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Autore Discussione: Roberto COTRONEO.  (Letto 37048 volte)
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« inserito:: Giugno 18, 2007, 12:33:33 pm »

Una Piazza per la Libertà

Roberto Cotroneo


Il convitato di pietra sta lì, nella piazza. Chiuso da cancellate che sembrano invalicabili. È la basilica di san Giovanni: la basilica più importante al mondo dopo San Pietro, ovviamente. Ormai assiste alle nuove guerre, alle nuove contrapposizioni di un paese che sembra cambiato. Dove gli schieramenti si sono fatti netti, e dove poco più di un mese fa sono scesi in piazza i cattolici del Family Day, per protestare contro i Dico e affermare il ruolo della famiglia tradizionale. Ieri il convitato di pietra ha assistito a un altro spettacolo, di tenore opposto.

E non solo perché era il Gay Pride, ma anche perché si trattava di un corteo gioioso e civilissimo, rispettoso e persino liberatorio. Fatto di giovani e meno giovani, gay ed eterosessuali. Fatto di musica e molta ironia, di carri allegorici certo, di qualche risvolto vagamente kitsch e provocatorio, ma soprattutto fatto da gente che si sente minacciata. E non sto parlando solo dei gay e dei loro diritti, ma sto parlando di tutti quelli che hanno la sensazione, da un po’ di tempo a questa parte, di essersi svegliati in un paese che sino a qualche tempo fa non era neanche immaginabile. Un paese che in certe cose sembra tornato indietro di quarant’anni, che si oppone ai diritti delle minoranze con manifestazioni quasi oceaniche come quella di San Giovanni del mese scorso.

Ieri erano in meno, era ovvio. Eppure dal microfono gli organizzatori scherzavano sulle cifre: «Siamo più di un milione», dicevano. Ed erano fischi, risate, e divertimento. Non erano un milione, ma erano tanti lo stesso. E si sentiva che la gente voleva esserci perché i diritti rivendicati ieri, con tutti i distinguo che ognuno può avere per sé, sono i diritti dei gay oggi, e quelli di chiunque altro domani. Mentre il corteo sfilava, tra musica e gente che ballava si notavano sostanzialmente due cose. La prima era che c’era allegria, che era tutto un sorridersi tra quelli che sfilavano. La seconda era che nella sua allegria era un corteo serissimo, che andava oltre la manifestazione, e arrivava al cuore di un problema che ormai sono in troppi a sentire. Il cuore del problema è l’intolleranza, la cupezza, il clima torbido che in molti vogliono far respirare al paese. Preoccuparsi, polemizzare con questo gay pride, da parte dell’opposizione, ma anche di alcune frange della maggioranza è terribilmente fuori luogo, e può spiegarsi solo in un modo: con un irrigidimento civile e sociale di questo paese.

Eppure, mentre il festoso corteo sfilava per Roma, non ci si doveva distrarre dai visi delle persone che non partecipavano, e che erano ferme ai due lati della strada per vederli passare. Erano vecchi, donne, gente in giacca e cravatta che si capiva non avrebbero mai partecipato, ma che avevano scelto, in un certo senso, di curiosare. Forse per capire quanto di eccessivo o di trasgressivo e persino di “immorale” poteva compiersi tra i manifestati. Questi osservatori esterni andavano osservati per rendersi conto di una cosa. Avevano tutti una sorta di sorriso. E non era un sorriso ironico, ma un sorriso di sorpresa. Come a dire: ma guarda come sono allegri, e non sarà che abbiano anche un po’ ragione.

E l’altra piazza? Quella di un mese fa? Nessuno deve scandalizzarsi se non si può che dire una cosa: era più cupa, meno autentica, più politica persino. L’altra piazza era la maggioranza silenziosa quando decide di entrare in campo, e ribadendo le proprie idee e i propri diritti non dimentica di negare quelli degli altri. L’altra piazza, quella di un mese fa, era una sfilata di potere, era un operazione mediatica decisa dall’alto. Questa piazza era una piazza. Senza troppe transenne, molto normale e molto autentica, ma soprattutto molto corretta. Chiedere diritti, mostrare con orgoglio e soprattutto con naturalezza una verità, una realtà, un pezzo di paese che è cresciuto in questi decenni, che esiste, e che non si può dimenticare o cancellare perché vescovi e movimenti cattolici si sono riscoperti di una intolleranza sorprendente. Ieri c’era un paese civile in piazza, un paese moderno, un paese europeo come tanti. Un mese fa, al Family Day, c’era uno psico-dramma incomprensibile.

Alla fine hanno cominciato a parlare i politici e gli organizzatori. Il pomeriggio romano andava a sfumare verso la sera. I telegiornali hanno inquadrato tutto quanto faceva folclore. Il resto del paese avrà pensato a una sorta di baraccone semovente. Quelli che c’erano, e quelli che osservavano senza esserci del tutto, hanno capito che era giusto. Mentre la notte scuriva sempre più la struttura della basilica di San Giovanni e la rendeva meno incombente, come un’ombra lontana e innocua.


Pubblicato il: 17.06.07
Modificato il: 17.06.07 alle ore 12.52   
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 22, 2008, 12:11:26 am »

Andrea Camilleri: «Il Sud muore tra rifiuti e Cuffaro»

Roberto Cotroneo


Dall’immondizia in Campania al caso Mastella, passando per la condanna del governatore della Sicilia. Ne discutiamo con Andrea Camilleri, siciliano appunto, uno degli scrittori più famosi del mondo. «È la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo. Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due».

L’immondizia in Campania, il ministro Clemente Mastella indagato e la moglie agli arresti domiciliari. Antonio Bassolino travolto dalle accuse. Totò Cuffaro, governatore della Sicilia condannato a cinque anni con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. E nonostante questo decide di non dimettersi. La politica, di centro destra come di centro sinistra, travolta da una vecchia storia che ci portiamo dietro da 150 anni, e forse di più. Fatta di due paroline semplici semplici: questione meridionale. Anzi, di più: la nuova questione meridionale, che ormai non è più soltanto emergenza criminalità, ma emergenza totale. Siamo andati a bussare alla porta di Andrea Camilleri, siciliano, uno degli scrittori più famosi del mondo. Per capire assieme a lui i termini di questa emergenza, che rischia innanzi tutto di travolgere il centro sinistra, e l’intero paese.

Camilleri, cominciamo da Cuffaro?

«Per ciò che riguarda Cuffaro, io esprimo la mia solidarietà assoluta a Cuffaro».

Prego?

«Siamo in un periodo in cui va di moda esprimere la solidarietà, e quindi io non vorrei essere da meno. Per un fatto molto semplice: non si capisce perché venga condannato a cinque anni e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, un signore che ha passato un’informazione a un altro signore, non sapendo che quest’altro signore era legato alla mafia. Quindi o lo si assolve riconoscendogli la buonafede, o lo si condanna a quindici anni, con tutte le aggravanti del caso».

Con questo ragionamento cosa vuole intendere?

«Che ancora una volta la magistratura ci mette il carico da undici, nella direzione dell’ambiguità. Noi viviamo in un paese assolutamente ambiguo dove non c’è più un’istituzione che non sia toccata dall’ambiguità dei comportamenti. Trovo questo il punto di decadenza massima di un paese».

Cerchiamo di mettere a fuoco il concetto di ambiguità. Ambiguo perché non si capisce? O ambiguo perché si dice una cosa per l’altra?

«No, si capisce benissimo, purtroppo. Senonché questa cosa che si capisce benissimo viene proposta in un modo tale che diventa un’altra cosa. Noi abbiamo avuto, per esempio, una sentenza esemplare, per richiamarci a un titolo di Leonardo Sciascia, che è quella di Giulio Andreotti. Andreotti è stato riconosciuto, da una sentenza definitiva, colluso con la mafia fino al 1980. Ma questi reati sono stati prescritti. Come è stata presentata all’opinione pubblica? Come un’assoluzione per Andreotti. Ecco un caso di ambiguità».

D’accordo. La sentenza Cuffaro sarà pure ambigua, ma lui dovrebbe comunque dimettersi.

«Non lo fa perché lui dice: vedete, non sono stato condannato per concorso esterno con la mafia. Dunque posso restare al mio posto. Nonostante avesse dichiarato che in qualunque caso e con qualunque sentenza lui si sarebbe dimesso. Questi qui non si scrostano dal loro potere. Perché scrostarsi dal potere per Cuffaro vuol dire far cadere l’Udc in Sicilia».

Un altro che non si dimette è Bassolino. Per motivi assai diversi. Ma certo gravi.

«Bassolino? Senta, i miti invecchiano. Non dovrebbero, ma purtroppo invecchiano. Il compito di un mito è anche quello di avere la percezione dell’appannamento del mito. Se non c’è questa percezione si finisce travolti dalla monnezza».

E invece?

«E invece io penso che se non fosse stato per il papa, se non fosse stato per Mastella, i politici italiani avrebbero trovato il miglior argomento al loro livello della discussione: la monnezza. Quello è un livello dove si muovono bene».

Vuol dire che la monnezza è una metafora dei mali italiani?

«La monnezza è la punta evidente di quello che per anni si continua a ignorare volutamente, e che è la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo. Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due».

Ma sono anni che la forbice si allarga sempre più.

«Vede, nell’Ottocento, quando cominciò a sorgere la cosiddetta questione meridionale, c’erano parecchi deputati meridionali che si battevano per la questione meridionale. Oggi si battono per altro, non per la questione meridionale».

Parliamo della sinistra. Dal luglio scorso, con il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino a oggi sembra passato un secolo. L’immagine del Pd fatica a uscire fuori. I rimbrotti del papa, il problema della Campania, con Bassolino, con Mastella, regione amministrata dal centro sinistra, il trasferimento di magistrati come De Magistris...

«Senta, io verso il partito democratico ho avuto un atteggiamento chiaro fin dal primo momento. Ho pensato che era un qualcosa che non mi riguardava. L’estate scorsa Veltroni mi chiese di fare da garante per ciò che riguardava il Pd in Sicilia».

