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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 83724 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Agosto 09, 2010, 10:13:17 am »

Furio Colombo

La politica ai tempi di Caliendo

Mi ripetono: “Ma il discorso di Franceschini alla Camera, quel 4 agosto, è stato un discorso nobile, appassionato, una difesa emozionata della Costituzione e della Repubblica”. Lo ricordo. C’ero. A un passo da Franceschini. Assieme a tanti, ho applaudito a lungo. È stato il giorno in cui un sottosegretario alla Giustizia, certo Caliendo, accusato di appartenenza a società segreta al fine di cambiare per motivi illeciti decisioni giudiziarie, amministrative e politiche, ha lasciato le sue impronte digitali di indagato sulla storia della Repubblica e se n’è andato in vacanza, assolto dal dovere minimo di dimettersi dal governo. È stato il giorno in cui il presidente del Consiglio è comparso da teatrante dentro la Camera, in modo da non ascoltare alcun discorso, ma in preordinata coincidenza con un boato di applausi a cui ha risposto con un’imitazione del saluto romano (tanto che i deputati dell’Italia dei Valori hanno potuto gridare “Duce, duce”. E il grido non è neppure apparso un insulto, anzi più applausi e più boati di saluto). È stato il giorno in cui la leggendaria maggioranza continuamente vantata da Berlusconi e lanciata come un’orda cieca contro qualunque tentativo, anche cauto, di opposizione, quella legione di ferrea tenuta che veniva esibita come prova di santità preventiva del leader anche in caso di falso, truffa, corruzione, prescrizione per legge successiva al reato, quella prova di fedeltà del popolo che ogni volta bolliva come il sangue di San Gennaro e come tale veniva mostrato, il 4 agosto – giorno dell’indagato Caliendo – non ha avuto luogo.

Come il sanguedi San Gennaro
Quel giorno la maggioranza giaceva spezzata a causa della ritrovata dignità di una parte dello schieramento, 76 deputati, e poi la dichiarazione emozionata ed emozionante della deputata Chiara Moroni, che – da sola e senza precauzioni – si è giocata tutto quando ha detto: “Non confonderò il giustizialismo con il mettersi al sicuro, la difesa con la fuga, il giustificazionismo e il darsi ragione come bandiera politica. Non è la mia bandiera”. Cito a memoria, ma questo è il senso. E poiché Chiara Moroni è figlia di un uomo che si è suicidato in carcere, ritenendo ingiuste le accuse che lo avevano colpito, e poiché l’on. Cicchitto (capo di ciò che rimane della maggioranza sangue di San Gennaro di Berlusconi) aveva fatto riferimento a quella vicenda come ad una bandiera da alzare al passaggio dell’indagato Caliendo e come a un alibi per la sua fuga dalla responsabilità di dimettersi, i deputati normali hanno ascoltato per forza con emozione il grido solitario della figlia offesa dall’uso del suo dramma per ripulire e presentare la faccia di un uomo che – dicono i giudici – ha corrotto ancora di più questa Repubblica corrotta.

Ma quel 4 agosto è stato anche il giorno in cui, con il consueto tono squadristico, il capogruppo della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, Reguzzoni, ha avanzato senza pudore due argomenti. Il primo: sono gli immigrati e non Caliendo, che corrompono e portano disonore alla Repubblica. Il secondo si apriva con questa frase: “Abbiamo arrestato centinaia di mafiosi”. Merita di restare nei verbali del Parlamento repubblicano quella frase ridicola oltre che falsa: “Abbiamo arrestato” (come prova di pulizia morale della Lega  che sostiene e difende le attività segrete di Caliendo) facendo credere che siano stati Maroni e i leghisti ad arrestare i mafiosi invece delle indagini dei giudici, durate anni e a rischio della vita. Quel giorno, 4 agosto, dentro la maggioranza che rappresenta il popolo che rende santo Berlusconi, non importa in quanti crimini sia immerso, c’è chi si è preso a botte. E ha lasciato a prova della civiltà che rappresenta il grido di battaglia “ti faccio il culo a tarallo”, espressione non nota a tutti, prima della gran giornata di Caliendo, il bravo sottosegretario di Stato alla Giustizia (alla Giustizia!), che pare non creare imbarazzo nei suoi colleghi. Direte: ha vinto Caliendo, ma Berlusconi – per questo suo uomo in apparenza poco importante (evidentemente non è così, la sua missione deve essere più complessa) ha pagato un prezzo altissimo: 299 voti in tutto. Non ha più la santa maggioranza che è di voti 316. Fine di un’epoca?

L’inversione a Uche manca
È qui che si fermano e si interrompono l’apprezzamento dovuto e l’emozione provata per il discorso di Franceschini infatti mancava la frase finale. Mancava la risposta di ciò che per convenzione in Italia si chiama opposizione, ma è, purtroppo, solo un affiancarsi mite (più mite, ad esempio, della rottura coraggiosa e di principio di Chiara Moroni) all’infaticabile attività distruttiva Berlusconi-Lega. Avrebbe dovuto essere un’inversione a U. Inversione a U non vuol dire tornare indietro, perché non c’è nessun passato da rivivere. Vuol dire un basta netto, dignitoso e assoluto, alla totale illegalità in  cui vive la Repubblica. L’accusa avrebbe dovuto essere quella stessa che ci sarebbe oggi in tribunale, se Berlusconi – in modo illegale – non si fosse reso non processabile. Per capire il punto a cui siamo arrivati, riguardate due video del ministro della Giustizia Alfano, due frammenti di Tg3 e di Sky. Il primo è la difesa dell’indagato Caliendo da parte del ministro della Giustizia. Il ministro si sovrappone ai giudici e assolve il suo vice liquidando l’inchiesta dei giudici come materiale spregevole. Il secondo è la reazione di Alfano alla legittima frase di Bersani “Dobbiamo liberarci di Berlusconi”.  È  la normale parola d’ordine di una normale opposizione, Cameron contro Brown, Merkel contro Schroeder, Obama contro McCain. Angelino Alfano descrive la frase come “segnata da una violenza estrema, inaudita e inaccettabile”.
In questo modo, e con bravura sfacciata che non si può non riconoscergli, Berlusconi fa spazio e attenzione per il suo reclamo: andare alle elezioni quando vuole lui, quando lo dice lui. Fa apparire l’evento come una sua minaccia, come se il capo dello Stato cui spetta, in esclusiva, il compito di sciogliere le Camere, non le stesse, benché stia perdendo per conto e iniziativa propria, sia forza sia reputazione. La stampa del mondo, che è libera, ne parla come di un personaggio impotente.

Una vita “sotto Berlusconi”
Ma in questa Italia vi sono cittadini che hanno vissuto metà della loro vita – dunque tutta la vita adulta – “sotto Berlusconi”. E nessuno ha detto loro che – tra difetti e problemi che ci sono in tutto il mondo – la politica è un’altra cosa. Vi sono cittadini che hanno vissuto tutta la loro vita adulta “sotto Berlusconi” e che dunque hanno vissuto per quindici anni una ininterrotta campagna elettorale. Nessuno ha detto loro che l’Italia è una Repubblica dirottata da un uomo corrotto e malato, che potrebbe, nel suo volo pazzo verso nuove elezioni, esaurire il carburante e finire in Grecia. Direte che lo trattano bene, i suoi ministri, complici del delitto di distruzione della Repubblica (gente come Brunetta che se ne andrà senza lasciare altro segno che l’invettiva, gente come Tremonti, che avrà come unico vanto l’avere evitato le tasse ai ricchi) per evitare il peggio. Direte che l’opposizione è cauta per prudenza. Purtroppo non è vero. Chiamo a testimonianza il passato. Qualcuno ricorda quanto presto (2001) la sinistra più fiera ha cominciato ad ammonirci, poi a sgridarci e alla fine trattare come un pericolo Padellaro e me, perché chiamavamo il governo di Berlusconi “regime”, con riferimento al fascismo e ne ripetevamo il pericolo, insieme con Tabucchi e Silos Labyni ai tempi dell’Unità?

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/08/08/la-repubblica-dell%e2%80%99illegalitadove-si-vota-quando-vuole-lui/48648/
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« Risposta #136 inserito:: Aprile 02, 2011, 09:44:57 am »

La nuova opposizione

Furio COLOMBO

Quando inizia una seduta in Parlamento, per prima cosa si dà lettura del processo verbale, ovvero di tutto ciò che è accaduto in quell’aula il giorno prima. La frase di chi presiede l’aula è sempre la stessa, una formula burocratica per poter passare  all’ordine del giorno della nuova seduta: “Poiché non vi sono obiezioni, il processo verbale si intende approvato”. La mattina del 31 marzo il processo verbale della Camera non è stato affatto approvato.

