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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 83558 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Aprile 13, 2008, 04:23:21 pm »

Falcone, Borsellino Berlusconi

Furio Colombo


«Possibile che gli italiani vogliano davvero che sia un politico simile a governarli?».

La domanda angosciante e - fino a domani, priva di risposta - è di John Lloyd, giornalista inglese. Come molti di coloro che non hanno molta stima di Berlusconi in Europa, John Lloyd non è uomo di sinistra, meno che mai un militante di parte. È un editorialista del Financial Times di Londra che guarda l’Italia con lo stesso stupore di tutta l’Europa.

Possibile? «Trattando gli italiani come un pubblico da sollazzare, illudendolo a pensare che ogni errore è imputabile alla sinistra, Berlusconi perdura nell’usare uno stile politico che dimostra tutti i suoi anni, e la pretesa che l’Italia resti ferma nel tempo. È lì che gli italiani vogliono stare?» (traduzione de la Repubblica, 4 aprile).

C’è in ciò che scrive il giornalista inglese un genuino senso di partecipazione all’angoscia di una parte degli italiani (grande, crediamo). Eppure tutto ciò era stato scritto quando l’uomo di Arcore sembrava dilettarsi a farci credere, come in un brutto film, al suo intenso traffico con donne giovani, un assortimento di vallette e candidate che avrebbero dovuto piazzare i riflettori (con la dovuta cautela) sul suo volto, che ritiene irresistibile.

Erano i giorni in cui non trovava di meglio che fingersi indifferente e genericamente insultante (è il suo stile quando è “buono”) di fronte alle piazze calde e affollate di Walter Veltroni. Gli stessi giorni in cui il suo aiutante di campo Gianfranco Fini si arrabbiava di fronte a cinema vuoti che avrebbero dovuto ospitare i suoi comizi.

E le scaltre telecamere dei vari telegiornali (”tutti di sinistra”) riuscivano a non farci vedere i vuoti nelle piazze di Berlusconi.

Ricorderete che l’uomo che si candida per la quinta volta, sperando di avere una seconda occasione di governare per cinque anni l’Italia, era “entrato in pista” tentando invano il salto di Benigni, e spiegando a tutti di essere sostenuto da 10 (dieci) punti di distacco dalla sinistra. Come dire, “è cosa fatta”.

Ma qualcosa deve essere accaduto (“l’erosione del distacco” propone Ezio Mauro nel suo editoriale del 10 aprile) perché all’improvviso, dalla sua parte politica, c’è stata una violenta caduta di massi che ha colto molta gente di sorpresa, una brutta sorpresa persino se viene da Berlusconi. Una sorpresa che probabilmente avrà colpito e impressionato anche elettori che si preparavano a restituirgli il mandato di governare da destra. Se è stata l’erosione del distacco a provocare la strategia rabbiosa che Berlusconi, Bossi e i suoi hanno rovesciato sull’Italia in questi giorni, in queste ore, allora devono avere visto un buco di consensi che ha messo paura. Vediamo.

Prima viene Umberto Bossi, il 5 aprile. Si fa trovare al giuramento di Pontida, una penosa messa in scena con figuranti vestiti da guerrieri che devono dire, a nome del prossimo governo italiano, queste parole da avanspettacolo: «Oggi, sul sacro suolo di Pontida, noi rappresentanti dei Popoli Padani, giuriamo di difendere la libertà dei nostri Popoli Padani (scusate la ripetizione, ma è proprio così nel testo del giuramento, ndr) dal potere romano e ciò faremo giurare ai nostri figli». Bossi dovrebbe leggere. Ma rinuncia, butta via il foglietto e improvvisa, ispirato dai buoni sentimenti che animano lui e la Lega Nord di Calderoli, Castelli e Borghezio: «Attaccheremo. E tutti insieme sferreremo un colpo mortale al centralismo della canaglia romana».

Poiché la sequenza di ciò che stiamo raccontando è rapida e aggrovigliata e i vari protagonisti sembrano a volte intenti ad essere cattivi, a volte soprattutto confusi, occorre precisare che siamo ancora nella fase in cui Bossi è già stato designato dal monarca di Arcore quale “ministro delle riforme” del governo “che sta per venire”.

Evidentemente la spinta violenta e la messa in scena teatrale dei leghisti, unici veri e fidati sodali del monarca (gli altri o li ha cacciati o li ha sottomessi alla sua diretta dipendenza) ha creato un desiderio di emulazione al peggio. E scoppia subito (6 aprile) la solenne denuncia dei brogli. Per denunciarli Berlusconi invoca “il precedente” del 2006, quando era lui il capo del governo e Pisanu (che invece di stare al Viminale, ha passato la notte a casa di Berlusconi) era il ministro dell’Interno.

Non si ha notizia, neppure nelle conflittuali repubbliche del Kenya e dello Zimbabwe, di un governo che accusi di brogli l’opposizione, perché è impossibile. Ciò che avviene durante una elezione è responsabilità esclusiva di chi controlla il governo. E infatti le accuse di broglio muovono sempre in senso inverso. Ma non si deve dimenticare che - per lo strano e inedito caso italiano - l’accusa viene da un ex capo di governo che aveva montato la Commissione parlamentare di inchiesta detta “Telekom Serbia”, affidata alle informazioni di un ben retribuito falsario e calunniatore, successivamente arrestato e incriminato (per falso) dalla magistratura.

L’accusa viene da un ex capo di governo che aveva montato la Commissione parlamentare di inchiesta detta “Mithrokin”, costituita allo scopo di dimostrare, con testimoni a pagamento e un consulente che è stato un vero costo della politica (prima della prigione per falso) che Prodi era uomo del KGB.

L’accusa viene da un ex capo di governo che aveva messo sotto spionaggio militare almeno un centinaio di magistrati e giornalisti che dovevano essere “disarticolati”. Illegale? Illegale.

Naturale che a una persona così venga in mente di buttare avanti in anticipo l’accusa di brogli, opera di comunisti abilissimi, capaci di estrarre e riporre a piacimento le schede nelle urne repubblicane.

Quanto questo giovi all’immagine dell’Italia-Zimbabwe è facile immaginare. Però non basta. Il colpo di Berlusconi offre una nuova spinta a Bossi. Che sarà senza voce ma ha prontamente dichiarato: «Andremo con i fucili a stanare la canaglia romana».

Siamo tra il 6 e il 7 aprile e la bordata dei fucili padani viene affrontata con tono padronale da Berlusconi: «Beh, la salute di Bossi è quella che è».

*. * *

Nessuno saprà mai, in questo Paese semi-civile, quali sono le condizioni di salute di Bossi, che stava per diventare titolare di un ministero chiave, e che in ogni altro Paese dovrebbe dare, da persona pubblica e da capo di partito, notizie precise e documentate sulle sue condizioni di salute. Per fortuna la signora Bossi fa sapere ai giornali che «lui sta bene, benissimo», e la sua dichiarazione ci deve andar bene come se Bossi fosse un vicino di condominio a cui fare i migliori auguri.

Ma non siamo che all’inizio. Forse per riequilibrare l’impressione della minaccia di creare bande armate, Berlusconi fa sapere (8 aprile) che, con il suo nuovo governo, ci sarà una legge che obbligherà i magistrati a test periodici sulla salute mentale. Si può immaginare la risonanza europea di una simile dichiarazione, la portata di diffamazione del proprio Paese da parte di un candidato molto ricco, molto potente, molto indagato, e scampato a sentenze di condanna solo grazie a ritocchi apportati ai codici dai suoi avvocati diventati legislatori nel partito dell’indagato.

Ha scritto lo Herald Tribune del 12 aprile: «Ormai il settantunenne Berlusconi dice a ruota libera la prima cosa che gli viene in mente. Ma probabilmente Berlusconi pensa davvero che i magistrati che hanno osato incriminarlo varie volte devono essere matti».

Infatti, subito dopo lo shock, impossibile non notare la minaccia e il ricatto: le verifiche sullo stato mentale del giudice saranno “periodiche”. Ovvero dopo ogni sentenza sgradita. A meno che significhino: bisogna essere matti per rischiare la vita ogni giorno contro mafia, ndrangheta, camorra, per salvare l’Italia nonostante Berlusconi, i suoi “valori”, i suoi dipendenti mafiosi.

Ma lo stesso giorno interviene Dell’Utri, proprio lui, Dell’Utri Marcello, condannato a nove anni per reati di mafia e ricandidato al Senato della Repubblica. Interviene con due argomenti che cadono addosso all’Italia e al suo prestigio come un colpo violento. Prima dichiarazione. Lui, Dell’Utri, un uomo con quel passato, annuncia che, se vince Berlusconi e la sua gente, i suoi fucili, i suoi test psichiatrici per magistrati pazzi, tutti i libri di storia saranno sottoposti a rigorosa censura affinché scompaia ogni traccia di antifascismo.

E propone che, al posto dei caduti delle Fosse Ardeatine, si celebri come un eroe nazionale il boss mafioso e pluriassassino Mangano, già amico e collaboratore di Berlusconi e dell’Utri e - sia pure nell’ombra - co-fondatore di Forza Italia.

La ragione di tanto eroismo di un imputato di alcuni omicidi, condannato a due ergastoli? «È morto in prigione piuttosto che parlare ai giudici di Berlusconi e di me», precisa Dell’Utri.

Interessante dichiarazione. Significa: “se Mangano parlava eravamo finiti” . C’è da capirlo. Un vero eroe. Berlusconi, il candidato primo ministro d’Italia, conferma e rafforza il giudizio: «Un vero eroe».

Ma può una persona, che non si è mai sottoposta a test per la salute mentale, dire in pubblico e in piena campagna elettorale una cosa simile, ovvero stabilire una volta per sempre un saldo legame omertoso con un importante boss della mafia siciliana, condannato all’ergastolo per molti omicidi?

* * *

Intanto avvengono cose che stupirebbero il resto del mondo democratico.

Per esempio. Calderoli dice: «Non vi vanno bene i fucili? Useremo i cannoni». Come se non sapesse, lui che è stato sempre molto vicino a Milosevic e ai feroci comandanti serbi, che la guerra civile nella ex Jugoslavia è iniziata con parole come quelle sue e di Bossi.

Per esempio. Il generale Speciale, l’ex comandante della Guardia di Finanza, rimosso per incompatibilità (in altri tempi si sarebbe detto per ribellione), noto per il trasporto, su e giù per la penisola, di spigole fresche con aerei di Stato, fa sapere, con il linguaggio di un Sud America pre-democratico ormai scomparso: «Molti ufficiali appoggiano la mia candidatura. Chi mi ha tradito la teme». Squisito esempio di integrità militare, moralità repubblicana e di rispetto della Costituzione. Speciale sente aria di Pinochet.

È a questo punto, di fronte a questa marea montante di fango, che il candidato premier del Partito Democratico Veltroni ha scritto una lettera in cui propone agli avversari un patto di lealtà democratica.

Giustamente Veltroni pensa che non tutti, persino a destra, siano cloni di Dell’Utri e del generale Speciale. E propone, nella sua lettera quattro punti che sono, allo stesso tempo, il minimo che si può chiedere alla comune partecipazione alla democrazia, ma anche il massimo di una garanzia reciproca. È un testo semplice, su un piano totalmente diverso da quello dei programmi e delle idee di schieramento. I punti sono: unità e indivisibilità del Paese, rinuncia alla violenza, fedeltà a tutti i punti della prima parte della Costituzione, riconoscimento e rispetto della nostra Storia, della nostra identità nazionale, a cominciare dal tricolore.

Questa semplice e limpida richiesta di un candidato italiano alla guida del Paese è stata dichiarata “irricevibile” dalla destra in un tumulto di sberleffi, commentata a lungo da Berlusconi e dal suo coro, diretto dall’assistente Bonaiuti, nel silenzio penoso di Fini, come un tipico inganno dei comunisti.

È enorme, lo so. Ma non è tutto. Manca ancora (9 aprile) la intimidazione contro il Capo dello Stato. Deve andarsene e lasciare libero il posto per il nuovo arrivato «perché altrimenti la sinistra si è presa tutte le istituzioni. Solo se Napolitano se ne va, si può concedere all’opposizione la presidenza di una della Camere».

Si noti il percorso contorto, oltre che offensivo, dell’assurdo discorso. Tutto ciò, infatti, avverrebbe in caso di vittoria della destra. Dunque la destra avrebbe tutto in mano. L’idea che una delle Camere possa essere presieduta da una personalità dell’ opposizione viene dai tempi dell’Italia della guerra fredda.

Ma adesso Berlusconi dice che, oltre alla vittoria e al controllo di tutto, vuole anche il Quirinale.

Tutto ciò lo avevamo raccontato, esattamente come poi è avvenuto in questi tetri giorni, nell’editoriale de l’Unità di domenica scorsa. Ma avere previsto il peggio, con Berlusconi e a causa di Berlusconi, non è motivo di vanto. Semplicemente conferma che il peggio - da Berlusconi - può sempre venire, nonostante il peggio già dato. A meno che gli italiani, compresi coloro che pensano che sia una buona cosa non votare, non decidano di salvare il Paese e se stessi.

Lo ha ripetuto Marco Pannella dallo “Studio aperto” di Radio Radicale la sera di venerdì 11 aprile, in una diretta durata tutta la notte, che ha invaso anche il giorno successivo. «Non fatevi troppe domande inutili» - ha detto il leader radicale - che pure lamenta il trattamento sgradevole riservato ai candidati radicali nelle liste del Pd da parte dell’ex ministro Fioroni, a sua volta candidato ed esponente del Partito democratico. Ha continuato a ripetere Pannella: «La scelta è tra Veltroni e Berlusconi. Abbiamo bisogno che riprenda la vita politica in questo Paese. Perché accada bisogna dire no a Berlusconi e votare Veltroni».

Questa è una storia che riguarda ciascuno di noi. Come il fascismo. E non c’è alcuna ragione di fingere che sia utile o anche solo possibile distrarsi. Si tratta di scegliere tra Falcone e, Borsellino da una parte e lo stalliere assassino Mangano dall’altra. Tra Veltroni che governerà con ragionevolezza un Paese secondo le normali tradizioni democratiche del mondo libero, e il “principale avversario” che non ci darà pace in nome dei propri esclusivi interessi, tra le istituzioni invase del Paese (compresa la Presidenza della Repubblica) e la volontà di possesso di ogni posto di comando del più celebre imputato d’Europa. La domanda è: domani sera saremo al di sopra o al di sotto di ciò che il mondo attende (e teme) per il nostro destino?

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 13.04.08
Modificato il: 13.04.08 alle ore 11.58   
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« Risposta #76 inserito:: Aprile 16, 2008, 12:19:09 pm »

A urne aperte

Furio Colombo


Democrazia vuole che la prima parola sia di riconoscimento dei risultati, così come ci vengono consegnati dalle urne, e dunque di accettazione della prossima e non gradevole stagione di governo. Questa affermazione non ci esonera dal fatto di sapere e dal dovere di dire che non vedremo, come molti già temono, un film già visto. Ne vedremo, sia pure per legittima volontà degli elettori, uno diverso, che potrebbe anche essere peggiore. Ce lo hanno spiegato, come in cupo “trailer”, Umberto Bossi, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi in persona. Ricordate? «Mangano eroe subito». Ha senso dire queste cose, mentre molti stanno già domandandosi se si potranno fare riforme insieme? (e una si deve fare: la legge elettorale).

Per conto mio vorrei non dimenticare il bel discorso di Walter Veltroni in Piazza del Popolo, il suo appello all’Italia pulita di Borsellino e Falcone. E non vorrei dimenticare un piccolo episodio che ha segnato a Roma la giornata elettorale: cinque persone in attesa di votare si sono rifiutate di permettere a Rita Levi Montalcini, anni 99, di votare senza aspettare in fila e in piedi. È un frammento di un’Italia vendicativa e cattiva che non sarà quella del voto, ma offre un brutto ritratto.

È bene saperlo perché la sola possibilità di organizzare una opposizione corretta e utile è di partire non dai ricordi o dal rigurgito dei personali cattivi umori, come ha fatto Berlusconi durante tutta la sua parte di campagna elettorale, ma dal presente, che non è lieto, e dalla realtà, che non è entusiasmante, nonostante la splendida campagna elettorale di Walter Veltroni. Ma proprio per restare con i piedi per terra ci conviene confrontarci, per prima cosa, con le esperienze e i comportamenti che ci riguardano o ci sono più vicini.