E lei cosa ha risposto?

«Rinunciai, perché istintivamente ho pensato che non volevo avere nulla a che fare con il Partito Democratico. Prima ancora che un fatto politico era un fatto sentimentale. Per me a 81 anni, era la perdita totale della mia identità di comunista. Mi hanno fatto diventare il mio abito da comunista un vestito da Arlecchino, pieno di vari colori, e non ero disposto a perdere gli ultimi dieci centimetri, di colore rosso che mi erano rimasti, di quel vecchio costume che avevo indossato per settant’anni. Però... ».

Però?

«Tutto quello che è successo dopo nel partito democratico non ha fatto altro che confermare le mie riserve. Comprese le inutili trattative con Berlusconi sulla legge elettorale, dove Veltroni ha fallito».

Ma ne è sicuro? La partita non è ancora per niente chiusa.

«Senta, il cavaliere è abituato come un danzatore a fare delle giravolte, e l’altro ieri ha fatto un’altra giravolta, e ha detto: meglio il referendum. Un’affermazione che pone fine a qualsiasi trattativa possibile sulla legge elettorale. Il problema non è mettere la signora Lario all’interno del Pd, ma è l’identità del Pd. Dove trovi la senatrice Binetti, ma trovi anche persone lontanissime dalle posizioni della Binetti».

Questo è pluralismo, posizioni diverse, è un arricchimento. O no?

«Certo. Io ogni domenica a casa mia ospito degli amici. Uno dei quali è fascista. L’altro giorno si è ammalato e io ho visto il mio salotto diventare grigio perché mancava la sua voce. A casa mia. Non in un partito politico. Un partito politico non può avere che dei timoniere in una direzione. E non può avere dei timonieri che mettono la rotta su diversi percorsi».

Lei pensa che la nuova questione meridionale sarà l’elemento che rischia di mandarci tutti a fondo?

«Ma vede. Io penso che nel 2008 l’operazione colonialista, iniziata subito dopo l’unità d’Italia nei riguardi del sud, sia arrivata al punto finale: questa colonia del sud rendendo sempre di meno, sempre di più viene abbandonata a se stessa. E la colonia del sud è come se non facesse parte dell’Italia, come qualche cosa di aggiunto all’Italia. Però se poi vado a vedere chi costituisce la mente direttiva delle industrie del nord, dell’informazione del nord, mi accorgo che sono dei meridionali. E allora mi sento in dovere di chiedere una quantificazione in denaro delle menti meridionali che promuovono il nord».

Vuole fare il conto?

«Voglio metterlo sul piatto della bilancia. Voglio vedere quanto può valere il cervello di un industriale meridionale che lavora e produce ricchezza al nord».

Ci sono cervelli del nord che producono ricchezza al sud?

«No, non esistono, quel poco di ricchezza del sud è prodotta da gente del sud».

Lei ha una spiegazione?

«La spiegazione risale al 1860. Quando una rivoluzione contadina venne chiamata brigantaggio. Per cui uccisero 17 mila briganti che non esistono da nessuna parte del mondo. Ed erano invece contadini in rivolta, o ex militari borbonici. Tutto già da allora ha preso una piega diversa. Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così».

Appunto, torniamo a oggi. Tutti questi danni sembrano arrivare sulle spalle della sinistra. Ma ancora non abbiamo toccato il caso Mastella.

«Mastella è un errore politico di Prodi. Che ora sta scontando amaramente. Fino al giorno prima della formazione del governo, io avevo appreso che Mastella era in ballottaggio con Emma Bonino per andare al ministero della difesa. Ci siamo svegliati il giorno dopo e abbiamo saputo che Mastella era diventato ministro della Giustizia. Non abbiamo avuto spiegazioni su cosa sia avvenuto quella notte. Ma è certo che fin dal primo momento, io personalmente, dissi: questo è un errore madornale».

In che senso?

«Mastella era il meno indicato a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Intendiamoci: non è detto che doveva andarci un giacobino. Sarebbe stato un errore di pari importanza. Ma al ministero della Giustizia bastano persone di buon senso. Non dico di mettere Francesco Saverio Borrelli. Ma una persona meno coinvolta di Mastella in quella che è la concezione della politica come merce e come potere. Noi ci aspettavamo un governo specchiato e adamantino. Mastella non è quella persona. Noi sappiamo che Mastella è un uomo che ama trattare».

E adesso che cosa si fa?

«Adesso assistiamo alle conseguenze. Ieri Berlusconi, cupamente, con il foularino al collo, ha detto: dobbiamo tornare subito a votare per una sostanziale riforma della giustizia. E tutti sappiamo cosa significa, per lui, la riforma della giustizia».

Un’ultima domanda: lei pensa questo paese sia profondamente corrotto dal punto di vista filosofico e culturale?

«Sì. Io sarò un pazzo però c’è una cosa che mi gira per la testa da un sacco di tempo: gli italiani sono un popolo incolto. Basta vedere quello che leggono e quanto leggono rispetto agli altri popoli. Sono convinto che Berlusconi il suo potere lo ha preparato già da 30 anni a questa parte, e dal momento in cui ha indirizzato in un certo modo le sue tv commerciali. Da quel momento il livello culturale degli italiani si è abbassato in maniera esponenziale. E lo vediamo dai deputati che produciamo. La nostra è una nazione destinata a un misero decadimento se non avviene uno scossone».

E lei crede sia ancora possibile questo scossone?

«Noi siamo capaci di scossoni, ma solo quando arriviamo alle porte coi sassi, come dicono i fiorentini. Non riusciranno più a fare la legge elettorale. Arriveremo al referendum. Va bene così. Sarà devastante? Che lo sia. Vedremo se poi riusciranno a rendersi conto che si devono veramente cambiare le cose».

roberto@robertocotroneo.it



Pubblicato il: 21.01.08
Modificato il: 21.01.08 alle ore 8.23   
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 25, 2008, 11:00:27 pm »

Che c'azzecca Neruda?

Roberto Cotroneo


I “pianisti”, gli stenografi che al Senato come alla Camera sono incaricati di trascrivere ogni parola che viene detta in aula, dovrebbero saperlo che stanno mettendo su pagina il miglior teatro dell’assurdo, dalla «Cantatrice calva» di Ionesco a oggi. Peccato che, dopo anni di becerate berlusconiche, l’italiano medio può aver dimenticato chi sia mai stato Eugene Ionesco, e cosa sia mai il teatro dell’assurdo. Ma per farsene un’idea ci voleva poco.

Bastava guardare quel palcoscenico che era l'aula del Senato per avere chiaro cosa stesse accadendo. Il totale «non senso» di una parte della classe politica senza un benché minimo senso di responsabilità. Ma anche senza il benché minimo senso del ridicolo.

Ora tralasciamo la scenata agghiacciante del senatore dell'Udeur Barbato, trattenuto dai commessi a stento, che si saranno anche dovuti pulire il palmo della mano dallo sputo trattenuto del Barbato. Pazienza e solidarietà per il povero Cusumano che sviene sullo scranno, con richiesta urgente di defibrillatore.

Ma dopo tutto questo ci siamo dovuti sorbire Clemente Mastella che anziché parlare cosa fa? Tira fuori un foglietto con una poesia di Neruda, tradotta naturalmente, mica in originale. Neruda, dico. E, come avrebbe detto Antonio Di Pietro, che con Mastella ha un conto apertissimo da sempre: «che ci azzecca Neruda con Mastella?». Niente, infatti la citazione gli esce male. Legge malissimo la poesia, anzi dà l'impressione che qualcuno gliela deve aver girata questa mattina, all'ultimo momento. «Questa va bene, Clemente, fa il suo effetto». E lui, gongolante a sciorinare i versi, come se finalmente tutta quella inconsistenza e volgarità, tutto quel mastellismo, che ha espresso tra corna e sputi pochi minuti prima, e al meglio, il suo sodale Barbato, potesse scivolare via come lo sporco più sporco dei detersivi per cucina, che lucidano, brillano, non graffiano le superfici e non lasciano residui.

Legge i versi maldestro, Pablo Mastella; maldestro perché non gli appartengono, come non gli appartiene Neruda. «Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce»: mai versi furono così profetici.

Non è una delle migliore poesie di Neruda, che non è neanche un grande poeta, e se proprio si voleva impressionare con la cultura c'è di meglio in giro. Soprattutto grandi poeti italiani del Novecento, che non c'è neppure bisogno di tradurre. Ma si sa, Pablo Mastella vuole farci capire che il suo è un travaglio esistenziale e vitalistico. Persino situazionista, per certi aspetti. La legge tutta la poesia, dopo gli sputi e le grida, dopo le ironie e le parole a vuoto, in quel clima senza futuro e senza il benché minimo senso di reponsabilità. La legge tutta tranne l'ultimo verso: quello, qualcuno, glielo ha depennato, non andava tanto bene. Lentamente si muore se non si cambia, lentamente si muore se si tiene troppo Prodi, lentamente si muore se ci si ostina a fare il ministro della Giustizia, ma poi Mastella dimentica di leggere: «Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità».

Forse Mastella ha ritenuto che di ardente c'erano solo le grida del suo collega di Udeur Barbato, e dunque non era il caso di tirar fuori la pazienza. Con il senatore Turigliatto che dichiara di non votare per il governo con l'aria di uno che sembra non non capire dove si trova davvero, e perché e dall'inizio della legislatura. Con il senatore D'Onofrio che ancora un po' tira fuori un mazzo di tarocchi: «Il senatore Cossiga sostiene che quello che io dico si verifica poi puntualmente. E dunque siccome penso che il governo cadrà. Vuol dire che a voi, presidente Prodi, le cose andranno male». E Roberto Castelli, leghista padano, pronto a trasformarsi in storico, esibendo un quiz di cattivo gusto. Indovinate quale di queste frasi è stata pronunciata da Benito Mussolini nel celebre e drammatico discorso del Teatro Lirico di Milano nel 1944, e quali invece sono state pronunciate da Romano Prodi. Agghiacciante per per scarso rispetto delle istituzioni e per ignoranza storica. Ma non è che si può pretendere molto da Castelli, e anche questo si sa. Ma appena si ha la coda si paglia, appena si sente il profumo del potere che mette tutti d'accordo, subito, si salta sul carro di una «porcata» di legge elettorale per riprendersi quello che viene considerato un maltolto. E siccome «pare brutto» come dicono a Roma, metterla giù facile facile, smaccata più di quanto non sia, sono tutti pronti a mettere mano alla cultura, o si fa per dire. A riferimenti storici raffazzonati, a parallelismi vergognosi, e a Pablo Neruda. Citato da Mastella.

