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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 83781 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 04, 2007, 11:20:19 pm »

Delitto e castigo

Furio Colombo


Appena il tempo di improvvisare discorsi irresponsabili da parte di Fini e Berlusconi, e subito le squadre di picchiatori mascherati sono entrate in azione come se fossero mosse da un’incontenibile indignazione per un evento atroce appena accaduto. Invece quel delitto è solo un pretesto. Con maschere e bastoni (per ora solo bastoni) erano già pronti. Ed erano pronti anche i discorsi irresponsabili di due che hanno già governato per cinque anni e fino a poco fa, e sono stati quasi sempre impegnati a danneggiare le istituzioni, spiare gli avversari politici, senza lasciare una traccia di civiltà umana e politica.

Le loro migliori energie sono state investite nelle Commissioni d’inchiesta Mitrokhin e Telecom Serbia, dotate di fondi copiosi, di testimoni chiave incriminati per calunnia e di clamorosi delitti internazionali (il caso Litvinenko). Ricordate una Commissione del passato governo che abbia mai lavorato su legalità e integrazione degli immigrati?

Ma rivediamo i dolorosi eventi di questi giorni e cerchiamo di capire perché non riusciremo a uscirne con dignità, civiltà e realismo.

* * *

Al centro della scena c’è un episodio spaventoso. Soltanto il massacro di Erba è così orrendo, o quello del piccolo Samuele, o la strage di Novi Ligure, o lo scempio della ragazza di Garlasco. Oppure, tornando indietro nel tempo, la mattanza a cui è scampata per caso al Circeo Donatella Colasanti, e il più recente crimine provocato dal suo mancato assassino di allora, Angelo Izzo, di nuovo assassino, di nuovo in carcere.

E la spaventosa messa a morte di Pasolini, lo scioglimento nell’acido del figlio dodicenne di un pentito di mafia. Tutto ciò scatena una impressione altrettanto grande: ferocia, follia. E provoca lo stesso strenuo desiderio di giustizia e di punizione.

Questa volta però intorno alla scena c’è un Paese spaccato. Una parte politica chiede vendetta contro l’altra. Ciò che è accaduto in una buia, maledetta stradina di Tor di Quinto a Roma, una signora italiana massacrata da un vagabondo rumeno mentre rincasa - è un delitto politico.

Infatti non è lo spaventoso abbattersi della bestialità di un essere umano che fa scempio di un altro essere umano, come accade da millenni lungo il percorso di immenso pericolo che chiamiamo vita e che è frequentato da una folla di Abele e Caino, non identificati fino al un momento in cui scatta il delitto.

No. Benché ci sia sangue vero, dolore vero, vera disperazione, tanto più grande quanto più è evidente la squallida e solitaria abiezione dell’assassino di Tor di Quinto, inerte agente di morte caduto come un masso dell’autostrada sulla povera vittima, nonostante tutto ciò, viene furiosamente invocato il teatro dei simboli. Un macabro sventolio di bandiere che non c’entrano col dolore, l’orrore, il pericolo, si mette in marcia accanto al cadavere di una signora morta ammazzata alla periferia di una grande città del mondo.

È un’armata agguerrita che parte dalla disgrazia-delitto, dalla spaventosa e generale angoscia e umiliazione e disorientamento per la bestiale natura dell’evento. Ma il corteo non si muove per recarsi sul posto e alleviare il dolore, non si muove per unirsi ad altri cortei che tentano, con sforzo, speranza, preghiera, di diminuire sia il pericolo che il senso del pericolo. Non si riunisce per pensare una strategia (umana, dunque imperfetta, dunque quasi impossibile però necessaria) per limitare un po’ il cerchio della percezione del rischio, per allargare lo spazio in cui ci si sente un po’ più sicuri. No, queste bandiere garriscono e questa folla è in marcia, senza badare alla signora assassinata, al dolore della famiglia. Sono qui riunite al solo scopo di abbattere il governo Prodi.

* * *

È un obiettivo modestissimo, a confronto col cadavere martoriato. Non tanto perché si presta alla domanda-ritorsione: avete governato fino a un momento fa con una specifica e celebrata legge sulla immigrazione, avete governato per cinque anni, «36 riforme, 12 codici» (cito Berlusconi nel comizio di Napoli) e con una larghissima maggioranza. Dove eravate quando persone come il presunto assassino di Giovanna andava, veniva, tornava? Dove sono le vostre “misure” salvavita dei cittadini, di cui non si trova traccia?

Una simile domanda sarebbe altrettanto meschina quanto la marcia squallida e inutile delle bandiere della vendetta. (E non stiamo neppure parlando di quel nodo di odio che è la vendetta intesa come lavacro, dunque morte in cambio di morte; ma di vendetta politica: dare l’assalto a un governo perché un cadavere è una buona occasione). Una simile domanda è altrettanto meschina per due ragioni.

La prima è il rispetto che bisogna avere per le parole pronunciate accanto alla donna morente, con immensa nobiltà, dalla madre e dal marito della vittima: «Siamo gente capace di distinguere. Sappiamo bene che rumeni, rom, gli stessi italiani non sono tutti uguali. Quello che è stato fatto a Giovanna poteva essere compiuto anche da uno del nostro Paese. Siamo preoccupati che si faccia di tutta un’erba un fascio e che quanto accaduto possa essere strumentalizzato».

La seconda ragione è che l’emergenza, che è nei fatti ma soprattutto in quel fenomeno potentissimo che è la percezione dei fatti, può essere fronteggiata con efficacia e con decenza solo da un Paese unito, ovvero da tutti coloro che sono responsabili sia di guida politica che di guida d’opinione di un Paese, affinché si blocchi la tentazione non nobile di usare i cadaveri come strumento di lotta politica. Affinché ci si renda conto che il gioco delle parti (una buona, una cattiva) in casi e momenti come questo è sterile, paralizzante. Serve alle manifestazioni, serve come anticipo di una campagna elettorale. Ma non serve all’angosciosa richiesta (che coinvolge sia i cittadini sia gli immigrati) di essere - o almeno di sentirsi - un po’ meno in pericolo.

In questo momento i cittadini, con il loro disorientato stordimento, invece di diventare target di spot elettorali, dovrebbero diventare partecipi di un più vasto e civile progetto in cui non si scacciano gli immigrati come nemici, non si bastonano come prede di una caccia selvaggia, ma si affronta tutta la criminalità, italiana e importata, come un immenso problema comune. Tutto ciò richiede dimensioni che per ora non si intravvedono nella vita pubblica italiana. Tutto ciò richiede una generosa e civile capacità di dire: il dolore è più importante della bandiera. E i cittadini vengono prima dei punti da segnare per un partito.

* * *

Tutto ciò - è bene ricordarlo - avviene nel Paese disastrato Italia, sul fondale in un mondo in pericoloso sbandamento economico, mentre crepe allarmanti si intravvedono in strutture economiche internazionali che abbiamo sempre immaginato come pilastri. Le Borse del mondo continuano a cedere, il costo del petrolio continua a salire.

Tutto ciò avviene sul fondale di strani venti di guerra, raffiche di vento gelido che spazzano via attese e speranze di pace fra l’influenza americana e quella russa. Vengono pronunciate frasi come l’annuncio di impianto di “scudo spaziale” di Bush ai confini della Russia e l’affermazione di Putin che paragona questa minaccia alla crisi dei missili di Cuba. Entrambi descrivono un mondo fuori equilibrio, sbilanciato sul bordo di zone oscure, da cui possono venire soltanto rischi più grandi.

Tutto ciò avviene mentre nessuno dei focolai di guerra già accesi nel mondo si è spento (Iraq, Afghanistan), mentre il Medio Oriente resta accanto a tutti i suoi pericoli, intatti e moltiplicati. Si vede il martirio della Birmania, tormentata e depredata per decenni dai generali; riprende il terrore in Somalia, ormai terra senza governo disputata fra bande; continua il genocidio che dura da anni in Darfur, regione del Sudan, vittime, a centinaia di migliaia, donne e bambini.

Tutto ciò avviene all’interno di un’Europa senza luce e senza fiducia, con una moneta - l’euro - troppo forte e governi troppo deboli. Ha un volto pallido questa Europa, difficile da identificare, senza cause o progetti o ragioni di impegno, il volto di qualcuno desideroso di stare alla larga dai grandi problemi. Alla larga anche da un problema grande e urgente come l’immigrazione, e il modo in cui farlo fluire, sapendo che è una ricchezza, senza farsi inondare. L’Europa distribuisce ai suoi membri regole automatiche di comportamento che negano la Storia. Pensate a questa, tanto cara alla Casa delle Libertà, al solo scopo di spingere alla frantumazione fra destra e sinistra dentro la maggioranza di Prodi: «Espulsioni per chi ha commesso reati. E anche per chi non ha fonti certe di sostentamento». La seconda parte della disposizione è staccata dalla realtà per molte clamorose ragioni.

Una è che anche i giovani cittadini europei - certo i giovani italiani - trascorrono anni in cerca di “una fonte certa di sostentamento”. E, per esempio, ne risulterebbe privo il giovane immigrato individuato come “senza lavoro” mentre è impegnato, con mille sacrifici, nel tentativo di dar vita ad un’impresa. Ma come non pensare che, con una simile regola, sarebbero stati espulsi dagli Stati Uniti Garibaldi e Meucci (mentre tentavano di sopravvivere a Staten Island, periferia di New York, fabbricando candele) e le famiglie povere Cuomo e Scalia, molto prima che un Cuomo diventasse governatore di New York e uno Scalia diventasse giudice della Corte Suprema americana?

Ecco dove dovrebbe finire il gioco un po’ macabro del lucrare politicamente su un grave e impressionante delitto. Nella grande responsabilità comune. Eppure credo di poter predire ai nostri lettori che il giorno 5 novembre alle ore 17, noi, maggioranza (con l’angosciosa speranza di restare maggioranza) entreremo in aula al Senato per ascoltare, fin dal primo minuto e per ogni ora e giorno di seduta, il lungo urlo, colmo di insulti, che la Casa delle Libertà e i partiti associati chiamano opposizione. E niente altro.

Quanto alla sicurezza, avremo un diluvio di informazioni sulle colpe di Veltroni, di Amato, di Prodi. E non una parola su un realistico, civile «che fare». Il delitto è ciò che è accaduto a Tor di Quinto, un delitto tremendo. Il castigo è non avere una opposizione normale. Per questa triste ragione il delitto continua.

Pubblicato il: 04.11.07
Modificato il: 04.11.07 alle ore 8.25   
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« Risposta #31 inserito:: Novembre 08, 2007, 07:43:39 am »

Verità e realtà

Furio Colombo


Il «non c’è più» che proviamo e diciamo nel momento della scomparsa di Enzo Biagi nasce dal pauroso senso di vuoto per la perdita di un grande amico. Ma in questo caso il vuoto è più vasto e riguarda tutto il giornalismo, tutta la vita pubblica italiana. Non - non solo - nel senso di avere perduto il giornalista, bravo, severo, rapidissimo, esatto, implacabile, innovatore. Non solo perché se ne va il professionista che in tutta la sua lunga vita non ha perso un evento e non ha commesso un errore, di fatto o di giudizio. Nel suo percorso non ci sono, infatti, tortuosità o cancellature, non una. Il suo lavoro è sempre stato un paginone fitto di note, chiare subito. E confermate dopo, dal punto giusto in cui questo reporter si è sempre trovato (e poi ritrovato, ad ogni rivisitazione del suo, del nostro passato).

Ma questa perdita avviene adesso, nel peggior periodo del giornalismo e della vita pubblica italiana. È affettuoso e celebrativo dire, accanto al feretro di una persona amata e ammirata: «come lui ce ne sono più». La nostalgia dolorosa è sempre accanto alla perdita di chi è stato caro specialmente se ha avuto un ruolo e un peso nella nostra vita.

Enzo Biagi era una pianta robusta che si è estesa fino a questi giorni. Ma aveva le sue radici salde e profonde in un terreno diverso, in un tempo finito.

Quel tempo è stato segnato per sempre dalla la tragedia italiana, tra fascismo e antifascismo, e ha dato ragioni, motivazioni, necessità di scegliere. È stato il grande dono che molti hanno ricevuto dalla lotta vittoriosa al fascismo e che qualcuno (non tutti, non tanti, in una generazione) ha custodito come un tesoro per tutta la vita.

Ecco ciò che ci fa apparire Enzo Biagi così grande e importante alla fine del suo percorso. Perché la sua incorruttibile e non negoziabile intransigenza è divenuta cruciale in un’epoca triste e modesta della vita italiana in cui tutto è negoziabile, e una buona, conveniente negoziazione copre e cancella il vecchio argomento che una volta, un po’ enfaticamente, si chiamava dovere professionale.

Il lavoro giornalistico, a parte nuovi eroi del nostro tempo che invocano ancora nome e prestigio della professione, ma sono star della società dello spettacolo, con regole, priorità, colpi di scena e performance ambientate nello spettacolo, non nelle regole del giornalismo (che sono severe, strette, imperiose e non violabili a piacere), il lavoro giornalistico è reso nano dal sovrapporsi di un vasto potere economico. È un fatto recente. Infatti il potere economico ha sempre avuto influenza e interessi da far pesare. Ma aveva anche la necessità, di fronte all’opinione pubblica democratica, di salvare il decoro, mostrandosi accanto, non sopra il giornalismo, non come sfacciato regolatore delle notizie vere, false o da cancellare.

Ciò è accaduto in Italia - con una sorta di anticipazione profetica - quando un pesante potere economico dotato di tutti gli strumenti di persuasione negoziale, si è improvvisamente spostato dall’editoria (che stava comunque già trasformando in una struttura neo-feudale) alla vita politica e al governo. Sono mosse pesanti e drammatiche, che hanno urtato e tentato di abbattere, uno dopo l’altro, i due riferimenti più alti del giornalismo italiano, Indro Montanelli e Enzo Biagi. La storia esemplare vuole che uno dei due uomini liberi si sia trovato più vicino alla destra e l’altro alla sinistra. Ma, come ormai ci dicono in molti, queste sono definizioni d’altri tempi. Forse è vero, perché in tutti e due i casi è stata la forza intatta delle due persone e la loro inflessibile integrità a svelare il nuovo paesaggio, la nuova condizione di dominio delle informazioni.

Noi, qui all’Unità, Padellaro ed io e tutti i colleghi, possiamo vantarci di avere avuto amicizia, consiglio e sostegno ininterrotto da questi due uomini liberi, di averlo avuto molto più spesso che da parti politiche contigue. Ed è qui, adesso, che ci sentiamo orgogliosi di avere realizzato, nelle dimensioni limitate di un quotidiano di antica tradizione politica, morto e poi risorto, la lezione di Biagi: mai tacere un fatto vero, mai zittire una voce, per quanto irritante.

La vita di Enzo Biagi è stata una vita di buon lavoro, impegnata a dare volto alla realtà, a non negarla mai, quando è benevola, quando è spiacevole, quando è intollerabile. È questa la parola che va messa al centro del ricordo vero e non solo ideale di Biagi: rappresentazione dei fatti come dovere, e non importa se i responsabili di quei fatti se ne dispiacciono e vorrebbero negoziare le loro finte notizie. La parola chiave non è la mitica verità, troppo spesso scritta con la maiuscola. La parola chiave è la semplice realtà, ciò che è realmente accaduto e che non sarà mai censurato.

Il fatto che i venditori di finte notizie (potenti e anche minacciosi fino al punto di toglierti il tuo lavoro benché tu sia stimato, ammirato, famoso) abbiano avuto tanto successo, e siano riusciti ad aprire, accanto a ciò che chiamavano giornalismo, un vivace mercato del falso di immagine, del falso prestigio, di falsi eventi, dando a questo mercato del falso una impetuosa corsia di preferenza anche nella grande stampa (oltre al dominio quasi completo della televisione) tutto ciò ha reso più grande ed eccezionale la figura e il senso del lavoro di Enzo Biagi, che a narrare la realtà non ha mai rinunciato.

I lettori di questo giornale ricorderanno che si è tentato di tutto per zittire chi ha tenacemente seguito “il percorso Biagi”, fino al punto di accusare di contiguità con il terrorismo ogni narrazione scrupolosa di ciò che stava accadendo. Ma, ti dice e ti lascia detto Enzo Biagi, tu continui lo stesso, almeno finché resta un giornale libero per farlo. Il resto sono giochi, come accorrere ad affollare certe trasmissioni tv per farsi vedere, non importa con chi.

Enzo Biagi non partecipava ai giochi, che sono parte del mondo dello spettacolo, e anche questo è un insegnamento da tenere vivo e tenere caro. È il nostro immenso debito di giornalisti e di amici.