Prenderò un argomento che - come sanno i lettori - è sempre stato a cuore a questo giornale, e che viene rozzamente definito: “antiberlusconismo”. Come sanno coloro che leggono fino in fondo i testi e gli interventi che riguardano la dolorosa questione italiana (siamo i soli in Europa a ripetere l’esperienza di Mugabe in Zimbawe: non riusciamo a cambiare il capo del governo, indipendentemente dalle normali alternanze fra destra e sinistra) il problema non è se avere o no antipatia per un particolare esponente politico di cui siamo costretti a occuparci da un quindicennio. Il problema è il clamoroso conflitto di interessi che stupisce il mondo, e oggettivamente rende difficile governare senza arrecare danni al Paese e vantaggio a chi - nel conflitto di interessi - governa.

Direte che quando i giornalisti italiani arrivano di fronte al sovrano si guardano bene dal sollevare il problema, e anzi gli fanno festa, come è giusto che si faccia ai sovrani, riservandosi se mai (anche da parte di una sinistra che amava considerarsi più rigorosa) di essere severi con chi non ha alcun conflitto o incompatibilità del genere. Un fatto curioso si è verificato due volte, nel lungo commento del pomeriggio di ieri ai risultati elettorali.

Gennaro Migliore parlando a nome di Sinistra Arcobaleno, ha detto, quando sembrava che il Pd fosse in testa, questa incredibile frase: «Ha vinto l’antiberlusconismo». Vi sembra impossibile? Eppure, più tardi, quando è apparso chiaro che Berlusconi vinceva, Angelo Bonelli, a nome dello stesso gruppo e rispondendo a una domanda diversa, ha detto: «ancora una volta l’antiberlusconismo non ha pagato». Continua dunque ad andare forte la leggenda metropolitana secondo cui il governo invasivo, tipo regime, praticato da Berlusconi non è il punto. Manca una definizione del punto. Manca anche un ragionevole risultato alle urne per provare la popolarità della strana tesi. Sia chiaro: essa non ha niente a che fare con la splendida idea di Veltroni di non nominare mai l’uomo che è in grado di farsi nominare da tutti i media italiani. Continuare a ripetere “il nostro principale avversario” è stata una idea vincente persino se non è stato vincente il pur rispettabilissimo risultato strappato con il nuovo coraggioso Pd di Veltroni.

Il fatto è che Veltroni non ha dimenticato un solo dettaglio dello strano modo di usare la politica ad uso privato di Berlusconi. Anzi gli serviva per dire come - invece - si governa nelle normali democrazie dove non si portano interessi privati al governo.

Perché la leggenda dell’antiberlusconismo che non paga sia particolarmente diffusa a sinistra là dove, nella vera vita e tra coloro che votano a sinistra, trovi attenzione, tensione e rivolta sull’argomento, può forse spiegare una parte dell’altro problema di cui hanno sofferto queste elezioni: l’astensionismo. Il tre per cento non sarà il buco che si era temuto all’inizio, ma è pur sempre una multa comminata soprattutto alla sinistra. Difficile che la sfiducia abbia motivato chi ha visto troppo impegno contro il malaffare che tormenta l’Italia. Nel malaffare politico domina certo su tutto il conflitto di interesse. Forse alcune colorite comparsate in televisione avrebbero sortito, anche per i festosi partecipanti, un migliore effetto, se il tempo utile fosse stato dedicato al “principale avversario”, invece di perdersi nella storia un po’ penosa dei “programmi sovrapponibili” del Pd e del Pdl e nella battuta, ripetuta ancora e ancora, di “Veltrusconi”.

Certo l’antipolitica ha fatto il suo ingresso alla grande in queste elezioni per buone e per cattive ragioni. Se c’è una politica corretta e rispettabile e una ignobile e impossibile da perdonare, soltanto un implacabile sistema di informazioni può farlo sapere ai cittadini, guidandoli a sostenere o a respingere. Ma come può funzionare un implacabile sistema di informazioni, come quello che orienta i votanti delle altre democrazie, se in Italia tutti gli scantinati del sistema notizie sono invasi dalle acque infette del conflitto di interessi?

Attenzione, questo non vuol dire che viene oscurata solo la malapolitica vicina al “principale avversario”. Tutta la politica viene oscurata. Ne guadagnano i peggiori esponenti di ogni parte, che finiscono nel generico e generale disprezzo. Infatti un tre per cento di cittadini si rifiutano di accostarsi alle urne nel giorno del voto. Nell’antipolitica, comunque, ha un ruolo grandissimo la Lega Nord, che si attribuisce, forte del successo in una sola zona del Paese, il ruolo di giudicare e sentenziare come “ladrona” sia la capitale sia l’Italia. Se si pensa che la Lega ottiene i voti dell’antipolitica con un minaccioso linguaggio di ostilità verso le istituzioni italiane e poi va a insediarsi in esse e a governarle, trasportata dal partito detto del “Popolo della Libertà”, si ha una situazione inedita e unica. L’antipolitica di solito comporta il prezzo della esclusione dalla politica. Per tutti, nel mondo, salvo che per la Lega Nord di Bossi che, grazie a Berlusconi - e al berlusconismo che non bisogna toccare - si è ritagliata una posizione parassita: si insedia nei punti chiave che logora e disprezza, e ovviamente lo fa con l’intento di peggiorarli. Si veda l’impegno di Castelli come ministro della Giustizia nel secondo governo Berlusconi. Quelle imprese stanno per ripetersi, probabilmente con qualche aggravante rispetto a ciò che abbiamo per forza imparato a conoscere. Ma qui comincia un capitolo che è nello stesso tempo nuovo e vecchio. Il vecchio lo portano in dote i vincitori. Il nuovo dovremo essere capaci di portarlo noi, in questo stranissimo pranzo al sacco.

Pubblicato il: 15.04.08
Modificato il: 15.04.08 alle ore 19.02   
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« Risposta #77 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:59:36 am »

Dopo la caduta

Furio Colombo


Avrei preferito che Romano Prodi non si fosse dimesso. Non ora. Lui spiega che lo ha fatto prima. Ma i segreti non fanno notizia e non segnano date. L’onestà - che è sempre stato il marchio di fabbrica del governo che adesso finisce - ti induce a credere alla netta smentita del portavoce. E così noi lo sappiamo adesso, in piena sconfitta.
Capisco le «scelte di vita», come ci è stato detto. Posso immaginare sgarbi, disattenzioni o deliberati gesti ostili, che segnano le migliori democrazie del mondo. Ma Veltroni - dopo la straordinaria e generosa campagna elettorale - non meritava quel messaggio mentre dilaga la nuova e brutta destra italiana. E non se lo meritavano gli elettori del Pd, più di dodici milioni, che hanno tenacemente lavorato pensando di essere con Veltroni ma anche con Prodi. Hanno perduto e ricevono una lettera di disdetta dal capo del governo che hanno sostenuto nella buona e nella cattiva sorte.

Infatti non bisogna dimenticare che gli italiani a cui ora viene inviato un gentile saluto non sono i gruppi dell’Unione che hanno avuto frequenti momenti di ripensamento anche bruschi e improvvisi, che hanno vissuto imbarazzanti momenti pubblici di distacco dal governo di cui erano parte. No, l’addio riguarda coloro che hanno cercato di tener testa da soli al ritorno di un’Italia incattivita e usata, che adesso ci si para di fronte dichiarandosi “il nuovo”, un prodotto con data di scadenza dell’altro secolo. Avrei preferito che la sinistra di Rifondazione non scomparisse dal Parlamento, visto che è viva e presente nel Paese. Però non apprezzo la vecchia e penosa pratica di passare la colpa, come fa il direttore di Liberazione accusando Veltroni. In studio, a Porta a Porta, davanti al candidato leader che aveva appena proclamato eroe nazionale il bandito Mangano, davanti al titolare del più celebre conflitto di interessi, c’era lui, il direttore di Liberazione, in rappresentanza di gente tesa e viva e ansiosa come tanti che tutti noi abbiamo incontrato in campagna elettorale. Ma la conversazione è stata quasi solo sul Milan.

In studio, a Porta a Porta è comparso, più di tutti gli altri leader politici, Fausto Bertinotti. Non sarà per questo che i suoi voti sono drasticamente diminuiti. Eppure quante volte avevamo supplicato, da questo giornale, di non partecipare al gioco che consente a tanta gente di dire, rispondendo alla maledizione della presenza continua nello stesso contenitore Tv: «Certo, sono tutti uguali». È una persuasione che si diffonde solo a sinistra, dove non c’è cinismo, dove salotto e vetrina non sono apprezzati come a destra. E infatti si è visto.

Avrei preferito che il presidente emerito Ciampi, che parla al Corriere della Sera (17 aprile), pochi giorni dopo l’umiliante e anticostituzionale “giuramento di Pontida” e l’esortazione pubblica e mai smentita di Bossi a «imbracciare i fucili» se ciò che chiede la Lega Nord non si fa subito, quando ha ascoltato la seria e importante domanda del suo intervistatore Marzio Breda: «C’è chi teme che Bossi tenga in ostaggio il governo e punti a una secessione di fatto», avrei preferito che non rispondesse: «Non vedo questo pericolo. Quel Nord rivendica un diritto sul quale siamo tutti d’accordo: il federalismo fiscale». C’è un pericoloso distacco dalla realtà in queste ben intenzionate parole. Infatti sappiamo tutti che il federalismo fiscale della Lega ha in comune solo le prime due parole col federalismo fiscale umano, civile, solidaristico dei grandi Paesi democratici non centralisti. Oltre a invocare fucili, Bossi intende abbandonare le Regioni povere, umiliare gli immigrati e trasformare i sindaci leghisti in pericolosi e arbitrari sceriffi.

Tutto ciò è coerente con chi - come ci ha ricordato invano in campagna elettorale Veltroni - voleva mettere il tricolore nel cesso. Ma non ha niente a che fare con l’Italia che Carlo Azeglio Ciampi ha rappresentato nei suoi sette anni. Ci rassicura che adesso Giorgio Napolitano, a cui pure Berlusconi ha osato chiedere di dimettersi, rappresenti risolutamente quella stessa Italia unita.
Ma perché Ciampi, un simbolo così alto di stima e di fiducia degli italiani dovrebbe fare un mite passo indietro di fronte ai violenti e maleducati Asterix di Pontida, di fronte ai Borghezio e ai Gentilini che segano le panchine a Treviso e bruciano i giacigli degli immigrati sotto i ponti della Dora a Torino?

Avrei preferito che Fedele Confalonieri, bravo amministratore ed efficace vicario di Silvio Berlusconi nella gestione di Mediaset, non avesse sfidato l’intelligenza del mondo dichiarando il conflitto di interessi di Berlusconi «un falso problema». Certo Confalonieri ha capito che si può lasciar perdere visto che nessuno, fra gli illustri giornalisti schierati di fronte al padrone attuale o potenziale delle loro testate ha pensato di sollevare anche marginalmente la questione, la prima questione che - ogni volta che dici la parola “Berlusconi” - fa il giro del mondo. Ma, appunto, sarebbe stato più elegante, per un uomo elegante, lasciar perdere.
Avrei preferito che Walter Veltroni non avesse annunciato un governo ombra e un partito del Nord, mi auguro con tutto il cuore che non lo faccia. La sua campagna elettorale sciolta, libera, fondata sul contatto quotidiano con la gente, dovrà essere, io credo, il suo modello di capo dell’opposizione. Non ha vinto, direte, e anzi il distacco è forte. Sostengo che non è una ragione per dire, alla Bartali, che è tutto sbagliato e tutto da rifare. Io ricomincerei dai milioni di italiani che hanno votato Pd e Veltroni e Italia dei Valori.

* * *

C’è un tipico, ricorrente difetto italiano che, in caso di sconfitta elettorale, tormenta soprattutto la sinistra. È la maledetta propensione a dire: «Hai visto? Hanno capito il profondo sentimento popolare, hanno capito ciò che noi non abbiamo capito. Sono in sintonia con gli italiani».

Mentre restiamo in attesa di un lavoro sociologico serio che smetta di dirci che «la destra ha vinto perché ha vinto» (più o meno questa è la sintesi dei migliori esperti al momento), vediamo se è possibile evitare di dire ciò che ha quasi impedito una vera opposizione nel 2001, quando buona parte della sinistra leggeva la vittoria di Berlusconi come «l’aver saputo agganciare il moderno e il nuovo». Lui che dava del kapò a Martin Schultz, ha tentato il colpo cileno al G8 di Genova (fallito per merito di una parte molto grande delle forze dell’ordine, che hanno tenuto fede al giuramento costituzionale) e ha passato anni a ricucirsi il codice penale come un abito su misura. Ora, attenzione. Ci dicono che la sinistra snob va nei salotti e la Lega, invece, aggancia l’anima operaia. Se per salotto si intende la televisione quotidiana, purtroppo la prima parte della frase è giusta. Ma per capire l’infondatezza della cosidetta “svolta operaia” che sarebbe accorsa fra le braccia della Lega, occorre rifare la strada che abbiamo appena fatto. Non in campagna elettorale che, continuo a dire, è stata nuova e diversa, ma in tutti questi anni di confronto con il pericolo italiano di Berlusconi e il pericolo secessionista di Bossi. Occorre ripensare a ciò che si è fatto - o meglio, non fatto - negli ultimi anni.

Per Berlusconi si è scelto di non dire mai che - in mancanza di argini netti - il pericolo per la democrazia esiste e lo testimonia gran parte della stampa internazionale. Ed è un pericolo particolarmente grave se si tenta - come si è tentato - di amputare la Costituzione repubblicana. Un pericolo grave - ovviamente - mentre dura lo schiacciamento della libertà giornalistica.
Per la Lega il percorso adottato dai media ma anche da molti, a sinistra, è stato un benevolo oblìo, con occasionali e brevi soprassalti in caso di comportamenti barbari - come la maggior parte delle iniziative da sindaco e da pro-sindaco di Gentilini - ma passando in poche ore ad altri argomenti.

Adesso che la Lega stravince, la risposta di coloro che sono chiamati a commentare è da un lato l’ammirazione, come se si trattasse di un risultato sportivo; dall’altro la celebrazione: la Lega ha capito ciò che noi non abbiamo capito.
Sarebbe come celebrare l’America a causa della sua confermata fiducia nella pena di morte. È vero che la pena di morte - nel suo orrore di iniezione letale, che paralizza il condannato in un orrendo dolore - è voluta dalla maggioranza dei cittadini. Ed è vero che giudici e governanti che si schierano per la pena di morte interpretano - purtroppo - un’anima americana e per questo incassano successo politico. Ma questa è la parte oscura, che esiste in ogni essere umano e in ogni comunità spaventata. Tocca ai leader di un livello più alto, a chi si candida per guidare in una direzione nuova un Paese, scegliere in che modo interpretare - anche a costo di rischio elettorale - la parte migliore dei sentimenti e del destino di un popolo.

La Lega Nord, in Italia, ha trovato la sua strada verso il basso nel silenzio generale: paura dei nuovi venuti anche se è ampiamente provato che, in parte grandissima, non sono criminali e meno che mai responsabili dei peggiori - italianissimi - crimini quotidiani. Istigazione al più selvaggio egoismo detto “federalismo fiscale”. Chi se ne frega di un ospedale del Sud o di un bambino del Sud bisognoso di cure specializzate che - in un Paese come l’Italia - può esistere in un unico luogo? Ognuno provveda con le sue tasse. Ottimo l’espediente delle leggende metropolitane come le liste di attesa delle case popolari (che non esistono, che non vengono costruite da decenni) e in cui il «governo ladrone» di Roma mette davanti a te un nero o un arabo, anche se in tutte le aree leghiste quasi tutti sono proprietari di case. E che cosa c’è di meglio della periodica evocazione delle armi contro Roma in una vecchia Italia del «piove governo ladro»? E poiché non te lo impedisce nessuno - né politico né economista né sociologo - perché non continuare a dire che gli immigrati sfruttano la nostra ricchezza invece di ammettere che la producono, come ha dimostrato Milton Friedman, il maestro super conservatore della Scuola di Chicago?

A questo nobile manifesto si aggiungono le esortazioni di persone per bene a fare più figli (una esortazione che viene anche da sinistra in questo pianeta da sei miliardi di esseri umani) perché altrimenti «fanno più figli loro». Dicono «loro» come se «loro» fossero la peste e noi l’unica civiltà, e in questo modo il quadro è completo. Si capisce, allora, come hanno conquistato “l’anima operaia”. L’anima operaia è sola, ha paura, teme con buone ragioni il futuro, che non è nella mani di africani affamati che arrivano stremati a Lampedusa ma di roulette finanziarie controllate da spregiudicati personaggi del mondo che si giocano i nostri risparmi e poi si ritirano in tempo con enormi guadagni mentre salgono i prezzi e crollano i fondi in cui sono confluiti i risparmi.