Lo spettacolo era tra i peggiori che si potessero immaginare. Più che ridicolo era grottesco, un grand guignol istruttivo e totalmente in cattiva fede. Facce di bronzo come mai se ne erano viste così. Avrebbero tutti preferito non sfilare a dire no, mettendoci la faccia; per primo Mastella, per secondo Lamberto Dini. L'hanno dovuto fare. Ma quel Neruda è quasi più insultante degli insulti di Barbato: «Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati».

Neanche troppo lentamente, andando avanti così, muore un paese. Riguardo a Mastella, ci sembrava stesse benissimo, per fortuna, nonostante avesse fatto sapere di un lieve malore nella mattinata. Però Clemente Mastella che legge e male il comunista Neruda è una cosa che non si vorrebbe vedere e sentire mai più. Per favore...

Pubblicato il: 25.01.08
Modificato il: 25.01.08 alle ore 15.08   
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 01, 2008, 06:02:38 pm »

La compagnia degli ectoplasmi

Roberto Cotroneo


C’è una celebre vignetta di Altan che diceva: «Mi vengono in mente idee che non condivido». Riflettevo su quanto accaduto in questi giorni. Soprattutto sulle posizioni di due leader politici, che non troppo tempo fa, durante la campagna elettorale del 2006, facevano parte della Casa delle libertà. Erano due dei tre tenori, come dissero allora. Il primo tenore era Silvio Berlusconi, e va da sé. Il secondo e il terzo Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini. Tutti e tre d'amore d'accordo, fotografati assieme, pronti a dare battaglia nella campagna elettorale che la sinistra doveva vincere con grande margine. E che vinse con quasi un pareggio e una legge elettorale perfida, e approvata apposta dal centrodestra per non dare stabilità al governo della sinistra. E questo lo sappiamo.

Negli ultimi giorni la Cdl è rinata, quando sembrava ormai una storia finita. Resuscitarla è stata dura, ammettiamolo. Le vecchie ombre erano difficili da scacciare, i ricordi, brucianti di parole non troppo tenere, sembravano impossibili da cancellare. Era solo il 26 novembre scorso quando il Cavaliere etichettava la Cdl un ectoplasma, per colpa dei suoi alleati, Fini e Casini. Tutto dimenticato. Complice il luccichio delle monete d'oro dei posti di governo, del controllo dei gangli vitali del potere, si è passato sopra ogni cosa. Con una leggerezza ammirevole, e con una faccia di bronzo quasi scientifica.

Cominciamo da Fini. L'uomo che doveva candidarsi a essere il Sarkozy italiano. Il traghettatore dei missini dall'estrema destra verso la sterminata terra in cui i conservatori, i moderati possono pascolare liberamente. La destra rispettabile, la destra anche responsabile, anche un po' sociale, anche un po', si sarebbe detto un tempo, parastatale. Ma tanto rassicurante. Fini aveva smesso sin da Fiuggi l'orribile impermeabile beige, e aveva abbracciato la fede moderata. Sdoganato allora, ma davvero furibondo qualche mese fa, quando di fronte a un'uscita, anche un po' senile di Berlusconi, invidioso dei gazebi di Veltroni e del nascente partito democratico, si era inventato il partito delle libertà. Fini gli aveva risposto testuale: siamo alle comiche. E il dissidio sembrava insanabile. Specie dopo che Berlusconi incontrava Veltroni, battendo i suoi sul tempo, per cercare una via per le riforme.

Sembrava un nuovo film. Fini incontrava Veltroni, Veltroni incontrava Berlusconi. Casini incontrava Fini. E poi vedeva Veltroni, con Franceschini. Sembrava un torneo amichevole di calcio, dove le squadre mostrano come si fa a portare avanti una politica responsabile e degna di questo nome. Ma dietro l'angolo c'erano i due bravi Mastella e Dini, che anche con uno sbarramento del 2% (non c'era bisogno del 5), anzi basterebbe forse anche l'1%, diventerebbero dei leader da campanile, ma quello vero: uno qualunque di un paese sperduto da comunità montana. Così quelli sfiduciano, sfilano in Senato, votano no, mettono in crisi Prodi, e il luccichio del tesoro torna inaspettato. Il forziere si riapre. Come il pirata Long John Silver davanti alla fossa del tesoro, nel romanzo di Stevenson. Pronto a cambiare atteggiamento a seconda di quello che sarebbe accaduto, e a fare rocambolesche giravolte di alleanze. Così è avvenuto in questi giorni. Fini dimentica le comiche e si ripresenta sottobraccio a Berlusconi. Bisogna andare a votare. Subito. Ma come? Il Porcellum, il dialogo, le riforme? Niente, qualche sondaggista, come un mago merlino nascosto nei laboratori segreti delle alchimie politiche deve aver detto che il distacco con la sinistra è di 10 punti. E figuriamoci. Ai sondaggisti ci credono sempre tutti.

Persino Casini, che era andato oltre le comiche, e che aveva tenuto atteggiamento da grande attendista, tra cosa bianca, tra io vado da solo, e con Berlusconi proprio non ci capiamo... Negli ultimi 12 mesi ha continuato a spiegare a tutti che i voti dell'Udc non sarebbero mai andati in soccorso al governo. Ed è stato così. Mettendo però in chiaro che si sarebbe ben guardato dal metterli a disposizione dell'opposizione, da cui forse era ancora più distante. Anche a crisi aperta, tra corna, svenimenti, spumante e polemiche, Casini aveva detto subito: governo istituzionale, tecnico, a tempo, finalizzato, perché con questa legge elettorale non si può andare a votare. Non rimettiamo 35 partiti in parlamento. Il giorno dopo, ma guarda un po', le elezioni erano impellenti. Forse Berlusconi ha mostrato a Casini il luccichio della Farnesina: che è una di quelle offerte che non si possono proprio rifiutare.

Così Fini e Casini, uniti un tempo, in un tempo vicinissimo, contro il solito Berlusconi, quei Fini e Casini che volevano ridiscutere la leadership del centrodestra si ritrovano di nuovo a fianco a Berlusconi. E Fini l'altra sera a «Matrix», alla domanda di Enrico Mentana sulle polemiche dei mesi scorsi cosa risponde? In sostanza quello che ha sempre detto: storie vecchie e poi il partito delle libertà non sta più nell'agenda politica. I tre tenori son diventati tre baritoni, se non tre bassi, ma son tornati. I due comprimari hanno delle facce che non ci crede nessuno che vogliono andare alle elezioni per il bene del paese. Casini continua a parlare di margini stretti, strade strette, strettoie e vicoli ciechi. Insomma ci sta stretto. E ieri che ha incontrato Berlusconi si è messo a parlare persino di legislatura costituente. Trovata mediatica tutta da capire.

E Fini? Che cosa indosserà per rendersi credibile nella prossima legislatura Costituente, con Storace, la Mussolini, Mastella, Dini, e tutto il resto della compagnia di giro? Difficile dirlo: tutto cambia di continuo e fare i giornali con questi qui è davvero difficile. Dipende dai sondaggi, dai margini stretti, che poi diventano larghi, da Mastella, Dini, e dalla Lega. Dipende dalla posta in gioco. Metti che tra un mese Veltroni recupera e il distacco si fa più sfumato? Metti che poi le riforme fanno bene al paese ma fanno male alle loro alleanze? Lo spettacolo di questo centrodestra nella gestione di questa crisi, Mastella e Dini inclusi, è spiazzante. La corsa alla diligenza è iniziata. Anche se il fiato non è più quello di un tempo. D'altronde non era quel vecchio e molto sopravvalutato conservatore di Giuseppe Prezzolini a dire che «la coerenza è la virtù degli imbecilli»?

roberto@robertocotroneo.it


Pubblicato il: 31.01.08
Modificato il: 31.01.08 alle ore 8.37   
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 19, 2008, 02:50:10 pm »

Se il Cavaliere si arricchisce

Roberto Cotroneo


E poi dicono che siamo un paese normale. Un paese dove la politica è vicina al cittadino. Dove le possibilità di partenza sono uguali per tutti, un paese uguale a tutti gli altri del mondo occidentale. Ieri le agenzie hanno diffuso i dati dei redditi dei politici italiani del 2006. E naturalmente il più ricco di tutti è Silvio Berlusconi. Fin qui la notizia non c’è, e nessuno si sogna di mettere in discussione le capacità manageriali e i redditi del leader dell’opposizione.

Quello che però appare abnorme è un’altra cosa. Ovvero il livello di disparità che c’è tra Berlusconi e tutti gli altri.

Ora, dai dati diffusi, Berlusconi ha dichiarato nel 2006: 139.245.570 euro. Ovvero qualcosa come 280 miliardi delle vecchie lire. Il secondo più ricco, dietro di lui, è Daniela Santanché che ha dichiarato 237.665 mila euro. Poi seguono tutti gli altri. Romano Prodi ad esempio è solo a 217.221. Fini a 147.814. Se sommiamo i redditi di tutti i leader di partito, arriviamo a due milioni 670 mila euro. Romano Prodi per dichiarare un reddito come quello di Berlusconi dovrebbe moltiplicare per 640 il suo reddito attuale. Se volesse farlo Piero Fassino, il coefficiente di moltiplicazione sarebbe 1120. Credo che tutti i redditi dei deputati e senatori più i redditi dei membri del governo non superino il reddito singolo di Silvio Berlusconi.