Ricorderete che il giorno prima aveva fatto irruzione in Parlamento il ministro della Difesa in preda a concitazione per denunciare la piccola folla che aveva gridato pensieri-opinioni, su di lui e sul governo, mentre “il ministro della Guerra” entrava a Montecitorio. Di tutto ciò non c’era traccia nel verbale letto in fretta per la consueta approvazione. E forse, per la prima volta nella storia della Repubblica, quella approvazione non c’è stata. Ha vinto l’opposizione, ha perduto la maggioranza, governo incluso. Applausi, congratulazioni e passa parola: “Vedete, altro che andar via come predicavano Ignazio Marino e Rosy Bindi. Sta cambiando il vento”.

Temo che la lezione sia un’altra. La lezione è in una frase che la sera prima La Russa aveva gridato come un pericolo: “Dobbiamo impedire che quello che succede qui dentro si colleghi con quello che succede là fuori”. E qui c’è una prima riflessione per il Pd. Legittimo vantare la “vittoria del verbale” ma sarà bene non dimenticare le circostanze fortunate. Si è vinto per un voto. Comunque, l’ostinazione delle opposizioni ha pagato. A questo punto è chiaro che vi sono solo due percorsi e che la decisione è urgente. Il primo è restare in aula e non cooperare mai, come fanno i Repubblicani americani per bloccare Obama.

Il secondo è di liberarsi dello spettro incombente detto “Aventino” e avere la forza di uscire. Non occorre che sia per sempre. Deputati e senatori di Berlusconi lo hanno fatto – nel 1996 e nel 2006 – varie volte contro i governi di centrosinistra minacciando anche di dimettersi in blocco, senza sapere nulla dell’Aventino. Tutte le “Finanziarie” dei governi di centrosinistra sono state approvate a Camere vuote a metà. Si comincia da qui a dar vita all’incubo che perseguita il tormentato ministro della Guerra: stabilire finalmente il legame “fra quello che succede là fuori e quello che succede qui dentro”.

Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2011

da - ilfattoquotidiano.it/2011/04/01/
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« Risposta #137 inserito:: Aprile 13, 2012, 12:18:02 am »

di Furio Colombo | 12 aprile 2012

Il suk della democrazia

Come hanno dimostrato per tempo i Radicali in Italia, la cascata di soldi pubblici che invade ogni parte e settore della politica, compresi i partiti o gruppi che non esistono più, produce corruzione prima ancora che si metta in azione il corrotto. Come dimostrano in modo esemplare le clamorose vicende ex Margherita e Lega Nord, o si affronta la questione in modo radicale (la parola vale in tutti e due i sensi, aggettivo e sostantivo) oppure il lavoro per i giudici continuerà, insieme con tradimenti, voltafaccia, profittatori di un tipo (la mia parte di soldi subito) o dell’altro (non sono stato incluso e perciò racconto). Se le cose restano così, il futuro è di Lusi e Belsito. Il mitico tesoriere, infatti, è qualcuno. O è l’uomo di fiducia di qualcuno.

Vuol dire che la distribuzione del danaro pubblico ai vari personaggi o settori di un partito, avviene un po’ come nelle inondazioni: l’acqua invade certi spazi e ne abbandona altri, ridisegnando la mappa. Spero sia chiaro che non stiamo parlando soltanto di Lusi e Belsito, ovvero della patologia del sistema.

Stiamo parlando di tesorieri senza tentazioni penali, di galantuomini che danno ordini che possono dare (o eseguono ordini che possono ricevere) senza infrangere alcuna legge. Ovvero della fisiologia del sistema, quando si presume che sia sano. Ma ciò che fanno, decidono o eseguono i personaggi vicini alla fonte del danaro, può alterare gravemente la libera decisione di maggioranze e minoranze, di designazioni, di nomine, di votazioni parlamentari, di scontri e alleanze, di strategia d’aula, persino il posizionarsi di un intero partito in questioni chiave che coinvolgono il Paese. Come si vede, siamo al di là di Mani Pulite. Le non nobili storie della ex Margherita e della Lega (ma forse si dovrebbe dire: della ex Lega) mostrano gravi alterazioni nella condotta politica dei partiti.

Come nella profezia dei Radicali, confermata da un referendum popolare, è proprio l’inondazione di danaro pubblico a creare la privatizzazione dei partiti. Una cosa è evidente: urge la trasparenza, la prova, il rendiconto, il controllo. Urge una riduzione drastica delle somme, non per punizione, ma per stabilire un nuovo contatto con la realtà. Urge il farsi avanti di persone credibili che vogliano e possano garantire.
Ancora un minuto, e sarà troppo tardi.


Il Fatto Quotidiano, 12 Aprile 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04/12/il-suk-della-democrazia/203842/
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« Risposta #138 inserito:: Aprile 23, 2012, 11:40:29 pm »

di Furio Colombo | 23 aprile 2012


Più informazioni su: antipolitica, classe dirigente, leader, partecipazione, Politica

Il trono vuoto della politica

II segretario di un importante partito italiano se ne va, scompare, non si trova più. Non è mai accaduto. Non si può dire: non troviamo più il segretario. Bisogna sostituirlo subito. Per fortuna il segretario scomparso ha un gemello. Identico, tanto che le televisioni non noteranno. Ma è un uomo profondamente diverso. Per esempio, è un filosofo. E di politica, nel senso in cui si intende la parola (“saperci fare”) non sa niente. Comincia per forza una storia completamente diversa.

È il romanzo di un regista diventato scrittore, Roberto Andò, (“Il trono vuoto”, Bompiani) che ha trovato una soluzione per uscire dal peggio. Ma è realtà romanzesca, naturalmente. E per quanto ben scritto, non ci porta fuori dalla politica così come la stiamo vivendo. Dice però con chiarezza che siamo arrivati a uno strano posto di blocco. Se ne esce solo con l’immaginazione. Però siamo costretti a constatare che, tranne i cittadini, il senso del tempo tragico che stiamo vivendo non ha raggiunto nessuno. Ognuno – tra i politici non ancora scomparsi – è pronto a dire che il momento è difficile. Ma a tutti loro sembra sfuggire la differenza fra malessere e disperazione. Questo salto si nota se entri e esci dai dibattiti della politica. Dentro la politica non tutti sono pazzi e non tutti sono in vendita come sentite dire. Ma anche nelle circostanze migliori (che certo non sono tante) ascoltate cose giudiziose che sarebbe stato utile dire trent’anni fa o forse trent’anni da adesso, ma che, in tempo reale, non hanno alcun rapporto con ciò che sta realmente accadendo.

Sembra restare invisibile il contesto in cui alcuni si uccidono (non appare più un isolato scatto patologico), molti promettono di non votare più (il numero, dicono i sondaggisti, è altissimo), molti si organizzano in colonne di una protesta cupa di cui non si ha memoria, perchè chi partecipa sa benissimo di entrare in un vicolo senza uscita, un grido alto ma diretto a nessuno e senza speranza. Ora il treno della politica procede alla luce artificiale di un governo tecnico che è un terzo e diverso protagonista dello strano gioco. Non ha l’ostinata persuasione di continuare a esistere che anima ancora la politica “regolare”. Non ha la disperazione dei cittadini che molto rapidamente, negli ultimi mesi, sembrano avere abbandonato ogni credo. No, il terzo protagonista ha severe misure da proporre per “gli altri”, non deve tormentarsi su se stesso, e sembra avere adottato la regola che le scuole di medicina americane inculcano fin dall’inizio ai giovani studenti: “Ricordatevi che i malati non siete voi”.

Questo atteggiamento può portare a un deficit di empatia, ma consente di programmare, quando è necessario, cose terribili, perchè l’importante non è l’approvazione del paziente ma l’efficacia della cura. Non tutti guariscono, e il medico passa ad altro. Altrimenti incasserà gratitudine, ma passerà ad altro comunque.

Tutto ciò per dire che la morsa che si stringe intorno alla politica non si può allentare o distrarre indicando i “tecnici” e le loro decisioni, come la causa di tutto. I politici devono sapere (lo avranno capito tutti?) che i cittadini non sono in così ansiosa attesa di qualcosa di meglio da loro. Sono in cerca di punizione. E conta poco se sia logico o illogico. Conta poco se i cittadini non stanno attenti a quanto funzionerebbe la nuova idea appena annunciata di cambiare così e così il finanziamento della politica, e a come si distraggono facilmente, quegli stessi angosciati cittadini, se parli, pur con serietà e competenza, di una o dell’altra nuova legge elettorale.

In questo mondo diviso fra creditori e debitori, dove i creditori non danno pace e non vogliono sentire ragione, i cittadini si sentono creditori e le ragioni sembrano a loro enormi. Sbagliano? Temo di no. Ma se anche fosse, non è il punto. Non c’è dubbio che essi sono in diritto di esigere la restituzione di ciò che hanno pagato, o in danaro o in fiducia o in passione e sostegno politico. E poi è un classico evento della Storia che anche chi non ha pagato nè in un modo nè in un altro, si unisca al corteo, che non è più di protesta ma di distacco. Sta creandosi una cultura del sommerso politico che si nota poco nelle piazze. È una fuga dai partiti di cui non si conosce ancora il percorso. Non si sa se si dirigerà verso il palazzo o no. È una cultura – si può vedere dagli infiniti documenti in rete – fraterna per chi la vive insieme, dalla stessa parte, e inesorabilmente scheggiata dove prima passavano i contatti con la politica.

