantumazione del Consiglio superiore della magistratura.

4. Misurare la produttività dei giudici (notare la parola da Confindustria applicata alla giustizia, ovvero la sovrapposizione di un potere sull’altro).

5. Vietare e punire tutte le intercettazioni eccetto per mafia e terrorismo» (con il problema di stabilire quando e dove una questione di mafia o terrorismo comincia o finisce).


* * *


Il problema si fa più grave quando illustri commentatori di grandi giornali seguono scrupolosamente il percorso indicato dal Capo che dice: se si verifica una interferenza, per qualsiasi ragione, fra giustizia e politica, il solo rimedio è “riequilibrare i poteri” ovvero tagliare le unghie alla giustizia.

Sentite l’opinione autorevole (e osservate lo snodo logico) espresso in un editoriale di Angelo Panebianco: «L’inchiesta su presunte tangenti nella sanità (dell’Abruzzo, ndr) ricorda a tutti che i problemi fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi». E anche (sentite bene): «È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di essere di nuovo forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia che non si limiti a essere fotocopia di quella dell’Associazione magistrati?». (Corriere della Sera, 15 luglio).

Il senso di questo ammonimento è piuttosto offensivo per il nuovo Pd. L’editorialista sta dicendo: «Come pensate di governare se lasciate liberi i giudici di indagare?».

Credo di poter dire che, offensive o no, le frasi fin qui citate siano intraducibili per il New York Times. I due candidati dei due grandi partiti americani non hanno alcuna “posizione sulla giustizia” salvo le garanzie e i diritti umani e civili di tutti i cittadini. Non l’hanno e non devono averla perché tutto è già stato stabilito dalla Costituzione. E inoltre perché i candidati delle elezioni americane sono in corsa per ottenere il potere esecutivo, non quello giudiziario. Quando il Presidente e la signora Clinton sono finiti sotto inchiesta per bancarotta (una piccola proprietà dell’Arkansas gestita insieme con soci infidi), l’America non si è fermata un istante, non c’è stato alcun convegno e il Presidente ha fatto la spola fra la Casa Bianca e il Gran Jury (organo istruttorio) senza denunciare persecuzioni. Quando i Clinton sono stati assolti nessuno ha parlato di “teorema svuotato come una bolla di sapone” (sto citando l’estroso portavoce Bonaiuti). Si è limitato a dire: «È finita bene». I due Clinton, Presidente e First Lady, si sentivano protetti, come tutti i cittadini, dalla loro Costituzione.

Anche noi lo siamo dalla nostra. Ma c’è ansia e allarme quando un personaggio che ha peso, storia, rilievo politico come Massimo D’Alema dice al Corriere della Sera (15 luglio): «Sulle riforme serve un colpo di reni. Sì a ragionevoli convergenze». Convergenze con chi? Non sarebbe meglio tentare, tutti insieme, di salvare la vita a Tariq Aziz?

L’ex ministro degli Esteri sa che valore non solo simbolico avrebbe quel salvataggio.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 20.07.08
Modificato il: 20.07.08 alle ore 14.58   
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« Risposta #99 inserito:: Luglio 27, 2008, 11:14:14 pm »

Non aprite quella porta

Furio Colombo


Dichiarano lo stato di emergenza nazionale all’improvviso, con frivola incompetenza e salda fede leghista.
Pretesto: una invasione di immigrati (succede sempre d’estate, con il mare calmo) che tormenta sempre la fantasia malata della Lega Nord e del ministro Maroni, uno che ha giurato fedeltà alla Lega prima che alla Repubblica italiana. Realtà: poter disporre del diritto di arresto, deportazione, creazione di nuovi campi, forse intenzione di fermare in mare le imbarcazione disperate. Come vedete un’emergenza c’è ed è per quel che resta di civile, di umano, di democratico nell’Italia governata da Berlusconi.
Non è solo un brutto film quello che stiamo vivendo e di cui siamo quasi tutti comparse. È anche un film fuori sincrono, nel senso che sono oscure le parole, sono oscuri i fatti. Ma anche così, anche a condizioni minime di rappresentazione e narrazione della realtà, viviamo in un pauroso fuori sincrono. È l’effetto che certe volte accade, con disorientamento del pubblico, nella proiezione di un film: colonna sonora e immagine non corrispondono. Il risultato è: guardi la scena e non riesci a credere né alle parole né alle immagini. Per esempio, un ministro della Repubblica, titolare di una funzione chiave nel governo italiano (ministro delle Riforme) dedica gesti e parole volgari a un simbolo istituzionale (l’inno della Repubblica italiana) denigra in modo stupido gli insegnanti italiani del Sud (uno di loro è accusato di avergli bocciato il non geniale figlio), ma soprattutto pronuncia queste parole: «Contro la canaglia romana quindici milioni di uomini del Lombardo-Veneto sono pronti a farla finita». In altre parole un ministro della Repubblica, eletto con voti secessionisti e portato a Roma da un premier senza scrupoli, a cui conviene la confusione che copre l’illecito, parla da secessionista con l’autorità di Ministro del Paese che occupa e disprezza, e con cui intende «farla finita». È lo stesso ministro-chiave insediato nella capitale italiana ma capo di una forza violentemente anti- italiana, che pochi giorni prima incitava la nazionale di calcio della «Padania» nel «campionato degli Stati non riconosciuti».

La Padania è infatti uno di quegli Stati. “Non riconosciuti” vuol dire non ancora liberi. Infatti, in quella occasione il grido di Bossi era un rauco “Padania” al quale la sua folla doveva rispondere con l’urlo “Libera”. Una manifestazione secessionista da fuori legge, e certamente incompatibile con l’immagine, benché logora e screditata, di Ministro della Repubblica. È chiaro a tutti che si tratta di un gesto pericoloso contro il quale, ti immagini, si rivolta con indignazione la classe dirigente di un Paese. Sono questi i casi in cui si può verificare un serio e vero sentimento trasversale di condanna, di presa di distanza, di separazione da una visione così bassa e così irresponsabile della vita pubblica italiana da parte di un garante (un Ministro importante) della vita pubblica italiana. Dopo tutto si tratta della stessa classe dirigente occupata per una decina di giorni in una staffetta di condanne esterrefatte e continue dedicate all’ormai celebre «delitto di piazza Navona», rispetto a cui impallidiscono altri fatti- pur duri- della cronaca nera italiana. Ma in piazza Navona affermazioni immensamente discutibili (che personalmente ho scelto di respingere subito) erano state fatte da due comici, celebri e popolari, certo, ma liberi da responsabilità istituzionali. Eppure non c’è confronto. Entro giorni due (due) i più autorevoli giornali e telegiornali italiani potevano scrivere e dire «archiviata la questione Bossi». Archiviata quando, da chi? E come è possibile che si sia rapidamente condonato come «colore» il gesto volgare contro l’istituzione e l’appello alla rivolta da parte di un Ministro della Repubblica?