Ora, questa cifra dimostra che Berlusconi è un imprenditore che sa fare i suoi affari, ma dimostra anche un’anomalia politica grave. E seria. C’è troppo sbilanciamento, troppa ricchezza, troppa disparità. Sono cose che quando accadono spiegano molto bene perché Berlusconi sia anche politicamente un uomo così potente. Perché la politica in questo modo diventa soprattutto denaro e potere del denaro; perché Berlusconi, con questa posizione economica siderale rispetto agli altri può permettersi quasi tutto. Nessuno dice che un uomo molto ricco non può scendere in politica o non può candidarsi alla guida di un paese, ma c’è da chiedersi però una cosa, forse la più interessante di tutti. Il reddito di Berlusconi del 2006 è di 140 milioni di euro. Nel 2005, ovvero soltanto un anno fa, aveva dichiarato "solo" 28.033.122 di euro. In un anno soltanto Silvio Berlusconi ha quintuplicato i suoi redditi. Cosa è successo? Non c’era una crisi del paese terribile? Prodi non ci aveva messo in ginocchio? Non è lo slogan del centro destra che dice: "la sinistra ha messo il paese in ginocchio. Rialzati?". Certo che lo è. E allora la domanda è davvero seria: come ha fatto Berlusconi a moltiplicare per cinque un reddito che era già di 60 miliardi delle vecchie lire l’anno? Il potere forse negli affari aiuta, e il forse è solo ironico. Il paese starà come dice Berlusconi, in ginocchio, ma a giudicare dai suoi redditi non è del tutto vero. E alla luce di questi dati, anche la recente polemica sul metodo molto personale di risolvere i problemi del precariato dei giovani suona come uno sfottò. Perché è davvero, ma davvero, troppo cavarsela con una battuta di cattivo gusto invitando a sposare qualcuno ricco come lui. Non c’è nessuno in politica e nel mondo che guadagna quanto lui, e riesce a moltiplicare i suoi redditi in questo modo. Ne siamo contenti. Speriamo che faccia molta beneficenza. E che si renda conto, che uomini così ricchi di solito si occupano dei loro affari, e non dei destini di un paese. A meno che non usino il paese per fare i loro affari. E purtroppo, a giudicare dai dati, si potrebbe anche avere quella sensazione. E netta.

roberto@robertocotroneo.it


Pubblicato il: 19.03.08
Modificato il: 19.03.08 alle ore 8.08   
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 04, 2008, 05:39:40 pm »

Horror Election Show

Roberto Cotroneo


Ci fosse Lucio Battisti, si potrebbe cantare: «Tu chiamale, se vuoi, elezioni». In un paese che ha di fronte immensi problemi, a cominciare dalla drammatica vicenda Alitalia, per proseguire con la difficoltà di dover tornare al voto dopo due anni, con una crisi di governo inaspettata e che non ha giovato al paese, con alcune riforme istituzionali fondamentali che nessuno è riuscito a fare. Insomma in una situazione politica difficile e instabile, dentro una crisi del paese, che non è solo economica, ma è anche morale.

Con i precari, i giovani senza lavoro, le aziende in crisi, le emergenze rifiuti che sono delle bombe vere e proprie. E naturalmente la criminalità organizzata, sempre più incisiva e sommersa, e naturalmente l'ordine pubblico, e ancora la violenza e i morti negli stadi o per il tifo da stadio. Insomma, se proprio si doveva fare una campagna elettorale, che almeno fosse rigorosa. Invece spesso è un disastro. Negli ultimi giorni si è visto tutto, anche troppo. I fischi e le uova di ieri a Giuliano Ferrari sono un gesto inqualificabile. Ma è indubbio che hanno portato a una nuova attenzione verso Ferrara, che negli ultimi tempi sembrava un po' scemata e lo ha rimesso nelle prime pagine dei giornali. Nessuno toglie il diritto al direttore del Foglio di reagire, con dignità, chiedendo rispetto. Ma alla fine sembrava una situazione splatter, che ha ben poco a che fare con una campagna elettorale responsabile e seria.

Certo non è colpa di Ferrara, ma di gente violenta e intollerante che ha attaccato con uova, pomodori ma soprattutto con una vera e propria guerriglia urbana che ha provocato una situazione di tensione per niente facile da gestire, con tanto di scontri con la polizia. Ma è vero che ormai il lavoro di alcuni candidati sembra più orientato a farsi notare a tutti i costi con metodi che hanno poco a che fare con la politica, nel senso più alto del termine, e molto a che fare con il circo. Oltre che con lo scarso buon senso. Prendiamo il generale Mauro Del Vecchio, candidato del partito democratico. Nessuno pensa che un maturo generale dell'esercito debba avere un modo liberale di pensare le cose. E si può capire: nell'esercito ci sono state molte aperture, ma rimane un mondo ancora chiuso, e molto maschile, per non dire macho. Bastava glissare un po' su certe convinzioni, e magari non dare interviste dove si sostiene che «i gay sono inadatti all'esercito, vanno bene le "case di piacere" per i militari all'estero, il nonnismo tra i soldati, se è fatto per scherzo, si può anche sopportare, volontari si può essere anche a sedici anni, ma non per missioni militari». Ed era necessario glissare soprattutto se ti candidi con il partito democratico. È successo il finimondo ovvio. Ma ora sappiamo con più chiarezza che il generale è un candidato. E forse certe uscite non sono proprio casuali, e aiutano a prendere qualche voto nel centro destra. Forse.

Forse non casuale, certo spericolato com atteggiamento. Per non dire del Da due giorni ad esempio non si fa altro che parlare del signor Giuseppe Pizza, l'uomo che vuole fermare le elezioni, perché la sua lista non è stata ammessa, l'uomo che vuole far sequestrare il simbolo dell'Udc. Ma anche no, come si direbbe oggi. Uno di cui il paese non sa nulla, che non si è mai sentito nominare prima, e che potrebbe mettere a soqquadro l'intero sistema Italia. È mai possibile? È una cosa sensata? Ovviamente no. E ovviamente l'idea che questa campagna elettorale possa durare ancora più a lungo irriterebbe moltissimi elettori e fare aumentare l'astensionismo, ma soprtattutto ci renderebbe ridicoli di fronte a mezzo mondo. Immaginate le ironie dei giornali stranieri sul signor Pizza che ferma le elezioni in Italia con il simbolo di un partito che non di fatto non esiste. E immaginate come può apparire agli increduli stranieri, lo sketch (come chiamarlo altrimenti) del transessuale Maurizia Paradiso che ha fatto irruzione nella sala dove teneva un comizio Umberto Bossi, tentando di baciare il senatur. Come recita puntuale la notizia di agenzia: la Paradiso è stata bloccata dalle Forze dell'ordine e portata fuori a forza dal centro congressi Carraresi di Padova all'interno del quartiere fieristico e allontanata. Il perché del gesto si capisce assai poco. Maurizia Paradiso negli ultimi giorni aveva dato molte interviste sui temi più disparati, ha affermato di essere tesserata Lega Nord, e voleva soltanto scambiare un gesto di affetto con Bossi. Dopodiché ha annunciato che è stata bloccata solo perché era un trans. E sembra ormai inevitabile quale uscita folcloristiva della candidata al comune di Roma, la ex pornostar Milly D'Abbraccio per il partito socialista. Certo, sono tutti episodi e situazioni diversissimi tra loro. Non accomunabili. Ma se si mettono tutti assieme, il quadro che ne esce è assolutamente surreale. È proprio vero che stiamo diventando sempre più un paese tragicomico.
roberto@robertocotroneo.it

Pubblicato il: 04.04.08
Modificato il: 04.04.08 alle ore 13.28   
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 17, 2008, 08:45:59 pm »

Come sopravvivere alla coppia B&B

Roberto Cotroneo


In qualche modo bisognerà farcela. Da qualche parte una possibilità c’è. Per tutti quelli che martedì 15 aprile, come in un romanzo di Kafka, si sono svegliati, e si sono accorti, in un momento, che da ieri, l’Italia sarà di nuovo berlusconiana c’è bisogno di una terapia di sostegno, di un appoggio, di una ragione. Molti vagano increduli, altri sfogliano nervosamente vecchi giornali per ricordarsi com’era solo due anni fa, altri ancora credono che con questa maggioranza “stabile” nessuno ce la farà, perché gli anni potrebbero essere cinque, non uno di meno, e si dovrebbe camminare nella valle del regno di Berlusconi fino al 2013.

Fino al 2013 con Bossi e Cicchitto, con Fini e Maroni, con la Carfagna e Bondi, con Borghezio e Calderoli. Fino al 2013 con Gasparri, con Alemanno, con Lombardo. Fino al 2013 tutti là appassionatamente, o magari anche no, magari anche a litigare ogni tre minuti, ma certi che questa volta il potere se lo tengono stretto e si governa fino alla fine. E se qualcosa va fatto, allora non bastano palliativi facili. E ci sono una serie di strategie che si possono adottare da subito.

1. Evitare le trasmissioni televisive politiche. Innanzi tutto «Porta a Porta». Cominciare a pensare con determinazione che la politica non esiste più in quella forma, e che se ne può fare a meno. Rimuovere, se è possibile. Guardare in televisione solo film e naturalmente molto sport. Occuparsi più di calcio mercato che di toto ministri, ostentare un'indifferenza totale verso qualsiasi tipo di nomina pubblica o istituzionale, per chi vive a Roma tenersi lontani da piazza Montecitorio, perché non vengano pensieri angosciosi.