La definizione di “antipolitica” è piccola. Ciò che sta accadendo aspetta ancora la sua definizione, fra anarchia, solitudine, disperazione e rivolta. Nella vera vita non c’è il gemello del segretario, che sembra uguale, ma pensa e agisce in un modo che sembra folle, e cambia tutto (come sarebbe accaduto per Robert Kennedy, se non lo avessero ucciso). Lo spazio in cui dovrebbe materializzarsi il coraggio di far nascere un’altra vita pubblica, che si chiami o non si chiami “politica”, resta vuoto. Al momento ci sono luci artificiali e alcune gelide infermerie, contro la politica come clinica di lusso che serve solo alcuni privilegiati da centomila euro di diamanti. Il pronto soccorso a volte salva la vita, ma è un luogo duro, anche scoraggiante. Il rischio vero, il rischio spaventoso è che non si presenti nessuno.

Il Fatto Quotidiano, 22 Aprile 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04/23/il-trono-vuoto-della-politica/206311/
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« Risposta #139 inserito:: Agosto 13, 2012, 09:57:46 am »

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In migliaia per far scudo ai giudici

di Furio Colombo | 12 agosto 2012


Dove va a finire la politica che non ha partito, non ha protezione (nel senso di luogo e di leader) e si forma come una immensa forza di partecipazione e presenza che vaga nel vuoto, come un cielo gremito di nuvole senza pioggia? Facile dirlo, se questa politica che si aggrega e si accumula ha un nemico o un progetto distruttivo, come quando si parla di “antipolitica” (parola tra il minaccioso e il vacuo che raramente indica qualcosa che accade davvero). No, qui stiamo parlando di un movimento prima giornalistico e poi popolare (adesioni, firme, partecipazioni, presenze) non contro ma per. Penso alle decine di migliaia che offrono il loro assenso all’appello di questo giornale.

Hanno in mente i giudici di Palermo, sanno che quei giudici toccano lava rovente e che se li lasci soli il pericolo è immenso. Sanno anche che c’è qualcosa di strano e di difficile da spiegare nel mettersi accanto a giudici che sono e dovrebbero essere (se possibile, da vivi) eroi di tutto il Paese. Sanno anche che c’è una disputa, che è di tipo giuridico e costituzionale, una disputa seria e difficile. Ma tanti cittadini non offrono il loro nome e la loro presenza per essere giuria nella disputa. La offrono per fare da scudo ai giudici. Non contro le istituzioni, ma per le istituzioni, perché sarebbe intollerabile la ferita se venissero a mancare forza e sostegno ai giudici. Quello che stanno facendo, in mezzo a controversie drammatiche (perché sono controversie che sembrano sconvolgere le simmetrie e le contrapposizioni a cui siamo abituati e sulle quali ci eravamo assestati in anni di duri confronti) quello che stanno facendo i giudici è cercare un filo in un groviglio che si è progressivamente complicato nei decenni e in cui non sei ancora sicuro né del comesbrogliare la matassa né delle rivelazioni che al momento nasconde. È una lotta per alcune verità che continuano a sfuggire e a nascondersi, e in cui non hai la minima garanzia sull’esito, su un presunto “lieto fine”. Ora l’unica preoccupazione che ha coinvolto e messo in movimento coloro che stanno dirigendosi, come una massa automobilitata di cittadini, verso i giudici, è di fare in modo che essi non vengano fermati. L’evento, infatti, non è visto come un dibattito, con opinioni legittimamente diverse, intorno a quesiti di procedura giuridica. L’evento è la continuazione o l’interruzione di ciò che i giudici stanno tentando di fare, sia pure con decenni di ritardo. Infatti, la salvezza della Repubblica dipende da un lato dal recupero della sua forza economica, ma l’altra parte è legata alla verità di alcuni eventi, da cui dipende un’immagine certa della nostra storia. È il posto di blocco del futuro di tutto un Paese. Ora il paradosso sta in questo. Sempre più cittadini accorrono e vogliono essere contati accanto e a sostegno dei giudici. Intendono dire e garantire, e non hanno nulla a che fare con coloro che sia pure con tante ragioni (e tante guide di un tipo e dell’altro) pensano a una piazza pulita, dopo la quale il modo ricomincia da capo. In altre parole, sempre altri cittadini, che pure si rendono conto della infinita imperfezione del sistema, vogliono scortarlo fino a un punto di certezza e di verità che tende a salvare, se non i politici, certo le istituzioni. Il paradosso è questo. Le decine di migliaia di firme che qui si accumulano non sono contro, sono per, non puntano alla distruzione di un pezzo di Repubblica, ma alla sua difesa. Resta il problema della solitudine. C’è passione, c’è partecipazione, c’è voglia di prendere parte, ed essere presenti e attivi in un momento carico di rischi immensi. Ma dove vanno, in un mondo senza partiti e senza frasi politiche che possano capire, a cui possano rispondere , dove vanno mentre sono di fronte a un grande equivoco, che rischia di farli apparire nemici di ciò che intendono difendere? Non so rispondere alla domanda.

Ogni tanto diciamo che un certo momento “è il più difficile nella storia della Repubblica”. Qui la difficoltà è resa più grave da fatti procedurali e formali che hanno fatto apparire come contrapposte e ostili due parti che erano state la stessa, e con lo stesso proposito di salvezza comune. Chi arriva, adesso, con il suo nome, la sua firma, con la sua testimonianza, accanto ai giudici, questo intende fare esattamente: continuare quella difesa. D’accordo, non c’è una rete in caso di caduta, e non c’è un partito a contabilizzare partecipazione e presenze. Non c’è neppure un contenitore per tutta questa gente che non vuole far finta di non sapere e di non vedere il pericolo. Come dire che riuscirà impossibile valutarla e pesarla, per quando si dovrà andare alle urne. È vero. Ma intanto la buona politica, se c’è ancora e se è in grado di battere un colpo, farebbe meglio a osservare e ascoltare con attenzione.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/12/in-migliaia-per-far-scudo-ai-giudici/324335/
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« Risposta #140 inserito:: Gennaio 13, 2013, 11:57:50 pm »

La politica non si fa (più) in Parlamento

di Furio Colombo | 13 gennaio 2013


Qui non si parla di politica o di alta strategia. Qui si lavora”. Credo che in pochi riconosceranno l’origine di questa frase, che era un pericoloso cartello di avvertimento in ogni luogo pubblico durante la guerra fascista.

Nel momento in cui scrivo è una perfetta descrizione del Parlamento che è stato appena sciolto. Ma anche del lavorio infaticabile e intenso, degli scontri e incontri e incroci e ripulse e improvvisi ritorni di legami perduti che la preparazione del nuovo Parlamento attraverso la composizione delle liste elettorali. Quelle che sono già disponibili sono lì a dimostrare ciò che sto dicendo: liste di dirigenti, di quadri e di impiegati per future imprese parlamentari che devono produrre con disciplina certi prodotti. Le liste che non ci sono ancora dimostrano quanto sia difficile mettere insieme persone efficienti, sottomesse, laboriose, fingendo di accumulare talenti.   

Ogni lista ha i suoi ornamenti o i suoi pezzi di antiquariato, un po’ come esporre nell’atrio della ditta il primo macchinario con cui era cominciata l’impresa. Per il resto, personale di fiducia, che non alzi la testa. Qui mi scontro – lo so – con la diffusa persuasione che “il Parlamento non lavora”. Il Parlamento, salvo quando subisce gravi incidenti di percorso, come è accaduto nella lunga agonia dell’ultimo governo Berlusconi, lavora moltissimo, ma non per fare politica. Quando si dice ‘di questo discuterà il Parlamento’, non si dice niente. Il Parlamento produce con alacrità atti amministrativi fatti di labirintici commi ed emendamenti, il cui senso e le cui conseguenze sono chiari solo ai committenti e ai destina-tari.   

Molto dipende, naturalmente, dal rapporto fra Parlamento e governo. Il Parlamento, quando è guidato da Monti, lavora intensamente ad approvare in fretta, quasi senza discutere, ciò che è stato deciso in materia economica, per ragioni di emergenza (vera emergenza provocata dall’incompetenza e tendenza a mentire di Berlusconi). L’ultimo governo “generalista” del Paese (nel senso che voleva, allo stesso tempo, produrre alcuni risultati tecnici e alcuni fatti politici) è stato il governo Prodi. Poi è diventata abituale la totale assenza del dibattito politico, salvo stentorei discorsi di parti e controparti ogni due o tre mesi, su questioni gravi, come i diritti umani, la scuola, il lavoro, la pace, questioni che non hanno mai avuto in Parlamento né un prima né un dopo. Dunque sono privi di fondamento quei “rating” che assegnano ai vari parlamentari gradi di “produttività”. Lo sono perché non si domandano “produttività” di che cosa?   