* * *

«Archiviato» anche il problema giustizialista (ovvero di implacabile persecuzione delle compatte forze giustizialiste) di Silvio Berlusconi. Sentite il titolo (un titolo esemplare ma certo non il solo): «Tolto il macigno giustizia, niente più alibi per le riforme» (ilMessaggero, 24 luglio). Un intervistato del “Giornale Radio 3” (ore 8.45 del mattino del 23 luglio) ci spiega anche meglio: «È venuto anche meno l’alibi dell’antiberlusconismo giudiziario». Come dire: chi, d’ora in poi, si sottrae a un fitto e proficuo dialogo sulle riforme, non ha ragioni e indignazioni da invocare, perché il grande imputato non ha più problemi con la giustizia. Ognuno di quei problemi, compreso il processo Mills, con la pesante imputazione di corruzione giudiziaria, è stato allontanato da Berlusconi con una legge fatta per Berlusconi dall’ex segretario privato di Berlusconi, divenuto Ministro della Giustizia, in consultazione accurata e continua con gli avvocati di Berlusconi. Il quadro è rappresentato con triste umorismo dal vignettista Giannelli sulla prima pagina del Corriere della sera del 24 luglio: Berlusconi, vestito da mago, salta sul collo del Presidente della Repubblica e, profittando di quella elevazione e di quel livello che di suo non possiede, brandisce la bacchetta magica dell’ autoritarismo ormai senza limiti. Immagino la dispiaciuta amarezza con cui il Presidente Napolitano avrà guardato quella vignetta. È ciò che è accaduto: comporre un «pacchetto di immunità» nel quale il più onesto e disinteressato degli italiani (vedere la sua vita, prima ancora della sua carica) si trova stretto accanto all’italiano più noto nel mondo per il suo attivo, aperto e smaccato conflitto di interessi nei confronti e a danno dello Stato che governa; e per le sue innumerevoli imputazioni, che hanno indotto la rivista finanziaria inglese “The Economist” ad aprire con il titolo di copertina a piena pagina «Mamma mia!». In altre parole, Berlusconi imputato, per liberarsi dal più rischioso ed imminente dei suoi processi, ha formato una scorta composta dalle tre più alte cariche dello Stato. Due saranno forse state consenzienti, per amicizia o solidarietà o affinità. Ma il capo dello Stato, un uomo che - per esempio - l’opinione politica repubblicana e democratica degli Stati Uniti ha stimato e ascoltato fin da quando era esponente del Partito Comunista italiano, adesso, appare inserito dentro una legge-ricatto. Di essa il Capo dello Stato non ha alcun bisogno a causa delle prerogative istituzionali che disegnano il suo ruolo, al di sopra (ma anche estraneo) rispetto ad ogni altro ruolo.

Ecco in che senso è inevitabile, in questi giorni, pensare con sostegno, amicizia, solidarietà al Capo dello Stato. Ci sono cittadini che cadono nella trappola di Berlusconi o in quella dell’antipolitica e che dicono: «Andiamocene via. Sono tutti uguali, sono tutti la stessa gente». Oppure provvedono i pr di Berlusconi a farvi credere: «Non c’è differenza fra noi e il Quirinale. Vedete? Siamo tutti nello stesso pacchetto di immunità». Tocca a noi dire che la figura del Capo dello Stato non si confonde, non si identifica e non ha niente a che fare con un meccanismo un po’ ignobile pensato e usato come trappola, e che il giurista Carlo Federico Grosso ha definito «il male minore». «Ma è il male minore all’interno di una strategia fondata sulla continua minaccia di un male peggiore» (La Stampa, 25 luglio). È una trappola che in apparenza funziona perché il formalismo giuridico del ruolo presidenziale (immaginato per un Paese normale in cui tutte le altre cariche dello Stato sono pulite e non hanno la giustizia alle calcagna) richiede di firmare ciò che nella forma appare legale (dopo l’approvazione delle Camere) e costituzionale (dopo le precauzioni cosmetiche per far apparire vivo un cadavere giuridico).
Naturalmente stampa e tv in servizio permanente effettivo per il premier-padrone-imputato, sanno il loro mestiere. E dedicano alla firma, inevitabile e dovuta, (in attesa del giudizio della Corte Costituzionale) del presidente della Repubblica, minuti di tv e pagine di giornali. E sono pronti a trasformare in scandalo riflessioni come quelle proposte da Antonio Padellaro su questo giornale. Che significano: non lasciamo solo il Capo dello Stato con questa legge grave e ben congegnata. Il Capo dello Stato è l’alibi e l’ostaggio che dobbiamo negare a Berlusconi. Allo stesso modo, insieme con Padellaro mi sento di dire - finché riusciamo a dirlo -: non lasciamo soli i cittadini che hanno fiducia nella legge, nella Costituzione, nel giusto processo, nella informazione libera e responsabile, nel Capo dello Stato come garanzia.

Un popolo democratico, nei momenti di allarme, non cerca il dialogo con chi ha provocato l’allarme. Lo cerca con il suo punto alto di riferimento. Si volge in modo naturale verso il presidente della Repubblica. Come può essere un problema, o anche solo un segno di poco rispetto, questo spontaneo voltarsi di tanti cittadini verso il Presidente, mentre intorno volano insulti, minacce, volgarità di governo, promesse incalzanti di fare peggio, sia con la violenza fisica (Bossi) sia con leggi ancora peggiori (Berlusconi)? È naturale, nel cuore di una democrazia che non vuole spegnersi nonostante Berlusconi, cercare orientamento e risposta. Un’opinione pubblica fiduciosa è il più alto sostegno della democrazia. Una opinione pubblica allo sbando, o nella trappola dell’antipolitica è un grande pericolo.
Rompiamo l’antica abitudine delle istituzioni a parlare solo alle altre istituzioni. Ci sono milioni di cittadini che non vogliono essere mandati a casa dalla antipolitica che vede tutti uguali a tutti. Ma vogliono essere parte viva di una stagione di speranza, fatta di informazione, mobilitazione, partecipazione.

* * *

Nel frattempo il cielo della Repubblica è solcato da messaggi misteriosi, sullo sfondo di scenari che richiederebbero un libero sistema di informazioni e un sistema politico (Camera e Senato) funzionante. Ma la Camera e il Senato sono l’altro grande ostaggio della paralisi imposta al paese dagli interessi di Berlusconi. Ecco alcune domande che, stranamente, non sono diventate né materiale giornalistico, né spunto per una inchiesta approfondita.
1 - Chi stava parlando con chi, a nome di chi, e a proposito di che cosa, quando all’improvviso è stata lanciata una non credibile, non plausibile accusa a Fassino e a Nicola Rossi? Nel senso tetro della parola, è un gioco. Ma che gioco è, e chi sono i giocatori, e quale è la posta? Proprio perché l’insinuazione appare subito campata in aria, è evidente che si tratta di un imbroglio deliberatamente organizzato, la falsa pista di tutti i thriller . Restano le domande: che si è messo in moto? Perché adesso, in termini tanto pesanti, destinati a provocare tumulto e scandalo ma anche distrazione? È chiaro che tutto è inventato in questa storia. Ma non è una svista. È urgente decrittare il gioco, intercettare il percorso, e identificare gli autori. Dopo tutto siamo al centro della più grande vicenda di spionaggio politico mai realizzato con strutture private nel mondo occidentale.