2. Darsi un'anima internazionale. Le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano lasciarle direttamente all’edicolante. Se è opportuno munirsi di una piccola taglierina per rendere l'operazione più semplice. Almeno una volta a settimana immergersi nella lettura di Limes e occuparsi di esteri con passione e competenza. Sapere tutto dell'Africa, della Cina, del Sudamerica. Non sapere nulla della politica interna, tanto non c’è che da incavolarsi. E poi l’opposizione in Parlamento e solida e compatta, e ci penseranno loro. Ovvio. Per quanto riguarda i telegiornali, saltando i primi quindici minuti si dovrebbero evitare le cose peggiori. Dunque Tg1 e Tg5 iniziano per definizione alle 20 e 15 e il Tg2 alle 20 e 45. Desintonizzare per principio Rete 4 dal proprio televisore per non incappare neppure casualmente in Emilio Fede. Se usate internet per informarvi, è preferibile togliere dalla home page la pagina del Corriere o di Repubblica on line, e metterci quella del Paìs.

3. Pensare il meno possibile. Non è opportuno andare a riposarsi, o fare immediate vacanze, in eremi umbri e toscani, in luoghi di riflessione, o in regioni, comuni e provincie amministrate dal centro sinistra in modo particolarmente efficace. Provoca stati d’ansia. Provoca stati d’ansia anche finire in luoghi amministrati dal centro destra, perché poi si capisce cosa ci aspetta. Stare a casa propria è molto meglio. E circondarsi di feticci e simboli rilassanti e positivi. Con pochi euro e possibile farsi stampare una gigantografia di Obama da appendere in salotto, ma senza la frase «we can».

4. Molta natura. La natura funziona sempre. E soprattutto non l'ha inventata Berlusconi, fino a prova contraria. Passeggiate, studio degli insetti, della flora e della fauna. Per chi ama il mare sono indicate lunghe passeggiate sulla spiaggia. Basta che non sia la Costa Smeralda.

5. Molta natura, ma evitare accuratamente le passeggiate per la pianura Padana, o lungo gli argini del Po. Si rischia di incontrare gente con l’armatura che riempie ampolle dal fiume. E vengono inquietanti pensieri.

6. Trovarsi un hobby. Può essere uno sport, ma anche no, ovviamente. Indicati sport ossessivi senza attinenza con la cronaca politica. Il calcio ad esempio non è molto indicato. Meglio il golf. E può funzionare anche il Polo. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci, a Berlusconi e Bossi al governo, potrebbero andare bene anche gli scacchi, la dama, il backgammon, e in genere i videogiochi. Da evitare assolutamente i giochi da tavolo. Sopra ogni cosa il “Monopoli”.

7. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull'Italia di oggi, darsi alla magia della letteratura. Esotismo, esotismo e ancora esotismo. Imparare a ballare, per chi non sa farlo. Balli di coppia, scegliendo accuratamente partner che non siano di centro sinistra. Perché poi si finisce per parlare solo di Berlusconi. Tutti i balli vanno bene, eccetto quelli da viveur anni Sessanta. Per chi con il ballo ha dei problemi, imparare a suonare uno strumento, o perfezionarlo è un buon modo per dimenticare. Iscriversi a una stagione di concerti, rigorosamente musica classica. Rarefazione e distanza fanno bene, meglio la musica barocca. Il rigore e le geometrie di Bach fanno illudere di vivere in un Paese migliore.

8. Per chi è single, il vecchio metodo di trovarsi subito un fidanzato o fidanzata potrebbe essere di aiuto. Ma attenzione. Meglio uno straniero o una straniera. Per motivi immaginabili, non pensano troppo a Berlusconi, e non sanno quasi chi siano Bossi o Maroni. Se proprio non si può andare oltre Italia, scegliere anime gemelle nell’area dell’astensionismo. Niente politica, per favore.

9. E niente cultura. Leggere libri certo. Ma meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale, o musicisti contemporanei. Finisce che ti senti di nicchia. E non va bene affatto.

10. Attendere. Con pazienza. Non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. È raro che telefoni Berlusconi a quell’ora durante i programmi.
Uscire circospetti, provare a sorridere, nonostante tutto. Convincersi che pioverà per cinque anni, più o meno. Perché è andata così. L’importante, come dice il poeta Paolo Conte, è che piova sugli impermeabili, e non sull’anima.


Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 8.19   
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 17, 2008, 08:47:03 pm »

Leader Pdl: «programma condiviso con la lega». Bossi: «Non abbiamo combinato niente»

Berlusconi: «Verranno tempi duri»

Il Cavaliere sul futuro governo: serviranno misure impopolari. E sul toto-ministri frena: rispetto Napolitano

 
ROMA - Nessuna ulteriore anticipazione sui nomi dei ministri. Ma una cosa è fuor di dubbio. Nell'esperienza di governo che attende la coalizione di centrodestra «ci saranno momenti difficili, servirà un forte rinnovamento per fare le riforme necessarie che avranno anche contenuti di impopolarità». L'avvertimento arriva dal presidente del Consiglio in pectore Silvio Berlusconi, al termine del vertice con gli alleati Umberto Bossi, Gianfranco Fini e Raffaele Lombardo a Palazzo Grazioli.

IL TOTO-MINISTRI - Il Cavaliere è cauto sui nomi dei futuri ministri. In tal senso «credo di essermi già spinto troppo avanti» ammette. E poi aggiunge: «Ricordo a tutti che è il capo dello Stato a nominarli su proposta del presidente del Consiglio e io non lo sono ancora». A fare un nome ci pensa invece Fini. «Berlusconi conosce già le personalità di An. Per la sua indiscussa professionalità - spiega il leader di via della Scrofa -. Ritengo che Giulia Bongiorno sarebbe un ottimo ministro della Giustizia», suggerisce.

BOSSI - A proposito di ministri, Bossi fa però sapere che «non si è combinato niente. Finché non si fanno i nomi, prima di fare l'elenco completo passano secoli». «Me ne torno in Insubria - aggiunge il Senatùr - manderò qualcun altro al posto mio». E precisa: «È una questione di metodo, dobbiamo partire dalle cose semplici». Ma quanti saranno i ministri della Lega? «Quattro» assicura Bossi. D'altra parte per Berlusconi «non bisogna avere fretta. Abbiamo tutto il tempo a disposizione...» dice il Cavaliere. Anche se la Lega è in pressing sulla squadra di governo, il leader del Pdl sembra essere stato chiaro con i suoi alleati: «Sarò io a decidere», avrebbe detto.

GLI ALLEATI - I rapporti all'interno della coalizione, garantice Berlusconi, restano comunque distesi. «Il nostro programma è stato largamente condiviso con Bossi» dice il leader del centrodestra, promettendo «identità di vedute su tutti i provvedimenti» che saranno presi dall'esecutivo, «esattamente come nei 5 precedenti anni di nostro governo». Prendendo poi la parola dopo l'affermazione di Bossi (che assicura: «il federalismo fiscale sarà fatto»), il Cavaliere spiega che «si tratterà di un federalismo solidale e non ci sarà una regione italiana che sarà penalizzata». Dal canto suo anche Fini assicura che «non ci sarà alcuna difficoltà nella composizione della squadra».

MODELLO SARKOZY E APERTURE AL PD - Nel suo discorso al termine del vertice di Palazzo Grazioli Berlusconi torna poi in qualche modo ad aprire allo schieramento opposto. «Per il bene del Paese» il Cavaliere potrebbe anche "pescare" nello schieramento avverso personalità per costituire il futuro esecutivo. Lo spiega parlando del "modello Sarkozy". «Lo abbiamo inaugurato noi», dice il numero uno del Pdl, ricordando come la nomina di Amato alla Convenzione europea fu confermata dal suo governo. Berlusconi aggiunge poi che ci sono particolari «competenze tecniche» di personalità del centrosinistra di cui potrebbe usufruire il prossimo esecutivo.

ALITALIA, PONTE, LIBANO E BCE - Una conferenza stampa a tutto campo quella di Berlusconi al termine del vertice con gli alleati. Il leader del Pdl ha parlato di Alitalia (annunciando che incontrerà chi tra i suoi ha curato tutta la pratica) di Ponte sullo Stretto («Il cantiere può riaprire in fretta), della presenza dei militari italiani in Libano («Esamineremo attentamente le regole di ingaggio») e di Bce («Credo che serva un ampliamento delle funzioni, con decisione corale, al di là della funzione di controllo dell'inflazione»).


LEADERSHIP EUROPEA - In mattinata Berlusconi aveva già fatto il punto sulle priorità del nuovo governo. Tra i punti fondamentali, i conti interni. Per verificare la situazione del bilancio, Berlusconi incaricherà una commissione indipendente di stilare un rapporto entro breve tempo. «Stiamo mettendo in piedi una commissione indipendente - ha detto il leader del Pdl a Mattino 5 - per fare una due diligence sui conti dello Stato per non avere sorprese come fu nel 2001, quando la sinistra ci lasciò un extradeficit di 38mila miliardi di debito».


16 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 26, 2008, 09:44:57 am »

Vade retro turista

Roberto Cotroneo


Se fossi Berlusconi resetterei tutto. Se questa volta, la vittoria del Cavaliere doveva essere più interlocutoria e pacata, più matura e disponibile a un dialogo, meno tinta dai «siete tutti comunisti, e amenità di questo genere, beh, allora forse la partenza sarebbe proprio da rifare.

In pochissimi giorni dai risultati delle elezioni, con il governo neanche formato, e le Camere ancora da aprire, non ne ha fatta una giusta.

Le prime le sappiamo. Il mitragliatore contro la giornalista russa che aveva fatto una domanda sulla vita privata di Putin, gli spettacoli del bagaglino in Sardegna. La micidiale «afflizione» per un governo che si annuncia degno del peggior manuale Cencelli, con le liti con la Lega iniziate con un tempismo sorprendente.

E ora l’ultima, che non è affatto una piccola cosa e che purtroppo spiega moltissimo. Tutto nasce da un articolo del New York Times, ripreso poi nell’edizione europea dell’Herald Tribune, dove si dice che Roma è una città sicura, sicura come mai era stata dai tempi dell’Impero. Il sacrilego New York Times non si inventa nulla, naturalmente, e che Roma sia sicura non è una percezione, ma un dato di fatto, statistiche dei crimini alla mano.