Sto descrivendo, temo in modo accurato, un Parlamento che sta alla larga dalla politica e in cui un parlamentare non può prendere alcuna iniziativa politica da solo tranne che parlare a un’aula vuota, una volta esaurito l’ordine del giorno alla cui compilazione non partecipa. Allora dov’è la politica? Come abbiamo visto il percorso verso il governo non serve. Se un governo ha interesse a non fare politica (per esempio per non compromettere una coalizione, si pensi alle “coppie di fatto”) il Parlamento rimane afasico. Infatti c’è il regolamento, stravagante, rigoroso e invalicabile delle Camere. Stabilisce che un parlamentare, persino nella o nelle Commissioni di cui fa parte, può presentare un’interrogazione solo tramite il rappresentante del suo gruppo. Stabilisce che il deputato o senatore possono proporre tutto quello che vogliono. Non arriverà mai in aula (e il parlamentare proponente non potrà parlarne in aula) fino a quando il suo gruppo, cioè il partito con cui è stato eletto, non darà il permesso . Il più delle volte non accade mai. Dunque se cercate dove comincia e dove finisce la politica (e dove si esercita o si azzera la “produttività” politica) la freccia punta ai partiti. Ed è qui che un segugio indagherebbe per rispondere alla domanda: che fine ha fatto la politica? L’indagine può cominciare benissimo dalle nuove liste elettorali che si sono composte o si stanno componendo, e ai partiti (ai loro leader) che le hanno volute. Ognuno ha cercato uno o due personaggi di valore estranei all’organizzazione, ma destinati a ornare il salotto, a depositare un discorso o una memorabile intervista e a togliere il disturbo. Ma ha voluto soprattutto numerose e ben distribuite pattuglie di lavoratori che al momento giusto restano in attesa dell l’input, qualunque esso sia (andare avanti, tornare indietro, accordarsi o scontrarsi per ragioni che non sempre vengono condivise) o anche solo spiegate).   

Come esempio pensate alla scelta Pd del dottor Galli, già direttore generale di Confindustria, dato come probabile ministro del Lavoro a nome del partito che ospita il candidato ed ex ministro del Lavoro Damiano. A Damiano non si è potuto dire di no e far finta che non esista, come è accaduto al deputato Sarubbi (che si era ostinato a parlare di politica, di diritti umani, e non di Eni, al tempo del trattato con la Libia) e in due, oltre ai Radicali, avevamo votato no. Ma la sua presenza è saggiamente compensata e “coperta” dal dottor Galli per non correre il rischio di “ali estreme”. Come esempio prendete Paola Binetti e osservate dove l’ha collocata il nuovo mondo di Monti: due volte capolista in punti essenziali delle nuove liste per rassicurare chi deve essere rassicurato sui valori non negoziabili. Sono solo due lampi nel buio, ma servono per dire che la politica ha un suo unico luogo, i partiti.

Ma i partiti, anche quelli rispettabili, hanno deciso di tenersi le mani libere “per negoziare”. Negoziano risultati che hanno a che fare con il potere, non con i cittadini. I cittadini restano soli e, di tanto in tanto, sono accalappiati nella rete di decisioni che non si sa se siano buone o cattive perché sono indecifrabili. Si sa che sono pesanti, che cambiano la vita di molti. Sarebbe importante discutere di tutto ciò in politica. Ma quale politica?

Il Fatto Quotidiano, 13 Gennaio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/13/politica-non-si-fa-piu-in-parlamento/468735/
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« Risposta #141 inserito:: Gennaio 24, 2013, 05:51:32 pm »

L’America non è più quella di una volta
   
Il discorso per il secondo giuramento presidenziale di Barack Obama - incentrato sul concetto di uguaglianza e su tutti i valori della tradizione "liberal" americana - è destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani. Non solo del Paese, dello Stato o delle Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini.

di Furio Colombo,
da Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2013

Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all'America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto.

Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”. Ma poiché noi parliamo dall'Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell'America che tende a tirarsi indietro”.

Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l'America non è più quella di una volta”. L'ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell'invasione del Mali, dell'intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).

Ma torniamo a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l'assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.

Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l'America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l'incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell'uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.

“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell'Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.

E dichiara, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l'assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l'intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d'avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l'America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L'America (certo l'America di Obama) non è più quella di una volta”.

(23 gennaio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99america-non-e-piu-quella-di-una-volta/
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« Risposta #142 inserito:: Aprile 17, 2013, 10:20:46 pm »

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Attentato Boston, identikit di una strage cristiana?

di Furio Colombo | 17 aprile 2013


Alle reclute viene detto che Dio ha aggiunto alla Costituzione americana il diritto di portare le armi per una ragione importante: se mai venisse il momento in cui il governo deviasse dal suo scopo costituzionale cristiano, la gente in possesso di armi dovrebbe usarle per costringere il governo a tornare sulla retta via. I cristiani fondamentalisti che mantengono questa visione teocratica del governo sono chiamati “dominionisti”. Anche i fedeli di Christian Identity sono dominionisti, ma la differenza è che essi desiderano stabilire una teocrazia bianca, in cui le loro interpretazioni bibliche diventerebbero la norma.  Sto citando da Harvest of Rage, uno studio di Joel Dyer pubblicato nel 1998 sul problema (e la minaccia, negli Usa) del fondamentalismo cristiano armato (in Italia: Raccolti di rabbia, Fazi Editore).
E nel farlo sto spostando la mia riflessione su ciò che è appena successo a Boston, verso una delle due risposte: terrorismo interno.

Poiché il governo americano tarderà a prendere apertamente questa strada, mi rendo conto che corro il rischio di offrire una tesi invece che una risposta bilanciata e attenta a tutti i riflessi possibili. Ma io penso che Dyer, l’autore che ho appena citato, abbia visto giusto quando da giornalista investigativo specializzato nella vita agricola americana, si è accorto che stava nascendo e diffondendosi una nuova cultura. È un peccato che non si siano avventurati lungo lo stesso percorso i giornalisti, i sociologi, ma anche i detective federali che avrebbero potuto scoprire ben di più che la responsabilità, l’arresto e la condanna di una o due persone, colpevoli ma senza mandanti e senza il sostegno di alcuno, dopo ogni tragico evento religioso-politico americano, dall’uccisione di medici ginecologi considerati nemici della vita, a magistrati che si spingono a investigare le nuove culture pseudo-cristiane.

I tragici eventi simili alla maratona di Boston, infatti, sono tanti, prima e dopo lo spaventoso choc di quell’11 settembre che si è impadronito (come poteva avvenire diversamente?) di tutta l’emozione e di tutta la forza americana. Quasi solo giornalisti non americani (nelle dirette televisive subito dopo Boston, in cui si potevano alternare i telegiornali americani e telegiornali europei) si sono ricordati di questa sequenza di eventi: aprile è il mese di molte grandi scadenze del fondamentalismo cristiano che fa capo a Christian Identity: 29 aprile 1993, l’assedio della polizia federale alla chiesa-fortino di Waco, che il pastore David Koresh aveva riempito di armi automatiche e di seguaci, tra cui molte donne e bambini, e ha preferito che tutti saltassero in aria piuttosto che arrendersi a ZOG (il governo sionista americano, nel linguaggio di quel cristianesimo); 29 aprile 1995, l’esplosione del palazzo federale (dunque del governo di ZOG) di Oklahoma City, 168 morti, oltre a tutti i bambini dell’asilo e scuola elementare interna all’edificio; il 15 aprile è il giorno delle tasse, ovvero l’ultimo giorno per presentare il proprio modulo di denuncia, una scadenza sgradita di cui si parla tutto l’anno in tutta l’America, ma che, per i Fondamentalisti è un modo di sottrarre risorse a Dio per darle a Satana. Chi è Satana, per questa parte malata della cultura cristiana americana? “Ebrei e neri sono quel che sono. È stato Dio a scegliere di fare degli ebrei la prole di Satana, e dei neri degli animali, non lo abbiamo scelto noi” (Tim Hauser, Christian Identity, 1996).

Ma questo aprile è anche il mese in cui il presidente Obama ha lanciato un’appassionata campagna contro la libera circolazione delle armi. E il presidente americano, per la prima volta nella storia di questo Paese, è un nero. Per capire se ci sia un legame fra l’oscuro e profondo sottomondo del “dominionismo” cristiano e la vita politica americana di ogni giorno, basti pensare ai Tea Party. La durezza violenta e aggressiva di quei militanti, che al momento sembrano un po’ tenuti a bada dal Partito repubblicano regolare, non può essere il frutto del cattivo carattere o dell’inclinazione rissosa di alcuni. Nella predicazione del Tea Party emergono continuamente parole, modi dire, gerghi che si possono ritrovare solo nelle investigazioni e nel lavoro giornalistico dei pochi autori come Joel Dyer.

È chiaro, in quello che dico, che una profonda e diffusa esitazione trattiene la cultura americana dal guardare fino in fondo al vasto deposito di pregiudizio razziale, culturale, religioso che si intravede nel “dominionismo” cristiano (la forma estrema di fondamentalismo) e in Christian Identity. Però questi sono anche i giorni di una lunga investigazione su fatti criminali completamente nuovi: l’uccisione di magistrati. Due procuratori distrettuali sono stati assassinati nelle scorse settimane in Texas (uno in casa con la moglie, eliminati entrambi ). Si sa che gli esecutori provengono dal mondo e dalla cultura di cui stiamo parlando, ma le indagini sono finora andate a vuoto.