L’anima operaia è stata - con tutti gli espedienti possibili della “libera stampa” - messa in condizioni di diffidare del sindacato come di un nemico; è disorientata da balzi improvvisi di “modernità” dei partiti a cui era stata abituata ad accostarsi e che improvvisamente gli raccomandano il mercato come il solo punto alto della vita; l’anima operaia non ha ancora trovato un modo per usare e spiegare la parola “riformismo” che - come una mosca estiva - gira, gira in tutti i discorsi e non si posa mai. Ovvero non viene mai avanti per definirsi.
La paura, da condividere con altri spaventati, con il gergo dialettale locale, con un senso di vita claustrofobica che però sembra antica, diventa facilmente barriera e protezione, come accade per i non credenti che pregano se c’è un pericolo. Se questa è la formula, aggiungete la documentazione accurata di certi libri, e la veemenza confusa di certe voci che dimostrano, giorno e notte, tutti i mali e la corruzione della politica e avrete la persuasione diffusissima e generalizzata che tutta la politica sia malvagia e corrotta e che tutti devono andarsene a casa. Naturalmente, se questo avviene, arrivano prontamente Castelli, Calderoli, Gentilini e Borghezio.

Ecco la strana sorte toccata all’Italia, Paese sfortunato. Ha vinto, con una spallata massiccia, l’antipolitica. E alla sua testa, destino ancora più strano, ci sono un maestro del ricatto come Bossi e un uomo ricco molto abile esclusivamente nei suoi affari. In queste ore in televisione lo vedete arrivare con il suo aereo privato e nel suo elicottero privato, nella sua villa privata (una della tante in Sardegna) fortificata in segreto a spese dello Stato, per comparire, statista travestito da Blues Brothers, accanto all’amico Putin (ricordate gli omicidi Litvinenko e Anna Politkovskaya?) e ti fa credere che tutto avviene a spese del nuovo primo ministro, e che finalmente non dobbiamo più preoccuparci del costo della politica.
Qualcuno ha detto che è cominciata la Terza Repubblica. Se è vero, comincia qui.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 20.04.08
Modificato il: 20.04.08 alle ore 8.12   
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« Risposta #78 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:27:12 am »

Per Rutelli

Furio Colombo


Avevo pensato di iniziare questo articolo (in cui si dice che è indispensabile partecipare al voto di ballottaggio e si ripete la persuasione che è necessario per Roma che Rutelli sia sindaco e governi questa città, come l’ha governata con indimenticato successo, compresa la incredibile stagione del Giubileo) con alcune citazioni di questi giorni.

Per esempio Calderoli, vice presidente del Senato uscente e ministro di qualche cosa entrante: «Rutelli si ritiri. Rischia la lapidazione».

Per esempio Gasparri, personaggio inesportabile dell’ex partito di An cannibalizzato da Forza Italia: «La Roma di Prodi, Rutelli e Veltroni è il regno del terrore e dello stupro».

Per esempio Alemanno, l’uomo che vuole governare Roma con la croce celtica, simbolo funebre dell’Europa che ha patito la furia delle persecuzioni: «Allontaneremo dalla città ventimila stranieri clandestini che non hanno nessun diritto a stare qui». (Il Corriere della Sera, 21 aprile).

È una scena da documentario della Seconda guerra mondiale, la deportazione in massa di ventimila uomini, donne, bambini, neonati e anziani da una sola città, con una decisione che evidentemente non prevede altro criterio che il razzismo (molti, moltissimi illegali lavorano, non pochi in mestieri cruciali). Evidentemente esiste in Italia, sotto il bello e il brutto della politica, un sottomondo che taglia corto e accetta il peggio in cambio di un voto.

Ma è da ricordare anche il mondo del futuro ministro degli Interni, Maroni, che pure è spesso indicato come “il migliore di loro” (serve per capire chi sono gli altri). Maroni raccomanda le “ronde dei cittadini”, ovvero quei “vigilantes” che tutte le democrazie considerano pericolosi, incivili, estranei alla legge. Ma alle obiezioni costituzionali e giuridiche il futuro ministro risponde : «Cavilli. C’è una emergenza criminalità collegata all’immigrazione. Prodi ha perso le elezioni su questo. Noi le abbiamo vinte sulla sicurezza».

Che Roma sia dieci volte più sicura di Londra, Parigi, e molto più della New York della famosa “tolleranza zero” (il cui predicatore, Giuliani, candidato alle Primarie per la destra repubblicana è stato prontamente scartato) evidentemente non serve al “governo della paura” di questa gente, che ostenta la croce celtica.

«La festa è finita, è tempo di riempire le prigioni», dichiara senza imbarazzo a La Stampa (20 aprile) un altro futuro ministro del governo della paura, il leghista Castelli, già noto per le devastazioni arrecate alla Giustizia, quando ne era ministro. Domandatevi in quale Paese - salvo forse il Guatemala - una nuova maggioranza eletta userebbe una simile frase per inaugurare la stagione.

* * *

Avrei voluto argomentare il sostegno a Rutelli con queste frasi (e un florilegio di molte altre affermazioni estranee non solo alla democrazia ma anche al buon gusto e al buon senso) che stanno caratterizzando una battaglia barbara e feroce per conquistare lo scalpo di Roma, da offrire in dono al vero padrone, i leghisti. Ma mi accorgo che il vasto mondo della sottopolitica in cui si sono accumulati un brutto passato e una nuova vendetta, ci serve solo per dire da chi sarebbe meglio stare lontani, se non altro per continuare ad assomigliare a Madrid o a Copenhagen.

Ma il fatto è che dobbiamo dire a chi vogliamo stare vicini in queste elezioni, e per i prossimi civili cinque anni di vita normale a Roma. È Francesco Rutelli.

Il perché è semplice. Tutta la destra fa una concitata campagna elettorale su due tragici stupri (non consola, ma nello stesso periodo a New York ce ne sono stati ventisette). Il fatto è grave e mobilita tutti. Ma spaventa che il centro dell’attenzione non siano le vittime, e non il destino delle donne, che continuano a vivere in guardia, sempre nel timore di un’aggressione o di una persecuzione a Roma come a Milano (e, purtroppo nelle buone aree del mondo). No, i veri stupratori indicati alla folla dai portatori di croce celtica sono coloro che hanno governato bene per decenni, ottenendo per la città di Roma una visibilità, desiderabilità e successo che ne ha spostato clamorosamente in alto simpatia e prestigio nel mondo.

Gli accusatori sono coloro che, negli anni, hanno dedicato a Roma solo un po’ di camerateschi riti di un nefasto passato, celebrati senza rapporto con la crescita, la vitalità, l’avanzare continuo nell’opinione del mondo di questa città. Si sono volute sporcare queste elezioni con una crudele messa in scena di xenofobia e di paura, facendo credere che il futuro sia nient’altro che cacciare i barbari, anche a ventimila per volta.

E allora diciamo che il volto nuovo di Roma che piace al mondo - e che ha fatto vivere con più orgoglio tanti romani - porta l’impronta civile, segnata di umori benevoli e di convivenza fraterna, di Francesco Rutelli, l’autore del successo unico al mondo del Giubileo preparato e gestito insieme, in modo perfetto, da due Rome diverse (il Vaticano e il Comune, le chiese e le strade).

E le maratone, le notti bianche, il teatro in piazza, le feste dei bambini, la Roma a cui subentra Veltroni, che ha dilatato in tutte le direzioni - dai bus alla cultura, dal jazz al cinema, dalle scuole alla burocrazia del Comune - il crescere continuo di una città decisa, anche e nonostante momenti difficili e brividi di emergenza, a vivere in pace, tra cittadini che si aiutano e si rispettano.

Ecco che cosa ci promette Rutelli, che viene avanti con il volto tranquillo del leader civile senza portarsi addosso la bisaccia della paura, senza avvoltoi che si aggirano sulle disgrazie per vedere se si può far credere che Roma sia quelle disgrazie e non l’immenso passo avanti degli ultimi quindici anni. Vogliono prendere possesso di cose fatte bene, diffondendo un clima di terrore.

Adesso il capolavoro di Rutelli - se riusciamo, andando tutti a votare domenica e lunedì, a tenere lontani croci celtiche e avvoltoi - sarà di riprendere il grande percorso Rutelli-Veltroni-Rutelli di Roma città di pace, che anche dopo essere diventata uno dei luoghi più ammirati e cercati al mondo, continuerà nel suo progetto di civiltà e convivenza fraterna.

E - così antica - Roma continuerà a diventare moderna. Se terremo lontani gli avvoltoi.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 23.04.08
Modificato il: 23.04.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #79 inserito:: Aprile 26, 2008, 09:53:28 am »

Festa di libertà

Furio Colombo


Un fatto nuovo e unico sta verificandosi nel nostro Paese: il tentativo, apertamente sostenuto dai leader della nuova maggioranza che sarà il nuovo governo, di cancellare la Festa della Liberazione che si celebra (si celebrava, temo che dovremo dire fra poco) il 25 Aprile.

Si tratta della più importante festa della Repubblica italiana, la sola che veramente riguarda tutti gli italiani.La ragione è semplice. Un giorno del 1945 è finito per sempre il regime detto nazi-fascismo, ovvero il legame fra fascismo italiano e nazismo tedesco che per cinque anni aveva terrorizzato tutta l’Europa, distrutto la maggior parte delle città, deportato e decimato a decine di milioni le popolazioni europee. Aveva, attraverso la stretta subordinazione del fascismo italiano al nazismo tedesco, realizzato il più grande genocidio della Storia: il tentato sterminio del Popolo ebreo, raggiunto, catturato e rinchiuso in apposite istituzioni di morte fino a raggiungere i 6 milioni di donne, bambini e uomini uccisi a uno a uno durante anni di metodica organizzazione.

Il 25 Aprile è diventato la Festa degli italiani perché quel giorno tutti gli italiani, compresi coloro che avevano preso parte al fascismo, sono tornati liberi, normali, uguali, non più divisi fra persecutori e vittime. Se il 25 Aprile non ci fosse stato, una parte degli italiani avrebbe dovuto continuare a combattere in clandestinità, fino ad essere eliminata, spesso con la tortura o il trasferimento nei campi di sterminio. E un’ altra parte di italiani avrebbe continuato a servire i tedeschi con la missione di catturare, torturare e uccidere dentro una meticolosa organizzazione di morte.

Tutti gli aguzzini avrebbero continuato a cercare tutti gli ebrei, anche nella famiglia o nella porta accanto, tutti i vecchi e i bambini dei gruppi destinati a morire, tutti gli zingari, tutti gli omosessuali, tutti gli avversari politici.

Dubito che si possa smentire questa descrizione. Se è vera, il 25 Aprile ha liberato soprattutto i fascisti dal loro tragico destino di aguzzini e di cacciatori di ebrei (per i quali ricevevano un compenso di lire cinquemila per ogni essere umano consegnato).

Allo stesso tempo è il giorno della liberazione di coloro che per dignità, decenza, amor di patria e di libertà, si sono rifiutati di piegarsi a un mondo di carceri e di campi di sterminio e hanno dato e rischiato la vita perché l’Italia tornasse a essere un Paese civile, normale, senza più teschi sui gagliardetti.

Di colpo le città italiane si sono riempite di bandiere tricolori ed è stata la festa di tutti.

* * *

Perché allora adesso ti dicono senza imbarazzo e senza arrossire che “è una Festa che divide gli italiani”? Come può dividere una Festa in cui tutti (tutti) sono diventati liberi ed è cominciata la democrazia nel nostro Paese?

Poiché è una affermazione palesemente falsa, le stesse persone ti danno, di volta in volta, risposte diverse.

Una è che alcune formazioni partigiane erano “bianche” (cattoliche) e volevano la libertà e altre erano comuniste e hanno combattuto sognando di passare da una dittatura fascista a una dittatura sovietica. Poniamo che sia vero. Era vero anche in Francia dove la parte comunista della Resistenza è stata la più combattiva (e - in seguito - molto più “sovietica” dei comunisti italiani).

Eppure un presidente di destra come Sarkozy, appena eletto, è andato a rendere omaggio ai caduti (dunque a molti comunisti) della Resistenza francese.

Un’altra risposta, un po’ sarcastica e un po’ con l’aria di chi sa meglio di noi la storia, è che «non ci hanno liberato i partigiani, ci hanno liberato gli americani». Chi, come me, c’era nella notte tra il 24 e il 25 Aprile, e con altri bambini che quella notte non hanno mai dormito, spiava la strada a curve che portava al luogo in cui eravamo nascosti, non ha mai dimenticato il rombo dei carri armati americani che abbiamo sentito per ore prima di vedere un carro comparire sulla collina, prima di vedere la bandierina a stelle e strisce, che voleva dire “siete liberi”, sopra la lunga asticella (allora non sapevo che era l’antenna radio).

Ma intorno a noi e dietro di noi, e lungo i percorsi che scendevano verso la pianura c’erano i partigiani. A loro si erano arresi i tedeschi (anche grandi reparti, ne vedevamo a centinaia seduti nell’erba senza l’elmetto che era stato per anni il primo segnale del terrore, senza la corta mitraglietta, con cui li avevamo visti abbattere giovani appena catturati, in mezzo alla strada). I partigiani portavano giù interi reparti di fascisti che avevano avuto come unico compito non “l’onore dell’Italia” ma la caccia agli italiani antifascisti, agli italiani ebrei. E al fronte non erano mai andati.

Nei due lunghi anni di occupazione di tedeschi e fascisti nelle città e nelle campagne italiane (mai stato così freddo l’inverno come in quei due anni) di chi erano i corpi dei giovani abbandonati, dopo la fucilazione, nelle strade italiane (cinque cadaveri di giovani sui vent’anni, lungo il percorso tra la chiesa e la scuola la mattina presto del due febbraio 1944)? Chi erano gli impiccati, uno per lampione, in via Cernaia, a Torino, sul lato sinistro per chi viene da Porta Susa? Se erano così inutili, così irrilevanti da non meritare nemmeno una Festa, perché ne hanno uccisi tanti? Non sarà che quei fucilati, quegli impiccati erano stati in grado, con i loro tanti compagni “bianchi” e “rossi” più vecchi e più giovani, più “conservatori” e più “sovietici” di tenere inchiodati tedeschi e fascisti, costringendo una parte di loro a non combattere contro gli americani, costringendo una parte di loro a non poter dedicare tutto il tempo alla tortura degli antifascisti e alla deportazione degli ebrei?

Oggi, 25 Aprile, vorrei ricordare uno solo di coloro che - con ben due pagine fitte di scherno e denigrazione - Il Giornale di casa Berlusconi (22 aprile) ci intima di smettere di ricordare. È Franco Cesana, un ragazzino ebreo di 13 anni, di Modena, che ha voluto seguire “in montagna” (così si diceva allora) il fratello diciassettenne e con lui è stato fucilato sull’Appennino. È stata la storica americana Susan Zuccotti a raccontare la sua storia nel testo “The Italian Holocaust” (Nebraska University Press), a esibire la lapide del cimitero di Bologna su cui c’è scritto: «Al più giovane partigiano d’Italia». Ci ricorda che con lui è nata giovane, la nostra Repubblica che ha reso liberi tutti. Lo ricorda nel capitolo fitto di nomi e di eventi «Gli Ebrei e la Resistenza italiana». Qualcuno dice che dovremmo dimenticarci di loro, perché questa data divide?

Mai sentito che la libertà divida un popolo. Quello è il mestiere, anzi la missione delle dittature.

Lo prova il fatto che nessun Paese, mai, ha abiurato o respinto o negato il giorno della Liberazione.

Vi immaginate un americano che rinunci alla Festa di Indipendenza del 4 di luglio?

Solo persone strane e vanesie o di debole identità si ostinano a cambiarsi la data di nascita. La nostra è il 25 Aprile 1945. E siamo sicuri che ci unisce.

Furio Colombo

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 25.04.08
Modificato il: 25.04.08 alle ore 8.11   
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« Risposta #80 inserito:: Aprile 27, 2008, 07:08:17 pm »

La posta in gioco

Furio Colombo


Oggi, mentre vado a votare per Rutelli, mi rendo conto che la posta in gioco è molto alta, forse estrema. Ho fiducia in Rutelli per il modo in cui ha già fatto il sindaco di Roma (si vedano in proposito i grandi settimanali americani nell’anno del Giubileo).

Ma questa volta, in questo caso la scena si apre a una prospettiva molto più vasta. E con il punto di riferimento spostato. Rutelli non è tutta la sinistra ma piuttosto tutta la normalità. È la motivazione a fare un buon lavoro misurato sul piano professionale. Alemanno invece è tutta la destra, dal conservatore al naziskin, dalla svolta di Fiuggi al rito mussoliniano.