Pubblicato il: 07.11.07
Modificato il: 07.11.07 alle ore 10.31   
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« Risposta #32 inserito:: Novembre 11, 2007, 04:48:13 pm »

Ai tempi del Papa Re

Furio Colombo


Qualcuno ricorda lo scorso 20 settembre? Quel giorno - anniversario della conquista di Roma, che ha cessato di essere capitale dello Stato Pontificio per diventare capitale d´Italia - i Radicali di Marco Pannella hanno invitato i cittadini a incontrarsi a Porta Pia, il luogo in cui le truppe italiane sono entrate nella "Città Santa" nel 1860. A molti sarà sembrata una inutile e dispettosa celebrazione di un passato morto e sepolto, una manifestazione simile e opposta a quella di anziani nobili che quello stesso giorno assistono ogni anno a una messa di cordoglio.

Personalmente rimpiango di non essere andato a Porta Pia la mattina del 20 settembre. Ho saputo in questi giorni, nell´Aula del Senato, iniziando a votare la Legge finanziaria 2007-2008 della Repubblica italiana, che quell´evento non riguardava un´eco retorica del passato, non era una trovata retro. Riguardava i cittadini italiani di oggi, vicende politiche di cui siamo testimoni e che stiamo vivendo.

Infatti, la mattina del giorno 7 novembre, quando è circolato fra i banchi di destra e sinistra l´emendamento 2/800 a firma dei senatori Angius, Montalbano, Barbieri che cancellava la esenzione degli immobili della Chiesa cattolica dal pagamento della tassa Ici se quegli edifici sono usati non per fini religiosi o di carità ma per scopi commerciali (nel lucroso parco turistico di Roma e intorno a Roma) subito si è levato da ogni parte dell´aula un forte vento di irritazione, di ostilità e anche di sdegno.

Inutile ricordare che la fine di un simile privilegio (aprire un confortevole albergo a tariffe correnti e con una rete internazionale di contatti che assicura il flusso continuo di presenze) viene chiesto all´Italia dalla Commissione Europea per ragioni di violazione grave delle regole di concorrenza. Inutile ricordare che negli Stati Uniti provvede non il Parlamento, ma la denuncia del fisco all´autorità giudiziaria, a perseguire chi usa la religione (che è esente da tasse) a scopi commerciali (che non lo sono mai), ed è noto che seguono conseguenze gravi e condanne pesanti e tutt´altro che infrequenti, a chi ha usato la religione per coprire il commercio.

Sono cose che accadono in tutto il mondo civile, democratico, rispettoso, in ambiti diversi, della religione e della legge. Persino in Messico e nelle Filippine.

Ma non in Italia.

E infatti nel Senato italiano è scattata una reazione ferma e istantanea, come se fosse in gioco un grave e vistoso problema morale con cui le persone perbene non vogliono avere niente a che fare. Il problema grave c´era, ma rovesciato. Si voleva stabilire che, di fronte alla legge, e dunque alle tasse, tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi doveri.

Invece è stato deciso, bocciando subito e in modo quasi unanime l´emendamento del diavolo (far pagare le tasse all´albergatore ecclesiastico) oppure astenendosi, che è bene, se non altro per prudenza, stare alla larga dalla tentazione blasfema.

Conta, per capire e valutare l´evento, il contesto storico e politico di questi giorni.

Sono giorni difficili, una società frantumata che stenta a trovare riferimenti unificanti e comuni. Un´Italia dove ogni gruppo o corporazione di interessi si scontra con un altro o contro i cittadini (negando di volta in volta assistenza, servizi, persino risposte che orientino). E in questo momento, in questa Italia, il Papa decide di incitare i farmacisti (notare: solo i farmacisti italiani) alla obiezione di coscienza, ovvero all´obbligo religioso di rifiutare ai pazienti "le medicine immorali", benché regolarmente prescritte dai medici. Un´altissima autorità introduce un criterio estraneo a un Paese moderno, alla democrazia e contro la scienza. Il Papa comanda, dal suo altissimo pulpito, la disubbidienza civile ai responsabili di quel punto di raccordo e fiducia comune che sono le farmacie, ancora più rilevanti e delicate dei doveri d´ufficio di un pubblico ufficiale.

È in queste condizioni che si è tuonato nel Senato italiano in difesa devota e assoluta della Chiesa cattolica italiana come se la Chiesa fosse minacciata da un Emiliano Zapata in agguato sulle colline di Roma, invece di essere implacabile e infaticabile parte che attacca, conquista e impone.

Alla fine solo undici senatori, e chi scrive, hanno votato l´obbligo di far pagare le tasse alla Chiesa quando la Chiesa si occupa non di Religione ma di commercio. Dunque hanno votato come avrebbero votato deputati e senatori inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, americani.

Ha ragione il Cardinale Ruini: «la Chiesa vince». Per questo rimpiango di non avere almeno partecipato a quel simbolo mite di dignità italiana che è stato il ricordo radicale di Porta Pia.

* * *

Perché rivangare oggi queste storie "anticlericali"?

Una ragione è certo la svolta della Santa Sede che, per quel che riguarda l´Italia, ha deciso di scendere direttamente in politica. S´intende che il fenomeno della cosiddetta "ingerenza" vaticana nella vita politica italiana non dipende solo dall´irruenza vaticana (qualunque predicatore ha diritto di essere irruente) ma piuttosto dalla spontanea e volenterosa sottomissione italiana, una vera e propria corsa, dalle alte autorità ai cittadini prudenti, ad accettare tutto. Proprio per questo ricordare simbolicamente la data del 20 settembre per celebrare uno sdoppiamento dei poteri (potere temporale finalmente diviso dal potere spirituale) non è fuori posto e non è contro la Chiesa. Al contrario, tende a restituire alla Chiesa tutta la sua diversa autorità, presenza, competenza, fuori e lontano dal cortile della politica.

Una riflessione sul 20 settembre, se fatta con un po´ di serenità ma anche con un po´ di coraggio (si rischia facilmente la stizzosa aggressività dei finti credenti) ci porta forse a dire che il 20 settembre ha liberato non solo Roma ma anche la Chiesa dal regno e dal governo pontificio, che era una maschera di ferro saldata sulla religiosità dei credenti e persino sulla cultura religiosa di coloro che, per tante ragioni, hanno interesse vero e profondo a inoltrarsi nel misterioso territorio della fede.

Purtroppo un mare di finti credenti prendono continuamente la zelante iniziativa di portare il Papa in processione, una processione senza pace e senza sosta, dentro la politica, dentro le leggi, dentro la scienza, persino dentro le intricate e sgradevoli proteste fiscali. E ci sono anche pattuglie di veri credenti che pensano davvero, non saprei dire perché, che la processione anche un po´ fanatica dei finti credenti che spingono il Papa in ogni vicolo della vita pubblica e anche del comportamento personale e privato dei cittadini, giovi davvero alla fede.

Giova, certo, alle conversioni di convenienza, molto frequenti nella vita politica italiana, dove essere visti vicino al Papa (qualunque sia la vita realmente vissuta) viene considerata una eccellente raccomandazione. Avete notato quante persone in vista, nell´Italia di questi giorni, confidano improvvisamente ai giornali conversioni e vampate di fede come se fossero materia di pubblico interesse?

In tal modo la doppia scorta di finti credenti e di alcuni veri credenti priva il Papa e le sue parole e la sua predicazione, di vera attenzione, vero rispetto e vera discussione.

La cultura cattolica, già così viva in un Paese che va da Don Milani a Padre Turoldo, da Pasolini al Cardinale Martini, da Giorgio la Pira a Don Ciotti, da Padre Balducci a don Puglisi, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, da Dossetti ad Alex Zanotelli (e stiamo parlando solo dell´Italia contemporanea, solo di pochi esempi) diventa una cultura del monologo senza risposte, di un Papa solitario, issato dai media sui cittadini muti tramutati in folla. E il monologo continua attraverso tutti i telegiornali, ora dopo ora, rete dopo rete, fino al punto assolutamente strano e bizzarro, di aprire con il Papa telegiornali nazionali in ore di massimo ascolto, in giorni e occasioni in cui non vi è alcun annuncio o notizia o evento che giustifichi tale "apertura", dando così un colpo mortale a tutte le possibili gerarchie di valori della comunicazione, provocando una omologazione triste fra Tg che aprono con il Papa e chiudono con Valentino Rossi.

* * *

Tutto ciò avviene - sia concesso di dirlo anche a chi non è parte in causa - con un prezzo molto pesante per Chiesa e dottrina intesi in senso religioso, o anche solo culturale e non politico.

Il Papa, infatti, diventa omologo non solo di Bush e Blair e Putin, come mai era avvenuto ai tempi di un uso più parsimonioso della sua immagine e della sua parola. Il Papa sta diventando, omologo dei leader politici nazionali. Gli viene attribuita dunque forzosamente una statura alquanto modesta. Come fanno i veri credenti, pur fra la concitazione entusiasta dei finti credenti, a vedere senza allarme il costante abbassamento di livello, di tono, di rilevanza, lo spreco quotidiano che induce a includere immagine e frammento di parole del Papa - ormai rese uguali a quelle di ogni altra "personalità televisiva" - in tutti (tutti) i telegiornali?

Non solo si disperde la sacralità. Si disperde l´interesse, il senso, perché il messaggio, qualunque cosa valga, evapora fra le mille finestre aperte di una comunicazione ovviamente priva di rispetto, priva di senso del più alto e del più basso, del triviale e del sacro, di ciò che importa e di ciò che è irrilevante, della salvezza e del lancio dell´ultimo film.

Possibile che sia accettabile e anzi desiderata l´immagine del Papa come "personalità televisiva" che, fatalmente, prende posto nel gruppo di tutte le altre personalità televisive?

* * *

Altro grave problema - ed è strano che tocchi ai non credenti parlarne - è che non esiste alcuna legittima e autorevole sede per considerare e discutere le parole, i concetti, gli insegnamenti, le raccomandazioni, le prescrizioni del Papa. Infatti poiché il capo della Chiesa sceglie di parlare non alla Chiesa ma a tutti, attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa, è naturale immaginare (sarebbe meglio dire: sapere) che vi saranno voci, posizioni, pensieri, decisioni diverse, anche profondamente diverse.

Ma prima ancora che io faccia in tempo ad aggiungere che sono e saranno opinioni "rispettosamente diverse", viene la bordata violenta dei difensori del Papa. Ci dicono che la sua parola deve restare indiscutibile sempre anche per i non credenti, persino se parla di sport.

Cattivi difensori. Perché bloccano il capo della Chiesa cattolica in un omaggio forzato e obbligatorio che allarga l´area dei finti credenti (che si sentono incoraggiati a rinnovare i loro teatrali slanci di adesione pubblica), aumentando sorprendentemente il numero di persone (specialmente se note) che si accostano ai sacramenti (si dice così?) in caso di presenza di telecamere o di «Dagospia».

E privano la parte intelligente e pensosa del Paese Italia, e dell´ex regno del Papa Re, di riflessione, scambio di idee, confronto intelligente e civile su temi che, oltre che di fede, sono anche di vita e di morte quotidiana nei suoi aspetti più difficili e drammatici.

Proprio per questo il ricordo, senza provocazione e senza alcuna intenzione polemica, del passaggio di Roma da territorio del Papa a città italiana e capitale del nuovo Paese, è utile oggi più che mai, per evocare la diversità fra Chiesa spirituale e Chiesa-regno, fra il Papa teologo e il Papa regnante, fra la predicazione ai credenti e l´emanazione di una legge erga omnes. È un atto di vero composto rispetto verso la Chiesa, come votare no al commercio travestito da religione.

A chi scrive sembra evidente che, fuori dalla irrefrenabile euforia dei finti credenti, il rispetto più profondo della Chiesa è tra coloro che non credono che sia bene trattare il Papa come "personalità televisiva", la predicazione come legge, la divisione tra Stato e Chiesa come mai avvenuta.

Ci sarà un teologo non euforico, non impegnato a far contenti i finti credenti, per dare un tono rispettoso alla discussione (discussione, non concitata, preventiva condanna) che non c´è mai, o meglio che non c´è più? O avremo di nuovo, ma in tutto il Paese, il tempo fermo e chiuso della messa all´indice, della condanna preventiva, del pensiero laico giudicato "immorale", del governo del Papa Re?


Pubblicato il: 11.11.07
Modificato il: 11.11.07 alle ore 15.03   
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« Risposta #33 inserito:: Novembre 14, 2007, 09:04:21 am »

Quel tempo allegro della Pop Art

Furio Colombo


La Pop Art torna a Roma nella più contraddittoria e dunque nella più straordinaria ambientazione che si potesse desiderare per una rivisitazione di arte apparentemente non compatibile col passato, le scuderie del Quirinale. Reperti e immagini che al Moma, al Downtown Guggenheim, al Ps1 o nelle gallerie Gagosian o Marlborough di New York appaiono come finestre aperte sulla rapida e mobile realtà circostante, più ricca di premonizioni e di annunci che di memoria, nelle scuderie appaiono a prima vista come una delegazione di alieni giunti in un luogo della storia (per quanto accuratamente trasformato in neutro museale) di solito più adatta a una celebrazione che a una sorpresa.

Ma la Pop Art è ancora una sorpresa o è diventata essa stessa materiale da museo? La mostra delle scuderie, così come è stata organizzata, accetta due volti che di solito compaiono, e vengono discussi, in contesti e occasioni diverse, la Pop Art americana, la Pop Art italiana.

È vero che, tra le due Pop Art storiche si inseriscono (e si vedono al Quirinale) alcuni interventi estranei ai due percorsi. Diciamo che qui si dà vita a un terzo percorso in cui spicca, si nota, si ricorda un solo artista, David Hochney. Ma David Hochney lo guardiamo col senno di poi, lo vediamo dal punto di vista della sua solida e gradevole fama di oggi, e tendiamo a perdere il senso e anche il valore delle sue prime sperimentazioni.

Spiegherò subito perché trovo dubbia l’idea di aprire il percorso della mostra romana, con il vistoso allestimento luminoso di Martial Raysse. E trovo dubbia l’idea di disseminare il percorso della mostra con occasionali presenze di una Pop Art apolide. Sono opere la cui forza e il cui senso, non dipende da questa mostra e, nonostante le date di produzione, non si situano in un prima o in un dopo delle altre opere esposte.

Tutto ciò mi serve per dire qualcosa che ho già avuto occasione di dire e di scrivere. Fuori dai confini vasti, artisticamente e commercialmente imperiosi, della Pop Art americana, esiste un solo riscontro, una sorta di allegra e giovane risposta nel mondo, ed è la Pop Art italiana. Non esiste un dialogo europeo o occidentale con la Pop Art americana - esiste, in tempo reale sottomissione o antagonismo. Molti artisti, in Europa reagiscono come contro un attacco, e non riconoscono il tipo di cultura, anzi lo deridono - altri imitano, sperando di non uscire dal mercato.

Il caso italiano - che nella mostra delle scuderie si vede bene - è diverso ed è unico. La Pop Art italiana dialoga intensamente con quella americana, in un caso rarissimo di rapporto transnazionale tra gruppi di artisti. E caso unico di un doppio fenomeno: l’originalità evidente della Pop Art italiana. Ma anche un gesto di riconoscimento e di simpatia, una sorta di costante proposta e costante risposta forse mai prima accaduto nel mondo dell’arte, fra due laboratori indipendenti e lontani.

In questa storia insolita c’è la funzione unica della Biennale di Venezia e per i suoi riconoscimenti che, in quel tempo, erano di grandissimo prestigio. E anzi segnavano e confermavano (la rivelanza mondiale) di un artista. Quel riconoscimento è toccato nel 1959 a Mark Rotkho (a Rotkho è dedicata, in questi giorni, una straordinaria mostra a Roma, Palazzo delle Esposizioni), nel 1964 a Robert Rauschnberg. Tra le due date, le due opere, i due artisti, c’è la storia della rapida e vitale evoluzione dell’arte americana al centro del ’900 una sorta di vorticosa porta girevole al centro di un secolo in cui miracolosamente entra il meglio del prima ed esce il meglio del dopo.