2 - A Napoli è scomparsa la spazzatura. Manca una certificazione indipendente. Deve bastarci la parola? Ma chi si ricorda il numero di migliaia di tonnellate da smaltire dovrebbe esigere di sapere, prima di rendere il dovuto onore al successo: dove è finito l’ammasso di anni e anni di spazzatura nel miracolo della pulizia fatta in soli 80 giorni? Tutto è possibile, ma dove dirci come. Per esempio, dov’è finita la camorra, potente e presente dovunque? Si è arresa, è in ritiro, è in attesa, è in affari (forse altri affari)? Qualcuno vorrà aiutarci a sapere, magari per imparare e ammirare?
3 - Dialogando con Felice Cavallaro del Corriere della sera (24 luglio) Marcello Dell’Utri, ammette e anzi certifica, telefonate e incontri con due malavitosi di chiara fama, Aldo Miccichè, che opera dal Venezuela e si fa sentire con Dell’Utri per telefono, e Antonio Piromalli che, riuscendo a sfuggire alla polizia, fa una scappata nell’ufficio del senatore (13 marzo). Attenzione, non dite che «è il solito Dell’Utri, che tutte queste cose le sappiamo già e non conta più». Dell’Utri, in piena campagna elettorale, ha ricevuto un pubblico, esteso, drammatico elogio di Silvio Berlusconi, forse un vero e proprio messaggio a qualcuno. In quella stessa occasione Berlusconi ha proclamato «eroe» il pluriomicida mafioso Mangano, per molti anni ospite di casa Berlusconi e poi morto in prigione mentre scontava l’ergastolo.
Dell’Utri è tuttora il reclutatore e organizzatore dei giovani del partito (il suo incarico si riferisce a Forza Italia. Sarà stato esteso al partito del Popolo della libertà, dunque aperto ai giovani di An?). Ed è comunque - nell’intervista al Corriere - l’autore della seguente confessione: «Miccichè voleva contattare un azienda di petrolio russa. Io sono molto amico di questi russi. È materia di cui si occupano tutti, pure io. Una cosa normale. Niente di male. Lo stesso Miccichè mi chiese di occuparsi del voto italiano in Venezuela. Io lo misi in contatto con Barbara Contini (ricordate? La “governatrice di Nassirya”, al tempo della morte del caporale Vanzan, ndr) cioè una persona di altissimo livello che coordina questo settore». Dunque un avamposto di potere, di governo, di maggioranza è luogo ospitale di accoglienza e smistamento di persone come Piromalli, di mediazioni d’affari come quella richiesta da Miccichè, ma soprattutto di inclusione rapida del volontario Miccichè nella campagna elettorale e nel partito di Berlusconi, attraverso l’immediata messa in contatto di un celebre e ricercato personaggio (ricercato da molte polizie) che offre affari e politica, con la dirigente («altissimo livello») del partito di Berlusconi Barbara Contini.
È bene tenere presente tutto ciò per sapere in ogni momento perché dobbiamo fare cordone e stare dalla parte del Capo dello Stato. Quando è stato chiesto ad Anna Finocchiaro, «ora che è stata archiviata la questione giudiziaria di Berlusconi, si può ripartire col dialogo?», la senatrice opportunamente ha risposto: «il dialogo non è una porta che si apre e si chiude a piacimento». Ha ragione. Infatti, se la apri e corri il rischio che entrino in scena Miccichè e Piromalli. Anche se non sei giustizialista, la normale prudenza del buon padre di famiglia ti sconsiglia di aprire quella porta.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 27.07.08
Modificato il: 27.07.08 alle ore 14.38   
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« Risposta #100 inserito:: Agosto 02, 2008, 09:04:30 am »

Radio Londra

Furio Colombo


Ha ragione Il manifesto a definire "misteriosa" Radio Radicale. Come spiegare una radio simile in un Paese che ha subito (e subisce da tempo) un pauroso blocco delle informazioni, nel Paese della Rai visiva e della Rai parlata, in cui una questione testamento biologico te la spiega un vescovo, una di sospetta finanza viene affidata al presunto imputato, il presidente dell'azienda di un vasto spionaggio telefonico viene intervistato per scagionare se stesso, l'immigrazione si chiama "sicurezza", l'estate nelle città deserte "emergenza", con pattuglioni di lancieri e granatieri fra turisti storditi, l'immondizia a tonnellate scompare quando ti dicono che è scomparsa, senza uno straccio di spiegazione e di prova, e la frase: «le impronte digitali fanno bene ai bambini» viene ripetuta come un fatto ovvio, che balza agli occhi, e le reti oscurano i raid nei campi nomadi (che però l'Europa, che ha altre radio e altre televisioni, vede bene), in un Paese così una radio che non apre le notizie con il Papa, ti racconta tutto delle sofferenze di Coscioni e di Welby (e del corpo di Welby abbandonato fuori dalla chiesa), fa parlare una parte e l'altra senza giro rituale e infinto di voci fisse, ti dà le dirette dei fatti veri, ti racconta la guerra in Iraq (la vera storia) e il tentativo di salvare la vita a Tareq Aziz, questa è senza dubbio una radio misteriosa. Diciamo: estranea alla prevalente cultura italiana.
Riceve, certo, contributi per esistere. Ma trasmette tutto da tutto rendendo trasparente un Paese opaco fatto di realtà sovrapposte e impenetrabili, un Paese con le finestre murate a cura di editori, partiti, caste, e interessi speciali.
Non è né gradevole né gentile, Radio Radicale, e non è neppure la cosa più bella del mondo. Personalmente, e professionalmente, mi manca una terza parte (tutte le notizie che segnano un giorno, ripetute più volte al giorno). Ma mi mancano perché penso al solo modello "perfetto" che conosco, la «National Public Radio» americana che quasi ogni giorno dispiace ai politici di potere non perché sia di sinistra (è appena un po' liberal) ma perché non tace su nulla. Radio Radicale, per i miei gusti, è un poco di destra (è appena un po' troppo "di mercato") e come la PBS non nasconde nulla. Ma gli manca il grande notiziario.
Però come saprei di Israele e Medio Oriente e della Cambogia, di Cina e Tibet e Birmania, di sperdute e abbandonate minoranze nel mondo, senza Radio Radicale?
E come comincerebbe la giornata politica di molti italiani (va bene, parlo soprattutto di addetti ai lavori) senza «Stampa e regime», la celebre rassegna stampa mattutina di Radio Radicale?

D'altra parte il 31 luglio, mentre questa nota viene scritta, è anche il giorno in cui il governo "liberale" ha tagliato tutti i sostegni a tutti i giornali considerati "politici", a cominciare da Libero e dal Foglio, fino a l'Unità.
Perché la questione è diversa da una normale decisione di un normale governo? Perché è presa dal titolare del più grande conflitto di interessi del mondo. Quale conflitto di interessi? Quello del proprietario di quasi tutto ciò che si vede e quasi tutto ciò che si legge, che abolisce - o tenta di abolire - anche la minima concorrenza.
La questione "sostenere o no la stampa di partito" specialmente in momenti difficili è grave e seria e degna di dibattito. Il taglio di Berlusconi però finisce per apparire una museruola, una finestra murata in più. Se fossi Radio Radicale - che viene preservata, credo, soprattutto grazie alle dirette dalla Camera, dal Senato e moltissimi eventi politici del Paese (a volte unica fonte di cose veramente dette) - inserirei subito nei programmi ore messe a disposizione dei giornali morenti e delle loro voci che potrebbero finire per sempre nel polpettone quotidiano Rai-Mediaset. In un mondo di regime (che - ti dicono a Radio Radicale - non comincia con Berlusconi, è più radicato e più antico) potrebbe essere un'idea di salvezza.