Questo non vuol dire che sia una città perfetta, e che non accadano episodi anche raccapriccianti. Ma se messa a confronto con altre capitali europee, e anche a certe città italiane, Roma è città sicura, e negli ultimi anni anche piacevole. Merito di Rutelli prima e di Veltroni poi? Senza dubbio. Ma questo a Berlusconi non va giù. E dimenticandosi di essere diventato il prossimo capo del Governo, dimenticandosi che Roma è la capitale d’Italia e che non siamo alle solite comiche che cosa fa? Attacca il New York Times, e la mette in politica, con i toni consueti.

Si inventa che è un giornale di pericolosi progressisti, e che i progressisti italiani coccolano i progressisti dei giornali americani. Ovviamente non osa dire che il più importante giornale americano è diretto, governato e controllato da pericolosi comunisti. No, questo no. Lui li chiama «progressisti», e dice esattamente: «Questi giornalisti che scrivono sui giornali progressisti degli altri Paesi sono coccolati dalla sinistra qui. E questo la sinistra lo sa fare molto bene». E cosa aggiunge? Dice che Roma «ora è al disastro. Bisogna voltare pagina per avere una capitale più pulita, più vivibile».

Insomma il New York Times non ha capito nulla. E dunque che gli americani se ne facciano una ragione. A Roma è meglio non venirci, i cattivi bolscevichi Rutelli & Veltroni l’hanno ridotta male. E non è proprio il caso capitare da queste parti. Bene, questo non è solo ridicolo, è addirittura grottesco. Perché ve lo immaginate un Sarkozy che dissuade gli stranieri da passare i week end a Parigi perché le periferie sono in fiamme? O George Bush che avverte gli europei di non farsi vedere a Washington o a New York perché sono disastrose e non sono sicure? No, nessuno se lo immagina. Ma lui, Silvio Berlusconi, il nuovo capo del governo di questo Paese, ritiene che il più importante giornale del mondo sia costituito da una cricca di amichetti progressisti che fanno favori ai nostri politici di sinistra, e che a Roma è meglio non venirci. Per la gioia, si intende di tutti quelli che a Roma poi votano per il centro destra da sempre.

Gli amati tassisti che non vedono l’ora di lavorare con gli americani scarrozzandoli tra Fiumicino e il centro storico, con i negozianti che vendono griffe ai turisti stranieri, con i ristoratori che campano da sempre di turismo. Naturalmente Roma è solo un far west, un luogo oscuro dove si rischia grosso. Non è una città che ha ritrovato una sua identità culturale vera, non è una città con un’offerta di eventi come poche altre capitali europee. Se ne accorgono tutti, tranne Alemanno e Berlusconi. La sicurezza certo che è un problema. Ma questo è autolesionismo. Ed è autolesionismo di tipo ossessivo. E alla fine la campagna elettorale prevale sul buonsenso, sulla correttezza, e sulla statura istituzionale. Per essere il preludio dell’inizio dell’era Berlusconi non c’è da stare allegri. E per niente.

roberto@robertocotroneo.it

Pubblicato il: 25.04.08
Modificato il: 25.04.08 alle ore 8.14   
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 01, 2008, 07:42:31 pm »

L'invasione degli alemanni

Roberto Cotroneo


Ma come è? Gianni Alemanno ora è diventato un intellettuale alla Roland Barthes, un politico di razza, un lavoratore instancabile, quello che sorprenderà tutti, il sindaco di tutti i romani. Ma anche un uomo di statura internazionale. Basta leggere i giornali per capirlo. In meno di 24 ore si è attuata la solita rivoluzione all’italiana. Con tanto di carri del vincitore su cui saltare. In 24 ore l’incenso che non era stato usato per Berlusconi, quello rimasto ancora, è stato bruciato per Alemanno.

Che non è diventato, ovviamente, niente di più e niente di meno di quello che è sempre stato. Una persona seria, molto di destra, di una destra sociale che ha sempre guardato con attenzione e rispetto ai ceti più disagiati. Ma ormai su Alemanno si è aperta una gara a chi se la inventa più grossa.

Il Corriere della sera ad esempio intervista Mario Capanna. Capanna, voglio dire, uno che ci ha intontito con l’antifascismo e il Sessantotto per un quarantennio. E cosa dice Capanna? «Che fa un tour per rincuorare gli animi dei romani». Perché è felice che Alemanno abbia vinto. Certo, i saluti romani non gli piacciono ma «gli italiani sono di una saggezza mista a follia». E il nuovo sindaco di Roma «sa ascoltare la gente». Qualche pagina più avanti, nella cronaca di Roma, siamo ormai alla mitologia. Dove vanno i nuovi leader di An a cena? In quali locali? Vengono elencati tutti i luoghi dove se passate la sera potreste incrociare Ignazio La Russa, Gianfranco Fini, Maurizio Gasparri, o lo stesso Alemanno. Con tanto di cartina. «Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa affezionati clienti dell’Osteria del Sostegno. Alemanno al Gallura, La Russa al T-Bone, Fini all’Antica Pesa». Anche se Fini fa vita molto riservata e «lui, quando può, preferisce Anzio: è cliente fisso di Romolo al Porto».

E fosse solo questo. Il titolo dell’articolo principale è il seguente: «Alemanno s’insedia: “Al lavoro senza pietà”». Stessa pagina: «Giancarlo Elia Valori: “Commissione? Idea geniale”». Nella pagina accanto torna Pasquale Squitieri, uno di quelli che hanno fatto la storia del cinema come tutti sappiamo. «Festa del cinema? Porta jella, cambiamo nome». E dice: «Di fare le foto con Clooney e De Niro non me ne frega proprio niente». Chissà se invece De Niro sarà turbato di non avere l’opportunità di farsi fotografare con Squitieri. E qualcuno prima o poi glielo dovrà dire. Anche al principe Carlo dovranno spiegare che Leon Krier prossimamente sarà un po’ meno a Londra, perché l’urbanista del Principe entrerà nella giunta di Alemanno. Come anche il generale Mario Mori. Con un titolo emblematico: «Krier e Mori, le sorprese di Alemanno». E poi Umberto Croppi sarà l’assessore alla Cultura della nuova amministrazione. Il più antico amico di Alemanno, quello che alla domanda: «L’altra sera, al Campidoglio, alcuni festeggiavano con il saluto romano». Risponde: «Fisiologico, direi».

Fisiologico che anche la stampa sia così palesemente entusiasta? Senz’altro strano. E non perché non si possa essere entusiasti di Alemanno. Ognuno è quello che gli pare, ed è quello che ritiene giusto essere. Ma riempire colonne su colonne sulla commissione Attali, che Alemanno vorrebbe fare a Roma, ha qualcosa che non torna. Non si capisce a che cosa serva questa commissione. Chi verrà chiamato a farne parte, se poi dopo pochissime ore dall’elezione, non Alemanno, ma tutti i suoi si sono scatenati a spiegare che niente andava bene, che bisognerà azzerrare tutto quanto ha fatto Veltroni, che era ora di sventolare il tricolore. Che avremo un cinema autarchico, una cultura autarchica, e che sarà tutta un’altra storia. Capanna dice che Rutelli era un «mandarino». Antonio Pennacchi, scrittore, afferma in un’intervista che Alemanno deve rimanere quello che è e se non perde la sua identità diventa un vincente.

Ma attorno a lui c’è poco di Attali. E va detta una cosa. Non è poi solo colpa del nuovo corso che ci aspetta, è più colpa di un certo meccanismo dell’informazione che cambia i nomi, gli schieramenti e su questi applica gli stessi stili. Allora se la sinistra va a cena, ci va anche la destra. E allora si titola: «E la sera andavamo al Sostegno». E tutto sembra identico, e invece non è vero. E non si tratta di capire se sarà un disastro oppure no. Si tratta di capire che le cose sono diverse, e capire come cambierà Roma con la nuova amministrazione di destra. Le cose sono talmente diverse che poi gente come Squitieri usa non le categorie sofisticate e sottili degli intellettuali francesi ma stabilisce che la mostra di Roma «porta jella». Dove la jella è una categoria magica-antropologica, persino alchemica, ha ben poco a che fare con la raffinatezza culturale. E molto a che fare con la rozzezza. Tenerli buoni sarà compito di Alemanno. L’uomo che lavorerà senza fermarsi, l’uomo che viene fotografato sulle montagne, il capospedizione sul K2. Un modo per mettere in evidenza la tempra, il coraggio, l’eroismo, persino.

Credo che Alemanno ne sarà stupito, ed essendo un uomo schivo, persino imbarazzato. Passato dal fascismo romano, dagli scontri degli anni Settanta, dalla croce celtica al collo (che poi è quella del povero Paolo Di Nella, a cui Veltroni ha giustamente dedicato una via di Roma), ai nuovi e sorprendenti squittii dell’alemannismo, una nuova categoria che verrà cavalcata nei prossimi giorni. L’alemannismo per i giornali sta diventando sinonimo di trasparenza, di serietà ma soprattutto di autenticità. E nel modo approssimativo di raccontare il mondo dagli opinion leader e dagli intellettuali, si finisce per trasformare il nuovo sindaco di Roma in un personaggio che in natura non esiste.

roberto@robertocotroneo.it

Pubblicato il: 01.05.08
Modificato il: 01.05.08 alle ore 6.36   
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 05, 2008, 09:39:47 pm »

La ferocia qualunquista

Roberto Cotroneo


Ma che Paese è diventato il nostro? Che gente siamo diventati? Neanche dei qualunquisti, neanche degli xenofobi duri e cattivi da far paura agli altri (e meno male), ma miserelli da prato del vicino leggermente più verde, poveracci che vanno a fare il conto delle elemosine di miserevole gente che non ha il diritto di avere due gerani in un prefabbricato.