La Biennale di Venezia consente di dare piena visibilità allo sguardo italiano verso l’America - forse è un’occasione rara e fortunata che l’Italia, durante il passaggio degli anni Cinquanta agli anni Sessanta, abbia potuto esibire tanto talento nella pittura e scultura giovane. Forse è un privilegio italiano che i vitalissimi giovani protagonisti degli anni Sessanta siano stati preceduti di poco da artisti del peso e delle diversità di Mimmo Rotella e di Piero D’Orazio (e subito prima i grandi italiani da Boccioni a De Chirico alla scuola romana). Certo è che i nuovi dell’arte italiana al tempo della Pop Art non hanno debiti di imitazione (nella mostra si vede bene) hanno una straordinaria vocazione alla convivenza senza sottomissione, alla esplosione creativa senza imitazione intrattengono un fitto dialogo alla pari con l’arte americana, mentre si verifica il più intenso e proficuo scambio di viaggi, trasferimenti, presenze, come Schifano e Tano Festa a New York, Cy Twombly a Roma, e gallerie d’arte si scambiano opere e culture fra i due paesi.

La Pop Art americana affronta il suo colorato ed estremo consumismo. La Pop Art italiana fronteggia la storia, e soprattutto lavora a rappresentare l’invasione dell’arte dei secoli nel presente italiano - inventa modi eleganti e arguti di citare il passato per non essere colonizzati dal passato. Ma si tratta di artisti grandi abbastanza da rispondere alla minaccia di occupazione con una grazia creativa che ha lasciato la sua traccia, da quegli anni e fino ai nostri giorni. Inevitabile collocare qui i nomi di Mario Schifano, Tano Festa, Giosetta Floroni, Mario Ceroli (a cui è dedicata una bellissima e ampia retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni, accanto a Rotkho). Ma anche Fabio Mauri, in una fase sorprendente e festosa della sua lunga vita di artista tutta segnata da momenti diversi e altrettanto creativi - in cui Mauri sembra anticipare la serie delle figure danzanti di Larry Rivers, così come Giosetta Fioroni anticipa, nel suo «Carpaccio» la fiera delle figure - citazione con cui Jean Claude Basquiat ha illustrato le pareti di una discoteca di New York, dieci anni dopo.

Muoversi attraverso la Mostra Pop Art è come attraversare un festoso paesaggio immagine di un tempo di pericolo e promesse, di rischi e scommesse, di delitti e miracoli vissuti da giovani. Ma la diversità del tempo e del luogo impongono una domanda: che cosa sono adesso queste citazioni di vita, di oggetti, di gesti di moda, di corpi (le labbra, le mani) di volti celebri? Se erano profezie, la profezia si è realizzata? Erano documento? Di che cosa? L’esperimento è ancora valido o è scaduto? Questa è una mostra o un archivio?

Forse una prima risposta può essere questa: la Pop Art è un ponte di barche che collega due parti di terraferma incomunicabili e diverse. Di là c’è il tempo della vecchia economia, del lavoro di massa, delle fasi relativamente ludiche della storia (la durata nel tempo produce un senso di stabilità e un’idea di società verticale relativamente ordinata). Di qua c’è una landa avventurosa, dove l’avventura è occasione e pericolo, costruzione e distruzione, le promesse, audaci e incredibili, attraversano il cielo, portando più annunci che fatti, e ben poca permanenza e stabilità, dove la durata, di oggetti, idee, progetti e gerarchie è sempre brevissima. Sappiamo poco di che cos’è l’arte (o l’architettura o la città o il manufatto desiderabile) in questo mondo afghanizzato in cui sono elusive sia la pace che la guerra, e l’una si scioglie continuamente nell’altra, lasciando sempre un eccesso di scorie, detriti, macerie. E allora accade che la Pop Art proprio la Pop Art così volubile, giocosa e decisa a non essere presa sul serio, ci appaia un punto fermo, un’ultima testimonianza, l’argine di un periodo sicuro subito prima di avventurarsi in un vasto territorio di sabbie mobili.

Le barche sono ancora il ponte e parlano ancora di una festa finita. Ma neppure il miracolo dell’arte allegra può risalire il tempo all’indietro - il tempo è questo. E non ci resta che osservare, ricordare, invidiare. Invidiare noi stessi. Credo che questo atteggiamento si chiami nostalgia.

Pubblicato il: 13.11.07
Modificato il: 13.11.07 alle ore 9.20   
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 14, 2007, 11:57:31 pm »

Gli ebrei, il fascista e il Cavaliere

Furio Colombo


Bisogna dare a Francesco Storace il merito di avere strappato il sipario su un’Italia ambigua e trasversale. In questa Italia si oppongono alle coppie di fatto moltissimi partner di celebri coppie di fatto, si corre in piazza a celebrare i valori della famiglia subito dopo avere spaccato la propria famiglia, si celebrano con voce incrinata dall’emozione «le nostre gloriose Forze armate» e intanto si abbandonano al loro destino i soldati contagiati dall’uranio impoverito. È il Paese in cui «veri liberisti» si precipitano a dare manforte alla corporazione dei tassisti e a quella dei farmacisti che non tollerano mercato e concorrenza.

In questo Paese abituato a non chiamare mai le cose col nome giusto, Storace si dichiara fascista e se ne vanta. Non solo, ma arruola una portavoce che promette di continuare a proclamarlo ogni giorno «con la bava alla bocca».

Si tratta della stessa signora abituata a mostrare il dito per far capire il suo gentile diverso parere. Dunque una bella coppia. Ai due va un apprezzamento sincero, dopo l’estenuante periodo in cui il vero genuino sentimento veniva coperto da gravi e preoccupati giudizi sulla Resistenza, «che ha spaccato l’Italia». Dalla esortazione a cercare insieme «ciò che - nel triste passato italiano - ci unisce invece che ciò che ci divide»; dalla predicazione secondo cui tutti i combattenti sono uguali (anzi devono avere la stessa pensione) compresi quei combattenti che, nel tempo libero, si dedicavano a consegnare a truppe d’occupazione straniere i concittadini ebrei; dalla nuova definizione di «guerra civile» invece di lotta di liberazione. Finalmente un fascista torna a essere fascista, si presenta e si raccomanda come tale. Fine delle ipocrisie.

La sincerità dei due - che un po’ ricorderebbe Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, celebre coppia mediatico-combattentistica di Salò, se solo Storace fosse all’altezza - è immediatamente provata dalla rivelazione della data di nascita di questa nuova destra: è il giorno in cui Gianfranco Fini, sulla soglia del Museo della Shoah, a Gerusalemme, ha dovuto scegliere tra fascismo e Israele. E ha scelto Israele. Ha definito il fascismo «male assoluto» a causa delle leggi razziali e della loro meticolosa esecuzione in Italia. E ha accettato di rendersi conto in pubblico dell’orrore di quelle leggi.

Storace e i camerati ritrovati hanno deciso che il troppo è troppo. E hanno riportato ciò che resta del fascismo italiano nel posto che gli compete, fin dai tempi in cui i giovani fascisti si facevano vedere, nelle università italiane, con la kefiah, non tanto per dichiarare amore per gli Arabi quanto per dire il loro disprezzo e la loro coerente ostilità verso un piccolo Stato creato dalle Nazioni Unite e divenuto patria degli Ebrei.

Hanno anche restituito alla storia un pezzo mancante e finora nascosto, salvo che dai negazionisti. Questa destra non rinnega il passato, non rinnega le leggi razziali, non rinnega la sua brutta storia. Dunque è fatalmente nemica di Israele.

In quel loro giorno di festa non erano soli Storace, la sua portavoce con la bava alla bocca e i camerati ritrovati. Con loro - accanto al catafalco di ciò che resta del fascismo e anzi del peggior fascismo - c’era, esultante, celebrativo, fastoso, Silvio Berlusconi.

Berlusconi è un uomo estroverso, espressivamente irruente e ha celebrato la festa non da visitatore ma da protagonista, dato anche il rilievo di un simile personaggio nella vita italiana, come miliardario, come proprietario di metà dele televisioni e di buona parte dell’editoria italiana (con forte influenza sulla parte dei media che in questo momento non ha in mano), come capo effettivo di tutta l’opposizione italiana. Con l’eccezione di quei partner o membri della Casa delle liberà, che diranno di non riconoscersi nella festa di ritorno al fascismo (finora nessuno l’ha fatto, dunque, si direbbe, sono tutti d’accordo), ciò che è accaduto con il patto Storace-Berlusconi è la dichiarazione esplicita di fascismo accettato e accasato nel cuore del centrodestra italiano.

Berlusconi è uno che fa offerte importanti sottobanco, e dunque le fa anche più volentieri alla luce del sole. O meglio, del sole che sorge. Ha offerto casa, alleanza e ministeri in un suo prossimo governo, che lui dice imminente. In questo modo - anche se lo negherà - Berlusconi ha approvato tutto, compresa la ragione per cui il movimento è nato: contro Israele. E contro ogni invito a rinnegare il passato, leggi razziali e camerati tedeschi (nazisti) inclusi.

Ovvio che l’indignazione di molti italiani, e di molti italiani ebrei, non riguarda Storace, che si presenta in linea con il suo passato. Riguarda Berlusconi. Negherà. E si affiderà alla sua ricca e potente macchina di propaganda. Ma non potrà cancellare questo triste momento della verità.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 14.11.07
Modificato il: 14.11.07 alle ore 9.08   
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 17, 2007, 12:50:57 am »

Moratoria

Furio Colombo


Intorno al concetto che questa parola esprime, si è formata, nell’opinione di molti italiani e di molti giornali, una sorta di benevola e paziente compiacenza. La parola è moratoria, i proponenti di questa parola sono i Radicali, nel senso del partito di Pannella-Bonino. Il senso della parola e della proposta è sospendere l’esecuzione della pena di morte in ogni Paese del mondo, dunque anche nei Paesi che prevedono la pena di morte per legge, ma senza cambiare la legge.

Si proclama solo la sospensione, e questa proclamazione viene dalle Nazioni Unite con un atto dell’Assemblea generale. In questo modo ciascun governo è vincolato, ma non deve né decidere né abrogare.

Rivediamo la sequenza. Prima viene la caparbia insistenza dei Radicali: fermare le esecuzioni capitali nel mondo. Dobbiamo accettare di riconoscere che un impegno così drammatico, una bandiera così estrema non hanno mai provocato vibrazioni emozionate e risposte adeguatamente impegnate, considerato il rischio e la difficoltà quasi utopistici dell’impresa. C’è stata piuttosto tolleranza, nel senso amichevole e comprensivo della parola, ma più con l’inclinazione a vedere la moratoria come l’ultima trovata dei Radicali, che come uno straordinario e comune impegno internazionale.

Non che non si sia lavorato bene per far arrivare la proposta “moratoria” a destinazione. Ma più per lealtà verso amici del governo e per dovere verso un impegno preso, verso una missione che dà senso e volto al Paese.

Ora, se è bene ciò che finisce bene, e se è giunto il momento di effusive e soddisfatte congratulazioni reciproche, magari con il rischio di dimenticare come e dove tutto comincia (la fastidiosa, ininterrotta insistenza dei Radicali) e con la naturale tendenza a fotografare l’inquadratura finale (successo dell’Italia e della sua arrischiata proposta) con i protagonisti del momento in primo piano, allora è anche il momento di una riflessione, come dire, educativa, su questa vicenda.

Non si tratta, infatti, di un azzardo andato a buon fine, di una scommessa audace vinta per buona fortuna, per caso o anche per occasionale bravura. Si tratta di un modo di affrontare alcuni grandi e gravi problemi senza rinunciare, per quanto grandi siano le difficoltà. Ma anche con estremo realismo.

Se infatti questa vicenda è esemplare, lo è per l’incrocio di tenacia quasi ossessiva - se vogliamo un eccesso di slancio ideale - e di realismo astuto e altrettanto tenace.

Per capire, può essere utile ricordare la questione "Guerra in Iraq" e l’unico vero tentativo di evitarla. Vediamo perché.

Ci si stava avvicinando a un conflitto, che sarebbe stato disastroso. Infuriavano due polemiche: una, enorme, sulla pace e la guerra, dunque il pacifismo contro la proposta chirurgica dell’intervento militare. L’altra, più politica, sulle ragioni di quella guerra: se esistevano o no le armi di distruzione di massa che avrebbero giustificato la guerra come azione di emergenza di una polizia mondiale.

È maturata in quei giorni, proposta da Marco Pannella ai parlamentari italiani, ai governi del mondo e alle Nazioni Unite, un progetto giudicato subito da molti velleitario e impossibile: rimuovere il dittatore Saddam Hussein senza investire di guerra e di distruzione l’interno paese Iraq. Solo dopo abbiamo saputo, in modo certo e senza equivoci, con prove e testimonianze non confutate, che l’assurdo progetto era sul punto di compiersi.

Una parte della diplomazia araba è stata fermata dal precipitare dell’azione militare un momento prima di realizzare l’evento che avrebbe evitato uno dei più disastrosi conflitti della storia contemporanea: la rimozione definitiva e senza sangue del dittatore iracheno, senza passaporti di innocenza e senza rischi personali per la sua vita. Diplomazia, nel suo senso più alto, invece di guerra. Non attraverso invocazioni e gesti esemplari, però privi di conseguenze, come le famose "campane di Basilea" narrate da Louis Aragon, che suonavano e celebravano la pace mentre in tutta Europa scoppiava la prima Guerra Mondiale. Piuttosto studiando, e trovando, con tenacia, intelligenza e astuzia, un altro percorso. Un progetto che stava per riuscire.

Per la moratoria sulla pena di morte nel mondo, Pannella e Bonino e tutto il gruppo Radicale italiano e transazionale, hanno seguito la stessa strada. Prima viene la proposta non rinunciabile, no alla pena di morte. Poi viene il modo di confrontarsi con le potenze (la potenza di molti stati tra cui la Cina, gli Stati Uniti) che praticano la pena di morte. Quando si è portatori di testimonianza, di convinzione, ma non di forza, il passaggio è identificato nell’ambito naturale delle Nazioni Unite, per carattere e missione non conflittuale.

Il metodo è nel proporre non il cambiamento della legge degli altri ma la richiesta (si potrebbe dire: la preghiera) di sospendere l’applicazione della legge. Ovvero la sospensione delle esecuzioni, la salvaguardia - sia pure temporanea - della vita umana. Questa volta la ostinata proposizione e riproposizione del progetto contro la pena di morte di Pannella si è saldata con l’impegno del governo italiano (in particolare Prodi e D’Alema, ciò che per l’Iraq non era accaduto ai tempi di Berlusconi e Fini) e poi con l’Unione Europea, e poi di un numero sempre più grande di Paesi membri e titolari di voto della Nazioni Unite, sta raggiungendo il suo risultato finale e in questo senso esemplare: non la nobile intenzione destinata a restare nell’aria, ma il progetto concreto, costruito ostinatamente pezzo per pezzo, passaggio per passaggio, che entra ora nella sua fase finale e diventa riferimento civile del mondo. Quando si renderà, come è giusto onore all’Italia, per avere fatto strada all’opinione del mondo contro la pena di morte, sarà indispensabile ricordare come tutto questo è nato, come si è svolto e come è arrivato a prevale su difficoltà immense. Si dica e si ricordi che ha avuto inizio, al di fuori delle grandi potenze lungo il percorso della persuasione che si espande e che contribuisce ad alzare il livello di civiltà di tutti. E’ ciò che è accaduto.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 16.11.07
Modificato il: 16.11.07 alle ore 9.51   
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« Risposta #36 inserito:: Novembre 18, 2007, 06:30:01 pm »

Classe e azione di classe

Furio Colombo


Non sempre la classe è un principio marxista. Per esempio nel diritto americano la parola classe serve a identificare un gruppo - a volte vastissimo - di cittadini che sono stati colpiti da una stessa ingiustizia o danno o negazione di diritto, da parte di un’unica parte ritenuta colpevole. La legge e la pratica dei tribunali americani ammettono tutti quei cittadini a partecipare alla causa non nel senso che ciascuno dovrà presentarsi in tribunale con un suo avvocato, ma perché, una volta dichiarata colpevole e responsabile la parte che ha causato il danno o violato il diritto, tutti coloro che quel danno o quella violazione hanno subito, beneficeranno dell’esito favorevole del processo.

Ora, con un emendamento molto discusso, molto denigrato, però approvato l’altro ieri dal Senato, la «class action» o azione di classe, entra anche nel diritto italiano. Per capire la portata civile e democratica di un simile cambiamento della legge, potrà essere utile leggere - o rileggere - il bel libro-documento di Felice Casson «La fabbrica dei veleni. Storie e segreti di Porto Marghera» (Sperling & Kupfer).

Casson è stato l’implacabile e appassionato pubblico ministero di quel processo: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi di discariche tossiche. Tutto ciò a opera del Petrolchimico di Porto Marghera, difeso tenacemente dal patto di silenzio sottoscritto dalle maggiori industrie chimiche mondiali per tenere segreta la pericolosità estrema del cloruro di vinile. Tutto in questo libro esemplare dimostra che, a parte pochi eroi, dal medico della fabbrica al pubblico accusatore, la tragedia delle vittime è stata una storia di isolamento e di solitudine all’interno di un territorio avvelenato ben presidiato da chi non voleva responsabilità o grane. A quel tempo, in Italia, la «class action» non c’era. Ora c’è. Da un giorno.