Pubblicato il: 01.08.08
Modificato il: 01.08.08 alle ore 11.11   
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« Risposta #101 inserito:: Agosto 03, 2008, 07:52:06 pm »

Il muro

Furio Colombo


Gli addetti lavorano svelti e senza molto disturbo o distrazioni. Dove c’era un passaggio per la giustizia, in modo che l’azione del giudice potesse intercettare il sospetto colpevole, adesso c’è il blocco di cemento del “lodo Alfano”. Tiene strettamente legati insieme colpevoli e innocenti. In questo modo i colpevoli sono salvi per sempre, come non avviene in nessun luogo del mondo democratico. Lo dimostrano le dimissioni del Primo ministro israeliano Olmert. È inseguito da un’inchiesta che non si è fermata mai (benché quel Paese sia in situazione di grande emergenza). Ma Olmert, non ha mai lamentato persecuzioni. E prima del processo si è dimesso senza tentare di coinvolgere nel suo destino le altre cariche dello Stato.

Ma - voi direte - l’Italia è la patria del diritto. Forse è per questo che, sfidando non solo il nostro diritto ma anche il diritto degli altri europei e degli altri esseri umani, si è provveduto a murare il percorso di civiltà o anche solo di media umanità che porta verso i cosiddetti campi nomadi, in modo da isolare bambini poveri senza diritti a cui vengono prese a piacimento le impronte digitali che violano ogni principio, ma aggiungendo il sarcasmo tipico del governare ottuso e totalitario. Invece de «Il lavoro rende liberi» adesso c’è scritto (e ripetuto ben oltre il ridicolo, persino dal premier italiano in pomposa conferenza stampa, lasciando un po’ indignati il collega rumeno e il commissario europeo Hammerberg) che «le impronte digitali fanno bene ai bambini». Come se, invece di essere forzati a premere, impotenti, il piccolo dito sul tampone, ricevessero una medicina. Maroni, non può sapere che sta ricreando, in tutto il suo squallore, il mondo dickensiano dei “poveri per sempre” o “poveri come razza” di Oliver Twist.

Berlusconi avrà scorso qualche sceneggiatura sul tema, sa che comunque fa “audience” (il solo tema a cui è sensibile, oltre alla sottomissione dei giudici).

E comunque ha bisogno di Bossi, Borghezio, dei leghisti peggiori, tipo Salvini con cane anti-negro al guinzaglio, tipo Cota, che invece offre il candore di non saper leggere le parole di Mameli (crede e dice alla Camera che l’Italia, e non la vittoria, è “schiava di Roma” nell’Inno che lui crede dei calciatori, e gli sfugge la metafora, seguendo l’esempio del futuro condottiero Renzo Bossi). E butta avanti la “sicurezza” presieduta dai militari come in Honduras. Lancieri e granatieri occuperanno le città italiane d’agosto e daranno man forte, insieme alla crisi di abbandono dell’Alitalia, alla fuga dei turisti. Nessuno decide di fare vacanza in un Paese in cui “la sicurezza” (parola codice per indicare il rigetto verso i Rom e gli immigrati in genere, quegli stessi immigrati che muoiono di fatica e di lavoro, ma senza pensione) diventa “emergenza” (parola gravissima, molto dannosa e mai spiegata) ed è necessaria l’azione continua e convulsa del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa, i Graziani e i Badoglio della nuova Italia di destra, finalmente tornata libera di sognare il peggio. Del resto, la sapete l’ultima? Il sindaco leghista di Novara, Massimo Giordano, vieta gli assembramenti di più di tre persone, proprio come nell’Italia del 1933.

Di là dalla barriera un po’ folle di poliziotti senza paga e senza benzina e di soldati “ad arma corta” mandati a cercare nemici che non ci sono, nelle città vuote, si intravedono ospedali sul punto di chiudere (dalla Lombardia al Lazio) per i tagli della prodigiosa nuova Legge finanziaria che rifiuta di rimborsare le Regioni. Se sono ancora in funzione e ancora senza ticket, quegli ospedali sono infestati dalla nuova piaga della Sanità italiana: i medici obiettori. Sono medici che, di giorno, negano di essere obiettori per preservare l’inclita clientela della ricca pratica privata. Ma improvvisamente diventano obiettori di notte, al Pronto soccorso, a voce ben alta, preferibilmente di fronte alle suore, in modo che la coraggiosa dichiarazione giovi alla tanto attesa promozione a primario. Quando si tratta di negare l’iniezione anti-dolore alla donna povera che viene all’ospedale pubblico per partorire, quando si tratta di negare la pillola del giorno dopo o assistenza e indicazioni anticoncezionali a sciagurate ragazze che non solo non sono caste, ma non sono neanche ricche, i medici obiettori esibiscono tutta la loro fede e ubbidienza cristiana. Qualcuno deve pur insegnare a queste pazienti pretenziose che non sono a Copenaghen o a Lione, quando cercano assistenza in un ospedale pubblico italiano. Sono in territorio Vaticano. E in territorio Vaticano “partorirai nel dolore” (roba che ha a che fare col peccato originale) ma vivrai per sempre. Vedi la condanna del Parlamento italiano e della Procura generale di Milano che comandano a Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo da 16 anni, di restare legata ai sondini per sempre perché in questo Paese è proibito, per rifiuto di fare la legge, il testamento biologico. Ed è proibito morire con dignità perché non c’è la legge.

***
Altri muri sono in corso di rapida costruzione a Sud e a Nord del Paese per impedire la libera circolazione della normalità e della media civiltà occidentale attraverso l’Italia. A Sud il separatista siciliano Lombardo, divenuto avventurosamente Presidente della Regione, ha dato il via alla spaccatura, pubblica e simbolica, di tutte le targhe di piazze e di vie che si riferiscono all’Unità d’Italia. Si spaccano davanti alle telecamere le targhe che indicano luoghi, celebrazioni o memorie di Garibaldi, dei Garibaldini, dell’impresa dei Mille, dei plebisciti che hanno votato l’Unità d’Italia, di eventi del Risorgimento italiano, di personaggi come Cavour.

Al Nord sindaci xenofobi opportunamente dotati di poteri speciali di polizia che scardinano in ogni senso la norma costituzionale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione», governano con cattiveria contro immigrati e Rom (anche se cittadini italiani) guidati dalle loro piccole menti senza storia, ispirati dalla grettezza, isolati persino dal contesto produttivo delle loro città dove le fabbriche cercano e chiedono nuovi lavoratori.