Del resto, dalla famosa e celebre mattanza di Columbine fino alla strage di bambini, avvenuta da poco a Newtown, nel Connecticut si è mai trovato un complice, un legame, un ambiente che può avere formato o facilitato questi episodi che sembrano solo follia isolata? Torniamo sempre all’esplosione di Oklahoma City: un solo arrestato, il soldato Mc Veight, un solo condannato a morte, una sentenza eseguita subito, che ha evitato di discutere se Mc Veight fosse o no (come tutto faceva pensare) un militante di Christian Identity. Sarà semplice ed esemplare il percorso investigativo e la conclusione della vicenda se gli attentatori di Boston non risulteranno cristiani. Ma se lo sono?

Il Fatto Quotidiano, 17 Aprile 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/17/boston-identikit-di-una-strage-cristiana/565153/
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« Risposta #143 inserito:: Giugno 26, 2013, 05:33:00 pm »

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E se non fossimo tutti puttane?

di Furio Colombo | 26 giugno 2013


Un fantasma si aggira nel pianeta berlusconiano. Hanno (tutti loro) creduto fermamente, per potente induzione mediatica, nel comandamento: fai ciò che ti pare (sostituire con la frase tipica delle truppe di B.) o ciò che ti conviene (badando che sia a tua insaputa). Insomma il credo è (da vent’anni): siamo tutti impegnati in concorso esterno nel reato di mafia. Siamo tutti puttane.

Nel senso che tutti – sostiene il comandamento, siamo a disposizione, per una cifra giusta, secondo il modello Lavitola-De Gregorio. All’improvviso una sentenza molto discussa (“reggerà la politica?” si domanda con ansia il quotidiano Pd Europa) decide che la prostituzione è una cosa che richiede un padrone, dei mezzani delle ragazze sottomesse, in cambio di adeguate somme di danaro. E richiede una buona organizzazione, persone che procurano, persone che coprono, persone che pagano, case semichiuse che ospitano a spese di, con il controllo di, e dove si imparano buone maniere, come le regole di condotta nelle feste e – all’occorrenza – come testimoniare il falso. Ma eccoci al punto chiave della vita di Berlusconi e della sentenza che lo riguarda.

Per organizzare per bene la prostituzione ci vuole il potere. È il potere che spiega la severità dei giudici, che ha provocato costernazione tra i migliori amici. Infatti per la prima volta certe avventure del capo di un grande partito italiano e, a lungo, capo del governo, vengono chiamate con le parole appropriate: prostituzione minorile, vincoli di obbedienza, pagamenti puntuali e proporzionati al reato, con il concorso di abili e autorevoli complici.

La via di fuga era pronta: dire e ripetere che siamo tutti puttane. La frase viene dal cuore e da una persuasione profonda. Si pronuncia con una solennità paraevangelica, tipo “siamo tutti fratelli”.

Ma i giudici hanno smantellato la chiesa delle ragazze nude, vestite da suore, e il grosso del partito non si dà pace. Ecco dove i giudici guastano il gioco, non in un anno in più o in meno di galera (che fa effetto nel mondo, ma in Italia sarà scontato tra un salto a Palazzo Chigi e una capatina in Parlamento).

Ma nel dover ammettere che i complici e le Ruby (e l’altra giovanissima Noemi, che lo chiamava “papi” e di cui ci eravamo quasi dimenticati) sono tanti. Tanti, ma non tutti. Anzi, si chiama fuori una buona parte degli italiani, e molti pentiti. In questo, colpa della Boccassini, nonostante le adunate di chi si proclama puttana, il gioco è fallito

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/26/e-se-non-fossimo-tutti-puttane/638156/
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« Risposta #144 inserito:: Luglio 11, 2013, 10:11:01 am »

A chi giova stravolgere la nostra Costituzione

di Furio Colombo | 7 luglio 2013


Sta accadendo un fatto strano e difficile da spiegare, che appare più fisiologico che politico o giuridico: la Costituzione si sta trasformando. Cambia di colpo in punti vitali.

Per esempio è in atto un progetto che sta svolgendosi all’insaputa dei cittadini, ed è bene saperlo. Il progetto è di mettere mano all’art. 138 della Costituzione, o meglio di cominciare di lì. Quell’articolo è un cardine: impedisce che la Costituzione possa essere facilmente e liberamente manomessa al di fuori della complessa procedura costituzionale. Prescrive due volte il voto di ciascuna camera, e un referendum popolare di approvazione finale.

Invece la Commissione dei 40, che segue, nella stranezza e nella anomalia, quella dei dieci saggi che all’inizio di tutta questa vicenda, erano stati chiamati a consigliare il Quirinale, comincerà proprio da qui, (queste sono le istruzioni) da un ritocco che renda inutile la barriera dell’art. 138. Si può fare senza una garanzia – ovvero senza che il progetto sia previsto e concordato, fra la politica (così come essa è rappresentata nel governo) e le Istituzioni?    SE È

Così, ciò che sta accadendo punta verso una Costituzione ignota, che ancora non abbiamo e ancora non conosciamo. A quanto pare la Costituzione ignota ha già corretto in senso verticale le sue istituzioni. Il potere adesso discende dal potere, invece di risalire dal voto. Non solo gli elettori appaiono abbandonati sul fondo, ma anche i parlamentari. Discutono a vuoto, votano a vuoto e non contano niente. Di questo fatto, che è strano perché mai deciso e mai votato dagli eletti, trovo una attendibile descrizione in un editoriale del quotidiano Il Tempo : “Le prerogative del Parlamento non possono tradursi in una sorta di diritto di veto sui programmi di ammodernamento delle Forze Armate (…) Il comunicato diffuso ieri dal Quirinale al termine della riunione del Consiglio Superiore della Difesa, presieduto dal Capo dello Stato ha aggiunto una pietruzza sulla strada, cara al presidente della Repubblica, delle riforme istituzionali (…) indicando in modo fermo e non equivoco , i limiti alla attività del Parlamento. Tutto ciò dimostra come sia già in atto, nella prassi, un processo di trasformazione delle istituzioni nel senso di un rafforzamento dell’Esecutivo. In altre parole, si sta affermando una nuova Costituzione reale ben diversa dalla Costituzione formale. (…)

Anziché parlare di uno schiaffo al Parlamento, come fanno i grillini e le vestali di una Costituzione ingessata e superata dai tempi, sarebbe bene che si cogliesse l’invito implicito a mettere mano, finalmente, alle riforme. Per il bene del Paese”. (Francesco Perfetti, 4 luglio). L’articolo è interessante perché è ispirato (dal comunicato della Presidenza della Repubblica), perché dimostra in modo chiaro e persuasivo di quali riforme si tratta (la verticalizzazione presidenzialista o semi- presidenzialista del potere politico in Italia, la marginalizzazione del Parlamento, le istruzioni per l’uso della Commissione dei 40, a cui viene assegnata la prova da svolgere con obbligo di copiatura di istruzioni già date.   

E quel tanto di scherno (“le vestali di una Costituzione ingessata e superata dai tempi” ) che è sempre stato il canto di guerra della vasta e disordinata aggregazione berlusconiana. Ma allora le rivelazioni che ci vengono consegnate come una notizia, con fermo invito ad adeguarci subito, sono due. La prima, abbiamo appena appreso, è che, fin dal primo momento delle votazioni presidenziali, il progetto era già completo, con tutte le sue istruzioni per l’uso, e significava trasformazioni profonde, mai concordate e mai votate, alla Costituzione. La seconda è la vistosa e pesante asimmetria delle forze che sono state associate (la forma passiva dei verbi è necessaria) per formare il “governo insieme”.

Ecco la formula di quel governo. Da una parte tutti gli interessi personali, proprietari, giudiziari di Berlusconi più tutte le forme diverse di reazione e ostilità alla esigente e coerente Costituzione italiana. Dall’altra, figure sparse dette, per pura esigenza di identificazione, “di sinistra” (di solito intente a respingere con sdegno quella definizione) che non hanno, come riferimento, né un partito deciso a guidare né una Istituzione disposta a difendere. Un peso preponderante, dunque, è dalla parte di coloro che militano con furore e passione contro la Costituzione nata dalla Resistenza. E le figure sparse se ne accorgono quando ricevono, se si scostano, sgridate durissime e autorevoli, di solito interpretate bene, e tempestivamente espresse, dal capogruppo di Berlusconi, Brunetta.