Perché noi italiani dobbiamo avere le case, ma non i Sinti di Mestre, quelli no. Ma che paese siamo diventati? Quello caritatevole e miserevole che ci siamo tanto tramandati? O dei tragici gaffeur che festeggiano davanti a tutta Europa e all’Onu al reato di immigrazione clandestina, e che hanno piacere nel vedere il pugno duro sulla sicurezza. Un paese ipocrita, propagandistico, miserrimo, dove non nessuno legge niente, neanche le statistiche, quelle in cui si dice che la criminalità è in aumento, ed è vero. Ma per colpa è colpa degli italianissimi mafiosi e camorristi che schiacciano un terzo del paese, mentre la microcriminalità, quella di tutti i giorni, ha subito persino una flessione. Dove il problema dei Rom sembra nato oggi. Dove la pochezza è di casa, in tutti. Ora il Giornale lancia una delle sue campagne da quattro soldi, con un titolo di prima pagina da vergognarsi: «Ecco le ville che regaliamo ai Rom». Un campo per i Sinti, voluto in modo sacrosanto da Massimo Cacciari, dal costo di 3 milioni di euro, che «prevede casette con veranda, giardino e garage, un laghetto e un campo di calcio». Il laghetto e il campo di calcio per i bimbi Sinti. Che eresia, che scandalo. No, li vogliamo brutti, sporchi e cattivi, senza palloni, senza acqua, senza niente. Senza i gerani sui balconi, senza i colori, li vogliamo senza cielo, e senza vestiti, li vogliamo cancellare, perché prima veniamo noi, nazione infetta di pressapochismo, e di povertà culturale, ubriacata di televisioni idiote da almeno un ventennio, di fiction patinate, tutte sui buoni sentimenti, ma che rimangono là sullo schermo, lontani da noi. Un paese bastonato da un immobilismo che non ha generato neanche la minima cultura della solidarietà o perlomeno del buon senso. Le villette regalate ai Sinti, dice il Giornale, e spiega che i cittadini veneziani e della Lega nord hanno protestato all’apertura del cantiere, senza umanità e senza vergogna. E poi dicono il nord est vero? Noi il nord est dobbiamo capirlo, perché gli imprenditori lavorano sodo, perché quello è il motore del paese, perché davanti al nord est ci sentiamo come di fronte a un rebus sofisticato e difficile da risolvere, perché sono gente pratica, che mira al sodo, agli sghei e alle infrastrutture, perché prenderebbe il volo il nord est se non ci fosse la zavorra di Roma, e della politica. E sarà anche vero, forse. Ma più che il volo spesso prende delle derive imbarazzanti. E se qualcuno andasse a cercare in quale discarica è finito il solidarismo cattolico di quella gente che votava Dc e Rumor, e ora vota Gentilini. E adesso eccoli a gridare perché i più poveri non possono avere un vaso di fiori al balconcino prefabbricato.

Non saranno stati molti, certo. Saranno stati i soliti quattro su cui si fanno i titoli nelle prime pagine dei giornali. Ma basta e avanza. Il problema è che possiamo mettercela tutta, decidere che vogliamo essere ottimisti, possiamo sperare in un clima politico di collaborazione, ma poi invece esci di casa e il clima è questo. Ed è fatto di gente che non capisce dove è e cosa vuole. Non è qualunquista, non è buona, non è disinteressata, non vuole vivere tranquilla su suoi privilegi. No, questo era il qualunquismo di un tempo. Ora abbiamo fatto un salto nel livello del qualunquismo. Ora questa gente che protesta, questo paese che vorrebbe in galera un immigrato colpevole solo di essere clandestino, questa gente che chiama «villette» dei prefabbricati, e a sua volta vive in ville vere, con campo da calcio vero, e piscine vere - ma con valori catastali delle loro proprietà falsi, ovviamente - questa gente dicevo non si fa i fatti propri, non pensa al proprio particolare, no peggio: rompe le scatole ai poveracci, a quelli che non hanno tetto, e probabilmente non hanno neanche la legge, perché va tutto assieme. Siamo un popolo di navigatori, artisti, scienzati e santi. Ma anche di egoisti ignoranti e diffidenti. E lo siamo diventati. Quindici giorni fa stavo seduto in un bar all’aperto. Era una domenica mattina di sole, e c’era un sacco di gente ai tavolini. Passa un povero mendicante, anziano. Chiede l’elemosina. Ho alzato lo sguardo dal giornale che stavo leggendo e ho osservato la scena. Saranno state cinquanta le persone sedute, disposte in diversi tavoli. Eccetto me, nessuno ha dato una sola moneta a quel pover uomo. Perché non si dà l’elemosina, perché questi se ne devono andare, e non si dà perché certo «con cinquanta centesimi non gli risolvo la vita». No, la vita no, ma un panino forse sì. Ma chi se ne importa dei Rom, degli immigrati, di un terzo mondo che bussa alle porte di tutti quelli che hanno qualcosa in più. È colpa loro, vero. Andassero a lavorare, vedi che poi i soldi arrivano, e l’appartamentino te lo compri senza Cacciari, che spende tre milioni di euro che spettano di diritti agli italiani. Come no, certo. Siamo caduti in basso. Sabato scorso ero a Salamanca, in Spagna, partecipavo a un convegno della Fondazione Gérman Sánchez Ruipérez sulla letteratura per l’infanzia. I miei amici spagnoli mi hanno sommerso di domande. Preoccupati, turbati, affettuosi persino. Persone informate, capaci di capire oltre i luoghi comuni. Mi guardavano come uno che è costretto a vivere in un paese senza speranza: «Ma che succede in Italia?». Io cercavo di spiegarglielo, con equilibrio, senza esagerare, con un tentativo di orgoglio, persino. Ma non si convincevano. A un certo punto mi hanno detto: «Non permetteremo che l’Italia diventi un paese razzista e xenofobo». Sapessero di cosa possiamo ancora essere capaci...

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Pubblicato il: 05.06.08
Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.51   
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 28, 2008, 06:03:29 pm »

Nani, telefoni e ballerine

Roberto Cotroneo


Rilevanza penale: da accertare. Vero voyeurismo: certo. Eppure è tutto molto interessante per capire cosa succede in questo Paese. In pratica: visto che le hanno messe on line le telefonate di Saccà con Berlusconi, e poi con i produttori, con le attrici e con i consiglieri di amministrazione, tanto vale sentirle, come un tempo si leggeva un romanzo di Arbasino e si sfogliava una rivista di gossip. Con un certo imbarazzo, va detto.

Perché poi alla fine Agostino Saccà, capo della fiction della Rai, una certa tenerezza te la fa. Sta là a rispondere a tutti, gentile, paziente, sull’attenti con il presidente, che lo tiene in attesa con musichetta da anticamera da dentista, che gli chiede di telefonare a un’attrice mai sentita perché quella sta fuori di testa. L’attrice è tal Antonella Troise, «che ha preso parte in alcune fiction in ruoli secondari». Berlusconi pare afflitto, perché lei sostiene di essere stata danneggiata dal presidente. E il presidente prega il capo della fiction della più importante azienda culturale italiana, la Rai, di fargli una telefonata, e dirgli che lui insiste, che lui, Berlusconi, chiede di farla lavorare.

Ma cos’è questa storia qui? Il problema che mi interessa in questa cosa non è se sia giusto o no pubblicare queste intercettazioni. Obbiettivamente pare un po’ di origliare dietro una porta. Il problema è il contenuto. Ma può il capo dell’opposizione, ex presidente del consiglio dei ministri telefonare per (aspettate che mi rileggo il nome se no non mi entra in testa), Antonella Troise? Poi se guardo la foto oltre al nome, comincio a capire. E bando alle ipocrisie, ai moralismi, alle mezze frasi. Questa è una repubblica fondata sulla gnocca. L’ho detto. Andava detto. E non se ne esce. Gnocche di vario genere e di varie gradazioni, ma la sostanza è quella e soltanto quella. Nessuno si scandalizza, nessuno fa del moralismo.

È del tutto comprensibile professare interesse nei confronti di avvenenti fanciulle, che all’occasione possono rendere più piacevole la vita, possono darti motivazioni a lavorare meglio, e tutto quello che sappiamo. Ma santo cielo, ma si può telefonare per dire: mi ha chiamato Marta Flavi, io non ho nulla a che spartire con Marta Flavi, ma sai, però… E poi il presidente, sempre al telefono con il produttore De Angelis: «Llo fai tu “Vivere”, ah no, è di Endemol, perché ieri mi hanno presentato un’attrice di “Vivere”».

E poi il presidente si ferma, perché deve parlarne con il vero produttore. Di cosa? Di un’attrice che ha incontrato in un corridoio? E che forse voleva una parte migliore nella fiction. Nel frattempo il paese va a rotoli, e pazienza. Nel frattempo dovrebbe fare opposizione, il presidente, ma se becca una in un corridoio della fiction "Vivere" se la ricorda e telefona. Nel frattempo il grande capo della fiction Agostino Saccà deve usare il pallottoliere, perché tutti gli rompono le scatole. Giuliano Urbani, che non è passato alla storia come ministro dei beni culturali, e che ha querelato Sgarbi negando di avere una relazione con l’attrice Ida Di Benedetto, chiama Saccà, anche lui, ma «per Ida». Perché c’è una serie, una miniserie anzi, sui pittori, che non parte, e Ida si infuria, e il povero Saccà deve chiamare la segretaria, controllare il budget, capire di che cavolo di miniserie si tratta, vedere che si può fare. E poi nessuno ci capisce niente: che pittori sono, cosa hanno dipinto, e perché il popolo italiano deve sorbirsi questa roba. Saccà sembra il capro espiatorio. La Troise, la Flavi: «si può mettere la Flavi a "Incantesimo"». Non è un’attrice, risponde il povero Agostino. Ah neanche la Troise? La Troise? Eh beh… no… forse, vediamo, magari, chissà. E Letizia Moratti, il sindaco di Milano? Chiama pure lei, e Saccà ferma la proiezione. Perché la Moratti vuole sapere se la moglie di Paolo Glisenti, suo collaboratore a Milano, una certa Eliana Miglio, anche lei con voce quasi assente su Wikipedia, può fare il provino per non so che cosa.