Hanno denominato il loro finto paese “Padania”, nei loro luoghi invocano la secessione, al punto di far giocare la loro “nazionale” di calcio nel campionato degli Stati non riconosciuti (che vuol dire ovviamente “non ancora riconosciuti, cioè non ancora liberati). Ma occupano a Roma vari ministeri, fra cui il ministero dell’Interno, realizzando per la prima volta l’operazione inversa: il partito secessionista occupa il Paese da cui dichiara di separarsi e impone a tutti gli altri italiani i suoi “valori”, inventati o recuperati nelle sottoculture locali. Dovreste ascoltarli a Roma, quando in Parlamento parlano e insultano in nome della Padania senza che il Presidente dell’Assemblea li interrompa per dire: «Scusi onorevole, ma lei è un deputato italiano e questo è il Parlamento italiano. In questo Parlamento nessuno ha mai detto, o anche solo discusso, che cosa sia la Padania». Indifferenti, questi secessionisti operano sul territorio per far apparire “emergenza” e allarmata richiesta di sicurezza il meno pericoloso Paese d’Europa (con l’eccezione, mai più citata, della criminalità organizzata e indisturbata che occupa tre regioni del Sud italiano, con solide filiali al Nord e le sue mattanze senza fine). E all’interno dello Stato praticano la crudeltà di privare gli immigrati di pensioni minime, anche se sono immigrati legali, anche se hanno lavorato come schiavi nella nuova civiltà padana.

Al Sud un muro isola e protegge il siciliano Lombardo, e nessuno sembra aver notato il ritorno (originariamente mafioso e fascista) del separatismo. È un muro di omertà giornalistica e di silenzio politico.

Al Nord la Lega si è ormai rivelata, come ci avverte con allarme l’Europa, il movimento secessionista più estremo, generatore di rancore, vendetta, razzismo. Non esita a dichiarare le sue intenzioni, letteralmente “di lotta e di governo”. Incassa, senza imbarazzo, autorevoli rimproveri per il grado estremo di volgarità, che è pronta a ripetere subito, contando sul fatto che le poche frasi o gesti o iniziative non apertamente offensive, non dichiaratamente minacciose della Lega Nord vengono subito salutate, più o meno da tutti, come grandiosi atti di civiltà.

Stampa e politica hanno già alzato un muro a protezione della Lega che - a quanto pare - interpreta sentimenti profondi degli italiani. Come il fascismo. Nel profondo, infatti, ci sono anche i sentimenti peggiori. Basta incoraggiarli, e alla fine avvelenano i pozzi del comportamento comune.

***
Il muro più alto, insopportabile per molti cittadini che non hanno altre fonti di informazione oltre la Tv, sono i media.

La sera del 31 luglio il Presidente del Senato Schifani era seduto nello studio del TG 1, ore 20, per spiegare se stesso. Purtroppo non come istituzione dello Stato ma come esponente del partito di governo detto “Popolo delle libertà”. È un privilegio che altrove i titolari delle istituzioni non ricevono mai in quanto militanti politici. Persino il Presidente degli Stati Uniti - se chiede di parlare al Paese - deve dire perché.

Ronald Reagan, George Bush padre e Bill Clinton si sono visti rifiutare (Reagan tre volte) le reti unificate delle più importanti televisioni americane con questa risposta: «Il suo è un discorso politico, non presidenziale. Se vuole, lo trasmettiamo a pagamento».

Renato Schifani, Presidente del Senato in veste di voce di Berlusconi, si è sentito rivolgere questa domanda dal conduttore del Tg1: «Presidente Schifani, perché la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura non è uno scandalo?».

Ma sentite come inizia il suo servizio da Napoli, il giorno 1 agosto, Sky Tg 24, ore 14: «È tornato lo Stato. Con questo spirito il presidente del Consiglio arriva per la sesta volta a Napoli». Non un tentativo di dire al pubblico se e quale rapporto c’è tra quello spirito e la realtà, ovvero la differenza fra pubbliche relazioni, che celebrano, e giornalismo, che verifica.

Quando tocca a Berlusconi, ha questo da dire sul tanto invocato dialogo: «Per ora, da parte dell’opposizione, mancano rispetto e lealtà». Ha elencato, nell’ordine, le classiche virtù dei cani.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 03.08.08
Modificato il: 03.08.08 alle ore 14.26   
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« Risposta #102 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:44:57 pm »

Bologna, la strage nera

Furio Colombo


Mi sembra ingiusto e mi sembra strano tacere solo perché sarebbe più facile tacere. Parlo di Bologna, della strage della stazione, della sentenza.

Quella sentenza (dopo tante sentenze) che condanna come colpevoli Mambro e Fioravanti. E parlo della cerimonia burrascosa, delle dichiarazioni del presidente della Camera Fini, delle polemiche e tensioni di questi giorni.

Molti lettori di questo giornale sanno che dai primi anni Novanta ho detto e scritto la mia persuasione sulla innocenza di Mambro e Fioravanti (cioè per il solo delitto, fra i tanti loro imputati, che essi respingono). Mantengo quella persuasione anche adesso, anche oggi, e lo faccio, in probabile dissenso con molti lettori, anche dopo che l’Unità in questi giorni ha scelto, secondo la sua storia, di confermare tutti i punti, giudiziari e politici di quella vicenda, non solo nella cronaca ma anche con un lucido intervento di Gianfranco Pasquino.

Devo tentare di dimostrare ancora una volta perché sono, allo stesso tempo, dalla parte delle vittime e della immensa e non guarita ferita che Bologna ha patito il 2 agosto 1980, e dalla parte di Francesca Mambro e di Valerio Fioravanti, che continuo a ritenere estranei da quello spaventoso evento, nonostante tutti gli altri eventi delittuosi di cui sono stati volontari iniziatori e protagonisti.

E spero di farlo, affrontando un nodo così intricato e pesante, con chiarezza e semplicità.

1. Eventi spaventosi, irrimediabili e pieni di sangue e di dolore, come la strage di Bologna, chiedono e cercano l’unica risposta civile che è la giustizia: indagare, condannare e con fermezza e certezza. Purtroppo, mentre la tragedia è riuscita nel suo pieno di morte, indagini e processi (ce ne sono stati tanti, e tante sentenze prima della condanna definitiva) sono apparsi segnati da deviazioni, ostacoli, false testimonianze, ritrattazioni, improvvise entrate in scena di nuove voci, cancellazione, per tante ragioni, di molte di esse.

2. Chi ha letto e riletto gli atti sa che un solo filo, soggettivo e di origine non chiara, porta dal tragico fatto ai “colpevoli” . Ma una volta raggiunta una visione finale, dopo tanti tentativi andati a vuoto, è sembrato a molti, con un atteggiamento del tutto comprensibile e umanamente condivisibile, di avere finalmente un punto di riferimento e di appoggio tanto forte quanto la strage: la sentenza definitiva. E di avere una ferma ragione per credere in quella versione e nella sicura colpa dei condannati.

3. Innumerevoli fatti della storia insegnano che vicende gravi e oscure che segnano e devastano la vita di un Paese, restano gravi e oscure anche durante i processi e nonostante l’impegno appassionato di investigatori e di giudici. Basta evocare i nomi di Lee Harvey Osvald e di Earl Ray James (presunti assassini di John Kennedy e di Martin Luther King, ritenuti in seguito innocenti persino dalle famiglie del presidente e del leader nero assassinati) per rendersi conto che è tipico di alcuni delitti di vasta portata politica di portare con sé anche gli esiti giudiziari, in modo che gli ostacoli di una ricerca di verità divengano insormontabili.