E questo non dipende dal carattere, vita o predisposizioni del candidato. Dipende dal simbolo che è diventato. Se vince, non si realizza una semplice alternativa destra-sinistra. Se vince, passa con lui un vento furioso di destra che va molto al di là dei contenitori-partito e dei confronti tradizionali. Passa un vento che abbatte limiti e moderazioni e qualunque incentivo a trattenere impeti, eccessi, smottamenti pericolosi del pezzo di terreno democratico su cui siamo accampati tutti.

Non occorre un grande approfondimento per affermare che qualunque folla (o opinione pubblica) si abbandona più facilmente a comportamenti estremi in mancanza di riferimenti anche solo simbolici. Questa volta la scelta non è fra un sindaco o un altro ma fra convivenza e vendetta, fra futuro e passato, fra lavoro insieme e provocazione squadristica. Non è necessaria l’analogia meteorologica per ricordare che le aree di bassa pressione, quando sono troppo grandi e durano troppo a lungo, trasformano i temporali in devastanti uragani.

Il senso di ciò che sto dicendo è che l’esito delle elezioni di Roma, una volta dette “amministrative” e - in questo caso - decisamente politiche, farà pesare il suo effetto più grande non (non solo) su Roma ma soprattutto in Italia.

Sarà una scossa capace di cambiare o riassestare alcuni pezzi e alcuni equilibri del governo ancora non nato. Sarà un modo di sapere in anticipo se il peggio elettorale della destra italiana diventerà regola di comportamento per governo e maggioranza, oppure se finiranno per prevalere alcuni segni di “mitezza” di cui parla un editoriale de La Stampa il 23 aprile.

Alemanno non è Attila, è solo un leader deciso a rivendicare e imporre alla sua città tutti i “valori” di destra che lo hanno formato e di cui è coerente erede.

Rutelli non è San Francesco. È un politico-organizzatore di tradizione democratica europea che - persino sotto attacco e ricatto di voti - non riesce a immaginare (come nessun suo collega dell’Ue) deportazioni di massa.

Ma il peso simbolico delle rispettive elezioni è molto grande, prima di tutto per il Paese.

Rutelli sindaco significa: c’è un’Italia saldamente democratica e rispettosa di tutti di cui tenere conto. Alemanno sindaco è il messaggio opposto (e questo non è un tratto per descrivere Alemanno ma il fatto che potrebbe accadere): non c’è nessuna altra Italia di cui tenere conto, non è necessario interpellare o ascoltare nessuno o tenere conto della storia democratica italiana. Alemanno sindaco sarebbe un drammatico e risoluto abbandonarsi al vento di una destra senza remore, senza limiti, senza controlli. Una destra che - già adesso - si permette di chiedere «le scuse della comunità ebraica romana», una vicenda che fino a poco tempo fa sarebbe stata impossibile nella città che ricorda ancora il 16 ottobre 1943.

* * *

Come si divertiva il tassista di Roma (ore 14.00, 22 aprile, taxi 3570) ad ascoltare in diretta su Radio 105, volume altissimo, un collegamento fra giovani conduttori entusiasti e Beppe Grillo. Il tassista gridava con loro, ripeteva “vaffanculo” con Grillo, era travolto dal ridere, ad ogni battuta come «le fedine penali sporche erano una trentina. Adesso sono 73, nuovo record», «tanto se non hai la fedina penale sporca non entri» e «chi ce l’ha ancora pulita adesso si affretta, non vi preoccupate».

Il tassista, del tutto coinvolto ha alzato ancora di più il volume della radio «Le piace Beppe Grillo? a me moltissimo!». Mi gridava sovrapponendo la sua voce alla radio. «Sono d’accordo su tutto! Ordine dei giornalisti? Certo che è da abolire, sono tutti puttane, i giornalisti». «Finanziamento ai giornali di partito? Facciano come me, se li guadagnino i soldi, altro che pagarli noi». E alla fine un urlo quando ha sentito Grillo nominare la Legge Gasparri «abolire, stracciare!», gridava.

La scena mi sembrava insolita per un guidatore di taxi di Roma, dove la partecipazione gridata a un programma radio avviene - se avviene - con le radio che trasmettono discussioni sul calcio. E comunque mi pareva insolito tanto militantismo, quasi a sinistra. È stato inevitabile chiedere: «Scusi, lei per chi ha votato?». «Berlusconi, ma le pare? Berlusconi! Finalmente ci divertiamo! Finalmente si cambia!». Lascia un istante il volante per sfregarsi le mani. Mi è sembrato crudele fargli notare che la Legge Gasparri era il gioiello della corona (in senso tecnico, letterale) di Berlusconi. Tanto più che il mio guidatore era impegnato a spiegarmi la vergogna di una legge elettorale come quella con cui abbiamo votato. «Comodo passare in carrozza dentro una lista blindata, roba da comunisti. Vedrà adesso Berlusconi come gli cambia il gioco!».

Troppo tardi per spiegargli che stava denigrando la legge Berlusconi-Calderoli. Il vento in quel taxi soffiava furioso. Quel vento che in aree di bassa pressione rischia di diventare l’uragano Kathrina. E peggio per chi aveva pensato a un temporale qualunque.

Lo stesso vento disordinato e impetuoso che ho visto soffiare lungo il percorso di una intervista volante del Tg 3, la sera del 22 aprile.

Il tema è: «Perché ha votato la Lega?», con questa domanda la giornalista del Tg 3 insegue una signora bionda e stanca di qualche borgo vicino a Brescia, che si ferma, si volta e dice esasperata: «Perché ci trattano come loro». «Cioè?», vuol sapere la giornalista. «Cioè ci fanno lavorare come loro, otto ore di seguito senza mangiare e mi vergogno a dire la paga». «Loro chi?» chiede per sicurezza la collega del Tg 3, «loro i negri, ha capito? Ci trattano come i negri. È per causa loro che ci fanno lavorare troppo e non ci pagano».

* * *

Un mondo a rovescio ti si presenta come se “Alice nel Paese delle Meraviglie” fosse stato scritto con cattivo umore e cattive intenzioni, da un autore dedito alla confusione. Il Cappellaio Matto fa e dice tutto, smentisce tutto, e poi il contrario di tutto, e spinge gli uni contro gli altri senza pensarci due volte.

La rissa nel saloon sembra essere il clima desiderato. La pistola sarà sfoderata dallo sceriffo al momento giusto.

Ecco dunque che cosa è in gioco nelle elezioni di Roma. È in gioco il freno a mano di un veicolo che sbanda, affollato di una destra festosa, convinta di incontrare il sole che sorge, senza notare, o fingendo di non notare che la Lega è intenta a spingere a colpi furiosi il “nuovo” veicolo lungo una discesa pericolosa di cui si intravede appena il punto di arrivo disastroso.

È in gioco il mettersi al riparo da un vento di confusione in cui le stesse persone (così sembra ascoltando nomi, nazionalità, narrazione dei fatti) appaiono come pericolosi alieni da cacciare in massa, ma sono anche coloro che muoiono accecati dalla stanchezza, mentre, dopo dodici ore di turno e chissà quante ore di di straordinario, attraversando, nel punto e nel momento sbagliato. Muoiono cadendo dai tetti, dalle impalcature, schiacciati dai carrelli della fabbrica, da tubi che rotolano, da camion scaricati in fretta, come capita, dall’aver toccato il cavo sbagliato ad alta tensione. Esseri umani da cacciare e da assumere, da incarcerare e a cui affidare la fabbrica, da accusare di tutto mentre si occupano dei vecchi che nessuno accudisce.

Qualcuno in qualche punto del Paese deve poter governare in modo civile e diverso, un punto di Italia che è anche un simbolo, come Roma.

Per capire quanto stia soffiando forte il vento di una destra che crede di non avere più limiti, neppure nel buonsenso, sentite questa. Jan Fisher, corrispondente del New York Times, dedica mezza pagina di quel giornale, che influenza l’opinione del mondo (dunque anche il turismo) per dire: «Roma è la città più sicura, anche di notte. Roma è una città di festa». È un lancio affettuoso che vale - dato il giornalista e il giornale - la famosa mela che rappresenta New York e l’ha resa simpatica nel mondo. Vale il cuore rosso di “I love N.Y.”. Sentite ora che cosa risponde il capo della destra italiana che governerà fra poco: «Tutte bugie. Tutte invenzioni. I giornalisti americani frequentano troppo la sinistra. Roma è un disastro!».

Lo sanno in molti nel mondo che Berlusconi spesso non controlla quello che dice. Ma lo dice lui, futuro primo ministro d’Italia. E ogni negoziante, ogni artigiano, ogni imprenditore di ristoranti, di alberghi vede dov’è il disastro: nelle parole irresponsabili di Berlusconi che, per beghe elettorali (e forse anche per obbedire alla Lega di Bossi) calunnia Roma come modo per aprire la stagione turistica.

Fate in modo che si senta, ben chiara, una voce diversa. Anche per far sapere che la salute mentale non è perduta del tutto in Italia. Votate Roma.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 27.04.08
Modificato il: 27.04.08 alle ore 14.52   
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« Risposta #81 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:41:39 pm »

Camerati che sbagliano

Furio Colombo


Il delitto di Verona è apparso subito per quello che è: un misto di balordo e politico, quel tipo di violenza estrema e torbida che ha, certo, radici patologiche ma ha bisogno di un ambiente favorevole - o interpretato come favorevole - per esprimersi. In altre parole a nessuno viene in mente che il sequestratore e violentatore austriaco che ha infierito per vent’anni sulla figlia fosse ispirato altro che dai suoi demoni privati.

Il delitto di Verona è invece collettivo, pubblico, sociale: un ragazzo col codino, visibilmente estraneo e dunque - nella versione corrente - «nemico» della squadretta fascista che lo ha intercettato isolato e di notte, meritava una severa punizione per il solo fatto di essere «uno degli altri», non uno dei nostri.
Per sapere chi sono gli altri e come dobbiamo considerarli se siamo fascisti, non c’è bisogno di memoria o ricerca filologica. Non c’è neppure bisogno di rileggere le piccole bravate del capo-orda Raffaele Delle Donne (studente di un buon liceo) che il 27 gennaio, Giorno della Memoria (Shoah), rifiuta di stare in classe, se ne va con alcuni compagni gridando che tornerà quando si parlerà di foibe, e che lui «con gli ebrei non vuole mischiarsi».

Basterà l’odio diffuso e indiscriminato suscitato dalla continua descrizione di “miseria, distruzione e morte” con cui hanno devastato l’Italia e l’onore dell’Italia quelli col codino, dunque comunisti, dunque assassini da foibe su cui è giusto rifarsi. Basterà ricordare ciò che ha detto, ripetuto e ripete il nuovo designato presidente del Consiglio: «mi fanno orrore». Perché non pestarne uno a sangue? Volevano uccidere? I migliori avvocati di Verona (e del resto ogni buon difensore) che saranno messi a disposizione di questi ragazzi non poveri, non spaesati, non perduti nella metropoli, ma anzi ben ambientati in un’area semi legale, poco scoperta e molto potente della vita politica italiana, si impegneranno a spostare l’imputazione il più lontano possibile da ciò che è stato: omicidio volontario di pericoloso nemico (estraneo e presunto comunista), uno di quelli dei gulag e delle foibe, dunque un delitto-retribuzione. I ragazzi non sono soli, come il povero morto. Saranno ben difesi, come non è accaduto alla vittima. E non ci meraviglieremo quando li rivedremo (tempo alcuni mesi) sulla stessa piazza di Verona, bene ambientati e spavaldi, visto che nessuno, nella attuale leadership di quella città ha preso risolutivamente, e in modo non equivoco, le distanze da loro.

* * *

Ci meravigliamo e continueremo a meravigliarci del gelo crudele, infastidito e distratto con cui la destra ufficiale italiana, che adesso è di istituzioni e di governo, ha cercato di scrollarsi dalle spalle l’uccisione a calci e pugni di un ragazzo come se fosse uno dei tanti atti di teppismo violento che, sfortunatamente, insanguinano le notti delle metropoli in tutto il mondo. Personalmente - se e quando chiamato a descrivere e valutare la personalità del nuovo Presidente della Camera (come mi è accaduto di fare in un think tank politico negli Usa subito dopo l’elezione di Fini) - non lo avrei mai descritto nel modo in cui ha voluto apparire a Porta a Porta: molto abbronzato, molto irritato, pronto a scansare e a parlare d’altro, senza la sensibilità umana e l’istinto politico di restare sul posto e sul caso: città di destra, delitto bestiale, e notizie già inequivocabili e disponibili sia sul delitto che sugli autori, indubbiamente di stretta osservanza.

Ci meravigliamo e continueremo a meravigliarci della freddezza burocratica con cui il fra poco ministro Mantovano si è scrollato di dosso l’odioso omicidio di Verona, con una argomentazione da repubblica di Weimar che - caso raro - ha provocato una reazione personale anche dall’attento e professionale conduttore Mannoni, nel programma del Tg 3 Primo piano.
In sostanza la posizione di Mantovano, incalzato dall'ex ministro Ferrero che non parlava da leader di partito di sinistra ma da persona colpita e impressionata dal fatto, e non ha mai invocato motivazioni politiche ma piuttosto stupore e dolore - è stata la seguente: «Ma cosa volete da me? Avete arrestato i balordi, fate il processo e smettetela di tirarci in ballo. Non vedete che hanno agito da soli?».

Mantovano, fascista o no, non è né disorientato né incolto e non può nemmeno invocare la mancanza totale di rapporto con uno o due libri che è spesso la giustificazione dei leghisti. Mantovano probabilmente sa che non si è mai trovato alcun legame organizzato fra la “Notte dei cristalli”, le botte ai negozianti ebrei, la distruzione delle vetrine, qualche morto, e il partito nazista. Erano tutti balordi, spinti ad agire così male dai loro impulsi di violenza e qualche occasionale provocazione.
Mantovano sa che l’incendio del Reichstag che ha segnato la storia tedesca è stato opera di un balordo isolato, giudicato anche un po' mentecatto, o così si è adattata a dire la stampa del tempo e a sentenziare in modo adeguato la magistratura tedesca sensibile alla nuova epoca. Eppure, il “colonnello” già di An (e ora del Popolo della libertà in cui An si è riversato) non ha avuto difficoltà a mostrare distanza e disinteresse per il ragazzo pestato a morte. E si è spazzato via dalle spalle, come una forfora, l’innegabile legame fascista del gruppo di assassini, e l’evidente ambientazione di tutto ciò nella città di Verona, nella città di Tosi, sindaco leghista.

Basterebbe la citazione di un solo discorso di Tosi in campagna elettorale per trovare lo stesso legame fra i discorsi di George Wallace, governatore razzista dell’Alabama negli anni 60, e il linciaggio e il pestaggio a morte di alcuni giovani neri. O le bombe nelle chiese dove i bambini neri imparavano il catechismo. La fortuna di quel Paese è stata che John Kennedy, proprio in quel momento terribile, è diventato presidente degli Stati Uniti. E Robert Kennedy, nuovo ministro della Giustizia, non ha perso un minuto a far sapere al governatore che - se avesse continuato nella sua politica razzista - il governo di Washington avrebbe inviato truppe federali per proteggere i neri.
È una fortuna che - in questi anni - non tocca all’Italia. Non ci resta che sperare nei media (specialmente Tv) più coraggiosi e in una opinione pubblica persuasa che fatti così gravi riguardano tutti noi. Tutti.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 08.05.08
Modificato il: 08.05.08 alle ore 11.42   
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« Risposta #82 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:41:54 pm »

Schifani, il silenzio dell’opposizione

Furio Colombo


Vi ricordate l’espressione «parla come un libro stampato»? Significava chiaro, senza ambiguità, senza sentito dire, senza equivoci.

È quello che ha fatto Marco Travaglio, la sera di sabato scorso nella trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio.

Forse è utile una precisazione. Non è una metafora definire «come un libro stampato» ciò che ha detto Travaglio nel corso della conversazione - come sempre civile e amabile - con Fazio, è cronaca.

Travaglio infatti ha citato dal libro suo e di Gomez «Se li conosci li eviti» e dal libro di Gomez e Lirio Abbate (giornalista antimafia sotto scorta) in cui si narrano alcuni episodi della vita dell’avvocato senatore Renato Schifani prima che fosse eletto, dopo la strepitosa vittoria della sua parte, presidente del Senato e dunque seconda carica dello Stato.