Il Presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, senza sorridere, ha definito ieri la “class action” approvata al Senato tra le urla, l’ira, (in un caso persino il pianto) dei senatori di Forza Italia, una «legge all’amatriciana».

Immagino che la maggior parte dei cittadini sia stata colta di sorpresa dal viso cupo dell’imprenditore capo. E si sia posta la domanda: che cosa è la “class action” e perché dovrebbe spingere alla indignazione il rappresentante delle imprese italiane?

Chi ha deciso di battersi per l’introduzione della “class action” nei codici italiani (il senatore Manzione dell’Unione) lo ha fatto in un momento favorevole dal punto di vista di ciò che un po’ tutti sappiamo. Infatti possiamo arrivare senza linguaggio giuridico e senza molte complicazioni a capire di che cosa si tratta. Basta ricordare tre film popolari per la maggioranza del pubblico. Li elenco in ordine di date: «Erin Brockovich», protagonista Julia Roberts, storia di una lunga e vittoriosa battaglia, prima di un individuo e poi di una “classe” contro una potente azienda che inquina intere comunità con il deposito clandestino delle sue scorie; «Sicko» di e con Michael Moore, che racconta la spaventosa ingiustizia e prevaricazione delle compagnie di assicurazione contro i malati disperati e soli che credevano di essere protetti, e spiega che solo con una “azione di classe” si può sperare di vincere una causa contro quei potentati; e, in questi giorni, il bel film «Michael Clayton» in cui George Clooney, uno degli attori-registi più impegnati nel suo Paese, racconta di un avvocato ricco e maneggione che si stanca di vincere sempre le sue remuneratissime cause difendendo grandi aziende contro isolati cittadini, spinge quegli isolati cittadini a presentarsi insieme al processo (decine, centinaia, migliaia di cittadini danneggiati che da soli non ce la farebbero mai), dimostra che la “azione di classe” è la sola speranza di vincere.

È impossibile che Montezemolo non vada al cinema da dieci anni, e improbabile che consideri tre grandi storie processuali americane (tutte tratte da fatti veri) “all’amatriciana” cioè improvvisati, casalinghi e dunque - di fronte alla maestà delle leggi e alle esigenze del rigore giuridico- spregevoli.

C’è un dato di meraviglia in più, in questo retrovia della vita giuridica e di quella parlamentare italiana. Il dato è che Montezemolo, che è avvocato in Italia, ha anche completato i suoi studi giuridici negli Stati Uniti. E dunque, nonostante l’insolito tono da capo-popolo (il popolo di molti suoi imprenditori, ma non dei migliori) che ha scelto di assumere, sa benissimo che cosa è, nella pratica giurisprudenziale americana , la “azione di classe”. Vuol dire che tutti coloro che possono dimostrare di essere parte lesa o danneggiata dalla azione di uno, tipicamente un’azienda responsabile di diffusione di massa di prodotti o iniziative pericolose, possono diventare istantaneamente, tutti insieme, controparte della causa. È uno dei momenti più alti e nitidi della democrazia americana. Là dove qualcuno, da solo, non conta niente e non può avere giustizia, “l’azione di classe” porta equilibrio di forze, dunque avvicina alla giustizia.

Tutto ciò ci aiuta a capire che quando si dice, sia pure nell’ermetico linguaggio giuridico “azione di classe” la parola chiave non è nella parola Classe, che può provocare prontamente, e magari anche inconsciamente, rigurgiti ideologici. La parola è Democrazia. È la constatazione realistica che, in un dato confronto giudiziario, la dimensione, la potenza, la capacità di combattere di una corporation è immensamente più grande di quella di un individuo che - da solo - intenda far valere i suoi diritti negati o violati contro il gigante. La Democrazia è realista e sa che c’è differenza tra ricchi e poveri, tra grandi e piccoli e conosce pregi e limiti della sua azione fondata sui diritti alla pari. Ma poiché il pregio più grande della Democrazia è puntare sull’individuo e dotare ciascun individuo, anche il meno potente, della pienezza dei suoi diritti, ha permesso che si formasse nel diritto, nella giurisprudenza, qualcosa che si chiama “azione di classe” e che vuol dire: molte persone il cui stesso diritto è stato violato sono autorizzate ad agire insieme senza costringere ciascuno a costituirsi separatamente parte del processo con spese e avvocati.

Un altro esempio. Ricordate quando Alberto Asor Rosa ha cercato di opporsi alla devastazione della sua valle in Toscana a causa della costruzione di centinaia di case a schiera insediate, con autorizzazione inclusa, da una grande impresa molto sensibile al bilancio e poco alla vallata? Nonostante il suo nome illustre, Asor Rosa era solo e senza la poderosa batteria di avvocati del costruttore. Una “azione di classe” avrebbe forse fermato lo scempio.

Torniamo per un momento all’origine della “class action” italiana che è diventata - nella legge finanziaria approvata dal Senato due giorni fa - “l’emendamento Manzione”. Origina dalle iniziative del ministro Bersani che dice: «il consumatore (ma qui sarebbe meglio dire “il cittadino” n.d.r.) non può essere lasciato solo davanti a un torto».

Torniamo all’obiezione detta e ripetuta: «che cosa c’entra l’azione di classe con la legge Finanziaria?». Qui la risposta viene ancora una volta dal buon senso americano. Proprio in questi giorni il Presidente Bush sta cercando di arginare le molte materie che deputati e senatori sono impegnati a inserire nella loro legge di bilancio, a volte perché quei provvedimenti sono necessari al Paese e non possono aspettare un altro veicolo legislativo, a volte perché la polarizzazione politica dei voti, che è tipica della legge di bilancio, rende più facile evitare lo sfarinamento fra troppi “distinguo” del consenso. A volte, anche, per rispondere all’impazienza degli elettori. E per la convenienza di tagliare i tempi. I nostri colleghi del Senato e della Camera americana le chiamano “leggi omnibus”, treni veloci con alcuni vagoni aggiunti, espediente per far viaggiare in fretta materiali legislativi di varia natura.

Bush vede il problema del passaggio in massa di varie leggi impaccate in una. Si oppone accanitamente non per amor di Patria o di buona pratica legislativa, ma perché in tal modo troppe cose sfuggono al suo controllo, ai suoi posti di blocco politici. Il congresso non è amico del Presidente e questo spiega lo stato di tensione.

In Italia, Repubblica parlamentare, la tensione è interna al Senato che ha un minimo margine di consenso. Non solo l’opposizione perde se la legge viene approvata nonostante le grottesche denigrazioni.

L’opposizione perde se la Finanziaria comprende norme moderne e necessarie che innovano, perché in tal modo si arricchisce il pacchetto di cose ben fatte del governo e si indebolisce la catastrofica profezia dell’opposizione, battuta due volte: non è crollato niente. E si è costruito qualcosa.

Ma perché allora l’invettiva così curiosamente impropria di un presidente di Confindustria avvocato e, per giunta, avvocato internazionale? Perché usare con linguaggio generico, approssimativo, di colore (più adatto a un personaggio tipo Billè, già presidente dei commercianti, se lo ricordate) per un emendamento ispirato a un principio noto e adottato nel mondo? Una risposta la offre un illustre giurista, Carlo Federico Grosso: «le imprese non ci stanno perché oggi sono favorite» ovvero privilegiate. Infatti, spiega Grosso, «la situazione attuale italiana è tutta sbilanciata a favore delle imprese. Con la “class action”, Parmalat sarebbe stata un’altra cosa e lo sarebbero stati il caso Cirio e il caso Banca 121. La difesa del cittadino-consumatore è un interesse chiave da riconoscere fino in fondo» (la Repubblica, 17 novembre). Ma - come dimostrano i casi americani narrati dai film «Erin Brokovich», «Sicko», «Michael Clayton» (e anche, perché dimenticarlo, il bellissimo «Insider», in cui i cittadini sono ingannati non solo dal produttore di sigarette ma anche dai media più potenti, che censurano notizie varie e gravi in cambio di pubblicità) spesso non si tratta solo di salvare i diritti ma di salvare la vita. Ma su questo punto è interessante sfogliare il Sole 24 ore , il giorno dopo la nascita della “class action” in Italia.

Il quotidiano della Confindustria apre in prima pagina (abbastanza in piccolo) con un parere negativo illustre (ma non più illustre del parere a favore espresso con entusiasmo da Carlo Federico Grosso). E poi dedica all’argomento tutta pagina 7, con tanti interventi critici ma circostanziati, limitati a dettagli, e solo un colonnino di 30 righe per “l’amatriciana” di Montezemolo.

Interessante anche il fatto che il confronto fra l’ “emendamento Manzione” e altre leggi di Paesi industriali democratici, nella pagina de il Sole 24 ore, non include gli Stati Uniti, dove questo importante principio democratico è nato, forse per evitare di far notare che la soluzione italiana - pur incompleta - è vicina alla giurisprudenza americana più di ogni legislazione europea, inclusa la legge inglese.

Incompleta, la “class action” italiana, lo è tuttavia quanto alla definizione chiara, definitiva, inequivoca, di chi ha diritto di partecipare, in modo da rendere ben visibile il passaggio da “tutela del consumatore” (riunito in associazioni che richiedono precisa e riconosciuta identificazione) a “tutela del cittadino”. E qui che si rivela, in tutta la sua portata umana e civile, la diversità di questa legislatura, di questo governo e di questo modo di rappresentare i cittadini. Una buona strada è iniziata e si poteva salutare in modo più cordiale.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 18.11.07
Modificato il: 18.11.07 alle ore 15.21   
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 25, 2007, 11:59:51 pm »

Rai, quale scandalo

Furio Colombo


«Qui urge una legge che impedisca questo sconcio. L’indignazione? Svanita. Le reazioni? Dagli all’intercettato. Il garantismo? Momentaneamente sospeso». Sto citando il corsivo (tradizionalmente autorevole, non firmato) apparso a pag. 2 del Corriere della Sera, il 22 novembre.

«Di questo passo rischiamo di diventare uno stato di polizia. Sarebbe bene che le intercettazioni telefoniche restassero dove devono stare». Con questo editoriale Roberto Martinelli aggiunge il suo impegno all’impegno anti-intercettazioni del Corriere della Sera (Il Messaggero, 23 novembre). Si aggiungono subito innumerevoli, vigorose, identiche dichiarazioni.

Tutto ciò compone una sola pesante risposta a un articolo del quotidiano la Repubblica (21 novembre). Documentava un efficace accordo segreto fra Rai e Mediaset per il controllo, il dosaggio, i tempi, i modi, eventualmente l’esaltazione o soppressione delle notizie politiche, da parte di dirigenti Rai (Clemente Mimun del Tg 1, Bruno Vespa di Porta a Porta, Fabrizio Del Noce, di Rete Uno, Francesco Pionati, principale notista politico della Rai, Deborah Bergamini capo del Marketing in Rai) durante il periodo di governo di Silvio Berlusconi.

Significa che ogni gaffe o errore del capo del Governo veniva cancellato, ogni successo inventato o ingigantito, ogni critica internazionale ignorata o irrisa, ogni aperta opposizione italiana taciuta, oppure - se necessario -, svilita fino alla calunnia pubblica, ripetuta, ostentata. Quando possibile il licenziamento di chi aveva osato interferire con la celebrazione continua dell’allora capo del governo. Qui occorre resistere all’impulso di dire (con toni un po’ alti, che forse ci saranno di nuovo rimproverati) “finalmente c’è la prova di ciò che - agli occhi di molti di noi - era, allo stesso tempo, delittuoso e ovvio, clamorosamente illegale e sfacciatamente evidente. Finalmente si ammette, usando materiali legali, resi disponibili da un regolare processo a un complice di quella vicenda: sì, è vero, era un regime. Primo carattere di un regime è il pieno controllo delle notizie. Con ricchi premi per chi sta al gioco ed esclusione, con minacce, accuse, denigrazione di chi non sta al gioco”.

I lettori hanno già capito che questa vicenda riguarda in modo diretto e rovente l’Unità, il lavoro del direttore, del condirettore, e dei giornalisti di questo giornale, che, durante tutti gli anni del governo di Berlusconi, hanno deciso di non tacere e di correre il rischio. Uno di noi ha perso il posto e tutti, da allora, anche coloro che avevano nome, firma e prestigio, vivono in un limbo di non esistenza mediatica, editoriale e televisiva di tipo sovietico. Ma hanno - abbiamo - documentato ogni giorno il dominio sulle notizie di Berlusconi, cadendo, per questo, nel ruolo di fazioso, loquace disturbatore di solito attribuito a Marco Pannella, dunque irrisioni e silenzio, con forte propensione ad accennare a disturbi della personalità.

* * *

Eppure non è da allora che si deve cominciare, ma è da qui, da oggi, dalla rivisitazione della combutta Rai-Mediaset, che ha impunemente sospeso la democrazia in un Paese dove quasi l’ottanta per cento dei cittadini si affida solo alla televisione per sapere le notizie, per formarsi un giudizio destinato a durare, dunque una schiuma di conseguenze che si espande anche adesso, anche oggi, fino a cambiare il paesaggio, qualunque cosa stia realmente accadendo.

Lo scandalo è qui, adesso quando si dichiara scandalo la pubblicazione di intercettazioni pubbliche e legali e su cui non grava alcun vincolo o segreto. «Non pubblicare quelle conversazioni sarebbe un ritorno alla censura fascista», ha detto Gerardo D’Ambrosio, ex procuratore di Milano e ora senatore del Pd.

Qui si aprono due percorsi, sorprendenti e diversi. Il primo è quello di prendere netta e pubblica posizione contro la pubblicazione di intercettazioni che pure rivelano una grave violazione dei doveri professionali di alcune persone e un vero e proprio attentato contro la democrazia: un governo che vive per cinque anni - come il Mago di Oz - al riparo di una cortina di notizie false.

Occorre notare che queste intercettazioni non sono chiacchiere di sentito dire, insinuazione di terzi o giudizi o opinioni - che possono sempre essere infondati - di qualcuno su qualcun altro. No, questa volta si tratta di discorsi diretti tra parti interessate, coinvolte e responsabili, una chiara lista di progetti e intenzioni e ordini da eseguire, che infatti - come dimostra ciò che è accaduto - sono stati sempre prontamente eseguiti. l’Unità del 23 novembre ha offerto una esemplare ricostruzione del rapporto adulterato tra fatti realmente accaduti e notizie realmente adattate al tornaconto del regime.

Ma, è importante ripetere, si tratta di materiali giudiziari pubblici, legali, depositati. Farli conoscere ai cittadini è necessario perché non si tratta di mettere alla gogna questo o quel partecipante alla “struttura” bi-aziendale che faceva capo a Berlusconi, ma di togliere dalla gogna coloro che hanno denunciato l’accordo illegale in tempo reale e sono stati subito spinti ai margini della vita pubblica e professionale italiana, soltanto per avere detto che era stato rubato ai cittadini il prodotto originale (le vere notizie) dando in cambio un prodotto alterato.

C’è a questo punto una domanda che è inevitabile: qualcuno conosce un Paese democratico in cui sia proibita o sconsigliata o malvista la pubblicazione di documenti legali e pubblici? Ma c’è una domanda più imbarazzante: ci sono, nel mondo, giornali liberi che chiedono di non essere liberi e invocano, per iniziativa di editorialisti, la proibizione di pubblicare notizie di fonte legale che hanno direttamente a che fare con la libertà e il diritto di informazione dei cittadini?

Credo proprio che non si possa rispondere sì né all’una né all’altra domanda. E questo è lo scandalo nello scandalo. È così allarmante una simile esortazione che il Capo dello Stato, che aveva parlato lo stesso giorno della cautela con cui vanno trattate le intercettazioni quando sono segreto istruttorio (raccomandazione di civiltà giuridica) ha fatto immediatamente chiarire che non stava parlando dello scandalo Rai-Mediaset. Per questo scandalo ha voluto subito incontrare il Presidente Rai, Petruccioli. Allarmato come tanti italiani, avrà certo voluto saperne di più.

* * *

Abbiamo già detto che ci sono due percorsi per guardare in faccia la turbolenza estranea alla democrazia in cui l'Italia è stata gettata nel teatrale e illiberale periodo del governo Berlusconi. In questi giorni due personaggi di primo piano, della maggioranza e della sinistra italiana, hanno espresso in modo diverso, ma con altrettanta enfasi, il loro stupore. Sono due personaggi direttamente coinvolti nell'impegno di tener testa a Berlusconi. Però ascoltate e ditemi se non restate, come dire, sorpresi dello stupore e colpiti (non proprio con entusiasmo) per la ammirazione che sarà anche cavalleresca ma è certo disorientante per noi che non veneriamo la “genialità” di Berlusconi.