A questo punto il discorso si fa drammatico e semplice: il dovere democratico è difendere la Costituzione senza accettare alcuna manomissione, contro un simile squilibrio di intenti e di forze. Pretendere una urgente e decente legge elettorale come unico impegno verso il Paese, il solo che si può fare a carte scoperte. Subito dopo dovremo persuadere i cittadini che per il 50 per cento si sono astenuti nelle ultime elezioni, a tornare al voto.

il Fatto Quotidiano, 7 Luglio 2013

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« Risposta #145 inserito:: Settembre 03, 2013, 09:50:37 am »

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Fabbriche scomparse, il silenzioso furto del lavoro

di Furio Colombo | 1 settembre 2013


Qualcuno ricorda l’abigeato? Voleva dire rubare a un contadino e a tutta la sua famiglia il bestiame, cioè la vita. Le pene erano severe, e la sanzione sociale durissima: espulsione dalla comunità, perché in quel reato si coglieva disprezzo e crudeltà: intaccavano il legame umano e i doveri fondamentali del vivere accanto. Il furto della fabbrica è più grave. Lo è perché è fondato sull’inganno e perpetrato da persone che restano rispettabili. Torni dalle ferie e trovi un lucchetto ai cancelli, non c’è più il nome della ditta o della persona. Se riesci a entrare, trovi i capannoni vuoti. Tutte le macchine sono state portate via. A volte accade che qualcuno si trovi a passare davanti alla sua fabbrica mentre dovrebbe essere “in ferie”, e scopra il furto in corso, veda con stupore incredulo che stanno caricando le macchine del suo lavoro su camion senza identificazione, forse vendute, forse in trasferta, per un altrove sconosciuto. Succede che si possano radunare altri operai e bloccare il trasloco, ma quando te ne accorgi non sei mai in tempo.

Per questo furto, più grande del furto rubricato dai codici, non esiste “flagranza di reato”. Qualcuno, che tu credevi il tuo “principale” ha venduto, e qualcuno ha comprato, e poi qualcun altro, e nessuno si farà vivo per spiegare la storia. È una storia macabra con tre vergognose spiegazioni; liberarsi della fabbrica senza tante storie sindacali, vendendo il macchinario; cedere la fabbrica a qualcuno che la rivende a qualche altro finché non si trova più il padrone (e intanto nessuno paga i dipendenti, persino se il lavoro continua e l’organizzazione del lavoro rimane intatta); delocalizzare l’impianto, che vuol dire che io continuo a produrre, ma con altri operai, in un altro Paese, dove non esistono leggi del lavoro. C’è anche l’imprenditore del tutto persuaso di avere diritti medievali che dice agli ex dipendenti che protestano: “Se volete, io vi riassumo in Polonia. Qui costa troppo”. E così si torna alle due superstizioni che umiliano sia chi le dice sia chi se le sente dire (e inutilmente due premi Nobel come Amartya Sen e Joseph Stiglitz le hanno confutate da anni): “Il lavoro si salva solo se ha più flessibilità” (vuol dire che, se l’avesse, non ci sarebbe bisogno di andare in Polonia, basterebbe licenziare e poi riassumere pagando la metà dei salari). E: “Il nostro vero problema è il costo del lavoro”. La frase è falsa fin dall’inizio (i salari italiani sono sempre stati i più bassi in Europa).

Ma c’è di peggio dello scarico di responsabilità dai padroni ai dipendenti, dai dirigenti ai lavoratori di una fabbrica, dove l’incapacità di amministrare e di vendere viene gettata addosso a chi scrupolosamente provvede a produrre. Il furto della fabbrica, infatti, avviene quasi sempre mentre non solo i lavoratori, ma anche i fornitori e i clienti non hanno alcuna ragione di sospettare, e infatti, inizia regolarmente per tutti il periodo di “ferie”. Nessuno ne parla in anticipo perché si tratta di una azione ovviamente vergognosa, che però non trova nella vita sociale alcuna censura e in quella giuridica alcuna condanna, benché vi siano varie evidenti violazioni di natura penale e civile. Il fatto è che rispettati economisti spiegano la delocalizzazione come inevitabile effetto della globalizzazione, che consente – e anzi suggerisce – di spostare la propria fabbrica dovunque sia più conveniente per le buste paga. E infatti si sono creati nuovi luoghi di schiavitù, come i centri di produzione di Taiwan e molte fabbriche cinesi, in cui i suicidi degli operai sono molto frequenti, quando i lavoratori riescono a raggiungere i piani alti delle loro prigioni di lavoro. Spiego in che senso ho detto “prigioni”. Dovunque si uniscono, con una ferrea e assurda alleanza Stato e impresa, impegnati ad abbassare drasticamente le paghe con un dirigismo che è l’opposto del libero mercato, le condizioni di chi lavora diventano lavoro forzato e il legame con il posto di lavoro, pagato una miseria per un numero sproporzionato di ore, diventa una caienna.

La catena delle vendite false (ovvero di cessioni di fabbriche in sequenza per far perdere le tracce di un responsabile), è l’altro problema che ha coinvolto anche aziende con intatta reputazione e capacità produttiva, e senza alcuna perdita di quote di mercato. Si tratta di un irresponsabile progetto di abbandono di impegno imprenditoriale e di rapida e clandestina capitalizzazione di valori ben più grandi (per non parlare delle persone). Moralmente è un fenomeno spregevole, molto simile a quello dell’abbandono dei cani in autostrada. Legalmente, la clandestinità o semi clandestinità dell’operazione, solo in apparenza ammissibile, dovrebbe essere intercettata da norme civili e penali che costringano alla continua identificazione pubblica dei passaggi, delle responsabilità, degli intenti.

Lo svuotamento estivo di uno stabilimento a cui vengono segretamente asportate le macchine dovrebbe essere considerato un vero furto ai cittadini e non solo al lavoratori, se si pensa al reticolato di impegni e doveri che una impresa stabilisce con il luogo e le persone del luogo in cui si è insediata, compresa l’apertura di negozi e di altre imprese. Non credo che politica, Stato e governi locali debbano osservare a distanza, come se si trattasse della forza brutale del “mercato”: si tratta di furto.

Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2013

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« Risposta #146 inserito:: Settembre 29, 2013, 11:12:31 pm »

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I sette giorni di follia prima del disastro

di Furio Colombo | 29 settembre 2013


La settimana finisce così: i ministri di Berlusconi si dimettono su ordine e per le ragioni di un condannato in via definitiva per grossa frode fiscale. Una condanna che non può essere cambiata trasforma il legame politico con il leader in favoreggiamento con chi ha commesso il reato. È incredibile che chi ha messo insieme questo infelice governo, comunque soggetto al giudice di sorveglianza, non abbia previsto un simile disastroso esito. Ma tutto cio è pieno di sintomi e di segnali nella settimana che si è appena conclusa. Ce lo dicono una serie di eventi insensati. Provo a elencarli.

Il Presidente del Consiglio va a New York, in apparenza per l’Assemblea generale dell’Onu, ma con il vero scopo di un “roadshow” per “vendere” l’Italia. Tradotto, significa incontrare analisti finanziari (non gli imprenditori, come dicono i sottomessi Tg) e non segue rinfresco, segue dibattito. Qui il progetto si fa nebbioso. Sicuro che era il momento giusto per farlo
Intanto il suo vice Alfano, “con cui Letta – dicono con linguaggio di regime i Tg – è in costante contatto”, va in Val di Susa e dice ai disperati valligiani, ai disperati lavoratori, ai disperati poliziotti del più costoso e inutile cantiere del mondo: “Nessuno ci fermerà”.

Nelle stesse ore la Commissione europea annuncia che la produttività in Italia è a picco, che sta avvenendo una rapida deindustrializzazione, che c’è una forte perdita di competitività in termini di costo del lavoro. La denuncia del costo del lavoro italiano appare un po’ azzardata, nella terra afflitta dai più bassi salari d’Europa. Ma in casa non c’è nessuno a rispondere. E poiché non c’è nessuno, c’è chi compra alla svelta Telecom e chi offre a prezzi d’affezione l’Alitalia.

Alla fine accade un fatto che sembra sconnesso e sembra folle ma non lo è, anzi è logico. Deputati e senatori del Pdl (gruppo di incerta identità politica, detto anche Forza Italia) si sono improvvisamente riuniti in una sera di cattivo umore, e hanno gridato insieme la loro decisione. Se va via Berlusconi (che deve andar via dal Senato, per legge, dopo la condanna definitiva per una grossa frode fiscale), si dimettono tutti dal Parlamento a causa della loro indignazione democratica. L’avevo detto, una settimana folle.

Ma cominciamo dalle vendite di Telecom e Alitalia. Sono vendite che, a quanto pare, non rispecchiano interessi delle imprese, che stanno per essere date via sottocosto. Ma vanno bene per gli azionisti che stanno vendendo: facile acquisto (a suo tempo), niente rischio, buon profitto e liberi tutti. Tutto avviene all’interno di un suk protetto, dove le trattative riguardano gente intenta a scambiarsi liberamente informazioni non disponibili per gli operatori normali. Il suk include governi, politici, autorità che dovrebbero vigilare, interi partiti e investitori che, a guardar bene, sono quasi solo dei prestanome. Inevitabile dire che questa vendita o svendita non riguarda in alcun modo il Paese Italia. Mettetevi nei panni di questa gente: quale Paese?