È vero, la carica è alta, nobile e chiede rispetto. Questo rispetto ha due facce. La prima riguarda l’Istituzione ed è, come è giusto, solenne e celebrativa. La seconda faccia è quella del cittadino di un Paese democratico il cui status non varia con la carriera. Ha già - come tutti - il pieno diritto sancito dalla Costituzione. E nient’altro.

Nessuno, in democrazia, diventa sacro, speciale o intoccabile per via di una carica. Nessuno può essere denigrato o calunniato, perché lo difende la legge e le pene che può comminare a chi mente e accusa, sia per ragioni private che per disegno politico. Faccio qualche esempio.

Molti, nel passato americano, hanno sparlato dei Kennedy, John e Bob, quando uno era presidente e l’altro ministro della Giustizia, molti hanno accusato Johnson per la sua stazione radio nel Texas (che alla fine ha dovuto vendere). Che cosa sia accaduto a Nixon a causa della fastidiosa e implacabile libera stampa americana è nei libri di storia. E per quanto secchi molto alla famiglia Bush (senior e junior) sentir dire che il padre, grande sostenitore della guerra nel Vietnam quando in America il servizio militare era ancora obbligatorio, ha mandato il figlio a fare l’aviatore in Texas (mentre 56mila giovani americani morivano tra Hanoi e Saigon), tuttavia la maleducata stampa americana - editoriali inclusi - continua a dirlo.

Quanto alle seconde cariche dello Stato, tutto il mondo ormai sa - per merito o colpa della screanzata stampa americana, che il vasto conglomerato Halliburton, azienda presieduta dal vice-presidente degli Stati Uniti Cheney fino a un momento prima di giurare alla Casa Bianca, ha vinto miracolosamente tutti (tutti) gli appalti che contano in Iraq compreso il supercontratto che garantisce a Halliburton di gestire la sicurezza in Iraq con decine di migliaia di agenti privati. Interi editoriali del New York Times e del Washington Post hanno indicato, e continuano a indicare (e provare) il filo diretto che lega il numero due degli Stati Uniti agli affari privati. E se quando (sovente) un giornalista ne parla in televisione nessun conduttore di CBS, NBC, ABC, o CNN, chiederebbe o ha chiesto scusa per il libero esercizio della sua attività professionale.

Quanto ai politici, se vogliamo restare con la esemplare vicenda della seconda carica dello Stato Dick Cheney può essere utile ricordare quanto segue: tutti i parlamentari democratici di quel fortunato Paese, difendono chi ha osato, con buone inchieste, puntare in alto, a cominciare dalla combattiva presidente della Camera Nancy Pelosi, che è nota anche per alcuni giudizi televisivi su Bush che hanno lasciato impassibili sia i giornalisti conduttori dei programmi che i consigli di amministrazione delle varie reti tv.

I repubblicani però (ecco un’altra impronta di una grande democrazia) non si schierano tutti per Cheney, a causa del dubbio. Alcuni vorrebbero far luce e saperne di più, anche se l’interessato si oppone. Un conto è la lealtà di partito e un conto è l’integrità di un autorevole leader di quel partito.

Ho già avuto occasione di dire che l’Italia è un Paese sfortunato. Cercherò di articolare questo non lieto pensiero.

Primo. Marco Travaglio, che ha fama di giornalista investigativo accurato viene invitato a Che tempo che fa per presentare un suo nuovo libro, il tipo di inchiesta-denuncia per cui è celebre e che vende a decine di migliaia di copie. Naturalmente parla del libro e di cose stampate nel libro (uscito ormai da tre mesi senza indignazioni, obiezioni, denunce o scandali).

Una breve parte di quel libro riguarda il sen. Schifani e rapporti avuti non in un’altra epoca o vita o luogo, ma in Sicilia ai nostri giorni. Il frammento citato da Travaglio è parte di una trattazione molto più ampia nel libro di Gomez e Lirio Abbate uscito da più di un anno e mai intercettato da ire, denunce e indignazioni.

Ma Travaglio (e forse anche Fazio) sembrano aver trascurato due fatti: siamo in televisione, siamo in Italia, siamo sotto Berlusconi, dove il motto sembra essere “tolleranza zero” e non importa se sei extracomunitario. Basta essere extra-maggioranza? Non trovi tutto nuovo, splendido e giusto? Sei fuori e meriti sanzioni.

Secondo. Infatti, da questo momento la domanda non è più quella giornalistica (siamo sicuri?) o giudiziaria (lo ha detto chi, in quali carte o atti o testimonianze?). La questione, fondata o infondata che sia, non riguarda più il presidente del Senato.

Non riguarda neppure la drammatica alternativa tra verità, insinuazione, calunnia.

Tutto si raggruma in un unico grido: come hanno osato? E nella neppure celata promessa: ora sì che la pagano! Si uniscono al coro di grande dignità professionale, manageriale, giornalistica: il direttore di rete, Ruffini, il direttore generale, Cappon e personale vario, consiglieri di amministrazione vari della nota azienda pubblica “in mano ai comunisti” (Silvio Berlusconi in innumerevoli dichiarazioni). Segue comunicato pubblico dei direttori, che non mostrano il minimo interesse per la vicenda dal punto di vista dei fatti. Ma proclamano una giornata di scandalo per l’offesa. E impongo al conduttore del programma - come nella Cina della rivoluzione culturale - l’autocondanna.

Questo giornale ha ricordato che uno dei migliori giornalisti della Rai è stato forzato alla stessa penosa autocondanna e richiesta di scuse, dopo una intervista in cui avevo osato definire Berlusconi (citavo la stampa estera) una barzelletta che cammina. L’avevo detto io, non lui. Ma a lui è stata imposta la gogna di chiedere scusa agli ascoltatori “per il livore” di quella battuta non sua.

Terzo. L’opposizione? Silenzio gelido, come se Travaglio fosse un rumeno caduto in mano a una ronda, mentre tentava un furto con destrezza. Fosse tutto silenzio, certo ci sarebbe da chiedersi da dove nasce tanta indifferenza per una questione di libertà. Perché questa è una questione di libertà di informazione nella sua versione più netta ed esemplare.

Purtroppo non è tutto silenzio. Due personaggi autorevoli e meritevoli di piena stima nella storia Ds e nel nuovo Pd sorprendono con dichiarazioni incomprensibili, Luciano Violante, forse senza sapere di riferirsi a ciò che ha detto e scritto un giornalista costretto a vivere blindato per minacce di mafia (eppure Violante è esperto in materia) liquida le citazioni di Travaglio come “pettegolezzo”, una forma di disprezzo inspiegabile verso chi è - intanto - sotto il fuoco incrociato di un potere vendicativo che tende al controllo totalitario.

La senatrice Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, la stessa che si era battuta con bravura e coraggio nei giorni e nelle notti in cui bisognava salvare dal linciaggio morale i senatori a vita colpevoli di sostenere Prodi, adesso condanna senza un’occhiata al testo Travaglio, mostra di approvare la gogna imposta a Fazio e l’agitato servilismo della Rai. Ma introduce un genere giornalistico inesistente, l’intervista con contraddittorio, significa che d’ora in poi dovremo equiparare l’intervista - o almeno l’intervista in Rai, per quanto bravo sia il giornalista - alla conversazione mondana in cui è di buon gusto evitare questioni roventi.

Secondo il Corriere della sera (12 maggio) il senso delle iniziative di Finocchiaro e Violante è questo: «se state dalla parte di Santoro e Travaglio, continueremo a perdere (le elezioni, ndr) per dieci anni».

Non siamo mai stati buoni profeti, a sinistra, sul possibile esito delle elezioni, né sempre geniali nello scegliere le strategie. Sul futuro è presto per parlare. Ma il presente è impegno per la libertà di informazione, è determinazione a impedire che vi siano santoni intoccabili e temi che non possono essere neppure nominati.

Vorremmo appartenere all’Europa, assomigliare all’America democratica e allontanarci da Peron. E sogniamo una opposizione che fa l’opposizione a partire dalla difesa della libertà dei giornalisti. Vorremmo ricordare al governo ombra che esiste un paese ombra che, come succede a tutti i governi, chiederà conto dell’azione di governare. E non suggerisco di cominciare schierandosi dalla parte della Rai che si inchina e che si scusa prima ancora di sapere di che cosa si sta parlando.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 8.38   
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« Risposta #83 inserito:: Maggio 15, 2008, 12:06:17 am »

Caro Franceschini ecco cosa vorremmo

Furio Colombo


Caro Dario,

ti sono grato per la risposta, per la gentilezza, per l’attenzione. E mi sembra molto utile ciò che tu dici per sgomitolare un po’ il filo ancora intricato che dovrebbe portarci dal «come eravamo» al «come saremo», ma che qui, adesso, nell’epoca intermedia del «dove siamo», ha ancora molti nodi che si dovranno sciogliere con pazienza.

Avrai notato anche tu che proprio nel giorno in cui l’Unità ha pubblicato la tua amichevole lettera, il giornale Europa, che un po’ ti riguarda, in un editoriale stranamente incattivito (come se fosse un comunicato dell’ufficio stampa di Schifani) chiedeva l’eliminazione di Travaglio e di questo tuo interlocutore. Per fortuna non ci sono isterismi e cacce alle streghe, nel nuovo partito che tu giustamente rivendichi. Se mai troppa quiete, dati i tempi che stiamo vivendo.

Ma alla fine è un bene perché lascia cadere nel vuoto e nel non commento l’esortazione un po’ esaltata all’inimicizia e al taglio di ogni contatto che, devi ammettere, non può che stupire e disorientare. Non conta, dirai. Non sono questi, dirai, i sentimenti di un partito che nasce con una buona dose di impegni, di speranze e di questioni comuni di cui farsi carico.

Vediamole insieme. Tu hai colto la mia domanda che un po’ echeggiava la brutta barzelletta del tempo della guerra fascista. «Sai? - diceva uno - hanno arrestato gli ebrei e i barbieri». «Perché i barbieri?» chiedeva l’altro.

La mia domanda era: perché gli antiberlusconiani dovrebbero essere tutt’uno con coloro che, in quanto massimalisti (non credo nella parola ma per comodità la uso) erano “contro”?

Se ricordo bene i nostri amici e alleati massimalisti del prima di andare da soli erano “contro” Prodi (missioni internazionali) o “contro” Padoa Schioppa (la maledizione del tesoretto) e avevano troppo da fare con le pratiche ancora inevase della “sinistra prima” per occuparsi di Berlusconi. Avrai notato che molti nomi dei soci fondatori di quello spirito ribelle confluito nell’Unità al tempo dei girotondi era liberal e sciolto, senza conti pregressi da sistemare, adeguare o cancellare. Insieme alla generosità e qualità professionale di coloro che all’Unità lavoravano prima e hanno scelto (sapessi quanti hanno detto di no) di lavorare con me che venivo dall’America e da Repubblica e con Padellaro che veniva dal Corriere e dall’Espresso, abbiamo fatto un punto di opposizione-resistenza nei confronti del governo Berlusconi che è stato notato e citato nella stampa internazionale e nei libri europei e americani che parlavano dell’Italia non felice di quegli anni.

Ma noi - ricorderai anche per gli eventi a cui abbiamo partecipato - eravamo insieme a ciò che adesso è il Pd, insieme alle varie radici, ampiamente ospitate nelle pagine della rinata Unità, l’anima Ds, l’anima laica, quella cattolica.

Quel “contro” che ha originato lo scatto della decisione di andare da soli era, a volte, anche su grandi e civili questioni che forse si potevano chiarire e districare e riagganciare (e in tanti, anche al vertice del Pd, anche nelle parti di sinistra rimaste chiuse fuori, sperano, speriamo che si farà). Però non era il “contro Berlusconi” che viene rimproverato a noi e che condividiamo con mezza Europa.

Quello che a volte sembra una ossessione è invece una sorta di orgoglio da cui alcuni di noi esitano a staccarsi. Perché dovremo essere meno liberi che negli Stati Uniti dove il New York Times del 12 maggio pubblica un durissimo editoriale contro la loro seconda carica dello Stato, il loro vice presidente che è anche - guarda caso - presidente del Senato? Perché di quell’altissima carica si può dire (citando Nancy Pelosi, leader della opposizione democratica) che beneficia di profitti di guerra (importanti contratti esclusivi in Iraq) e su quei profitti non paga le tasse? Perché nessun direttore o proprietario del quotidiano newyorkese dovrà chiedere scusa, dato che un conto è la stampa libera, un conto sono le responsabilità personali, e un conto sono le condivise istituzioni, tutte cose da non confondere mai in un impenetrabile impasto? Ecco che cosa distingue la tenace e costante opposizione che alcuni di noi si ostinano a chiedere e a fare. Non invoca alcun massimalismo né storico né ideologico, se non altro per mancanza di radici e di storia adeguata.

Vorremmo difendere il diritto di Fabio Fazio di invitare chi vuole (come i suoi colleghi inglesi e americani durante governi di destra e di sinistra) e non dover chiedere scusa, perché non si può costringere un cittadino a chiedere scusa per ciò che non ha detto, a nome di un altro. Vorremmo che il solo rischio dell’intervistato non sia la gogna (inclusa quella riservatagli da la Repubblica, il 13 maggio), ma - se c’è errore o dolo - l’autorità giudiziaria. Vorremmo Occidente e non salamelecchi orientali intorno al presidente del Senato.

Vorremmo che la frenesia delle ronde dei cittadini (che in America e in Europa si chiamano vigilantes e sono vietati dalla legge e dispersi dalla polizia) fosse fermata da parole chiare, come ha fatto il Cardinale Martino quando ha detto no al reato di clandestinità senza domandarsi se quel no netto alla evidente disumanità del progetto fosse o no popolare.

Vorremmo che il governo ombra non fosse una fascia di contenzione alla libera e piena espressione politica da parte di deputati e senatori e i nuovi quadri dirigenti locali del Pd. Vi chiediamo (chi? dirai tu, ma io provo a dirlo a nome di tanti cittadini) di non applaudire Berlusconi prima del tempo. Certo, non vogliamo neanche sdegno e condanne, prima del tempo. Solo l’occhio sospettoso e in guardia dell’opposizione.

Loro hanno vinto anche per una intensa, infaticabile opposizione quotidiana in cui mai, per nessuna ragione, hanno abbassato gli scudi un po’ selvaggi dell’ostilità continua. Persino sugli interventi internazionali delle truppe italiane hanno votato no, pur di non accostarsi a Prodi, insieme con Turigliatto.

Infine ci resta da tendere la mano a dodici (dodici) milioni di italiani che ci hanno votato, perché sognavano un’altra Italia, non questa, non Maroni, non Schifani, non Borghezio, non Alemanno con la sua croce celtica (vedi ciò che accade a disorientati ragazzini nelle scuole). Non c’è alcun estremismo nel pensare a quei dodici milioni. E nessun massimalismo nel ripetere con loro «Berlusconi no». È la nostra strada del ritorno.

Confido che - se la faremo insieme - i dodici milioni usciranno dala solitudine, diventeranno quindici, prima che Berlusconi diventi presidente della Repubblica.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 14.05.08
Modificato il: 14.05.08 alle ore 10.48   
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« Risposta #84 inserito:: Maggio 18, 2008, 11:07:42 pm »

La maschera e il volto

Furio Colombo


Un agente in divisa (festa della Polizia, 16 maggio, ore 10.30) si è staccato dalla sua pattuglia, si è accostato per dire: «Sono di sinistra. Mi dicono che sono l’unico. Mi aiuti a capire. Dove ho sbagliato?».

Poco prima in un altro crocevia due signori bene in arnese non tanto più giovani di me si erano piazzati alle mie spalle il più vicino possibile, e fingevano di conversare ad alta voce.

Uno: - Ha vinto Berlusconi, se lo devono mettere in testa i comunisti. Ha vinto Berlusconi.

L’altro: - Eh santo Dio, finalmente ce li siamo levati dalle palle. Per sempre, hai capito, per sempre.

Uno: - Era ora. ’Sti comunisti del cazzo che ci stavano rovinando... ’Sti comunisti di Prodi!

Alcuni giorni prima, a Fiumicino, di ritorno dal Salone del Libro, mentre ero intruppato nella piccola folla che camminava verso il ritiro bagagli, due signori, più manager che pensionati, cercavano di restare vicini per farsi sentire in una cantilena tipo “Hare Krishna” «Per fortuna ha vinto Berlusconi... per fortuna ha vinto Berlusconi. Passa parola ai comunisti...». Con loro c’era un bambino serio, con il suo zainetto, probabilmente in trasferta tra padre e madre, tra una casa e l’altra. Oltre a me, era il solo a essere imbarazzato.

Nella libreria Mondadori di via del Corso si è accostata una signora, anche lei con un bambino per mano. Dice: «Dateci una parola di speranza». Ci siamo salutati con un sorriso.