La sera del 22 novembre, nel corso del programma Controcorrente su Sky, organizzato in questi giorni difficili dal conduttore Formigli per il Presidente della Camera, interlocutore unico in studio, Fausto Bertinotti ha confermato una sua dichiarazione già resa ai giornali: «Silvio Berlusconi è l'alfa e l'omega della politica italiana». Intendeva dire che l'audace uomo politico prima ha inventato e aperto, tutto da solo, con la sua famosa discesa in campo, la stagione del maggioritario uninominale, schieramento di destra contro schieramento di sinistra, una stagione nuova nella politica italiana. Poi, genialmente, l'ha chiusa liquidando alleati e Forza Italia e gettando in campo il "Partito del Popolo Italiano", coraggioso faccia a faccia con il Pd di Veltroni.

Strana dichiarazione, perché in essa ci sono alcuni errori e alcune omissioni. Un errore è dimenticare che “la nuova stagione politica italiana” è cominciata con Mario Segni e con il referendum che ha cambiato radicalmente il sistema elettorale italiano. Un altro errore è ignorare quel passaggio cruciale della vita pubblica del nostro Paese in cui Berlusconi "sdogana" la destra italiana quando è ancora creatura diretta del fervente sostenitore de La difesa della razza, Giorgio Almirante, quando Fini e i suoi, poi destinati ai migliori Ministeri berlusconiani, erano ancora, per la stampa italiana e mondiale, "neo-fascisti". Eravamo al tempo delle elezioni comunali di Roma (vincitore Rutelli) molto prima della svolta di Fiuggi.

E poi due omissioni: dimenticare che Berlusconi - l'alfa e l'omega della vita italiana - è l'unico politico che sia mai "sceso in campo" con cassetta pre-registrata a cura della sua azienda televisiva Mediaset (regia e luci incluse), l'unico a fare dichiarazioni azzardate (”salverò l'Italia dal comunismo”) senza uno straccio di giornalista a fargli domande, evento mai avvenuto in Paesi democratici. La ragione? L’uomo che “scende in capo” è titolare di una delle ricchezze più grandi del mondo, ciò che spiega il buon viso che, da quel momento, moltissimi decideranno di fare ad ogni sua decisione padronale o arbitraria.

A quel tempo non ero il reietto che ha osato dirigere l'Unità, e si è permesso di smentire giorno per giorno Berlusconi. Ero un editorialista de La Stampa, e in tale veste autorevole ero stato invitato a commentare la famosa “discesa in campo” dallo studio del Tg1. Devo essermi messo in cattiva luce fin da allora quando ho detto: «Una cassetta pre-registrata che impedisce le domande dei giornalisti non sarebbe stata accettata da alcuna televisione occidentale perché è un fatto estraneo alla democrazia».

È una omissione pericolosa dimenticare che non solo l'alfa ma anche l'omega di cui sarebbe geniale ed esclusivo inventore Berlusconi (la marcia su Piazza San Babila, osannato da una claque di sei-settecento scritturati) non sarebbe mai avvenuta senza il pieno impiego della potenza mediatica-imprenditoriale-finanziaria. La controprova è semplice: dite dove e come un simile fenomeno - inventare in un giorno un nuovo partito e accreditarlo subito presso le migliori fonti giornalistiche come esistente - potrebbe prodursi senza la mobilitazione della ricchezza.

Non resta che rimpiangere che il Presidente della Camera non abbia mai dato una occhiata a l'Unità, quando su Padellaro, su di me e su tutti i colleghi di questo giornale si scatenava la campagna più feroce, l'ostracismo più ferreo, l'esclusione più completa e duratura che mai abbia colpito giornalisti italiani, oltre alla valanga di querele, per fortuna infondate, però costosissime.

Ma lo stupore dello stupore è ravvivato da una intervista dolce e cauta del Ministro Gentiloni che dice e ripete e garantisce che nulla ma proprio nulla della sua legge deve allarmare Berlusconi. Gentiloni afferma testualmente e incredibilmente: «Non accetto la tesi che di là ci sia il regime. Per quale motivo dovremmo gettare al vento questa occasione? In nome della purezza della razza? La verità è che c’è un oggettiva convergenza tra il Pd e il progetto del Pdl, che hanno la stessa vocazione maggioritaria».

Per fortuna gli hanno già risposto gli uomini-azienda di Berlusconi, quelli del Senato, quelli della Camera, quelli di Publitalia, quelli restati a Segrate. Hanno detto e ripetuto: «Non provate a toccare Mediaset o sarà guerra». Fossi Gentiloni andrei tranquillo. Peggio di ciò che hanno fatto non possono fare. Ma non dimentichi che alla sua legge, per quanto mite, si chiede solo di rendere impossibili l'illegalità, l'imbroglio, la falsificazione, l’invenzione delle notizie.

colombo_f@posta.senato.it

Pubblicato il: 25.11.07
Modificato il: 25.11.07 alle ore 14.08   
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« Risposta #38 inserito:: Dicembre 02, 2007, 06:53:14 pm »

Tempi moderni

Furio Colombo


Bello, e ricco di cose nuove il tempo in cui il Papa, capo della Chiesa di Roma, ti parla di speranza, il Dalai Lama sta per venire a Roma a raccontare la sua speranza di poter tornare a vivere con la sua religione nella sua terra, e intanto nella stessa città due leader politici opposti e rivali si incontrano per concordare che insulti, diffamazioni, aggressioni, controllo arbitrario delle notizie non sono la politica ma una deformazione pericolosa da abbandonare subito.

Bello. Ricco di cose nuove. Ma non è ciò che è accaduto in questi giorni.
Il Dalai Lama, come sapete, nonostante la sua parte di fede e di speranza non lo vuole vedere nessuno perché una potenza economica ha fatto sapere a tutti i poteri, spirituali, politici e aziendali di non provarci neanche. E tutti i poteri spirituali, politici e aziendali hanno realisticamente accettato.

Il Papa ha aperto un grande dibattito ad un livello molto alto: fare o sperare? La scienza è solo insufficiente a nutrire l’immenso impulso a volere, cercare, aspettare di più, o è anche la negazione del di più (la speranza) e dunque pericolosa? La medicina e la preghiera sono da usare insieme, come sussurrava una volta il cappellano negli ospedali, o la medicina (per esempio il preservativo) è in sè un male? Il dibattito è (sarebbe) grandioso perché grandioso è il tema. Ma non c’è alcun dibattito. La complessa lettera del Papa viene fatta spiegare a vescovi-teologi nei telegiornali. Sono vescovi colti e predicatori efficaci. Ma sono anche una grande lastra di pietra che blocca ogni tentativo di dialogo, conferma, certifica. Impossibile non ricordare la raccomandazione, da autorità benevola ma anche da esperto intellettuale, quando ha affidato alla critica il suo libro su Gesù dicendo «naturalmente siete liberi di criticare». Le critiche ci sono state, se ricordo bene con la cautela e il rispetto dovuto non tanto a un Papa quanto a un accademico accreditato tra i suoi pari (credenti e non credenti). Ma quel libro è entrato in biblioteche e scaffali di diversissime case come un testo di cui tener conto nel mondo della cultura.

Questa volta è diverso. Certo, il tema è di insegnamento al vertice della Chiesa cattolica. Ma come dare senso, interpretazione nello spazio (tutto lo spazio, non solo la Chiesa e i fedeli) e in relazione al peso anche secolare e politico di ciò che dice il Papa?

Inginocchiarsi al passaggio dell'Enciclica testimonia della scrupolosa osservanza e disciplina di chi esegue prontamente l'atto di omaggio. Ma non offre una parola, un contributo, una osservazione, uno spunto di pensiero diverso, l'impronta di un mondo libero a cui importa discutere ciò che - proprio perché conta molto - merita di essere discusso. Penso al breve commento (50 secondi) affidato a Silvia Ronchey nel corso del Tg3 (ore 19.00 del 30 novembre). Ha colto di sorpresa, iniziando con la parola «reazionario». Ha detto, giocando anche sulla immagine femminile che autorizza una apparente leggerezza: «Deliziosamente reazionaria l'Enciclica del Papa». Segue, da storica, da competente, una recensione breve e benevola. Ma la definizione iniziale, che può anche essere intesa come lode, resta in sospeso. Non c'è e non seguirà dibattito, assecondando il famoso timore del miglior cinema di costume italiano («il dibattito no!»). Il dibattito segue la mattina dopo (1 dicembre) dalle pagine del Corriere della Sera, dove il filosofo Giovanni Reale, debitamente schierato, anzi scelto perché schierato, solennemente afferma: «Semmai c’è del reazionario in certe critiche». Il tal modo getta tutto il suo peso - che è rilevante anche per i non specialisti - sull’unico guizzo di vita, presenza, ascolto da svegli - con cui Silvia Ronchey ha proposto inutilmente di prendere sul serio una Enciclica papale. Come si farebbe nel mondo della cultura, con un autore a cui si presta attenzione e rispetto.

«Chi pensa che questo sia un atteggiamento contro la scienza e la ragione non ha capito nulla. Il Papa non condanna la ragione né la scienza né la libertà. Quella del Papa è una critica alla scienza che si fa idolo e cade nello scientismo», incalza il filosofo Reale, voce autorevole (e proprio per questo preoccupante perché rifiuta di confrontare la vita con le parole) e voce unica sul più grande quotidiano italiano. In un periodo della storia in cui 31 Stati americani vietano per legge l’insegnamento dell'evoluzionismo darwiniano, il presidente degli Stati Uniti proibisce - come in Italia - l’uso dei fondi pubblici per le ricerche sulle cellule staminali, mentre aumenta - ci dicono lo stesso giorno, gli stessi giornali e telegiornali - il contagio dell’Aids nel mondo, lo stesso mondo in cui la stessa Chiesa e lo stesso Papa vietano come immorale l’uso dei preservativi, ci può dire il professor Reale dove, quando si imbatte nella «scienza come idolo»? C’è mai stata dopo Galileo, un’epoca in cui religione e opportunismo politico si sono battuti insieme così accanitamente per frenare, umiliare, accantonare la scienza?

Un altro filosofo - Massimo Cacciari - frena un poco il tributo corale del Paese al Papa (un Paese presunto unanime che applaude il Papa prima che parli e poi va a caccia di Rom da espellere subito da questa terra cristiana, e se qualcuno vuole pregare con un’altra fede in Italia gli si rovescia addosso orina di maiale). Chiedono a Cacciari: «Teme che questa nuova Enciclica possa generare ulteriori divisioni tra credenti e non credenti?». Cacciari risponde: «Non lo temo perché il Pontefice torna a ribadire un concetto antico di fede che risale a S. Paolo: la speranza basata sulla fede rivelata. Nonostante una sostanziale banalizzazione di temi complessi come marxismo e illuminismo, questa Enciclica potrà contribuire a stimolare la riflessione tra fede e ragione».

Come farà, visto che la ragione abita - secondo il Papa - solo le strade infide del marxismo, dell’illuminismo, della scienza-idolo, e perciò viene indicata come l’alternativa inaccettabile a un’unica fede, quella cristiana nella versione “romana”? Alla fine dobbiamo renderci conto che l’Enciclica papale attraversa come un potente soffio di bora la pianura italiana, mentre dai sistemi di comunicazione e di vita sociale è stato rimosso ogni appiglio o mancorrente a cui ci si possa appoggiare per dire: no, ragioniamo. O è come dite voi o è la fine della speranza, dunque la fine di ogni convivenza possibile?

* * *

Vorrei adesso riferirmi a un fatto non religioso e molto più piccolo, però esemplare, di una nuova pedagogia che è: rimuovere gli appigli a cui appoggiarsi (come ai mancorrenti sui vagoni della metropolitana in corsa) per proporre obiezioni o argomenti diversi. Citerò non l’equivoco trionfalismo di Berlusconi, che sembra al momento accettare tutto perché, come ha già più volte dimostrato, niente lo vincola, non la coerenza, non la parola data, non l’impegno preso in pubblico. Se necessario negherà di aver mai avuto lo storico incontro di Montecitorio.

Mi interessa e mi mette in ansia, però, una frase di Veltroni che, giustamente soddisfatto del buon risultato della sua iniziativa, dice: «Penso che abbiamo introdotto qualcosa di molto importante: la fine del clima di rissa, di odio, di contrapposizione ideologica. Ora chi lo vuole riproporre se ne assumerà la responsabilità. Ma si è sperimentato che è possibile il dialogo, come nelle grandi democrazie del mondo». (Conferenza stampa alla Camera dopo l’incontro con Silvio Berlusconi, 30 novembre).

Ora basta avere ascoltato tutta la prima parte dell’ormai celebre e indimenticabile monologo di Benigni su Rai 1 per sapere che dieci milioni di italiani hanno riso fino alle lacrime ascoltando la storia vera, grottesca, incredibile dell’Italia sotto Berlusconi. È la stessa storia che, invece, tutti i telegiornali, sotto la sorveglianza di Berlusconi hanno raccontato come gloria, storia e successo. Si ride da star male alla narrazione di una Commissione parlamentare con poteri giudiziari, consulenti miliardari e spie assassinate, detta Commissione Mitrokhin, avente come unico scopo di dichiarare - in periodo pre-elettorale - che l’allora capo dell’opposizione Romano Prodi era spia del Kgb. Si ride da star male ma era vero. Come era vero che giornalisti e magistrati (che dovevano essere «disarticolati») erano costantemente spiati dal servizio italiano di spionaggio militare (il Sismi). Ovvero noi, spiati dal nostro Stato. Si ride fino alle lacrime nel riascoltare da Benigni la storica giornata del «discorso del predellino» (persino il dettaglio è falso: nessuna auto, dal 1969, ha più un predellino su cui salire come Jean Gabin mentre faceva fuoco sulla polizia nei vecchi film francesi). Ma è vero che in un giorno il nostro interlocutore si è inventato il “Partito del Popolo” mentre era proprietario del “partito Forza Italia”. Domanda: noi con chi abbiamo parlato e con chi abbiamo deciso di spegnere ogni polemica, con il Partito del Popolo o con Forza Italia, con Brambilla o con dell’Utri? E da dove viene e come si è manifestato «l’odio» che adesso finalmente è finito? Spiegherò perché mi mettono a disagio e un po’ mi disorientano queste parole dette dal leader che ho eletto e in cui, come milioni di italiani (gli stessi che hanno riso e pianto con Benigni, credo), ho fiducia.

Una prima ragione è che lo scambio tra la parola “odio” e la parola “critica” - una trovata pubblicitaria che abbiamo subìto da quando Berlusconi «è sceso in campo» - comincia ad essere una lunga storia. Enzo Biagi (che viene ricordato lunedì sera al Teatro Quirino dagli amici e colleghi di Art. 21) era odio o vittima dell’odio? E Sabina Guzzanti? E l’Unità accusata di tutto e rigorosamente privata di pubblicità? Renato Ruggiero sarà stato cacciato da ministro degli Esteri di Berlusconi perché odiava o perché criticava la disinvoltura d’affari del governo di cui era parte? Forse è storia passata. Ma il conflitto di interessi e l’infezione che un potere multimiliardario porta nella politica è un argomento da sospendere nel tentativo di fare una buona legge elettorale o dobbiamo lasciar perdere adesso, anche dopo, per non dare l’impressione che il tentativo di normalizzare e legalizzare la vita italiana non è altro che odio e vendetta contro Berlusconi?

I lettori sanno che basta scrivere queste cose (che sono una mite e generica versione di ciò che i Senatori americani Hillary Clinton e Barack Obama dicono ogni giorno del loro presidente e delle loro controparti repubblicane) perché il Senatore italiano che le scrive su questo giornale sia aggredito nell’aula di quel ramo del Parlamento con insulti e calunnie che solo l’immunità parlamentare (ma anche il modesto livello culturale e umano) di chi conduce quell’aggressione protegge dalla denuncia penale. Però accade. Accade adesso.