4. Evidentemente ciò che sta più a cuore a chi ordisce simili delitti, segnati non solo dall’orrore del momento, ma da conseguenze che continuano nel tempo, è di raggiungere il punto in cui una sentenza possa essere usata come una pietra tombale. Identificando definitivamente un colpevole troncherà per sempre ogni altra ricerca sui fatti e potrà mettere qualcun altro, organizzazione o persona, al sicuro.

5. Anche in base all’esperienza americana, sono fra coloro che hanno visto nella sentenza finale Mambro-Fioravanti una verità, non la verità. E si sono sentiti a disagio quando l’hanno vista diventare unica, assoluta bandiera, con il rischio che la manifestazione del dubbio fosse interpretata come dissacrazione di quella bandiera.

Eppure il dubbio era - ed è - più che mai fondato nel racconto e nelle immagini spaventose del 2 agosto. Non era uno scostarsi dalle vittime e dai loro cari, ma una invocazione a non smettere, a non fermarsi. Qualcosa o qualcuno potrebbe essersi messo al riparo dietro quella fragile sentenza.

6. Ho detto varie volte, e ripeto, conoscendo il rischio di fraintendimento di ciò che dico, che tutto ciò che sappiamo di Mambro e Fioravanti non li colloca in nessun modo fra gli abili e oscuri sicari, decisi a restare ignoti, di un simile spaventoso evento. Quando dico “sappiamo” non intendo notizie o informazioni che non ho. Intendo “noi” i giudici, “noi” i giornalisti, “noi” i cittadini che dei due condannati, quando erano giovani ed erano terroristi, sappiamo tutto e hanno detto tutto, senza che mai sia risultato un solo dettaglio dei loro delitti, nascosto o depistato o alterato.

7. Non è solo il profilo psicologico o il “modo di operare”, criterio così caro ai criminologi, a orientare. Non è solo la sequenza dei fatti che, senza testimonianze tarde e strane e tipicamente rivolte a coprire qualcosa o ben altro, non porta a quella stazione e a quel treno i due già notissimi protagonisti del terrore. Ma è il rapporto vistoso, clamoroso, fra tutta la loro vita di giovani fuorilegge politici che uccidono di persona, rischiando e quasi trovando la morte, e il mestiere oscuro e segreto della bomba nascosta su un treno. Quando qualcuno di noi ha detto «non Mambro, non Fioravanti» tutto il peso emotivo si è spostato sull’innocentismo. Ma il vero senso di quella affermazione, che va ripetuta anche oggi, era: «vi chiediamo per l’orrore di quel giorno, per la memoria delle vittime, per il dolore spaventoso dei sopravvissuti, continuate a cercare».

8. Non so niente di ciò che il presidente Fini ha ritenuto di dichiarare. Nella sua posizione non è, credo, la cosa giusta da fare. Come non lo è, sono certo, il porre avanti il problema se la strage fosse o no di destra. Le stragi italiane, benché tutt’ora impunite, sono apparse tutte di destra anche agli investigatori più scettici e meno politicizzati. Però ciò di cui stiamo discutendo è molto più grave e rende frivolo il precipitarsi a correggere l’etichetta sui faldoni. Nel nome delle vittime, di una città dilaniata, di un Paese che si è cercato (allora invano) di spingere nella più cupa emergenza, restano, inevase, le domande più terribili: chi è stato? Perché?
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Pubblicato il: 05.08.08
Modificato il: 05.08.08 alle ore 15.02   
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« Risposta #103 inserito:: Agosto 11, 2008, 12:06:09 am »

Il concordato

Furio Colombo


Dialogo o concordato? Non parlo di rapporto fra Stato e Chiesa. Parlo di opposizione e delle nuove misteriose vie di alcuni del Partito Democratico verso il potere e verso il governo. Durante le lunghe pause del lavoro alla Camera, dove tutti parlano a lungo e parlano a vuoto, «perché comunque la mia legge uscirà dal Parlamento intatta, così come è stata voluta e scritta dal mio governo» (Berlusconi, a proposito della legge finanziaria definita «rivoluzionaria», 8 agosto), durante quelle lunghe pause ripenso ai due anni trascorsi al Senato, senza uscire un minuto, per presidiare il governo Prodi.

Di fronte a noi sedeva l’opposizione, un mezzo emiciclo rabbioso, violento, insultante, fantasioso nei modi diversi di sporcare l’aula, fare pipì sotto il banco, insultare come carrettieri (è un modo di dire antico che non corrisponde alla volgarità contemporanea) Rita Levi Montalcini, il presidente emerito Scalfaro, certe volte il presidente emerito Ciampi, tutti instancabili nel rendere impossibile il lavoro del Senato fino al punto di votare «no» (loro, la destra) al rifinanziamento e adeguamento di difesa delle missioni militari italiane nel mondo. Lo so che mi ripeto. Ma rivedo quelle scene nel silenzio pacato della nostra aula, dove tanti trovano eccessivo se Di Pietro alza di un decibel la voce per denunciare la penuria di benzina e di fondi in cui è stata lasciata la polizia, e mi domando: dove saranno finiti quelli delle barricate di un Senato praticamente occupato, arringato ogni pochi minuti dal capo popolo Schifani, in un lungo tripudio di applausi, prima, durante e dopo le sue inaudite denunce di tutti i tipi di furto, menzogna e frode da parte di Prodi o di Padoa-Schioppa? Nei libri di lettura per bambini (parlo della infanzia pre-Gelmini) gente così sarebbe finita male, fuori dalla politica, che invece è - ti dicono - fatta da persone competenti e rispettose. Ma se guardi il telegiornale li riconosci, mentre parlano col nuovo tono condiscendente di chi sa come si gestiscono le istituzioni, li troviamo immersi in alte cariche dello Stato, in ministeri chiave, o in funzioni di bertoldiana memoria (ricordate «scarpe grosse e cervello fino»?) come il fiabesco Ministero della Semplificazione. Li ritrovi presidenti del Senato intenti a raccogliere sentite e trasversali testimonianze di solidarietà se subiscono attacchi pur mille volte più miti di quelli che lanciavano alla "rovinosa maggioranza di centrosinistra" (quando c’era), quella "che ha messo in ginocchio l’Italia", tanto che poi hanno dovuto rialzarla verso la crescita zero. Li ritrovi sindaci, come il sindaco di Roma, uno con la croce celtica che ha avuto il pieno sostegno di tutte le minoranze fasciste rimaste sul terreno, uno che vuole armare i vigili urbani invece di vietare la sosta in tripla fila, uno che i soldati di pattuglia li ammette solo nei quartieri poveri, dove evidentemente tutti sono brutti, sporchi e cattivi, uno che, se non era per la indignazione solitaria della comunità di Sant’Egidio (non un editoriale o corsivo della premiata stampa libera), voleva far arrestare coloro che frugano nei cassonetti. Un pronto intervento umanitario, unico ma per fortuna efficace, ha salvato il sindaco di Roma da un proposito che davvero (per una volta si può dire) non era né di destra né di sinistra ma soltanto ignobile: arrestare gli affamati in quello stato di disperazione in cui vai a frugare nell’immondizia. Dispiace che una domanda non sia stata rivolta al sindaco: ma perché una simile crudeltà che, per giunta, è stupida e inutile? Perché diffamare Roma?