La sera prima, di fronte al televisore per guardare una memorabile puntata di “AnnoZero” (quella in cui Travaglio ha spiegato che nei Paesi democratici ci si ispira all’emendamento della Costituzione americana che vieta al governo di censurare la stampa affinché la stampa possa censurare il governo) vengo sorpreso da questo scambio di battute fra il sindaco Ds-Pd di Salerno De Luca e il sottoministro leghista Castelli.

De Luca: - Prima di tutto dobbiamo imparare dalla Lega Nord, imparare dal loro rapporto col territorio, dalla forza del loro linguaggio... lo dico a tutti ma vedo che la sinistra fa spallucce.


Castelli: - Ma no, no, quelli di sinistra non fanno spallucce. Adesso le piegano le spalle.

Lo stesso sottoministro Castelli, poco prima, dopo avere ascoltato un appassionato, civile intervento di Stefano Rodotà contro la barbarie dei rastrellamenti notturni e delle invasioni alle quattro del mattino nei campi legali abitati da Rom di cittadinanza italiana e monitorati da posti fissi di polizia, ha detto con espressione beata: «Avete notato? da quando ci siamo noi non sbarcano più».

Michele Santoro ha dovuto pazientemente ricordargli che cinquanta clandestini erano morti in mare appena pochi giorni prima. Ma non ha cancellato quell’aria di trionfo sul viso di Castelli. Ognuno ha le sue ragioni di felicità. Per fortuna, si è spostata la telecamera.

Proprio in quelle ore dal Libano (pensate, dal Libano) il nuovo ministro della Difesa La Russa, camuffato da capo a piedi in divisa da combattimento ha annunciato che l’ordine pubblico in Italia (ovvero l’argine forte e risoluto contro l’incontenibile orda degli immigrati e dei clandestini, che, come si sa, straripano lungo i viali e assediano minacciosi le chiese cristiane) sarà mantenuto dai pattuglioni composti da esercito e polizia. Soldati armati per le strade di Milano, di Torino, di Roma. È sempre più evidente che alcuni, nel nuovo, agile governo di Berlusconi Quinto, lavorano a trasformare i loro sogni in un incubo, con la loro Notte dei cristalli e i loro pogrom. Le foto dell’assedio, della fuga, dell’incendio di Ponticelli hanno guadagnato la prima pagina del New York Times di giovedì scorso. Noi italiani abbiamo immagini buone e meno buone di noi nel mondo. Ma crudeli e razzisti mai. Adesso Gentilini e Borghezio hanno vinto su Primo Levi e Piero Calamandrei.


* * *


Per caso, subito dopo “AnnoZero”, subito dopo l’immagine di un Paese in cui la voce di Stefano Rodotà resta la sola a indignarsi dell’incendio dei campi nomadi, ho ascoltato a Radio Radicale un frammento del loro archivio. Hanno ritrasmesso, proprio quella sera (notte dal 15 al 16 maggio) una riflessione di Emma Bonino sull’immigrazione che mette in luce la cieca e sorda xenofobia della Lega che ormai è il vero motore del governo di destra, mentre gli altri si dedicano a teatrali cerimonie di potere nello stesso tempo assoluto e benevolo. La Bonino ti fa capire quanto sia piccola la testa dei tanti Castelli leghisti e neo-leghisti, e la disinformazione profonda che sono riusciti a radicare in Italia. I filmati di “AnnoZero” ci hanno mostrato, in fiorenti città emiliane senza criminalità, il furore razzista di brave signore e di ex militanti di tutte le gradazioni della sinistra.

La Bonino divide la sua riflessione in tre parti. «Loro», «noi» e «il che fare». «Loro», gli immigrati devono essere visti prima di tutto, a partire dai dati: in 10 anni si è messo in moto un flusso fisso di 150 milioni di esseri umani che vengono e continueranno a venire per non morire. È un due per cento della popolazione del mondo che tenta e continuerà a tentare, contro qualunque politica di contenimento, dal mondo della penuria a quello del lavoro.

Quel due per cento potrà aumentare, se continuiamo a permettere che la penuria diventi fame e che un minimo di speranza lasci il posto alla disperazione. Ma niente al mondo potrà fermare un flusso che nessuno regola e nessuno contiene. Ed è ridicolo affermare che quel flusso lo decidiamo noi. La Bonino ricorda che centinaia di chilometri di muro fra Stati Uniti e Messico non hanno fermato un solo messicano clandestino. Poi Emma Bonino propone due punti che sembrano sfuggire, in Europa, a ogni governo, nonostante siano noti ed evidenti. Il primo è che le rimesse degli emigranti sono quasi sempre la parte più importante del Pil dei Paesi da cui fuggono. Dunque nessun accordo bilaterale potrà mai funzionare, neppure a pagamento. Le rimesse sono somme immense e non si possono negoziare contro il ritorno di spossessati.

Il secondo punto è che il mondo agiato, anche quando non è governato da politici immersi nelle xenofobia, che diventano «impresari della paura», non compra neppure uno spillo dal mondo povero. Non compra, ma preme e ricatta per vendere nel mondo povero in prodotti del mondo agiato.

In questo modo lavora alacremente a mantenere stabile quel flusso fisiologico che si stabilisce da solo e che nessun governo può regolare.

Poi - nella riflessione della Bonino - ci siamo «noi». «Noi» siamo l’Europa e gli Stati Uniti. L’atteggiamento è psicotico. Noi, le stesse persone, li vogliamo per lavorare e nessuno va per il sottile se sono clandestini. Meglio, li paghi meno.

«Noi» però siamo gli stessi che non li vogliono vicini, non li vogliono in città, non li vogliono vedere, li accusano di tutti i reati, li preferiscono in prigione, invocano l’espulsione.

La via d’uscita? Concentrare tutte le risorse, morali, materiali, legali e tecniche sull’unico percorso possibile non per bontà ma per necessità: l’integrazione.

È stata una bella sorpresa apprendere che la riflessione pubblica di Emma Bonino sulla immigrazione che ho ascoltato da Radio Radicale, subito dopo avere visto il sindaco già di sinistra De Luca e il sottoministro Castelli scambiarsi effusioni da guerrieri con grinta che sanno come trattare gli indigeni, aveva questa data: 12 dicembre 2002. Come si vede non tutta la civiltà marcia allo stesso passo.


* * *


Ma adesso, ai nostri giorni, da noi, mentre continuano brutte e difficili guerre nel mondo (Iraq, Afghanistan) mentre resta la minaccia dell’Iran e rialza la testa la doppia guerra del Libano (contro il Libano e contro Israele) e non si sa quale sarà, fra poco, il destino dell’Egitto e quello del Pakistan, ma anche il prezzo del petrolio e la tenuta della grande finanza americana, troppo posseduta dai «fondi sovrani» cinesi e arabi, adesso il ministro della Difesa italiano annuncia soldati armati contro i Rom in Italia, una misura che ricorda gli ultimi giorni della Repubblica di Weimar. E intanto molti sindaci «di sinistra» offrono le loro ronde di cittadini come pegno per la loro resa agli «impresari di paura» della Lega Nord. E gli «impresari di paura» della Lega Nord vanno a giurare fedeltà alla Padania nella squallida messa in scena teatrale di Pontida. Resta da domandarsi come possa un gruppo xenofobo locale eletto in un’area sola del Paese sulla base di un impegno per quell’unica area, sanzionato da un giuramento, governare tutto il resto del Paese che non conosce quel partito, non lo ha votato e non poteva votarlo. Infatti la Lega fuori dal Nord non presenta né liste né candidati.

Sorprende che nessun costituzionalista si sia posto il problema se si può governare un Paese in nome e per conto di un progetto di secessione da quel Paese.

Non risulta che i secessionisti scozzesi, che pure hanno ottenuto la devolution, possano governare a Londra.

E cominciamo a scoprire che le accuse di Berlusconi a Casini (ci impediva di governare) non erano infondate.

Adesso, infatti, sono gli avvocati di Berlusconi a lavorare per conto della Lega alfine di dare all’Italia una vergogna in più: il reato di clandestinità. La vergogna si rivela due volte. La prima perché accusa e macchia di un reato persone innocenti che sono note, listate, rintracciabili in quanto da anni stanno tentando di percorrere i crudeli labirinti della legge Bossi-Fini. Hanno presentato i documenti e si sono - in tal modo - autodenunciati.

Ed è vergogna perché i clandestini lavorano e tengono in piedi intere aziende e senza di loro molti settori dell’industria italiana smettono di produrre.

Dovremo ricordarci di queste date, di questi giorni, di questo anno. Al contrario di quanto è avvenuto negli anni 60 in America, dove Martin Luther King si è messo alla testa del Movimento dei diritti civili, qui, in questa Italia, fra campi nomadi bruciati, famiglie con bambini in fuga, case distrutte con la gente dentro («stranieri», si intende, è accaduto già varie volte, fra inchieste imprecise e colpevoli non rintracciati) si è messo in marcia un potente movimento contro i diritti civili. A capo ci sono i ministri della Lega secessionista, che lavora alacremente a dividere e danneggiare l’Italia. E ci sono i servizi legali del «Popolo delle Libertà» (cioè di casa Berlusconi) e ciò che resta di An disciolta nell’acido berlusconiano.

Chi ha capito tutto è Fini. Dirige la Camera abbronzato e annoiato, dà risposte sbadate, mostra poco orgoglio e poco interesse per il posto che gli hanno assegnato. Ha capito che l’involuzione sembra soft, sarà durissima. M non riserva per lui alcun posto nella catena del potere.


* * *


Scrive Massimo Franco sulla prima pagine del Corriere della Sera del 14 maggio che occorre «sconfiggere quanti continuano a ritenere più comodo lo scontro». Vorrei assicurare il collega che non è così comodo. Anche perché basta la minima critica, il più cauto dissenso per parlare di «scontro». La solitudine si rivela anche un po’ pericolosa, come dimostra l’aggressione a colpi di casco del ragazzo «comunista» a piazza San Giovanni a Roma, la sera di venerdì 16 maggio. Poi però il sindaco Alemanno gli manda la sua solidarietà. E questo è il massimo di civiltà in cui puoi sperare in questo momento.

Infatti ti capita non raramente di ricevere lettere come questa: «Egregio (?) sig. Colombo Furio, sono un simpatizzante leghista di lunga data: le scrivo queste righe per esprimere il mio più totale disprezzo sia per quello che dice in Tv nelle trasmissioni condotte dai suoi soci-amici, sia per quello che scrive sul suo vergognoso organo di disinformazione che è l’Unità. Mi domando come faccia il Pd ad accettare che un personaggio come lei faccia parte dei suoi rappresentanti. E non capiscono che lei apre bocca solo per spargere sempre veleno e rancore contro il Berlusca. È veramente autolesionistico da parte di Veltroni averle dato una poltrona. Con totale disistima. La saluto. E mi raccomando: continui a scrivere. Paolo da Milano». Sì, grazie. Conto di continuare a farlo.

furiocolombo@unita.it



Pubblicato il: 18.05.08
Modificato il: 18.05.08 alle ore 15.00   
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« Risposta #85 inserito:: Maggio 25, 2008, 11:11:06 pm »

Il deputato ombra

Furio Colombo


Si muove con circospezione, lontano dal potere ma non proprio nel fiume caldo dell’opposizione, il deputato ombra. È colmo di buoni sentimenti, nel senso politico della parola, rivede le facce di coloro che lo hanno votato (quelle che ha incontrato in campagna elettorale, quelle che incontra per strada) risente le voci, le frasi che chiedono, rimproverano, vogliono sapere che cosa accadrà (il solito desiderio umano e impossibile). Vorrebbe rispondere.

Il fatto è che ha già parlato il Governo ombra, che, proprio perché esiste, si è dato un codice istituzionale, che vuol dire il più possibile positivo. È un compito di civiltà. Però introduce anche nella opposizione un antico problema italiano, il rapporto fra il Governo e il Parlamento (Deputati e Senatori). Il Governo parla subito. Quando ha parlato, o segui o disturbi. Nella tradizione italiana tutto ciò - salvo che per brevi periodi di lavoro in comune - non è co-governare, come avviene in altri Paesi, dalla Germania all’Inghilterra, dalla Scandinavia agli Stati Uniti. È una sorta di rivalità, fra parlamentari e ministri della stessa parte politica. La Costituzione divide con estrema saggezza i compiti di Governo e Parlamento e, con altrettanta saggezza, li collega e li armonizza. E tuttavia - nella tradizione democratica italiana - è il governo a lasciare il segno e a tirare la volata. E del miglior Parlamento, se c’è mai stato, non restano tracce. Anzi è sul Parlamento - e non sul governo - che pesa il duro giudizio e il disprezzo dell’antipolitica. Lo dimostra il fatto che, in piena tempesta, le onde dell’antipolitica devastano un Parlamento né meglio né peggio di tanti altri (italiani, europei, americani) ma intanto elegge il governo di un leader ricchissimo che torna al potere con tutti i suoi dirigenti d’azienda e il suo pieno di violazioni, imputazioni e illegalità. E subito dopo, di nuovo, l’occhio scrutatore di quella che possiamo chiamare la nuova professione di «critica della politica» punta su ristoranti, pensioni e barbieri dei personaggi della politica (i parlamentari) mentre lì accanto giace, intatto, un gigantesco conflitto d’interessi.

Vuol dire uso del potere per affari personali e con un tornaconto mille volte più grande di tutti i pur sgradevoli ed esecrabili abusi denunciati giustamente da chi conduce il monitoraggio della casta.

Ma appunto: uso del potere. In qualche modo il potere assolve se stesso e lascia il resto della politica, buona o cattiva, onesta o disonesta che sia, esposta al comprensibile malumore dei cittadini.

Tutto ciò per dire che, se fai politica, è meglio governare che stare a sostenere chi governa, in quasi qualunque funzione. Questo spiega la ressa nel settore dei sottosegretari, che presto saranno 102 anche sotto l’austero Berlusconi.


* * *


Il Governo ombra? È pure sempre un Governo, benché virtuale. Per ogni materia e settore c’è un ministro. Quel ministro è titolare della materia, ne ha competenza e ha il compito - del tutto ragionevole e legittimo - di dire ciò che va detto caso per caso, evento per evento, problema per problema. Certo è una testimonianza, non un atto di potere. Infatti un Governo ombra è un Governo simbolo. Ma chi fa opposizione da parlamentare è molto più indietro, molto più isolato, del suo collega parlamentare di maggioranza quanto al rapporto col suo governo. Il fatto è che il parlamentare di opposizione non ha alcun potere da condividere, alcun beneficio, anche solo ideale, da strappare a nome e per conto degli elettori. Lasciati soli, e impossibilitati a influire su decisioni che comunque non spettano all’opposizione, i deputati ombra hanno la sola via d’uscita e di esistenza nel ribattere, in modo libero e immediato, a ciò che ha detto o fatto la maggioranza e il suo governo. E pensano di farlo per identificarsi con gli elettori, che non hanno voce. Però nel momento in cui il deputato ombra è pronto ad agire, il suo ministro ombra ha già parlato. Lo richiede - ogni volta - la inevitabile simmetria di dichiarazioni, intenzioni e atti fra governo della maggioranza e governo ombra. Ma il deputato ombra si trova confinato in un angolo. Infatti il ministro ombra, dovendo tener testa ad un vero ministro, ne fa un monitoraggio costante a nome nostro (cittadini e parlamentari). Ma deve subire il corso degli eventi. In altre parole, è il ministro vero a decidere, con i suoi fatti e misfatti, ciò che dirà, per le ragioni e le necessità che ho appena detto, il ministro ombra. In tal modo il ministro ombra, sbarra la strada al deputato ombra. Nel migliore dei casi il deputato ombra ha perduto l’occasione di parlare per primo ed essere protagonista della sua piccola storia (nel senso giornalistico) del momento. Pazienza, si dirà: un piccolo colpo alla vanità. Certo, può accadere che il deputato ombra non sia d’accordo con il governo ombra. Forse lui (lei) aveva un’altra cosa da dire, forse il contrario di ciò che ha appena ascoltato dal suo “ministro”. Lui (lei) a volte è in disaccordo netto. Crede di vedere in ciò che è stato detto a suo nome, un errore. È un normale fatto della vita politica. Ma il deputato ombra non ha lo spazio di “diversa opinione” dei parlamentari di maggioranza. Di là, il distillarsi, giorno per giorno, degli atti di potere, di governo e delle relative conseguenze, compensa e alla fine armonizza in qualche modo i dissensi, attraverso i benefici del governare. Di qua, solitudine. Non è bella l’alternativa di dissentire in modo aperto e chiaro dal tuo governo ombra nel momento in cui lo stare insieme, lo stare uniti, appare il solo valore di cui si dispone.