È giusto, è urgente costruire una via d’uscita. Ma sgomberare l’orizzonte da ogni sia pur piccola barriera, da ogni riferimento storico e politico a cui aggrapparsi quando tornano (e tornano!) le aggressioni è ragionevole? E quanti giorni passeranno da oggi, 2 dicembre 2007, prima che Berlusconi neghi e sconfessi tutto?
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Pubblicato il: 02.12.07
Modificato il: 02.12.07 alle ore 14.43   
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« Risposta #39 inserito:: Dicembre 05, 2007, 10:57:19 pm »

Enzo Biagi e l’Innominato

Furio Colombo


La sera del 3 dicembre dedicata, nel Teatro Quirino di Roma, a ricordare Enzo Biagi, il giornalista celebre per una vita di eccellente lavoro, per la sua libertà tranquilla, per la sua cacciata dalla Rai, una bella sera di amicizia in cui c’erano proprio tutti, che è durata due ore e che Rainews ha trasmesso in diretta, soltanto due persone hanno parlato di Berlusconi, descritto realisticamente come padrone prepotente mentre si stava comprando la libertà d’informazione in Italia.

Soltanto due persone hanno fatto il nome, narrato gli eventi e descritto il pericolo, (già vissuto da uno di loro e imminente per l’altro). Le due persone, sedute l’una di fronte all’altra, nelle inquadrature di una delle celebri puntate de «Il Fatto», erano Enzo Biagi e Indro Montanelli. Due morti.

I vivi hanno dimostrato molto amore per Biagi, hanno narrato ricordi belli e affettuosi. Ma, sotto la ferma e implacabile guida della Rai che, a causa della diretta televisiva, ha esautorato i veri promotori, ovvero l’associazione Articolo 21, ci hanno parlato di un grande giornalista vittima di qualcosa di brutto più simile al destino che a una decisione politica. Dichiarazione dopo dichiarazione, tutto ha assunto il senso di quella recriminazione, di quel “non è giusto” che ognuno di noi, dice o vorrebbe dire contro la crudele arbitrarietà della morte, quando scompare un amico caro e ammirato.

Lunedì sera, al Teatro Quirino, era lontana un secolo la affermazione dolorosa e netta del Cardinale Tonini detta a Pianaccio il giorno della sepoltura di Biagi: «Lo hanno ucciso», che voleva dire: un giornalista, specialmente se grande e libero, muore quando gli si toglie la parola.

Non so se è passato un ammonimento, o sono bastati gli sguardi. Ma un sensibile ospite non italiano che si fosse unito a noi quella sera avrebbe ammirato la forza e l’unanimità del compianto, ne avrebbe dedotto (e avrebbe capito bene) che Biagi era molto amato e circondato da una stima immensa. Ma non sarebbe mai arrivato a ricostruire la chiave dell’evento e il vero perché di quella celebrazione: non un morto ma la sua libertà, quando gliela si toglie per vendetta, e facendo finta, insieme a una legione di compiacenti o intimiditi o prudenti, che l’Italia non abbia una Costituzione democratica, una Costituzione che garantisce la libertà di parola, di stampa, di opinione. Certo, vi sono state tante voci nobili, alcune corrucciate, e persino un momento di protesta del leader dell’Articolo 21, Giulietti.

Ma eravamo dentro una diretta della Rai, e la Rai, a quanto pare, non si sente tranquilla a parlare liberamente di Berlusconi come gli inglesi parlano di Tony Blair e gli americani di George W. Bush. Vuoi che ci sia l’incubo del ritorno, vuoi che sembri più decoroso saltare quel fastidioso dettaglio, l’arbitrario licenziamento di Biagi, e quell’altro dettaglio, il macigno del conflitto di interessi. Certo è che il microfono girava in sala in modo da non avvicinarsi mai a voci che avrebbero potuto educatamente sfiorare l’argomento dell’editto di Sofia e della “raccomandata con ricevuta di ritorno” con cui il più illustre giornalista italiano è stato messo alla porta della tv di Stato. Peccato. Nella sera dedicata a Biagi è stato dimenticato il fatto.

colombo_f@posta.senato.it



Pubblicato il: 05.12.07
Modificato il: 05.12.07 alle ore 8.10   
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« Risposta #40 inserito:: Dicembre 09, 2007, 04:58:23 pm »

Prima e dopo

Furio Colombo


Prima c’era Berlusconi, con la sua ricchezza misteriosa, i suoi legami mai chiariti, i suoi alleati che fanno gesti sporadici di ribellione e poi tornano come attratti da una irresistibile calamita. Prima c’era Berlusconi che possedeva un vasto schieramento di televisioni private e controllava con certi suoi uomini chiave la televisione di Stato, paralizzata oppure messa in contatto quotidiano e cordiale con la televisione privata (di proprietà di Berlusconi) per evitare sorprese o danni. Prima c’era Berlusconi e la televisione pubblica era controllata, in trasmissioni chiave, da uomini che garantivano di «accennare al Dottore al momento giusto». Il Dottore era lui. Berlusconi era il tipo disinvolto che si liberava all’istante di un ministro degli Esteri (Renato Ruggiero) sospettato - giustamente - di non essere omogeneo con i suoi affari anche se molto apprezzato e stimato nel mondo degli affari italiani e internazionali. Era il tipo disinvolto che si liberava all’istante di un giornalista inadatto a cantare la sua gloria nella Tv di Stato (Enzo Biagi) e non gli importava nulla della fama, del prestigio, del talento professionale, del ridicolo di cui si è coperta la Rai quando ha tentato, prima arruolando comici, poi giornalisti (seriamente svantaggiati dal confronto) per colmare il posto e il vuoto di Biagi.

Prima c’era Berlusconi, che definiva criminale il dissenso, chiamava terrorismo la critica, complotto delle “toghe rosse” qualunque indagine che riguardasse le sue molte e molto discutibili attività in Italia e nel mondo. Ricordate le limpide figure di alcuni suoi avvocati, da Previti a Mills? E tutti gli altri legali del Dottore che sono diventati presidenti di commissioni chiave del Parlamento italiano per tutelare gli interessi personali di Berlusconi? Con la sua agilità che lasciava indietro e senza fiato i giovanotti della scorta, Berlusconi - quando c’era - si muoveva sempre munito di un libro che conteneva tutti i titoli del giornale l’Unità ostili o antipatici per lui (a quanto pare nessun falso, perché su nessuno di questi titoli è pervenuta denuncia o querela) e lo esibiva come prova del rischio che - per colpa de l’Unità correva la sua vita.

Prima c’era Berlusconi che faceva spiare dai servizi segreti italiani alcuni giornalisti e molti giudici che non gli andavano a genio. E faceva organizzare commissioni parlamentari bicamerali, dotate di potere giudiziario, immensamente costose a causa della copiosa dotazione di consulenti (quasi sempre finiti per falso o calunnia o reati più gravi nelle patrie galere). E tutto ciò al solo scopo di denigrare, screditare, accusare i leader che gli facevano opposizione in quegli anni.

So che questa descrizione è lacunosa. Manca il disastro economico, la xenofobia leghista, un nuovo cordiale rapporto instaurato con fascisti rimasti fascisti nei decenni, gente che rimpiange Salò e nega la Shoah. Mancano i danni enormi di una guerra eseguita su ordinazione (ragioni immaginarie ma morti veri). Manca il fatto unico e storico avvenuto nel Parlamento europeo (gli insulti al deputato Schultz), mancano le scene delle sue assenze e (peggio) della sua presenza ai processi di Milano. Manca la rievocazione di un aspetto importante: la sua ricchezza che - a causa degli effetti naturali e deleteri del conflitto di interessi - si è moltiplicata negli anni del suo governo.

Mancano molte cose e altre sono state appena accennate in modo mite. Eppure è bene notare tre fatti strani. Il primo: nessuna delle cose che ho scritto è smentita o smentibile.

Il secondo: voi non avete trovato, non trovate adesso e non troverete su alcun quotidiano o periodico di alcuna proprietà questo breve curriculum di Silvio Berlusconi. Non a sinistra - per quanto si vada a sinistra (là sono impegnati a far fuori Prodi) - e non a destra perché non esiste una destra libera dalla rete di Berlusconi.

Il terzo: benché tutto ciò sia vero e provato, se lo dici o lo scrivi compi un gesto di “odio” (questa è l’accusa da destra, comprensibile perché è una forma estrema di difesa del loro leader, la stessa che usano gli uomini di Putin e di Chavez).

Oppure cadi nel peccato di “demonizzazione”. L’accusa, per strano che sia, negli anni di Berlusconi, veniva da sinistra insieme con l’altra accusa, “giustizialismo”, che si spiegava così: nel confronto-scontro tra le legioni di avvocati di Berlusconi e l’indifesa ed esposta solitudine coraggiosa dei giudici (da Gerardo D’Ambrosio a Borrelli, da Ilda Boccassini a Davigo a Gherardo Colombo) era giustizialista chi prendeva le parti dei giudici. Giustizialismo, come ricorderebbero due grandi italiani - Paolo Sylos Labini e Indro Montanelli (la cui amicizia e il sostegno ci ha onorato) voleva dire (vuol dire): «La legge è uguale per tutti».

* * *

Occorre tenere conto di questi tre punti perché non possiamo far finta di non vedere la scolorina in cui siamo immersi. Qualcosa che sta fra la magia e il trionfo finale del conflitto di interessi induce alcuni che stanno leggendo a meravigliarsi (ancora? non la smetterete mai con questa storia di Berlusconi?). E altri a dedicarci ostilità e irritazione. A considerarci un ingombro.

Strano, se ci pensate, perché alcune voci insistenti, allora e adesso, ci chiedono di non metterla giù tanto dura. E per sicurezza preferiscono farci stare lontano dalla Tv.

Strano, se ci pensate, perché - come posso testimoniare nelle mie non allegre giornate al Senato - noi ascoltiamo ogni ora descrizioni di Prodi come “stupido”, “incapace”, “rapinatore degli italiani” “responsabile della rovina di tutte le possibili categorie sociali, dai tassisti all’industria farmaceutica”. Ma noi dobbiamo sorridere tutti insieme con gentilezza bipartitica al passaggio di Berlusconi. Al punto che Fini e Casini, nei brevi intervalli di disamore per il potente leader, sono autorizzati ad insulti e insinuazioni che - dette da noi - sarebbero subito definite “demonizzazioni”. Ci ammoniscono che, in altri tempi più ortodossi l’Unità non avrebbe mai “demonizzato” l’avversario (dimenticando che le copie arretrate di questo quotidiano esistono ancora).

* * *

Merita attenzione una accusa in più: ti dicono che «scrivere a favore e difesa dei giudici è un buon affare finanziario». La avventata affermazione si può tradurre così: se tenere duro e scrivete di leggi vergogna, di leggi ad personam e di ostinati processi che solo la potenza di decine di grandi avvocati hanno potuto trascinare fino alla prescrizione (ma in qualche caso anche con l’espediente di comprare la sentenza e ­ con essa ­ un intero impero editoriale) provocate un’enorme attenzione e i libri diventano best seller. Perché? Perché certe cose, altrimenti, dato lo scrupoloso controllo dei media da parte del Dottore, non le potreste leggere e sapere mai. E non sono mai smentite. Non sarebbe una ragione di elogio?

Ma qui comincia un’altra storia. E comincia quasi con le stesse parole. La raccontiamo così: dopo Berlusconi c’è Berlusconi, splendidamente sopravvissuto alla sua sconfitta al punto da essere definito l’alfa e l’omega della politica italiana (ricorderete che lo stranissimo elogio è di Fausto Bertinotti, che ha anche fatto sapere di non gradire “la demonizzazione” ovvero la descrizione dal vero del fenomeno finanziario-politico Berlusconi).

So che mi ripeto, ma come uscirne? Dopo Berlusconi c’è Berlusconi e i media stanno bene attenti a non irritarlo, proprio come allora, proprio cone nel “prima”. Per esempio, nella sera dedicata da Rainews24 a ricordare Enzo Biagi, l’uomo che più di ogni altro ha tenuto testa a Berlusconi, che da Berlusconi è stato offeso nel modo più grave (la privazione della libertà di continuare con la sua celebre trasmissione) in quella serata, Berlusconi non è stato mai nominato (salvo che da Biagi e Montanelli ma in un vecchio filmato de «Il Fatto»).

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi che, con un capriccio da ricco, finge che esistano sette milioni di cittadini ­ non visti da alcuno ­ che accorrono a lui nell’istante in cui, con una trovata da miliardario, liquida il suo vecchio partito e ne compra uno nuovo (così nuovo che persino lui si sbaglia e si contraddice nelle continue interviste e afferma che «il nuovo c’è ma non esiste ancora». Non importa. Chiunque sarebbe preso in giro se liquidasse e poi fondasse in un giorno un partito da 30 per cento dei voti. Non lui. Sia per prudenza (ogni editore è attivo in settori d’affari in cui è attivo anche Berlusconi) sia perché l’immensa ricchezza di cui stiamo parlando può benissimo fondare e liquidare grandi partiti in un giorno, quando questi partiti sono aziende e non movimenti di cittadini.

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi, è al centro della scena, come prima, al centro dell’attenzione dei suoi media e di quelli di Stato, come prima. Come prima è sempre in carica il suo uomo Petroni che, nel consiglio della Rai, ha il compito di squilibrare lo schieramento e di impedire le decisioni. Come prima ha sempre i suoi Minzolini (un bravo e attivissimo inviato della Stampa ha dato il nome a una nuova professione, come era avvenuto con i “paparazzi” ai tempi di Fellini, ed è una professione ricca di talenti) che hanno sempre citazioni virgolettate e smentibili con cui irrorare tutta la stampa italiana dichiarando, anticipando, celebrando, negando. In tal modo la voce di Berlusconi, con uno strano effetto stereofonico, ci giunge da ogni lato dei media, creando il risultato desiderato. Ci sta dicendo: «Non vi azzardate. Io sono sempre qui». La manovra funziona. Tornano puntuali contro di noi le rampogne sulla “demonizzazione” e sul “giustizialismo” che per un po’ erano state sospese, dando l’impressione, anzi l’illusione di vivere in un “dopo Berlusconi” al modo in cui la Francia sta vivendo un dopo Chirac, la Germania un dopo Schroeder e l’America vivrà un dopo Bush.

Per noi, non pensateci neanche. E allora lui stesso dice e fa dire (da destra e da sinistra, proprio come ai bei tempi) che chi ricorda fatti e avventure di Silvio Berlusconi, in realtà attacca Veltroni. Bel colpo: demonizzatori, giustizialisti, ma anche infidi.

Per fortuna l’argomento non funziona per i tre milioni e passa che hanno votato per il leader del Partito democratico. Come lo sappiamo? Semplice. Non solo dal successo e dai voti che hanno avuto coloro che dicevamo, nella campagna per le primarie, ciò che sto scrivendo adesso. Ma perché ­ votando Veltroni ­ tutti quegli italiani volevano votare per il contrario (persona, vita, curriculum, lavoro, immagine pubblica e privata) di Berlusconi, del padronato mediatico, della politica a pagamento, dell’intimidazione continua a giornalisti e giudici, della censura che ha avuto come bersaglio costante questo giornale e come vittima esemplare Enzo Biagi.

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi. E il leader eletto del partito democratico lo incontra, lo deve incontrare. È un incontro tecnico, non un summit politico. Deve coinvolgerlo nella cancellazione di uno dei peggiori delitti politici di Berlusconi stesso, la attuale legge elettorale. E fa bene a dire: discuteremo e lavoreremo anche ad altre riforme. Fa bene perché è esattamente ciò che Berlusconi nega e rifiuta. Fa bene anche come simbolo della vitalità determinante di un partito nuovo. Stabilisce finalmente una agenda che non è stata imposta da Arcore.

Dopo Berlusconi c’è Berlusconi, e i media stanno bene attenti. La carriera di ogni giornalista italiano, dal più giovane praticante al più abile direttore, dipende da Berlusconi. O dipendeva. Se Veltroni (mentre Prodi governa, e non si commette il gesto incosciente di toglierli il sostegno) allarga l’orizzonte, mette in modo l’iniziativa, e un territorio pulito meno claustrofobico torna a essere la casa degli italiani. Lo so, lo so sto parlando di attese e speranze. E di una azzardata scommessa: che ci sia davvero in Italia, come nelle alternanze di ogni Paese libero, un dopo Berlusconi. In quel dopo, reduci e sopravvissuti potranno dire agli increduli «andava alla tv di Stato a disegnare su fogli già preparati finte opere pubbliche, e senza alcun disturbo o contraddittorio firmava trionfalmente il suo “contratto con gli italiani”. Sembra una commedia di Bertolt Brecht e invece, ai tempi di Berlusconi, era vita italiana.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 09.12.07
Modificato il: 09.12.07 alle ore 8.19   
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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 13, 2007, 04:12:58 pm »

Il no della senatrice

Furio Colombo


«Binetti e Turigliatto non sono uguali», dice il Senatore Giorgio Tonini al Riformista (11 dicembre) per giustificare il sorprendente no della senatrice Binetti che - per ragioni religiose - nega la fiducia al governo Prodi.