Meglio non fingere un curioso neo – patriottismo esercitato sul vuoto. Infatti qui, nella patria espropriata e abbandonata, non c’è niente, tranne una bandiera al Quirinale, un inno nazionale che Radio Uno trasmette a mezzanotte ogni notte, e un governo guardiaporte che, fino ad ora, e prima della rivolta, è stato comprensivo e cortese nei limiti della sua funzione che è (lo dicono tutti) la stabilità. E proprio mentre è stabile, e Letta è in giro per il mondo a vantare quest’unico pregio, tutti i Pdl e Forza Italia che compongono, con il Pd, la maggioranza alle Camere , tutti i deputati, senatori, ministri, vice e sottosegretari, prendono la rincorsa e abbattono la vetrata. Avete ragione. Non l’abbattono, la fanno tremare con un grido possente di solidarietà estrema al loro condannato.

Che cosa non si fa pur di recare grave danno al Paese. Tutti si dichiarano fieri di stare col condannato. Se ne va di colpo la stabilità, il famoso valore aggiunto. Oltre all’equilibrio mentale italiano.

Possiamo , volendo, esercitarci a riflettere sul come siamo arrivati a questo punto. Ci sono due protagonisti: c’è la sinistra, triste, isolata, trascurata dai media, tormentata da una irreversibile solitudine, perché ha abbandonato e respinto il lavoro, che credeva nella sinistra, e abbracciato un presunto capitalismo monopolistico che non la vuole. E c’è un vasto aggregato populista del tutto estraneo alla storia e alla legge, che guida a curarsi solo dei fatti propri. Il progetto politico è di trarre tutto il profitto o vantaggio possibile e di non farsi trovare sul posto al momento del crollo.

Attenzione, l’aggregato populista di cui stiamo parlando non ha mai veramente mentito. Non ha mai parlato di Italia, ma di interessi privati. La promessa: non una buona Italia, che non interessa nessuno. Ma una buona vita per gli addetti ai lavori, con la ragionevole possibilità di allontanarsi per tempo, con adeguate risorse, dopo il saccheggio.

Bisognerà prendere atto di tre fatti unicamente italiani: gli imprenditori rubano le fabbriche, ovvero le abbandonano come farebbero in un remoto terzo mondo, impedendo agli operai di tornare a produrre. E mentre uomini e donne spossessati gridano “lavoro!” per le strade, l’Europa ti dice che i costi del lavoro sono troppo alti nel Paese che paga i salari più bassi in Europa. Comuni e Regioni, intanto, tagliano tutto, dagli ospedali alla cultura, ai rifiuti, senza piani o spiegazioni, rispondendo alla cieca a decisioni prese alla cieca dal governo, che a sua volta obbedisce a ordini estranei, come eliminare all’improvviso l’Imu. Il governo è stato, finora, un ente fisso, una presenza estranea circondata da una grande solitudine. Fino a quando esplode una clamorosa dimostrazione di identità con un condannato in via definitiva per fatti gravi, fingendo di scambiare la complicità per la democrazia e il bene del Paese con il favoreggiamento. Se almeno l’Europa prestasse più attenzione, forse chiederebbe altre cose all’Italia. O manderebbe una polizia internazionale.

Il Fatto Quotidiano, 29 Settembre 2013

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« Risposta #147 inserito:: Ottobre 28, 2013, 10:14:05 am »

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Il corpo (di Berlusconi) di cui nessuno vuole disfarsi

di Furio Colombo | 21 ottobre 2013


Questo sfortunato e disorientato Paese, che continua a essere forzato, piuttosto che guidato e persuaso a fare qualcosa, è ingombro di corpi. I corpi di vittime innocenti che non hanno trovato pietà e accoglienza. I corpi di colpevoli che, paradossalmente, si vendicano della civiltà con cui sono stati trattati da vivi e si vantano della barbarie con cui hanno tolto la vita ai loro morti. E il corpo di Berlusconi. Berlusconi è vivo e gli auguriamo lunga vita. Ma è politicamente finito e dunque anche nel suo caso bisogna rimuovere l’ingombro. Questa, infatti, è stata – una volta condannato – la strategia di Berlusconi: lasciarsi andare a corpo morto. Lo portino via i suoi, se ne hanno il coraggio. Di quel coraggio non si vede traccia. Ma poiché Berlusconi ha una gran folla di congiunti politici che continuano ad accorrere sul posto, sarebbe sgradevole – pensano i non berlusconiani (che non si sa mai quanto siano non berlusconiani) – intervenire mentre ci sono i parenti.

E così per l’ex presidente Berlusconi accade l’opposto che per l’ex capitano Priebke. Priebke giace ancora a Pratica di Mare perché è stato rifiutato come soldato dal suo Paese e come padre dai figli. Berlusconi di figli ne ha troppi che gli si stringono intorno impedendogli di andarsene decentemente da solo o – a qualcuno – di portarlo via. Sul suo Paese continua a pesare come un ingombro che è durato vent’anni e continua. Senza dubbio la trovata di lasciarsi cadere è stata geniale, e del resto si faceva, un tempo, nelle aule dei primi processi di mafia, fingendo un malore. Qui il malore è istituzionale.

Oscilla fra sette od otto diverse interpretazioni della legge Severino sull’espulsione dal Senato, ha a che fare con voti palesi o segreti, conta sulle astensioni di tutti i tipi, il presidente del Senato, il presidente della Commissione, i capigruppo alle Camere, i suoi ministri al governo, i suoi deputati falchi e i suoi deputati colombe. Ha a che fare anche con la faccia mite – feroce (secondo le occasioni, ma senza pericoli per gli astanti) – della sua ex opposizione con cui adesso governa insieme. Come potrebbero essere loro a trasportare il corpo di Berlusconi decaduto, senza arrecare un’offesa ai congiunti inerti intorno al caro estinto politico?

E così, lui rilancia ogni giorno la sfida: rimuovetemi, se ne avete il coraggio. In questo modo l’Italia è costretta a muoversi in cerchio intorno al corpo caduto, stando tutti attenti al tono garbato e alle buone maniere, e guardandosi bene dall’affrettare i tempi. Al contrario, l’unica soluzione decente (e astuta) sembra aspettare. Se ci comportiamo con la dovuta buona educazione, se mostriamo un comportamento umano ed estraneo all’antiberlusconismo viscerale, forse il corpo può restare qui e ogni danno sarà evitato. Lo sanno anche loro che arriveranno le mani lunghe dei giudici, con nuove sentenze e nuove imputazioni e nuovi processi.

Ma quello è il capitolo scandaloso e illegale dell’eliminazione per via giudiziaria dell’avversario politico che “loro” non riescono a eliminare per via politica. Non riescono chi, dato che i presunti avversari (che non sono stati mai invadenti e non hanno mai preteso di volere, sapere, denunciare) governano insieme, lo fanno con una certa grazia e mostrano una certa naturale propensione a stare vicini e insieme? Non preoccupatevi, c’è un tempo per vivere e celebrare l’alleanza e un tempo per mordere a sangue l’avversario (per esempio, se bisogna salvare Mediaset dal vistoso decadimento, mandi qualcuno in un programma Rai di successo a portare accuse personali al conduttore, e poi non solo non molli l’osso, perché la situazione Mediaset è grave e urge danneggiare il più possibile la ex concorrente, ma continui, raddoppiando la cattiveria come nella spietata scorreria di un giustiziere). L’aspetto curioso di questa strategia è un esperimento, signore e signori, mai tentato prima: mordere a sangue e – nello stesso tempo – governare insieme. E anche: governare insieme e sghignazzare ogni giorno su quel che fa (e certo non fa, non può fare) questo governo alleato delle “grandi intese”.

Approvare alle Camere e svergognare sui giornali (non solo i loro giornali) attraverso le fonti controllate (ancora moltissime). Ma il corpo dell’uomo che si è buttato per terra e lancia ogni giorno la sfida “rimuovetemi se ne avete il coraggio!” fa ben altri danni. Mettetevi nei panni di Letta, persino se non simpatizzate per la sua strana iniziativa del presiedere con grazia, buona educazione e buon inglese, un governo immobile. Letta deve trascorrere i suoi giorni di governo, in Italia e all’estero, con Berlusconi aggrappato al piede, un ingombro che fatalmente impedisce ogni passo. È stato gentile Obama a fingere di non vedere, ma Berlusconi è li, aggrappato e ci resta. Al momento possiamo calcolare il danno che ha fatto. Ma la sua bravura, riconosciamolo, è questa. Non sappiamo ancora il danno che farà. Pensate che sono in ansia, su questo, persino Alfano e Cicchitto.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/10/21/corpo-di-berlusconi-di-cui-nessuno-vuole-disfarsi/750894/
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« Risposta #148 inserito:: Dicembre 16, 2013, 04:57:38 pm »

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I Forconi e la paralisi democratica che li genera

di Furio Colombo | 15 dicembre 2013

Forconi, chi siete? In ogni momento potrei imbattermi in un vostro posto di blocco senza sapere se devo avere paura o capire, se siamo dalla stessa parte del mondo (difendersi o aggredire), se la vostra è rivendicazione o vendetta, se ci unisce il desiderio che questa brutta giornata finisca, o il desiderio di prolungarla dentro una notte di compensazione violenta del debito. So benissimo che la parola “Forconi” serve solo per la cronaca giornalistica, che un movimento con quel nome avventuroso è solo una piccola parte, che c’è una aggregazione “9 dicembre” che ha persino un portavoce di nome Zunino, che – sento alla radio – è molto professionale e molto espressivo (benché alcune cose che dice mi spaventino, non come cittadino che ha paura di andare in strada, ma come persona che ha visto il passato e ha già incontrato quelle frasi e ha già visto le paurose conseguenze).