* * *


Qui si insinua un fattore in più. Una volta, in tempi che ormai sembrano lontanissimi, era il partito a fare da legame, tessuto connettivo, camera di compensazione, luogo per stare insieme e dire “noi”, persino se e quando dissensi netti su un punto o su un altro contrapponevano persone o gruppi dello stesso partito.

E accanto al contenitore partito c’erano “gli indipendenti” che venivano invitati ad associarsi senza perdere identità e, appunto, “indipendenza”. Tutto ciò creava una vasta area di convivenza, con il suo meglio e il suo peggio, ma senza escludere presenza e iniziativa di chi voleva partecipare in modo attivo alla vita politica.

Questa volta, nei giorni di cui stiamo parlando, il partito (il Partito democratico) è come una creta fresca, appena impastata. È ragionevole che ti chiedano di non lasciare il segno nella materia ancora non definita, come fanno quei ragazzacci che vogliono che resti per sempre l’impronta della loro scarpa nel cemento fresco. Ma il problema esiste. Te lo fa notare Stefano Menichini, direttore di Europa (dicono che sia uno dei quotidiani del Pd, l’altro è certo l’Unità, ma un altro ancora potrebbe essere il Riformista) quando intitola un editoriale «Sconfiggere Travaglio e Colombo» (13 maggio). Te lo fa notare (sempre su Europa, sempre editoriale) Paolo Natale quando si domanda «Opposizione vuol dire Di Pietro?» (22 maggio). In quell’articolo leggi: «Anche nei partiti d’opposizione, una quota significativa concede fiducia al nuovo esecutivo. Ma la sintonia che sembra manifestarsi tra i due maggiori partiti, Pdl e Pd, pare far individuare nel partito di Di Pietro la reale e più agguerrita alterità nei confronti di Berlusconi».

Come si vede, una bella fetta di mercato elettorale viene regalata a Italia dei valori (come se la Fiat dicesse a Smart: “tranquilli, noi non costruiremo più Cinquecento e Panda”). Ma, allo stesso tempo, si introduce un “indice di estraneità” che serve per un giudizio istantaneo sul deputato ombra che eventualmente dissentisse dal suo ministro ombra: “Che fai, stai con Di Pietro?”. Più aspro l’editto di Andrea Romano, già area Ds, ora dirigente editoriale (Einaudi-Mondadori) ma anche opinionista de La Stampa. Scrive (22 maggio): «Fuori dal perimetro politico del Pd, sta rapidamente rafforzandosi un’entità di opposizione all’insegna dell’intransigenza e della indignazione moralistica, dominata da quel Di Pietro con cui Veltroni ha stipulato una alleanza elettorale che attende ancora di essere spiegata. Le ragioni di Di Pietro sono ragioni strutturalmente minoritarie e incapaci di arrecare il minimo danno al consenso del centrodestra. Per rendersene conto basta leggere l’Unità di questi giorni. Quello che in teoria dovrebbe essere il quotidiano del Pd, di fatto è stato appaltato alle ragioni dell’Italia dei Valori, partito alleato ma già concorrente. È questo il problema che attende di essere risolto da Veltroni».

Avete capito bene. Si tende a definire una nuova ortodossia in nome di una misteriosa “vocazione maggioritaria” che si manifesta solo evitando ogni “intransigenza e indignazione moralistica” (per esempio insistere sul conflitto di interessi e la sfacciata difesa di Rete 4 contro la decisione della Corte di Giustizia Europea).

Potrei osservare che si tratta dello stesso autore che il primo dicembre 2004 ha detto, in una sua lettera a l’Unità, che «Bondi e Schifani popolano la sua (la mia, n.d.r.) galleria personale degli orrori, un esempio inquietante di mentalità totalitaria». Qui, però mi serve per dimostrare il punto al quale cercavo di arrivare. Soltanto un partito democratico con porte e finestre aperte sulla vita e i sentimenti dei suoi elettori può liberare i molti Andrea Romano dalla riluttanza a fare opposizione in modo netto. Dicono che criticare apertamente e anche vivacemente Berlusconi risveglia un grumo di fantasmi totalitari.

A me sembra che il Partito Democratico abbia raccolto i suoi dodici milioni di voti dalla intransigenza e dalla indignazione che hanno fatto esistere Gobetti, Matteotti, i fratelli Rosselli. Non oso dire Gramsci perché, ormai, quel nome glorioso viene agitato contro l’Unità ogni volta che l’Unità, magari sbagliando, segue la lezione di Gramsci che era: mai tacere, mai rinunciare, mai scambiare il consenso (che nel fascismo era grande) con la ragione, meno che mai con la verità.

Soltanto un grande Partito Democratico può liberare i direttori di Europa e del Riformista dall’incubo di non essere influenti membri della classe dirigente del presente, ed eventualmente del futuro, se scivoleranno nell’errore dipietrista (è il nuovo nome del deviazionismo) di fare opposizione senza guanti bianchi, così come la destra la ha fatta al centrosinistra negli ultimi due anni, guadagnandosi una bella vittoria.

Forse, per un grande progetto di opposizione a nome di mezza Italia, è bene che resti viva l’indignazione del deputato ombra. Questo strano ostinato individuo, che sembra appartenere a una razza in via di estinzione nel nostro Paese, per sé non ha molto da chiedere. Ma gli resta un filo di speranza e un residuo di passione per un’Italia pulita e diversa che vorrebbe condividere persino con Menichini, Romano e Polito.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 25.05.08
Modificato il: 25.05.08 alle ore 7.42   
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« Risposta #86 inserito:: Maggio 29, 2008, 05:05:50 pm »

La Festa è finita

Furio Colombo


Leggo sulla prima pagina di Europa (27 Maggio) un gentile articolo dal titolo «Festa dell’Unità, una storia finita» di certo Mario Rodriguez. L’autore sembra più assai infastidito dai cittadini che si ostinano a far festa intorno al loro giornale rinato (che fa 50.000 copie nei giorni in cui butta male) che dei nuovi squadristi che brulicano nelle piazze nell’era di Tosi e di Alemanno. Nel suo piccolo, anche Europa ha diritto di scegliersi i suoi nemici.

Ma l’autore sembra non essersi posto il problema: «non avevamo deciso di convivere nel Pd, laici e credenti di un tipo e dell’altro?».

Leggo sul Corriere della Sera (26 Maggio): «La Festa dell’Unità è stata un momento di confronto eccezionale e insostituibile, il luogo della passione civile e politica per migliaia di uomini e donne. Peccato però che saranno almeno vent’anni che quell’intensità è andata precipitando fino a ridursi al lumicino. Padellaro può mettersi l’anima in pace: la Festa dell’Unità cosi come lui la dipinge è già morta da un pezzo».

Leggo e mi rendo conto che un uomo tempestato dalle interviste al telefonino, persino quando è un intellettuale, un filosofo, uno straordinario organizzatore di pensieri e parole, può cadere nel buco nero di ciò che non sa e affermare, con sicurezza, solennità e assoluta buona fede, qualcosa di falso. Falso sia nel senso di non vero, sia come dichiarazione autorevole, credibile, infondata.

L’autore di tutto ciò è Massimo Cacciari e il suo numero di cellulare è sul telefonino di tutti i cronisti d’Italia. Se c’è da dare torto a qualcuno anche vagamente critico a sinistra, chiamare Cacciari. Dispiace che Cacciari sia al gioco e dichiari su tutto. Dispiace perché neppure Cacciari sa tutto su tutto. Infatti quando sa, (parlo di esperienza, non solo di scienza) è sempre importante ascoltarlo, in un Paese in cui le voci davvero autorevoli sono poche e in diminuzione (non parlo di età, parlo dell’estendersi del silenzio).

Da quello che dice questa volta devo dedurre che da quando l’Unità è tornata ad esistere e ad essere uno dei giornali protagonisti della vita italiana, il Sindaco di Venezia non ha mai avuto occasione di attraversare una Festa dell’Unità, dai piccoli paesi alle province, alle regioni, alla Festa nazionale.

Mentre scrivo non so se sto parlando del passato o di una realtà che continua, e che continuerà. Di sicuro l’Unità è tanto amata dai suoi lettori (moltiplicati per famiglie, anziani che sono ancora orgogliosi di dirti quante copie, un tempo, riuscivamo a distribuire la domenica, volontari che lavorano molto di più e molto meglio che nei migliori Club Mediterraneè) quanto è malvista da chi non sopporta che le cose si dicano in chiaro e senza politichese. Irrita a sinistra, per ragioni che a noi, nuovi venuti ed ex di niente, riesce difficile interpretare. E ti accorgi che si irritano sia la sinistra-destra, sia la sinistra-sinistra e, a volte, tutti insieme con la destra-destra (anche perché in questo momento siamo quasi soli a non dire che “loro si che hanno capito il Paese”, anzi “il territorio”).

Ma la nuova stagione del non politichese e del “Dell’Utri a Dell’Utri” e del “Berlusconi a Berlusconi”, funziona, Cacciari, nelle Feste dell’Unità. Funziona al punto che noi, «testata omicida» (per usare una definizione della concorrenza) non abbiamo notato alcuna defezione né alcun lumicino, fino a poco, pochissimo tempo fa.

Arrivi un po’ prima delle nove di sera e hai l’impressione che - col troppo caldo o col troppo freddo, con l’orchestrina a volte troppo vicina e l’altoparlante che non funziona - la folla dell’anno prima non si sia mossa mai, che sia ancora in attesa di finire il discorso, di fare domande e di dire, a volte con sorprendente equilibrio e chiarezza, ciò che sentono e pensano e aspettano molti cittadini, molti elettori in quel momento.

No, Cacciari, soltanto chi in questi anni non ha mai messo piede in una Festa dell’Unità o nelle vicinanze (tanto da non sentire gli odori delle cucine, da non intravedere da lontano gli striscioni, da non vedere una locandina, magari per caso, da non lasciarsi attrarre dall’immancabile, invadente orchestra con cantante capace di non prendersi un solo minuto di pausa) soltanto così si può parlare in buona fede di «Feste dell’Unità al lumicino». Aggiungerò una cosa: in questi anni quella folla in attesa non è diminuita, è aumentata. E non saprei dire se ciò si deve al senso di solitudine che molti provano nel vivere, oggi, in Italia.

Mi rendo conto che l’affermazione di Cacciari, che noi si sia d’accordo o no, conta soprattutto per il peso e l’autorità innegabile della persona che lo dice (e che, purtroppo, presenta un’altra storia, non quella dell’Unità rinata e dei suoi lettori). Ma il progetto di liquidare quelle Feste sarebbe un delitto. Proprio adesso, mentre tanti, nel Pd, invidiano i nuovi protagonisti muniti di ronde, manganelli, cani lupi e odio razziale, perché, ti dicono loro “hanno un buon rapporto col territorio”, proprio adesso si propone di fare piazza pulita di una vera, profonda, radicata presenza sul territorio. Vogliono cancellare le Feste dell’Unità e la sua gente ostinata che non va via. Difficile, mi creda il Sindaco Cacciari, mettersi l’anima in pace.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 28.05.08
Modificato il: 28.05.08 alle ore 9.12   
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« Risposta #87 inserito:: Giugno 01, 2008, 05:10:42 pm »

Questi fantasmi

Furio Colombo


In poche settimane l’Italia è peggiorata così rapidamente da indurre a chiederci: se questo è il passo della Repubblica sotto il presente governo, vuol dire che dovremo vivere nella paura? Parlo della paura come attesa, non come stato d’animo.

In brevissimo tempo abbiamo avuto uccisioni (Verona) ferimenti, pestaggi, aggressioni, l’incendio di campi nomadi, la fuga di gente disperata, donne e bambini cacciati e minacciati. Che sia di destra o no, tutto ciò è cominciato ad accadere dopo la clamorosa vittoria della destra. Chi vince può anche decidere di salire di un gradino per avere un orizzonte più largo, una capacità di decisione non legata al sentimento di vendetta e di rivincita. Ma invece di ingresso in un futuro un po’ meno claustrofobico, un po’ meno segnato dalle ossessioni e dai fantasmi di leader e di partiti che - per vincere - hanno giocato tutto sulla paura, si è deciso di continuare e rilanciare la paura come modo di governare. Tiene occupati i cittadini a dare la caccia agli stranieri. A Milano sono già cominciati i rastrellamenti degli immigrati sui tram. Li individuano (dalla pelle?) a uno a uno, poi li allineano sul marciapiede in attesa del cellulare, di fronte agli altri passeggeri che, probabilmente, provano vergogna o disagio.

Purtroppo sono stati di parola. Governano, isolati in Europa, in compagnia dei loro fantasmi, della loro antica ossessione di popoli da far vivere chiusi dentro i sacri confini, con ampolle di acqua fluviale, con giuramenti in costume da film di terza serie, con un protezionismo senza alcuna consapevolezza del mondo, sempre in cerca di qualche carro potente a cui agganciarsi e ubbidire (perché un vassallo cerca sempre un imperatore) e l’inflessibile mantenimento delle posizioni di rendita. In altri secoli erano terre, valli e ponti sorvegliati da torri e guardie armate. Adesso - con lo stesso spirito - è un grosso affare di televisioni private vigilate giorno e notte da fedelissimi deputati e senatori della Repubblica.

Ma fermiamoci per un momento a osservare il mondo di cui siamo parte, sia pure attraverso i vetri appannati e le finestre a feritoia dei nostri media.

Nel mondo è improvvisamente riapparsa la penuria di cibo, un dramma finora estraneo alla economia contemporanea, che sembrava invece essere fondata sull’abbondanza e lo spreco. È vero, c’era il problema della fame in intere aree del mondo che eravamo abituati a citare nobilmente riservandoci, in ogni convegno, di fare grandi interventi il prossimo anno, o in quello dopo.

La penuria diffusa, però, è un’altra cosa. Perché avviene simultaneamente dovunque, determina paurose impennate dei prezzi, provoca vaste macchie di improvvisa povertà anche in aree di ormai lungo e stabilizzato benessere.

La causa è in parte nota (dirottamento di prodotti alimentari dal naturale mercato alle nuove fonti di energia), in parte dovuta al drastico cambiamento del clima nel pianeta, in parte alla tragica decisione adottata simultaneamente nei Paesi “moderni”, di abbandonare l’agricoltura. In parte dall’arrivo - nel mondo del consumo - di nuovi consumatori.

Il mondo è sconvolto dal costo del petrolio, che continua a crescere dopo essere rapidamente decuplicato, e pone di fronte a una ambivalenza senza soluzione: oltre certi limiti non si può pagare.

Ma, qualunque sia il costo, non si può rinunciare. Per questo sale e continuerà a salire l’inflazione.

Il mondo vede due guerre che divampano, e altre che possono esplodere in ogni momento. Vede un contesto di tensione e di violenza internazionale in cui il fuoco passa vicinissimo al petrolio e l’instabilità minaccia in tanti punti diversi un equilibrio mai così precario.

Il mondo conosce tempeste finanziarie globali sottratte ad ogni controllo democratico, capaci di attraversare in un lampo luoghi lontani e sconnessi. Il crollo di un fondo di investimenti basato su mutui inesigibili in una provincia americana può svuotare il fondo pensioni pubblico di un Paese estraneo e lontano, in Europa o in Asia.

* * *

Nell’Italia di Berlusconi e di Bossi passeggiano i fantasmi. Un Paese moderno, sesta o settima economia del mondo, è ossessionato dalla minaccia dei Rom. Non milioni di Rom, che in Italia non esistono, ma appena 150mila persone, metà delle quali italiane, metà delle quali bambini. E metà degli adulti, donne. Dunque il pericolo incombente, in una delle grandi (o ex grandi) potenze del mondo, di sessanta milioni di cittadini dei nostri giorni, sono due decine di migliaia di uomini Rom, la maggior parte dei quali, come mostra qualunque statistica, non è dedita ad alcun crimine.

Ma la credenza - una credenza alimentata dal governo e da una parte non piccola di stampa e televisione - è identica al più squallido medioevo di isolati villaggi agricoli: i Rom rubano i bambini. Alcuni episodi di denunce, allarme, accuse, drammatiche narrazioni di tentati rapimenti di nostri bambini da parte di pericolosissimi zingari sono venuti uno dopo l’altro in pochi giorni. Ci sono stati arresti, persone sono state portate via con l’accusa più bizzarra, per una comunità carica di figli (ho già detto che la metà della esigua popolazione Rom italiana è composta di bambini). Ebbene, di quelle accuse, arresti, gravissime imputazioni di rapimento, nessuna notizia, nessuna conferma, è venuta. Soltanto un oscuro silenzio. Eppure non si tratta di un problema di indagini, poiché i fatti sono avvenuti in modo istantaneo, sotto gli occhi dei denuncianti, e sempre in luoghi pubblici e con altre persone presenti. Eppure le cronache dei migliori giornali - che non hanno esitato, almeno nei titoli paurosi e nei drammatici occhielli, a gridare “rapimento” - non hanno più nulla da dirci né voglia di sapere. Era vero?