Tonini ha ragione, a patto di rovesciare il senso della sua frase. Da Turigliatto si può (si deve, io credo) dissentire, ma non c’è niente di illogico nel suo negare il voto a Prodi. Vuole un’altra politica, si accorge di non essere al posto giusto nel momento giusto. Lo dice chiaro e paga il prezzo del non ritorno. Sapeva che si sarebbe separato, per ragioni che gli importavano, e si è separato. L’esclusione dal suo partito è un’altra cosa, non di questa stiamo parlando ma della vera conseguenza della sua decisione. Ha detto no, è uscito dal gruppo che lo aveva eletto e sta andando per la sua strada.

La Binetti invece ci sta dicendo che siamo noi a sbagliare.

«Noi» non vuol dire cattolici e non cattolici, o più o meno credenti. «Noi», detto dalla senatrice Binetti, vuol dire non obbedienti. Qui l’obbedienza è a una particolare interpretazione di un potere religioso che è anche un potere statuale, dunque politico, e che si situa fuori da una linea di confine. Definiamo la parola appena usata, confine. Quale confine? Di chi? Di che cosa?

Ciò che rende il caso Binetti quasi certamente unico e molto diverso dal dissenso ideologico o dalla separazione politica è una forma di estremismo per il quale l’interessata non ha dato una spiegazione. Il fatto è che la senatrice Binetti si è gettata con sprezzo del pericolo (il pericolo grande e imminente di far cadere il governo e liquidare un periodo della vita italiana) per un brivido di ubbidienza a un ordine di cui non si ha notizia pubblica. Come nel “Deserto dei Tartari”, a forza di scrutare e di stare in guardia, ha visto il nemico (non gli omosessuali ma i disubbidenti all’ortodossia di una gerarchia che nasconde la mano) e ha lanciato l’arma del no, che avrebbe potuto spaccare la coalizione di governo. Per fortuna, nella concitazione del momento, ha sbagliato il colpo e non ha leso (non ancora) organi vitali.

Ma ha fatto un danno molto grande, ha creato una spaccatura pericolosa - fatta di disagio, diffidenza, legame strappato, disprezzo - per una ragione del tutto sconnessa col gesto e la ferita arrecata. In che senso? Ma perché l’impegno a condannare in ogni modo le discriminazioni comunque motivate contro la dignità delle persone, è già previsto dalla Costituzione italiana che non richiede autorizzazioni religiose. È già in vigore da sessant’anni. E allora dire no alla Costituzione è più sorprendente, più strano e dirompente che dire no a un governo.

Oppure quel “no”, salutato da uno scroscio di applausi della distruttiva opposizione berlusconiana voleva dire assestare un colpo sproporzionatamente duro (potenzialmente definitivo) al governo, e diventare protagonista di una sequenza imbarazzante per la maggioranza, degna di festa degli avversari. E tutto ciò per futili motivi. “Futile”, qui, vuol dire del tutto sconnesso con la portata di una ribellione e dissociazione totale. Quella dissociazione totale ha portato all’attenzione di un Paese stupito poche righe inserite in una lunga legge sulla sicurezza solo per confermare la repulsione - che in Italia per fortuna prevale fra credenti e non credenti - contro ogni possibile gesto di discriminazione per ragioni sessuali. È la civile ovvietà di quelle righe clamorosamente respinte dalla Binetti con una netta dissociazione da un governo mite e prudente, più prudente di quasi ogni Paese d’Europa, in materia di rispetto delle libertà private, è la civile ovvietà di quelle poche righe a creare stupore e amara sorpresa.Spiace constatare che tutto ciò che è stato detto dopo, dalla senatrice Binetti (che trova i gay «straordinariamente intelligenti», una infelice assonanza con «l’elogio degli Ebrei e delle loro qualità uniche» da parte di chi intende comunque sottolinearne la diversità) non chiarisce il perché di un gesto allo stesso tempo drammatico e futile, salvo che come forma di autocertificazione di esclusivismo cattolico. E ripete il richiamo a una «questione di coscienza» francamente imbarazzante. Chi può dire, in quest’epoca, in questa Italia, e sia pure da una zona oscura della Chiesa di Ratzinger che un credente non può, non deve votare in favore della protezione di un essere umano, senza avere prima raccolto informazioni precise sul suo stile di vita?

L’imbarazzo aumenta quando interviene Monsignor Fisichella, vescovo, docente di Università pontificia, cappellano del parlamento. Dice l’assistente spirituale di Deputati e Senatori credenti: «Quando ci sono coalizioni, il problema è sempre il rispetto delle identità. Se non c’è, mi pare difficile arrivare a soluzioni condivise, Soprattutto non bisogna pensare di avere la verità in quanto laici».

L’affermazione o è priva di senso logico (se l’identità è fissa e rigida, la “soluzione condivisa” può essere soltanto la resa) o è allarmante per il sarcasmo dedicato ai laici, che si permettono di avere una loro verità. Ma il vescovo-docente-cappellano e padre spirituale del Parlamento aggiunge una incredibile frase in più: «Troppo facile accusare di fondamentalismo chi dissente quando non si vogliono rispettare le regole del gioco democratico. Così si impedisce anche la possibilità di arrivare a compromessi che riescano a salvaguardare le differenze» (il Corriere della Sera, 11 dicembre 2007). Traduzione: democrazia è solo ciò che avviene sotto il vessillo vaticano. Compromesso è solo rimuovere da una legge ciò che il Vaticano - tramite Binetti - non vuole. O cancellare tutta la legge, come è avvenuto per i pacs-dico-cus. O come si sta per fare per la legge sul testamento biologico.

Inevitabile trarre due conclusioni. Eventi del genere, ovvero la esibizione di un estremismo religioso estraneo ai percorsi (dare, avere, spiegare, compromettere) della ragione, non erano mai accaduti in questa Italia pur così sensibile non tanto alla religiosità quanto alla autorità religiosa. Certo, non era mai accaduto prima del papato di Ratzinger. Evidentemente questo governo vaticano sta concentrando tutte le sue risorse di influenza, intimidazione e controllo dei media esclusivamente sull’Italia, il suo Parlamento, il suo governo. Infatti non si ha notizia di comportamenti del genere in ogni altro Paese democratico cattolico, né una simile mancanza di rispetto per un altro governo. E anche: il no della Binetti non è che un avvertimento. Intima di non provare mai più i percorsi della disubbidienza a ciò che lei considera ortodossia. Ci hanno detto che - se e quando lo riterranno necessario - non ci penseranno un istante e, come camionisti e tassisti, il loro blocco scatterà subito. La coscienza degli altri interessa poco. La verità dei non sottomessi? Non scherziamo.

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Pubblicato il: 13.12.07
Modificato il: 13.12.07 alle ore 8.17   
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 15, 2007, 05:57:15 pm »

Premiata ditta Berlusconi-Saccà

Furio Colombo


Se fate parte della commissione Esteri al Senato, di tanto in tanto vi tocca l’incarico di discutere e votare la ratifica di un trattato, che questo o altri governi hanno già stipulato, e che deve essere approvato dal Parlamento. Ho partecipato di recente al lavoro per la ratifica del Trattato di cooperazione e coproduzione cinematografica con l’India, discutendo ogni dettaglio delle norme di incoraggiamento e facilitazione per un progetto così meritevole di attenzione.

Conosco l’India, conosco il cinema indiano e l’ho fatto volentieri. Fa piacere occuparsi di accordi che non hanno niente a che fare con le armi.

Poi leggo, il 12 dicembre, l’articolo di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica (tema, la corruzione di Berlusconi, la sua operazione di acquisto dei senatori del centrosinistra) e apprendo di avere lavorato per il “socio” di Berlusconi, Agostino Saccà. Da una sua posizione chiave nel cuore dell’azienda pubblica Rai, l’ex direttore generale (ora capo di Rai Fiction) lavora a un suo (suo e di Berlusconi) progetto di impresa privata. Trascrivo da D’Avanzo: «Nonostante i suoi doveri di incaricato del servizio pubblico ha un privatissimo proposito di farsi imprenditore di se stesso, creatore della “Città della fiction” di Lamezia, architetto di “Pegasus”, un nascente consorzio di produttori televisivi sollecitato da alcuni produttori indiani. Qualcosa non va in questa storia, e non solo dal punto di vista etico», conclude D’Avanzo.

Qualcosa non va anche dal punto di vista politico. La mucillagine dilagante (per usare le parole del Censis) degli interessi privati invade e contamina la vita politica e gli impegni istituzionali al punto da far agire nell’interesse dell’impresa infetta (Berlusconi e soci) anche chi si batte in tutti i modi contro di essa.

La mattina del 13 dicembre, mentre parlavo di questa vicenda nel corso del programma «Omnibus» de La 7 , coordinato da una indomita conduttrice decisa a non lasciarsi intimidire dagli urli, mi sono accorto di far parte di una esigua minoranza che considera uno scandalo grave il tentativo esplicito e provato di comprare senatori. Mi sono ricordato che - in coincidenza con i fatti rilevati da Repubblica sulla base di intercettazioni telefoniche in cui Berlusconi entra per caso (intercettazioni della magistratura di Napoli che riguardavano il non irreprensibile ex direttore generale della Rai) - il vivace e attivo capo della opposizione e (come si constata ancora una volta) della illegalità italiana aveva indicato il giorno preciso della caduta del governo, il 14 novembre. Era infatti il giorno in cui un imprenditore italiano residente in Australia si era assunto il compito di concludere “l’affare” se il sen. Randazzo - eletto dagli emigrati italiani in quel continente - si fosse prestato al convenientissimo evento del passaggio incentivato da una parte all’altra del Parlamento. Randazzo ha detto e ripetuto il suo no sia a Berlusconi in persona sia ai suoi mandatari (stando sempre alle intercettazioni e alla de-codificazione di esse da parte dei giornalisti di Repubblica). E Berlusconi ha subito lanciato il progetto dal nome maoista di “Partito della Libertà del popolo” per colmare la sconfitta e il vuoto.

Ma provate a parlarne con uno schieramento di liberi giornalisti italiani nell’era di Arcore, nel corso di una diretta tv come quella di Omnibus. La squadra di firme invitate (Paolo Liguori di Mediaset, Carlo Puca di Panorama e persino il celebre Minzolini, ottimo e intraprendente giornalista che ha l’esclusiva delle frasi confidenziali e virgolettate di Berlusconi) hanno risolutamente preteso di essere al di sopra delle parti. E contestualmente si sono impegnati a dimostrare che “vendere e comprare” senatori è un normale fatto politico. Forse che Follini non era stato comprato dal centro-sinistra? Invano ho fatto notare che un partito impegnato a tassare i suoi parlamentari del nuovo Pd (1500 euro a testa ogni mese) solo per pagare il “loft” di poche stanze in cui hanno sede, in tre o quattro vani, i nuovi uffici, difficilmente avrebbe potuto “acquistare” l’ex vice presidente del Consiglio della Casa delle libertà. Ma l’offesa priva di fondamento dedicata a Follini dalla viva voce di giornalisti che dovrebbero narrare la realtà, era solo una parte della loro fiera esibizione super partes. Tutto il loro impegno era dedicato a spiegare - con qualche urlo in più - al pubblico che tutto nella politica italiana è basato su continue compra-vendite. E che dunque, se c’è un intollerabile scandalo, è quello delle intercettazioni.

Soltanto Gianni Barbacetto (coautore con Marco Travaglio di testi su Berlusconi visti di malocchio dai politici di ogni parte, ma best-seller presso il pubblico italiano) e io abbiamo tentato di dire che quando le manovre che cambiano la politica italiana sono segrete, illegali e pericolose, il venirle a sapere in modo inconfutabile è sempre un atto di difesa della democrazia.

Purtroppo sulla questione intercettazioni lo schieramento dei super partes berlusconiano non è isolato.

Il presidente della Camera Bertinotti: «Ho detto che Silvio Berlusconi è un animale politico e che sulle riforme è un interlocutore indispensabile». «Ma - scrive il Corriere della Sera del 13 dicembre - c’è di più. Il garantista Bertinotti si è appellato al Procuratore di Napoli per verificare se c’è stato il vulnus che sembra appalesarsi nella intercettazione del deputato Berlusconi. Dice Bertinotti al Corriere: “Le regole sono l’essenza della democrazia. E qui mi fermo. È un rito (la pubblicazione delle intercettazioni, N.d.R.) che danneggia anche la magistratura”».

Dice il senatore-avvocato Guido Calvi del Pd: «Diciamo che ho sempre paura che qualche magistrato, come dire, possa deviare dall’esercizio delle sue funzioni. Il controllo del Csm deve ormai diventare estremamente rigoroso. È urgente mettere mano al problema delle intercettazioni che non siano finalizzate all’accertamento del reato perseguito e impedire la fuga prima del legittimo uso processuale».

Ma la pattuglia di coloro che guardano corrucciati alla presunta irregolarità dei giudici di Napoli (che appare infondata perché - come afferma il Procuratore di quella città - la parte investigativa dell’indagine è giunta a compimento e non sembra ci sia stata una fuga di carte segrete) non è affatto isolata. Da una parte si sente (si è sentita nella puntata di Omnibus di cui ho parlato) la voce esasperata di un giornalista come Liguori che sbotta: «Ma con tutti i delitti che ci sono a Napoli proprio di Berlusconi e Saccà si dovevano occupare quei giudici!».

Dall’altra, c’è il desiderio di partecipare alla vasta indifferenza verso il clamoroso attentato alla democrazia. Perché è vero che il deputato Berlusconi è stato intercettato e questo viola le regole. Ma questa violazione - che è apparente, perché gli investigatori stavano seguendo e ascoltando un alto dirigente della Rai circondato di molti sospetti - non è colpa dei giudici. Infatti Saccà e Berlusconi discutevano tutto il tempo non solo di ragazze da piazzare alla Rai per «levarcele dalle balle», ma anche di richieste di Berlusconi a Saccà di «far felice il capo» procurandogli, con i mezzi che si sanno, i senatori che gli mancano affinché Prodi cada quel magico 14 novembre che «il capo» aveva profetizzato. In fondo a sinistra, profondo silenzio.

E quando non è silenzio è preoccupazione. Tutto questo disordine non interromperà il dialogo? Non è meglio, come suggeriscono i senatori-avvocati, separare la giustizia dalla politica? Il ragionamento ricorda le tante altre volte in cui ci ammonivano a non parlare dei processi di Berlusconi, per una sorta di cavalleresca sospensione che avrebbe reso meno aspri i rapporti. Come si ricorderà, ha sempre provveduto Berlusconi, di sua iniziativa, a riaccendere la miccia ora accusando i comunisti di occupare l’Italia, ora facendo descrivere Prodi come “un mascalzone bavoso”.

Questa volta è diverso. Nel pieno della politica, Berlusconi compie un delitto politico, oltre che di corruzione: vuole comprarsi alcuni senatori. Un senatore conferma, comprese sorveglianze, pedinamenti, fotografi pronti allo scatto, strani intermediari. Non è “un’altra storia” come ci dicevano (sbagliando) per il conflitto di interessi. È il cuore dell’unica storia: la politica italiana inquinata da Berlusconi. Il tentativo, illegale e disonesto, di abbattere la maggioranza per dissanguamento.

Non si può e non si deve far finta di niente perché ormai siamo in compagnia degli italiani che sanno tutto attraverso un percorso che non viola alcuna legge.

Certo che il tentativo di trovare un minimo di accordo per una decente legge elettorale deve continuare, non è stato il centro-sinistra a volere una legge elettorale indecente, giustamente definita da loro stessi “porcata” . Certo che tale tentativo va fatto con loro, gli autori della “porcata” (che non hanno mai neppure tentato di giustificare o spiegare, solo un sabotaggio della delicata macchina elettorale che genera ogni volta la democrazia). Meglio se “loro” sono una tavola larga, senza preclusioni, senza esclusi. Difficile? Difficile. Ma dalla parte della maggioranza l’esperienza e la conoscenza di queste cose non manca. Ma non possiamo farci carico di Saccà. Non possiamo far finta di non sapere ciò che tutta l’Italia sa. Non possiamo isolare e lasciare sola la preda che avevamo puntato, il senatore “da comprare” dopo che avevamo fatto una meticolosa ispezione del suo stato patrimoniale. Il grande teatro insegna che la vittima diventa patetica se viene lasciata sola, se non diventa simbolo vantato ed esibito da chi ha scoperto l’inganno. Non credo si debba confondere la necessità urgente (e finora bene impostata da Veltroni) dell’accordo su un punto, la legge elettorale, con una sorta di indulto-distrazione-amnistia generale. O che sia consigliabile aggiungere sdegno per il gesto di rivelare invece che per la rivelazione. La storia, adesso, parte da quella rivelazione.