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Ma c’è un’altra domanda: perché un atto così vistosamente inaccettabile non ha fermato la corsa di alcuni grandi personaggi del centrosinistra verso le stanze, il lavoro, i progetti del sindaco Alemanno? Sto continuando la riflessione del direttore di questo giornale nel suo editoriale di ieri. "Grande", è una parola senza ironia, se mai segnata di tristezza, se parlo di Giuliano Amato, di Franco Bassanini, di alcuni che sono andati o stanno andando senza esitazione verso il ragazzo della Via Almirante, sindaco di estrema destra di Roma. O verso il ministro leghista Calderoli, quello delle forbici arrugginite da riservare agli immigrati. Scambiare Alemanno o Calderoli per Sarkozy sembra davvero eccessivo. Far perdere le tracce della propria identità è un colpo grave a qualunque cosa sia l’opposizione. È vero, il fenomeno, benché inspiegabile, si allarga di ora in ora e di giornale in giornale. Per restare ai quotidiani dell’8 agosto, ho annotato: Senatore Zanda: "A me la decisione di Amato non dispiace affatto". Presidente della Provincia di Milano Penati: "Si torni a fare gioco di squadra" (intende con Moratti e Formigoni). Presidente della Regione Lazio Marrazzo: "Sono grato, nel governo c’è chi mi difende". Sindaco di Bari Emiliano: "Mi sono congratulato con il Governo per il pacchetto sicurezza" (È quello che impone le impronte digitali ai bambini rom, N.d.R.). Sindaco di Vicenza Variati: "Non si demonizza chi sta al governo". Quanto a Bassolino, Cacciari, Velardi, radici e storie e culture diverse, ma tutte "di sinistra", rifiutano con sdegno la mite firma richiesta da Veltroni "per salvare l’Italia". Sembrano davvero persuasi che, come spiegano, "non si firma contro il governo". Giustamente, lo stesso giorno il Corriere della Sera apre il paginone della cultura con il titolo: "Sinistra, hai tradito i valori della patria". Era una vecchia storia di Orwell, ma che si adatta due volte in modo perfetto alla circostanza. Una prima volta perché ti fa capire che anche arrestare chi fruga nei cassonetti è più "da statista" che stare a sinistra, rinchiusi in una identità colpevole, misera e umile, mentre la vera vita politica trionfa altrove. In quell’altrove, c’è il misterioso "berlusconismo". Se lo attacchi, vuole la leggenda, commetti un reato di estremismo che ti farà restare fuori dal potere e dai benefici del potere per altri vent’anni. Se non lo attacchi - ti dice la realtà di ogni Paese democratico in cui una vigorosa opposizione è ritenuta l’unica autocertificazione della libertà - resti per forza fuori dal potere e dai suoi benefici per tutti e cinque gli anni di una completa legislatura più i sette anni di un’intera presidenza della Repubblica. Come uscirne? Chiarisce, per noi del Pd Enrico Letta che - nelle primarie - si era candidato per esserne segretario: "l’antiberlusconismo è definitivamente archiviato. Tutti si stanno interrogando sul post-berlusconismo e noi dobbiamo essere tra quelli". Essere post-berlusconisti mentre Berlusconi ricomincia appena a governare è come essere post-fascisti negli anni Trenta. In questo clima un po’ allucinato, Orwell è più che mai di casa, lui che ha inventato "il ministero della verità". Non vi viene in mente quando sentite parlare del favoloso Ministro della Semplificazione, che siede allo stesso tavolo in cui una legge finanziaria triennale, priva di correlativa contabilità dello Stato, viene approvata in nove minuti senza che nessuno sappia che cosa c’è dentro? E senza che il ministro della semplificazione faccia una sola domanda, forse per non turbare il record dei nove minuti, non un secondo di più che ci sono voluti per approvare una manovra finanziaria triennale nel periodo più complicato e pericoloso della storia del mondo contemporaneo?


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Incombe la questione del dialogo, del fare un sacco di cose insieme, maggioranza e opposizione, "per il bene dell’Italia". Per esempio, ti chiedono i Radicali, facciamo insieme la riforma della Giustizia. È un progetto nobile e dovuto. Ma è davvero proponibile discutere quel problema con un primo ministro che è sfuggito alla giustizia solo con leggi speciali fatte per lui, dalla "Cirami" al "lodo Alfano", una fuga durata dieci anni e fino ai nostri giorni, un specie di conte di Montecristo che ha scavato nei codici il buco della sua impunità? Una volta stabilito, capito e fatto capire da chi è fatta la leadership di questo governo (alcune notizie interessanti e rivelatrici ci giungono quasi ogni giorno alla Camera dagli interventi di personaggi dell’Udc di Casini, che sanno per esperienza di che cosa parlano) "il bene dell’Italia" non sarebbe meglio garantito da una tenace, chiara, implacabile opposizione che tenga alta e ben distinta l’identità diversa di chi si oppone? "Senta, se devo proprio dirla tutta, le dirò che la questione del dialogo è stucchevole", ha detto due giorni fa Berlusconi ad una giornalista incalzante. Se volete una prova del nostro pentimento per l’uso del persistente e intrattabile "antiberlusconismo" eccola. Scrivo qui per la prima volta: "Berlusconi ha ragione". Lo so, i miei colleghi editorialisti della stampa libera lo scrivono tutti i giorni e poi si precipitano in televisione a ripeterlo. Per una volta - e pur sapendo che non trarrò gli stessi benefici e neanche un invito a "Ballarò" o a "Che tempo che fa" (parlo di fortini della resistenza televisiva) - lo dico anche io: "La questione del dialogo è stucchevole". Lo è perché Berlusconi, come ha dimostrato in tutta la sua vita, come continua a dire con assoluta chiarezza, non concepisce alcuna modifica di ciò che decide, scrive, annuncia o progetta. Meno che mai sulla Giustizia. Tutti e quattordici i punti proposti come base di discussione dal documento parlamentare dei Radicali eletti nel Pd sono importanti, storicamente fondati e di evidente urgenza. Ma ha senso discuterli con gli avvocati di Berlusconi? Non è un percorso che taglia di traverso "il bene dell’Italia" e porta altrove? A meno di pensare che si debba discutere di Giustizia con Berlusconi come il Papato scelse di discutere di diritti religiosi della Chiesa con Mussolini. Non era fiducia nella religiosità di Mussolini. Era consapevolezza che il fascismo era ormai radicato e non c’era altra soluzione che accettarlo. Quello che ci propongono, più che un dialogo, è un concordato con Berlusconi, mediato da Fini, che ha come simbolo il Campidoglio definitivamente di destra del sindaco Alemanno. Dunque l’accettazione del vincitore perenne. Chi ci ha votato merita di più. Può essere legittimo dire che Di Pietro si occupa solo del suo partito, della sua immagine, della sua propaganda, quando si alza, irruente, alla Camera per denunciare ed accusare. Ma avremo il diritto di dirglielo solo dopo avere occupato tutto lo spazio di opposizione, davanti a milioni di italiani che hanno votato per noi e che aspettano. Finché aspettano.