C’è un’altra via d’uscita: tentare di buttare tutto sul ridicolo. Infatti un certo Galvani, che parla come un leader e dice di non esserlo, arriva sul posto in Jaguar. Può darsi che si tratti di una provocazione calcolata, come quelle dada o futuriste, che infatti si esibiscono un po’ prima delle vere rivoluzioni. Troppo facile, però, acciuffare pretesti e incongruenze, mentre intorno tutto è incongruo, illogico, presentato come logico e vero da tutti i potenti media, ma privo di riscontro nel reale. Non fa scandalo se qui o là ci sono i Casa Pound. Nessuno ha diramato inviti o messo barriere, e se ci sono i fascisti non è una ragione per dire subito che la loro presenza contamini tutto. Certo non è una bella compagnia, ma sento dire che voi non cercate nessuno, non vi fidate di nessuno e ripetete in un coro tempestoso, ma (finora) nonviolento “tutti a casa”. Le volte (non tante) che i media vi consentono di parlare, spiegate che fuori vuol dire fuori, via tutti dal palazzo. Le poche volte che vi domandano chi è il leader rispondete “Nessuno”, una buona idea, non so se, inconsapevolmente, tratta dallo scherzo giocato a Polifemo da Ulisse nel racconto di Omero. Quello scherzo come sapete, funziona.

Vi immaginano disperati e sprovveduti e invece forse siete pronti al momento giusto. Ma pronti a che cosa? Mi arrampico in su, sospettando un grave pericolo. Poi scivolo giù, al livello del come stanno le cose, e mi rendo conto che non poteva andare diversamente. Il Paese è bloccato, il governo è fermo, ogni atto politico è una finta, c’è una grande sosta inspiegata e inspiegabile, da quando è stato interrotto il voto per il nuovo presidente della Repubblica. Tutto si è immobilizzato di colpo, come in uno strano presepio, tranne la perdita di lavoro, di case, di paghe, di partita Iva e la scomparsa di centinaia di migliaia di piccoli lavori e di aiuto dei meno poveri ai più poveri adesso altrettanto poveri. Un angoscioso spostarsi verso il basso che continua anche adesso.

E allora, poiché è scomodo muoversi nel fango, che potrebbe essere – cominciate a temere – sabbia mobile, siete scesi in piazza da tante strade come dopo una inondazione. E noi ci domandiamo: chi sono? Vi siete accorti che sto parlando di “voi” e “noi”? È un discorso di classe, ma la classe non è sociale, alla vecchia maniera, è nella testa. Cioè alcuni (“noi”) continuiamo a vedere cose che non ci sono (organizzazioni, partiti, elezioni, leader) e ad aspettarne altre che forse non accadranno. Evidentemente abbiamo torto perché siamo redarguiti con durezza dal capo dello Stato perché parliamo – pensate – “dannatamente” di elezioni. Voi vedete il vuoto. E per esorcizzare la paura, ci entrate dentro.

Qui però accade qualcosa di strano e di inspiegabile. Marco Revelli, in un bell’articolo su il manifesto scrive “L’unico volantino che mi mostravano (in Piazza Castello, a Torino, ndr) diceva: siamo italiani, a caratteri cubitali”. Sì, però, subito dopo, ai vari microfoni uno con quel manifesto in mano diceva: “I soldi e le case non li date a noi italiani li date agli zingari”. Un altro: “Siamo qui perché siamo italiani e abbandonati. Tutti gli aiuti sono per gli immigrati, che ci portano via il lavoro”. Sono molte le voci che si distaccano dal vasto gridare della piazza, mentre gli agenti si tolgono i caschi, e sentite ripetere ancora e ancora la storia degli zingari. Siamo al livello un po’ animale di Borghezio il leghista, che di suo, molto prima dei forconi, incendiava i giacigli di immigrati che dormivano sotto i ponti a Torino. Come in una strana fiaba, c’è il rischio di precipitare a un livello più basso di cattiveria contro gli ancora più poveri.

Purtroppo non è tutto. Spiega Andrea Zunino, il portavoce (che poi nega, ma nega male) nell’intervista di Radio 3: “Siamo ridotti così perché l’Italia è schiava dei banchieri ebrei”. E fa il nome di Rothschild, che avrà pescato in rete, negli angoli in cui sopravvivono i resti di un profondo antisemitismo sempre in agguato, di un vetero-fascismo che credevamo morto e sepolto. Queste povere e squallide dichiarazioni vanno messe sul conto di chi ha fermato la democrazia e tagliato fuori i cittadini da ogni partecipazione politica. Ma quando il presidente delle Comunità ebraiche italiane Gattegna dice che “quelle parole appartengono a un periodo storico di morte, violenza, negazione di ogni diritto” lancia un grido di indignazione, condanna, dolore che devo condividere per illudermi di vivere in un mondo normale e civile.

Mi rendo conto che c’è un solo modo per sapere chi siete e dove andate: con tanta rabbia e un buio profondo, movimenti 9 dicembre e forconi: rompere l’incantesimo della grande fermata e rimettere in moto la democrazia. Se Renzi fosse davvero nuovo, dopo il rito di famiglia detto “segreteria” alle 7 del mattino, sarebbe in strada alle 8, rompendo e rifiutando subito la gelida separazione fra cittadini e palazzo che spinge alla disperazione. O a brutte, umilianti allucinazioni.

Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2013

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/15/i-forconi-e-la-paralisi-democratica-che-li-genera/814205/
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« Risposta #149 inserito:: Gennaio 04, 2014, 04:30:05 pm »

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Fiat-Chrysler, chi ha comprato chi

di Furio Colombo | 3 gennaio 2014

Un colpo da maestro che lascia stupite le Borse e ammirati i manager. Gli azionisti della Fiat di Torino (Italia) hanno l’intero pacchetto azionario della Chrysler di Detroit (Stati Uniti d’America), dopo avere acquistato dal Fondo pensioni dei sindacati americani ciò che mancava e averlo pagato, per due terzi, con i soldi della Chrysler e per il resto con liquido Fiat, senza avventure bancarie e senza aumenti di capitale. Da questo momento, la terza industria automobilistica americana è italiana. O è avvenuto il contrario? O è accaduto che la Fiat sia diventata la parte minore ed estera di una grande azienda americana?

Naturalmente il discorso non riguarda la proprietà, saldamente controllata dagli azionisti italiani (in passato un simbolo importante come una bandiera). E non riguarda neppure il trasloco. Mirafiori resta a Mirafiori e il Lingotto resta al Lingotto, con qualche dubbio (ma tipico del brutto momento) per le sedi minori. Certo, un flash di telefonino potrebbe dirci, in qualunque momento, che il quartier generale, per ragioni di agilità logistica, non è più a Torino. Il fatto è che, mentre l’immensa operazione (Torino o Detroit) restava in bilico, si potevano lasciare in sospeso gli investimenti, gli insediamenti, i milioni di ore di cassa integrazione, la non produzione e le non vendite italiane, mentre Detroit filava (e fila) a gonfie vele. Ma vi sarete accorti che, nel corso di una crisi tutta economica e tutta industriale, di Fiat, del suo peso, del suo futuro italiano, non si è mai discusso. Globalizzazione? Delocalizzazione? Mi sembra che tutto l’evento, benché avvenga adesso, sia legato a qualcosa che non era mai avvenuto in Italia e neppure in Europa.

Una grande azienda americana, salvata da un bravo manager libero da nostalgie e legami, ma anche da qualunque senso di appartenenza, ha comprato la Fiat che diventa, da adesso, la rappresentanza italiana del compratore. S’intende, fino a che i costi (le cose sono messe in modo che in Italia non si guadagna) lo consentiranno. Poi accadrà ciò che è accaduto per la Costituzione. L’economia formale mostra che la Fiat è la nuova padrona. Ma l’economia materiale farà capire presto che Fiat (la Fiat di Torino, di Agnelli e, come piaceva dire in questo Paese, la grande industria degli italiani) adesso è una filiale di una grande azienda americana, soggetta agli alti e bassi di un altro mercato in cui non contiamo. In altre parole: ottimo affare per alcuni azionisti, e per alcuni manager. L’Italia invece (qualcuno lo dica a Letta e a Napolitano) non ha più la Fiat.

il Fatto Quotidiano, 3 Gennaio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/03/fiat-chrysler-chi-ha-comprato-chi/830919/
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