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Pubblicato il: 14.12.07
Modificato il: 15.12.07 alle ore 8.59   
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 16, 2007, 04:48:19 pm »

Com’è triste l’Italia

Furio Colombo


Il New York Times scrive che l’Italia è in preda a una morsa di sfiducia, dice che la sfiducia genera tristezza, che la tristezza, quando grava troppo a lungo su una persona o un gruppo, diventa rabbia.

Il giornale americano usa due foto esemplari per chiarire il discorso: l’ingorgo dei Tir a Fiano Romano e l’invettiva di Beppe Grillo.

Con un certo calcolo a effetto i due autori dell’articolo, Ian Fisher ed Elisabetta Povoledo, seguono un percorso - da piccoli a grandi luoghi, da piccoli a grandi fatti - senza imporre una gerarchia.

Semplicemente, accuratamente constatano.

Nella loro narrazione, per ragioni che non sono argomentate come sequenza di causa-effetto ma solo come «vere» (nella tradizione giornalistica americana non ci sono impressioni ma fatti), la catena di eventi che potete incontrare in Italia genera tristezza. Gli ingredienti della tristezza sono sfiducia, delusione, assenza di attesa, senso di impotenza e - dopo l’esplosione di rabbia - silenzio. Non ci sono film, teatro o libri degni di essere ricordati e capaci di sollevare il morale. C’è la morte di Pavarotti.

Alcuni intervistati si impegnano a confermare l’immagine cupa. L’Ambasciatore americano Spogli vede l’Italia come le città abbandonate dai gesuiti in Brasile o i templi di Vat, in Cambogia: invasa dalla giungla, che si arrampica, si impiglia, penetra dove c’erano porte e finestre, crea una sua strana bellezza ma impedisce la vita.

Il presidente di Confindustria Montezemolo, dimenticando che il suo predecessore alla presidenza della Fiat, Agnelli, parlava bene dell’Italia con la stampa estera e incoraggiava ad avere fiducia nel suo Paese anche durante i cupi «anni di piombo», fa sapere al New York Times che «stiamo precipitando in ogni classe di competitività».

Parafrasando il film di Troisi e Benigni di un secolo fa, dice alla fine il giornale americano: «Non vi resta che la pizza».

Non prima, però, di avere narrato e messo al centro della scena italiana il fenomeno, giustamente sorprendente, del “vaffa day”, della grande cerimonia di Beppe Grillo che convoca 300mila persone(e tutti vengono) per il suo drammatico e singolare esorcismo: maledire la classe dirigente italiana (qualunque cosa sia, ma soprattutto i politici) come non hanno mai fatto gli americani, condotti a combattere due guerre impopolari che non finiscono, i belgi che stanno per spaccare il Paese in due, gli svizzeri trascinati per la prima volta dal razzista Blocher nella contrapposizione totale tra xenofobi e persone normali, e persino i russi lentamente strangolati da Putin.

Ha ragione il New York Times a mettere al centro del triste paesaggio italiano un segno impetuoso - anche se cupo - di vitalità. La maledizione ha un grande ruolo in tutti i grandi spettacoli del mondo e specialmente nella tradizione della grande Opera italiana, l’unica forma di teatro del mondo in cui il cavaliere bianco non arriva mai, e si muore tragicamente cantando la fine a gola spiegata. Con intelligenza i colleghi del New York Times non cadono nella trappola di giudicare questo fatto unico italiano, di scuotere la testa o con divertimento o con costernazione.

Da bravi reporter vedono il fatto, notano che è sorprendente, affollato, insolito. E si rendono conto che niente accade per niente.

Nel mondo occidentale libero e democratico c’era - c’è - di tutto, dalle banlieue di Parigi incendiate notte dopo notte alle stragi inspiegate (però spiegabili, ci dice Michael Moore) nel cortile delle scuole americane.

Eppure non c’è mai stata finora la maledizione collettiva della cerimonia di piazza Maggiore a Bologna e in tante altre località italiane collegate (8 settembre 2007) convocata da Beppe Grillo.

* * *

Se ci pensate, quell’evento, nella sua unicità di invettiva di massa priva di speranza e vie d’uscita, spiega alcuni fatti accaduti dopo, come le tre vampate di violenza che hanno sconvolto l’Italia e meravigliato il mondo (o almeno coloro che - nel mondo - hanno prestato attenzione).

Prima c’è stato l’assalto allo Stato (ovvero a qualunque simbolo di autorità a portata di mano) delle tifoserie sportive, con morti e feriti.

Segue la rivolta dei taxi che - nella città di Roma - è stata la più malevola e aspra che possa verificarsi in condizioni di relativa normalità (quando cioè tutte le occasioni di contratto e trattativa sono aperte). È stata, la rivolta dei tassisti di Roma, come un conto da pagare, una vendetta troppo a lungo rinviata, piuttosto che un esagerato - benché legittimo - reclamo di cose da ottenere.

Infine - è ciò che ha motivato il severo articolo del New York Times e non sarà certo l’ultimo di questi eventi - l’assalto dei Tir, ovvero gli autotrasportatori italiani contro l’Italia e i suoi cittadini, via medicine e riscaldamento, cibo e comunicazioni. «Abbiamo richieste importanti da fare. Fermi tutti, siamo noi a dettare le condizioni». La scena è quella classica degli ostaggi e dell’atteggiamento di sequestratori i quali, quando vengono descritti in episodi di cronaca, sono sempre definiti “spietati” e “decisi a tutto”.

Dunque la novità che i nostri colleghi americani hanno notato è un Paese contro se stesso. In due sensi, entrambi terribili. Nel primo la colpa è sempre di altri e la pallina non si ferma mai. Poiché la colpa c’è, qualcuno dovrebbe avere il coraggio di dire: «la responsabilità è mia», e interrompere il gioco al rimbalzo delle vendette. Ma non accade.

Nel secondo si assiste a una corsa rabbiosa sotto le mura di un presunto potere come se non fosse un dato stravolto e dannoso della nostra vita comune, ma il confine con un altro Paese, gente e roba estranea di cui non è necessario né ragionevole curarsi. Basta mandarli al diavolo.

Possiamo trovare ed elencare le cause, come fanno alcuni di noi mille volte, perché, a differenza dei giornalisti stranieri, viviamo qui e non siamo affatto convinti che resti solo la pizza. E persino che sia vero.

Ha fatto luce la maledetta fiammata di Torino che ha travolto i cinque operai impegnati nei turni di dodici ore, ne ha uccisi quattro, ha colpito malamente altri e ci ha fatto sapere nel modo più clamoroso che tutto quello che ci dicono in convegni accademici ed editoriali sul lavoro è falso e infondato, che senza un’idea chiara, alta e civile del lavoro, la parola produttività è priva di senso.

Ma proprio da Torino si riproduce - come un mostro da fantascienza - la tremenda catena.

La colpa - ci è stato detto (e per un momento ci hanno creduto molti nel corteo di lutto) - è dei sindacati perché, come gli operai della Thyssenkrupp, si sono battuti per il posto di lavoro più che per la sicurezza.

Tutti sanno, e nessuno dice, che ostinarsi sulla sicurezza voleva dire perdere il posto di lavoro. O la borsa o la vita, era la parola d’ordine di un vecchio cavalleresco banditismo che metteva le cose in chiaro. Qui, in luogo di questa dura ed esplicita frase, si parla di bassa produttività in un convegno e di troppo poca flessibilità del lavoro in un altro, tutti ben frequentati, con ministri e titolari di cattedre. Raramente con testimonianze dei giovani morti a Torino.

Come mai tutto ciò, se il Paese non è più in mano di un padrone ricchissimo che - nel tempo libero - fa il procacciatore d’affari per chi volesse decidere di stragli vicino?

Questo, adesso, non è il Paese di Prodi, la stessa persona che ha portato l’Italia nell’Euro?

Questo, adesso, non è il Paese in cui un nuovo Partito democratico guidato da Veltroni terrà vigorosamente testa a Berlusconi?

È vero. Ma Prodi, ponendo mano al disastro ereditato, ha scelto - forse senza alternative - di cominciare il suo lavoro dalle cantine. Sappiamo che lavora bene e non lo vediamo. Quasi non sentiamo mai la sua voce. Lo intravediamo, ogni sei sette giorni, per le strade di Bologna, scortato dal suo portavoce che tace, o in incontri all’estero. Quanto a Veltroni, è entrato in scena di corsa come Benigni, un segnale festoso e per questo bene accolto.

Ma una questione grave e urgente - un Paese come l’Italia senza la legge elettorale - lo ha costretto ad appartarsi e immergersi in un lavoro tecnico quasi a tempo pieno. E poiché quel lavoro richiede un minimo di intesa con gli avversari politici lo deve fare con Berlusconi. È come se Hillary Clinton e Barak Obama si appartassero tutto il tempo con Bush. L’opinione pubblica americana non la prenderebbe bene, anche se ci fossero impellenti ragioni. Sto descrivendo una sequenza di fatti e di immagini che è, allo stesso tempo, necessaria e disorientante.

La civiltà dell’alternanza, infatti, richiede netta e visibile contrapposizione. L’Italia ne è priva. E molti cittadini o si sentono soli e danno l’immagine di desolata tristezza di cui parlano i giornali americani. O si sentono liberi di rivoltarsi contro l’intero mondo politico, perché - dicono - non vedono le differenze. Certo, è un errore. Ma non tocca a noi rimediare riportando subito l’Italia a un dialogo umano, di solidarietà e di speranza? Vorrei precisare: non parlo del dialogo fra parti politiche contrapposte, che è sempre tecnico e spesso politichese.

Parlo del dialogo non stop fra governo e cittadini, fra maggioranza di governo e gente che aspetta una risposta e per ora si sente esclusa, si sente sola, si sente in pericolo. E diventa un pericolo, come il giornale americano ci ha spiegato.

colombo_f@posta.senato.it


Pubblicato il: 16.12.07
Modificato il: 16.12.07 alle ore 7.40   
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 19, 2007, 11:18:30 pm »

Una moratoria, tre vittorie

Furio Colombo


Diciamo la verità: Roma avrebbe dovuto suonare le campane come si fa nei giorni di gran festa. Per fortuna al Colosseo si sono accese le luci per dare l’annuncio a chi ancora non lo sa, a chi non ha seguito giornali radio e telegiornali.

Per fortuna la gente del mondo lo sa: l’Italia testarda e neppure spalleggiata (o spalleggiata con distrazione) dall’Europa, ha fatto ciò che le armi non fanno: ha cambiato le carte in tavola nella storia del mondo.

Noi sappiamo benissimo - e lo sanno coloro che leggono questo giornale - che alle spalle dell’Italia, che si è fatta avanti con l’immagine e il prestigio del suo governo, della sua diplomazia, e di ciò che sa far meglio - discorsi di pace e non di potenza - c’è il Partito Radicale e l’ossessione insieme tragica e festosa di Marco Pannella.

C’è l’impegno accanito del Partito Radicale (Radicali italiani, Partito transnazionale, l’organizzazione radicale “Nessuno tocchi Caino” Radio Radicale, i convegni, le conferenze stampa di Pannella, a cui i giornalisti vanno, se vanno, con un sospiro e se scrivono più di venti righe il loro giornale, anche se ha sessanta pagine, se le inghiotte lasciando solo un po’ di colore) un impegno che attraverso gli anni e alcune brucianti sconfitte, non è finito e non si è allentato mai, non si è mai concesso distrazioni o vacanze.

Ora dobbiamo dire che un buon governo, che deve avere capito e creduto in quel che faceva, e non solo un favore ai Radicali, ha messo l’immagine e il prestigio del Paese Italia davanti all’ostinato progetto, ha scosso l’apatia un po’ incosciente dell’Europa, ha lavorato bene a far crescere giorno per giorno il numero dei Paesi grandi e piccoli che hanno detto sì e hanno lavorato bene a rendere possibile il gruppo degli astenuti, che hanno impedito la levitazione dei no e hanno allargato l’immagine dell’Italia come Paese serio, impegnato, credibile.

Dunque l’Italia Paese e l’Italia governo hanno vinto uno splendido gioco d’azzardo, il più difficile se si pensa al mondo in cui viviamo, all’epoca che stiamo attraversando: la vita contro la morte, la vita contro il boia, la vita contro la giustizia come vendetta. Come non riconoscere merito a questo governo italiano per qualcosa che prima non era mai accaduto nonostante l’impegno valoroso di alcuni diplomatici italiani (penso all’Ambasciatore Fulci alle Nazioni Unite negli anni Novanta) nonostante l’impegno formale, però molto meno tenace di quest’ultimo episodio, finalmente coronato di successo. Il fatto è che - come in uno strano teatro d’avanguardia - alle spalle di questo governo il cui successo va riconosciuto e lodato, ci sono - come c’erano fin dall’inzio - i Radicali, e sopratutto i tre ostinati protagonisti di più di un decennio di testarda e ripetuta battaglia, anzi una vera e propria guerra della non violenza: Marco Pannella, Emma Bonino, Sergio D’Elia. C’è una lezione - in questa vittoria - su ciò che vale quel partitino. Sarebbe meglio, d’ora in poi, prenderlo sul serio, visto che la loro tenacia ha messo in scena, come eroe del momento, il Paese Italia, cittadini e governo.

Però perché non trarne anche una lezione morale e politica, in un Paese in cui, a causa della frivolezza esibizionistica creata dai talk show della televisione, ogni promessa evapora, ogni impegno finisce, ogni cosa già fatta, e magari quasi finta, viene abbandonata per farne un’altra o meglio per annunciarne un’altra che magari non si farà?

La circostanza straordinaria su cui abbiamo la fortuna e l’orgoglio di riflettere, ci dice che la lezione radicale di oggi non dovrebbe andare perduta anche per coloro che non condividono impegni e battaglie di quel partito. È la persuasione che le cose non accadono da sole, che la meticolosa volontà che si rinnova sempre, si rafforza coi digiuni, si conferma ricominciando da capo, mentre gli altri politici alzano gli occhi al cielo prima e dopo partecipare all’ennesimo e un po’ umiliante passaggio televisivo. È la capacità di cogliere, in un paesaggio confuso e contraddittorio, la cosa più importante, in questo caso la pena di morte. E la visione: saper vedere, e saper spiegare. Quante cose tremende porta con sé la pena di morte accettata come normale, dal disprezzo dei più deboli alla violazioni sistematiche dei diritti umani. E quante cose la pena di morte si porta via quando scompare.

La crudeltà nelle carceri, ma anche verso le carceri. La tendenza a dimenticare sia l'affollamento che la intollerabile condizione di vita, sono tutti fenomeni che viaggiano al seguito di una civiltà che crede nel diritto di uccidere e nella quale diventa più facile e più naturale vedere nella guerra una soluzione, una virile via d’uscita.

C’è un’altra lezione in questo evento ottenuto con tanta tenacia dai Radicali e tanto (finalmente) impegno di governo e di diplomazia: è la lezione del senso dei limiti che rende possibile l’impossibile. È la stessa cultura che proponeva - con realistica intelligenza - di rimuovere Saddam Hussein (aveva quasi accettato) piuttosto che distruggere l’Iraq e la sua gente. Innocenti inclusi.

In questo caso l’idea è la moratoria. Niente viene imposto a nessuno, non si mettono le mani nelle leggi degli altri, non si fa la parte dei buoni. Il successo grandioso è questo: avere chiesto e ottenuto da tutti i Paesi del mondo di fermare il boia e di pensare. Serve la pena di morte?

Non è un caso se proprio in questi giorni, per l’esattezza tre giorni fa, il popoloso Stato americano del New Jersey, uno dei più importanti anche dal punto di vista economico e politico, negli Usa, ha dichiarato all’improvviso la fine della pena di morte. Nessuno negherebbe, negli Stati Uniti che stanno cambiando, l’influenza e la spinta della moratoria italiana.

Mentre scriviamo le campane non suonano. Nonostante questa straordinaria vittoria della vita e della civiltà che si oppone alla morte come pena legale. Temono forse di celebrare le stesse persone che si sono strette intorno e Luca Coscioni, a Piergiorgio Welby, le stesse che si intestardiscono sul testamento biologico e mìnel rispetto per le coppie di fatto). Ma anche senza campane il New York Times potrà dire che oggi l’Italia è meno confusa, meno triste, e con un po’ di orgoglio.

Merito di un buon impegno di governo. Merito dei radicali.


Pubblicato il: 19.12.07
Modificato il: 19.12.07 alle ore 13.01   
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