* * *

Nell’Italia di Berlusconi si aggira e minaccia il Paese il fantasma del clandestino. Intendesi per clandestino un uomo, una donna, un bambino, che vive nel nostro Paese (perché è miracolosamente arrivato vivo dalla traversata in mare) e ci vive non per turismo ma per disperato bisogno. In questo Paese il clandestino lavora, quasi sempre nei mestieri peggiori, quasi sempre per una paga da fame, senza una casa che possa chiamarsi casa, senza cure o scuola (in molte città è proibito, o lo vogliono proibire) per i bambini. Dicono tutti gli esperti - dall’America all’Europa - che gli immigranti senza diritti producono ricchezza per il Paese ospitante. Nell’Italia di Berlusconi personalità di governo variamente disposte in posizioni chiave agitano pregiudizio, paura, antagonismo, odio, in una brutta formula primitiva che in politica funziona (porta voti) ma nella vera vita punta al linciaggio, da Verona al Pigneto. Spiegate pure ai morti e ai feriti che i picchiatori e i saccheggiatori dei loro negozi non erano iscritti al fascio. Immaginate il sollievo degli zingari di Ponticelli, dei familiari del ragazzo di Verona o degli aggrediti all’Università La Sapienza o dei cittadini del Bangladesh al Pigneto nell’apprendere che le sprangate non erano politiche, o che il mandante era Che Guevara.

Mentre il mondo è percorso dal brivido penuria-fame-petrolio-guerra-rischio di nuovo terrorismo, allarmanti scossoni ai più solidi edifici finanziari, l’Italia di Berlusconi introduce nelle leggi italiane 23 nuovi reati a carico dei clandestini e dei lavoratori immigrati (fonte: Il Sole 24 ore, 26, 27 maggio). Lo sguardo sfuocato dal provincialismo disinformato e dalla vista annebbiata della Lega xenofoba guida l’azione “decisionista” di un governo che - come certi giocattoli - sbatte e torna a sbattere contro muri che non vede.

* * *

Sono i muri di un provincialismo e di una autoreferenzialità soffocante che impediscono di percepire il mondo. Mentre l’Alitalia sta per scomparire dai cieli, ti annunciano all’improvviso, con una incosciente allegria da Titanic, il Ponte di Messina, opera gigantesca per cui non esistono disegni e studi di fattibilità e di (immenso, rovinoso) impatto ambientale. E non ci sono e non possono esserci i fondi.

Ti rispondono, con sorrisi fuori posto, che provvede la finanza privata. Sarà la stessa finanza privata che sta affollandosi per rilanciare febbrilmente la grande cordata nazionale e patriottica che salverà l’Alitalia?

Intanto sta per scatenarsi anche sull’Italia impoverita (è povera una famiglia su tre, la metà vive con poco più di mille euro) la più grande tempesta economica dal 1929, ci dicono, i più credibili esperti americani. Loro - il governo fuori dal mondo e dalla realtà e immerso in un cattivo teatro dell’assurdo - si presentano ad annunciare, senza il minimo senso della parole gravissime che stanno pronunciando, il nostro glorioso “ritorno al nucleare”.

Neppure economisti fantasiosi e disinvolti come Tremonti e Brunetta hanno provato a calcolare, sia pure per scherzo, una cifra, per esempio il costo di un abbozzo di progetto di un solo impianto nucleare. Nessuno ha provato a dirci in quanti anni (o decenni) un simile gigantesco investimento sarà compensato da costi minori dell’energia elettrica in Italia, rispetto al costo di oggi. Nessuno ha tentato, magari con una solenne dichiarazione da Napoli, di parlarci della gestione delle scorie.

In questo cupo teatro si aggiunge, perfettamente giustificata dal clima di irrealtà, l’offerta del Primo ministro Berisha. Dice: «Venite a fare i vostri nuovi impianti nucleari in Albania. Noi siamo pronti».

Ecco dunque il nuovo orizzonte di azione del governo fieramente decisionista: la repubblica nucleare d’Italia e di Albania, con Berlusconi capo indiscusso.

Accade però che, dopo aver fatto la faccia feroce a clandestini e immigrati, Berlusconi si impantani nell’immondizia di Napoli, benché abbia fatto di nuovo finta di risolvere il problema con “leggi speciali” (la definizione, tristemente esatta, è di Stefano Rodotà,La Repubblica, 27 maggio).

Il problema è drammatico e invoca soluzioni urgenti di adulti competenti.

Berlusconi ha portato a Napoli il suo miglior abito elettorale (spingere in là il problema per occupare da solo tutta la scena) ma tutto ciò che ha saputo fare è una legge che nega il federalismo, cancella Comuni e Regioni, circonda di Forze armate alcune zone del Paese (la Lega accetta perché a loro importa la secessione, non il federalismo, meno che mai nel Sud). E si blocca di fronte a un nodo maledetto che nessuno dei suoi ha studiato o capito. È vero, neppure i governi locali o nazionali del centrosinistra avevano saputo farlo. Ma questa realtà, allarmante e triste, non autorizza alla celebrazione di Berlusconi che “finalmente ha deciso”. L’immondizia continua. Continuerà.

Purtroppo lo squallido film del finto governo, delle finte decisioni, delle finte soluzioni che sono o illegali o impossibili (la cattiveria di governo, le ronde spontanee contro gli immigrati e i Rom sono l’unico segno della nuova era) è seguito da due comiche finali.

Una è quella, segnata dalla concitazione di gesti e di azioni dei film da ridere di un tempo, una concitazione tipica anche dei sofferenti di iperattivismo, e del ministro Renato Brunetta. È la “Festa del fannullone” in cui la finzione è evidente: il capro espiatorio si vede al primo sguardo (il capo ti rovina quando vuole, secondo le buone regole del mobbing, che - come tutti sanno - impediscono a qualcuno di lavorare). E l’intimidazione contro i medici che rilasciano certificati finti è roba forse vera e forse falsa, e non annuncia nulla se non disprezzo per chi lavora davvero e si ammala davvero. Infatti l’accusa ai medici non viene da una rigorosa inchiesta, ma dal sentito dire sul pianerottolo del condominio. In altre parole, come sempre nell’Italia della burocrazia, volano gli stracci e zompa chi può. Ve lo immaginate, in un clima improvvisato e superficiale di questo genere, come saranno bravi i dirigenti e i funzionari peggiori nel liberarsi di rompiscatole laboriosi che, per giunta, sono inclini a denunciare le complicità fra politica e burocrazia?

Però non è tutto. Il cambio di stagione non si apprezza, nella sua triste portata, se non si dice, e si ricorda, e si dovrà ricordare, che tutta la prima fase di lavoro alla Camera dei Deputati italiana è stata spesa nel tentativo della maggioranza di difendere gli interessi e gli affari di Mediaset e di Berlusconi (salvataggio sfacciato di Rete 4). Ha fatto blocco, nell’aula di Montecitorio, l’impegno del Partito democratico, dell’Italia dei valori di Di Pietro, e - questa volta - anche del gruppo di Casini, per impedire un simile uso immorale delle Istituzioni italiane.

Questa volta, almeno un poco, almeno in parte, l’opposizione ha vinto. Il vero punto segnato, però, è quello che tanti negano e di cui si fingono annoiati. È avere dimostrato che tutto continua, che non c’è alcun nuovo Berlusconi, che il conflitto di interessi esiste, cresce e, come un totem primitivo, è l’unica cosa salda e solida al centro del disastrato paesaggio italiano.

furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 01.06.08
Modificato il: 01.06.08 alle ore 6.54   
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« Risposta #88 inserito:: Giugno 05, 2008, 09:45:16 pm »

Obama!
Furio Colombo


Scherzi della storia. Mentre il mondo diventa carogna, chiude i confini, dirotta il cibo per farne carburante, alza muri alti quattro metri per impedire che entrino negli Stati Uniti non i terroristi ma i campesinos disperati in cerca di un lavoro che c’è (perché lo fanno solo i campesinos disperati), proprio in quel momento - in questo momento - compare sulla scena americana un candidato nero.

Ah, ma attenti. Non solo di discutibile etnia diversa, ma anche figlio di immigrato da Paese sospetto (il Kenya), nato da un matrimonio misto che i più condannano, e identificato da un nome che può bloccare la folla in attesa in qualunque cancello di immigrazione (se quei cancelli, nei Paesi che si vantano di essere civili, fossero ancora aperti).

Si chiama Barack Obama.

Chi gli vuole male e intende denigrarlo pronuncia intero tutto il suo nome - Barack Hussein Obama - Perché si percepisca tutta la sua estraneità e diversità. Chi non può sopportare il nuovo evento ha fatto circolare la voce che forse il candidato - Dio ce ne scampi - non è neppure cristiano. Poi si è scoperto che era cristiano, ma legato a una Chiesa e a un pastore così aspramente militanti, così (si direbbe in Italia) di sinistra radicale, da fare impressione e scandalo per le brave persone miti, middle class e bianche d’America, nelle pianure della Bibbia, nelle città degli operai, nei sobborghi borghesi, di cui di solito si dice “benpensanti”. Ma le brave persone miti, middle class e bianche d’America hanno continuato a votare per lui, immigrato, meticcio, e appartenente a una Chiesa sbagliata.

Scherzi della storia. Ore prima della proclamazione di un simile candidato, un aspro editoriale del New York Times descriveva in questo modo l'America ai giorni di George W. Bush. «Un giorno non riconosceremo noi stessi per ciò che stiamo facendo oggi: una nazione di immigrati tiene in schiavitù un'altra nazione di immigrati (il riferimento è ai clandestini, ndr), sfrutta il loro lavoro, ignora la loro sofferenza, ci condanna a restare fuori legge, li arresta e li espelle quando finge di scoprirli, con incursioni improvvise nelle case e nelle fabbriche, sparge terrore indiscriminato trattando lavoratori da criminali, mentre altri criminali-lavoratori prendono il loro posto illegale e fruttuoso, fino al rastrellamento, alla prigione, alla espulsione successiva. Un'America che attribuisce come unica identità di esseri umani che lavorano la condizione di clandestini; macchia di vergogna la nostra identità, la nostra storia». Scherzi della storia. In quell'America si sono fatti avanti, dal lato umano e liberale di un'America che non è morta con Martin Luther King e con Robert Kennedy, un candidato donna, con lo slancio straordinario e infaticabile di Hillary Clinton (la stessa Hillary Clinton che aveva scritto l'unica legge che avrebbe garantito completa assistenza sanitaria anche ai più poveri).

E un candidato nero che ha avuto il coraggio di dire: «Io sono questa America. Mentre la mia nonna bianca mi teneva stretto, bambino nero estraneo in tutto alla sua vita, decisa a difendermi da ogni male, aveva paura se gente nera si avvicinava a noi, incuriosita da quel piccolo nero stretto a una donna bianca, che si ritraeva con diffidenza». Nelle elezioni primarie ha vinto Barack Obama. È il candidato del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti. Chi lo ha sentito parlare crede di sapere perché. Dice che la forza gentile di Martin Luther King e il senso di giustizia non negoziabile di Robert Kennedy sono tornati con il giovane senatore che viene dal Kenya a guidare gli americani.

Gli americani ascoltano e vedono, con lui, con quella sua capacità immediata e istintiva di evocare il sogno, un altro Paese. Vedono un'America che forse c'è stata, un'America, pensano in molti, che può essere il futuro senza rabbia, senza vendette, senza solitudine, senza paure, senza guerre, senza l'orrore degli esclusi, sfruttati e cacciati. Scherzi della storia. Gli sta davanti, come avversario, un uomo bianco immensamente per bene che non vuole avere niente a che fare con l'America repubblicana che lo precede. Cerca anche lui un Paese pulito e rispettato, legato di nuovo ad amici alleati invece che ad alleati servi, con cui tentare di realizzare insieme una politica umana, in un mondo decente che si allontana dalla morte.

Troppa speranza? Per un giorno, non è peccato. Oggi, mentre scrivo, è il giorno in cui Robert Kennedy è stato ucciso, esattamente 40 anni fa. È un giorno perfetto per sognare.

furiocolombo@unita.it


Pubblicato il: 05.06.08
Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.53   
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« Risposta #89 inserito:: Giugno 21, 2008, 04:49:09 pm »

Il giorno nero dell’Europa

Furio Colombo


Il Parlamento europeo ha votato la direttiva dell’Unione sull’immigrazione, forse la peggiore, la più crudele e più stupida del mondo civile.
Di solito uno Stato nuovo o una nuova istituzione internazionale nascono con grandi e generose ambizioni. Spesso il tempo e le vicende del mondo impongono cambiamenti, indurimenti, negazione dei principi alti, come risposte di brutale realismo che vengono adottati con un esplicito o implicito avvertimento: non stiamo negando i nostri princìpi.

Stiamo solo fronteggiando un momento difficile. Tipicamente si invoca l’emergenza che è sempre una condizione di cui si aspetta e si invoca la fine.
Due esempi. Molti di noi che hanno sempre creduto nelle Nazioni Unite, hanno subìto delusioni pesanti, dall’inutilità dell’Unesco alla gravissima inadeguatezza della Fao. Per non parlare della strage di Srebrenica, una crudele operazione di pulizia etnica avvenuta sotto gli occhi di inerti soldati dell’Onu.

Ma l’Onu si identifica per sempre con la Carta dei Diritti dell’uomo, che ha avuto un senso e un peso grandissimo nella storia del mondo contemporaneo. E con la Carta di San Francisco a protezione dei diritti dei bambini. In altre parole, l’Onu che pure ha vissuto brutte pagine (fino ad avere un segretario generale - Kurt Waldheim - con un passato nazista), ha posto al suo inizio principi, propositi, impegni così alti da costituire riferimenti e speranze che durano ancora.

L’altro esempio, il più grande, è quello degli Stati Uniti. Si sono dati, alla nascita, una Costituzione e un “bill of rights” (carta dei diritti) talmente alti e nobili da ispirare, lungo i due secoli e mezzo della loro esistenza, tutte le azioni, iniziative e movimenti che si sono impegnati a migliorare il Paese e a correggere dislivelli gravi come il razzismo. Persino di fronte alle tragiche imprese del Ku klux Klan, Martin Luther King ha potuto invocare gli alti principi della Costituzione, ricevendo il sostegno dei tribunali e dei giudici chiamati a decidere sulla lunga sequenza del razzismo.

Persino oggi, persino mentre il 70 per cento dei cittadini americani sono contro la politica del Presidente Bush e la tragedia in Iraq, ognuno di quei cittadini è orgoglioso di essere americano perché può vantare nel mondo la sua la sua Costituzione e la sua Carta dei Diritti che recita: «E’ evidente e di immediata comprensione (self evident) che tutti gli uomini sono stati creati uguali». Quell’orgoglio di essere americano si manifesta oggi nel momento in cui un giovane senatore nero, figlio di immigrati, è candidato, con molto seguito, alla presidenza degli Stati Uniti.

* * *

Ecco qualcosa che non potrà mai accadere in una Europa gretta e spaventata, che inizia la sua esistenza politica con una serie di direttive sull’immigrazione dettate dal versante stupido della paura, un insieme di percezione ottusa e di cattiveria, magari non voluta ma che sventola come una bandiera nera su questo aggregato di Stati detto “Unione Europea”.
Avrebbe dovuto essere un nuovo futuro, il superamento e la cancellazione delle xenofobie dei singoli Stati, delle miserie dei confini e del continuo affermare, fino al ricorso alle armi, la superiorità di ognuno sugli altri.

Partendo così in basso, con principi così barbari, che negano il diritto d’asilo, prevedono la cacciata dei bambini (l’esecuzione di un simile provvedimento violerà ogni principio della civiltà di cui ci vantiamo, oltre a tutte le leggi di tutti i Paesi membri) e mettono al centro della nuova Giustizia europea un anno e mezzo di carcere per il delitto di immigrazione. Niente poteva essere pensato in modo più vergognoso e umiliante. Impedisce fin dall’inizio che l’Europa diventi simbolo e riferimento di qualcosa di buono e di nuovo.
L’Europa debutta sulla scena già triste del mondo con il volto indifferente e volgare della vecchia burocrazia.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 20.06.08
Modificato il: 20.06.08 alle ore 8.37   
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