Pubblicato il: 10.08.08
Modificato il: 10.08.08 alle ore 14.28   
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« Risposta #104 inserito:: Agosto 13, 2008, 09:55:06 pm »

Ultima preghiera

Furio Colombo


Se fossi credente pregherei per Giuliano Amato e per Franco Bassanini perché Dio li illumini sulla strada sbagliata che stanno prendendo.

Poiché non sono credente, la preghiera la rivolgo a loro: perché non rendete conto dello schiaffo che state dando a chi ha votato Partito democratico nelle elezioni nazionali e in quelle di Roma, e gli state dicendo che tutto quello che hanno fatto è inutile, che non ci sarà alcun ricambio perché non c'è alcuna diversità, e tanto valeva andare insieme subito nel «partito della maggioranza» in cui si estingue qualunque opposizione e che solo alcuni di noi continuano a trovare minaccioso?

Prendete Livia Turco, capo - dicono i giornali - della sinistra del Pd. Livia, da quando la sinistra del Pd si è schierata per Alemanno? Il nuovo sindaco di Roma ha una reputazione e una vita formata e trascorsa nella destra della destra romana, ha avuto il sostegno travolgente di ogni frangia estrema che non si fida di Fini e non lo ha seguito nella svolta di Fiuggi. È una persona seria, che tiene molto alla sua reputazione, al punto di proporre subito di intitolare una strada romana al segretario di redazione della nota rivista "La difesa della razza". È una persona determinata nella gestione autoritaria dell'immagine, al punto di disporre l'arresto dei disperati che frugano nei cassonetti.

Si rende conto, Livia Turco, che senza l'intervento della Comunità di Sant'Egidio (la Comunita di Sant'Egidio, non il Pd) quei rovistatori che rendono pessima l'immagine di Roma Capitale, sarebbero già in prigione? A meno che io abbia perso un congresso della sinistra del Pd ("Sinistra per Veltroni" che mi ha eletto piuttoso bene in Toscana) non ho mai sentito qualcuna o qualcuno di noi dire che è bene portare in omaggio al sindaco di questa destra di Roma (e ai suoi tassisti che hanno sconquassato la città per difendere la loro categoria negando ogni diritto dei cittadini) uno dei nomi più illustri del centrosinistra italiano, della sua storia, della sua cultura.

Perché un simile omaggio al vincitore? Perché è vincitore? Perché è post-fascista? Perché tutta la destra ancora esistente a Roma ha votato per lui? Perché dà la caccia agli zingari e ai rovistatori di cassonetti?

Ci vuole dire - preghiamo di cuore Giuliano Amato - perché il suo nome apparirà in testa al progetto Alemanno, ne arricchirà il lavoro, ne aumenterà prestigio e voti in modo che la destra governi felice e incontrastata a lungo?

Posso supplicare Livia Turco, a cui ho sempre guardato con amicizia, che cosa diavolo le fa dire che è una buona cosa per Giuliano Amato essere parte dello schieramento Alemanno?

Capisco, ovviamente, che una persona di valore fa un buon lavoro e che - se quel lavoro è pubblico - è un bene per tutti. Ma non va così in democrazia. Negli Usa si conoscono i nomi di giuristi illustri che - nel sondaggio discreto che precede la nomina - hanno rifiutato di essere inclusi nella lista di Bush che li avrebbe portati alla Corte Suprema. Si conoscono i nomi di personaggi politici che, come ambasciatori alle Nazioni Unite, avrebbero giovato molto agli americani, ma si sono discretamente defilati sapendo di non condividere in nulla la visione "neo-con" di Bush sulle Nazioni Unite.

Ma per restare in casa, tutti ricordiamo l'abilità del fascismo nell'assicurarsi un grande della cultura italiana come ministro dell'Educazione. Ma ha scelto un fascista, Giovanni Gentile. E non gli è mai riuscito di mettere alla testa di un ministero o di una prestigiosa commissione l'altro grande di quegli anni, grande ma non fascista, Benedetto Croce. Il caso di Franco Bassanini, incerto se partecipare alla commissione Amato o al lavoro che servirà a confermare la qualità di statista di Calderoli, è del tutto simile, quanto a simbolo di una parte viva (speriamo) e combattiva (è l'augurio insieme fervido e disperato) dell'opposizione in questo Paese. Ma se invece di fare l'offeso con chi ha messo in discussione la sua nuova avventura, ci spiegasse perché ha detto sì (non ci sono tracce, in America, di una "commissione Obama" al lavoro con Cheney per il bene di tutti), colmerebbe un vuoto pauroso di informazione e di incomprensione. Bassanini è l'inventore di un modello unico di semplificazione e restituzione di diritti ai cittadini, oltre che difensore abile e instancabile della Costituzione, con la sua Associazione Astrid. Ma - che lo voglia o no - Bassanini non è un tecnico, è un politico molto radicato in ciò che fanno, ricordano, pensano, sperano gli elettori di centrosinistra.

È chiaro che quegli elettori non capirebbero perché dovrebbe portare il suo prestigio e il suo talento ad Alemanno, raddoppiando l'errore di Amato. È chiaro che quegli elettori capiscono anche meno quando sentono dire che sarà accanto a Calderoli ovvero al gruppo del dito medio di Bossi che - una volta alzato - va nello stesso luogo anatomico in cui viene usato, dalla stessa persona, il Tricolore; al gruppo della caccia dei neri sulla spiaggia; al gruppo delle impronte digitali ai bambini rom; al gruppo che chiude le moschee e fa in modo che - per chi ha avuto la disgrazia di immigrare in Italia ai tempi della Lega - non ci può essere un luogo di preghiera; al gruppo che fa arrestare una persona senza permesso legale, quando chiama i carabinieri perché lo stanno ammazzando.

Noi, quelli che non condividono gli affari e i dividendi di Berlusconi, che non dicono cloaca ai giudici, che non proclamano "eroe dell'Italia" un pluriomicida mafioso (sì, lo sappiamo, era solo un messaggio elettorale a qualcuno), che non stanno mandando minacciosi segnali per prevenire la condanna in appello di Marcello Dell'Utri, che si oppongono con tutte le forze al secessionismo ormai aperto e dichiarato della Lega Nord e all'immenso rischio di una legge finanziaria totale, triennale, segreta,discussa da nessuno, votata con la fiducia, noi vorremo continuare questa battaglia, che a momenti ci sembra disperata. La vorremmo continuare insieme con persone che non vogliamo donare alla destra che - per giunta - è la destra peggiore mai esistita in Italia. A meno che ci siano ragioni che non sappiamo o non abbiamo capito. Se è così non vorranno Amato e Bassanini dirci qui perché abbiamo torto?

Pubblicato il: 13.08.08
Modificato il: 13.08.08 alle ore 10.39   
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