Il che cosa non è una parte nel prossimo film in concorso a Venezia, a Berlino o a Cannes. Qui siamo a fictionucce, a puntatine del giovedì sera, dove, quando va bene, reciti in tutto mezz’ora, e non gliene importa niente a nessuno. C’è una piccola Italia, l’Italia dei balocchi, del luna park dello spettacolo, un’Italia media, un po’ insulsa persino, dove cercano tutti di ingozzarsi di quello che è rimasto; tutti, come fossero di fronte a un buffet di quelli immortalati da Umberto Pizzi. Un buffet da poco: attrici senza nome, amanti di consiglieri di amministrazione, proteste per robe da niente. E poi idee strampalate, con il potere della politica che si interessa, e va a sapere perché, di cose di piccolo conto, che non servono a niente, che non ti emozionano neppure. Una fiction sulla famiglia Scicolone? Diamo un segnale a Francesco Rutelli che ci tiene tanto. E diamoglielo questo segnale a Rutelli, certo. E Alessandra Martines che vuole fare Coco Chanel, e vuole la parte? Cosa ci facciamo con la Martines? Perché Clemente (inteso come Mastella) «ne sarebbe contento». E uno poi dice: ma la Martines non è la moglie di uno dei miti del cinema francese, di Claude Lelouch? Non la immaginiamo romanticamente su una spiaggia della Normandia, genere "Un homme et une femme"? Ma figuriamoci: al massimo a Ceppaloni a farsi raccomandare da Mastella per fare Coco Chanel? Che pare un ossimoro stilistico, vista così.

Ma la cosa più divertente di questo circo Barnum è che nessuno, dopo telefonate su telefonate, riesce a ottenere nulla. Ma nessuno, ma nemmeno Berlusconi. Stanno tutti là a dire, ma a quella glielo fai un provino? Quell’altra si potrebbe per caso… Ohi ma senti, a me non è che me ne importa nulla. Io te l’ho detto, il mio dovere l’ho fatto e poi vedi tu. Eh certo. Che poi tutte queste con i tacchi a spillo, le tette... E il presidente: proponigli di fare Madre Teresa di Calcutta, vedi come poi si tirano tutte indietro. E va bene, così, senza parole, direbbe Vasco. Nessuna ottiene niente. La Moratti, Berlusconi, Minoli che ci prova a fare il direttore generale della Rai, Urbani con la sua Di Benedetto. Chiacchiere, chiacchiere, un po’ di gnocca, la solita gnocca, di un paese così. Dove Saccà dirige il traffico. E tutti vorrebbero stare in quel posto là. Ad azionare la giostra gigolante e arrugginita di questo paese dei Balocchi.

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Pubblicato il: 28.06.08
Modificato il: 28.06.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 02, 2008, 06:30:04 pm »

Il pericolo dell’autogol

Roberto Cotroneo


Dobbiamo capirci, e soprattutto fare un po’ di storia politica di questi ultimi tempi. Abbiamo assistito a una campagna elettorale dai toni medi. Anche vagamente depressiva. Berlusconi sembra più stanco del solito, Veltroni si ostinava a cercare una strada se non di dialogo, perlomeno di rispetto e correttezza reciproca.

Le elezioni sono andate nel modo che sappiamo. Ha vinto Berlusconi, e da subito sembrava si fosse creato un clima per la prima volta civile nella politica italiana.

Il cavaliere sembrava pronto a dialogare, riconosceva il governo ombra, e mostrava un’apparente volontà di arrivare a una stagione di riforme che ormai da un decennio sembrano soltanto un sogno nel cassetto. Nel frattempo le cose non andavano bene per niente, l’economia è un disastro, Giulio Tremonti pare eclissato e scomparso nel nulla. Gianfranco Fini appare sbiadito nel suo ruolo istituzionale, e il governo è decisamente in difficoltà, con una Lega, mai così razzista e aggressiva. Vedi ad esempio la schedatura dei Rom, che è qualcosa che ci fa vergognare davanti a tutto il mondo.

E in poche settimane il cavaliere è tornato Caimano. E forse viste, certe premesse, più che non aspettarselo, c’era da non augurarselo. Il problema di Berlusconi è sempre uno ed è sempre lo stesso. Un inesistente senso delle istituzioni e dello stato, un debordante protagonismo politico oltre il rispetto delle regole democratiche, a cominciare dalla libertà di stampa. È nel suo dna, e non c’è niente da fare. Torna sempre come una recidiva prevedibile di una malattia etica e morale di questo Paese. L’ossessione di essere perseguitato dalla magistratura, l’uso di terminologie aggressive e irrituali, e soprattutto l’uso del Parlamento, della maggioranza politica per fare come al solito decreti e leggi ad personam è tornato prepotente e preoccupante.

È un quadro visto, che si ripete con tutte le solite modalità che conosciamo ma con alcuni nuovi elementi inquietanti. L’affondo questa volta è più violento che in passato. Non soltanto Berlusconi ha definito il potere giudiziario un “cancro per questo Paese”. Ma ora ha deciso di imbavagliare la stampa, con il decreto anti intercettazioni.

La maggioranza che il Paese gli ha dato alle elezioni lo ha reso più aggressivo. Al punto che ha intenzione di utilizzare i media nel suo solito modo, e ha già deciso che andrà a parlare agli italiani attraverso «Matrix». Farà la vittima per eccellenza: vittima delle intercettazioni, della magistratura, e ovviamente di Antonio Di Pietro, che usa toni troppo vicini all’antipolitica di Grillo, e dunque sbagliati, ma che nella sostanza esprimono le preoccupazioni che hanno tutti. Ora, andare in piazza l’8 luglio va bene, è anche un modo per dare voce a una opposizione, quella antagonista e girotondina, che dal risultato delle ultime elezioni non ha più voce in parlamento. Ma bisogna stare molto attenti a non fare un autogol. Nel senso che stando così le cose, o porti un milione di persone in piazza, o tutti i mezzi di informazione, la questura e quant’altro diranno che c’è stata poca partecipazione. Non c’è molto tempo da qui all’8 luglio. E forse sarebbe il caso di prendere in considerazione l’idea di aspettare l’autunno e organizzare una manifestazione davvero grande, con una partecipazione più allargata possibile.

Ovvio che le ragioni per manifestare ci sono già da ora. E non si può rimanere con le mani in mano, e guardare Berlusconi che, con la forza di una maggioranza larga e piuttosto compatta dispone delle istituzioni, e del parlamento come gli pare. Ma non si può correre il rischio di una manifestazione che può essere letta, anche solo strumentalmente, come un fallimento. Sarebbe la cosa peggiore in un momento in cui Berlusconi appare forte e determinato.

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Pubblicato il: 02.07.08
Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.18   
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« Ultima modifica: Luglio 12, 2008, 10:19:19 am da Admin » Registrato
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 10, 2008, 06:39:15 pm »

Undicietrenta, un appuntamento quotidiano con il fatto del giorno.

Visto dalla rete


di Roberto Cotroneo



Sarà una questione di tempo, ma il destino dei giornali cartacei è segnato. Non è una cosa drammatica, ci vorranno ancora almeno quindici anni. Ma in questi quindici anni cambierà tutto: il rapporto con la notizia, il tempo della notizia, il modo di riceverla. Si avrà probabilmente quello che serve in tasca, sullo schermo di un oggetto che non sarà più un palmare, un telefonino, ma un’altra cosa ancora, e non sarà più concepibile leggere il giorno dopo di quello che sappiamo già da molte ore prima.

Sarà una questione di tempo, ma anche per le notizie scritte basteranno una ventina d’anni per vederle scomparire. Si filmerà tutto, perché sarà più facile farlo. E sarà pure una questione di tempo, ma intanto già da ora la rete internet è efficace, i social network mettono in comunicazione la gente, e si aprono buone possibilità per gran parte del mondo. Con buona pace di quelli che ostentano una distanza, e con buona pace di quelli che dicono che è meglio trovarsi al bar «così ci si vede in faccia». Un mare di gente si è guardata in faccia, nei decenni, ma per giocare a carte o a scacchi, per ridere e scherzare, e per tutto quello che si fa ogni giorno. Tutte cose importantissime. Ma da che mondo e mondo le idee circolano anche e soprattutto senza guardarsi in faccia. Si legge, si commenta, si scrive, ci si confronta, si scoprono nuove cose, e tutto circola veramente, e a una velocità un tempo impensabile. Ma soprattutto le persone si parlano di più, si capiscono meglio utilizzando quell’antico mezzo che viene chiamata scrittura.

Sono un internettiano convinto, non pentito e certo della potenza futura di questo mezzo. E con me lo sono tutti quelli che hanno un minimo di intuito vero, e non si lasciano sopraffare dai luoghi comuni. Gli altri se ne facciano una ragione, non c’è sarcarsmo che tenga: qui c’è il giornalismo del futuro prossimo, qui succederà tutto.

Ogni mattina, sul nuovo sito dell’Unità, alle 11 e 30 leggerete un mio commento alla notizia più interessante del giorno, a quella più importante, a quella che colpisce, al libro letto la notte prima, al film che serve a capire meglio che succede nel mondo, a tre righe trovate in un libro, a un video di youtube, a un malcostume, a una cosa bella, a una indignazione, a una storia italiana, a una storia e basta. Ma soprattutto a tutto quanto serve per capire quale strada stiamo percorrendo e perché. Undicietrenta è una rubrica giornalistica, che anziché stare sul quotidiano cartaceo è qui. Perché non può che essere scritta, pensata e finita un minuto prima di farvela leggere, ma soprattutto perché un minuto dopo potete commentarla, dialogare, e dibattere, tra voi lettori, e con me. Non è un blog. Il blog è un mezzo molto usato, ma appartiene allo scorso decennio: e un decennio su internet è davvero troppo. Undicietrenta è un articolo di commento. Il commento di ogni mattina, di ogni giorno, eccetto la domenica. Si comincia da oggi. Sarà un bel viaggio e una bella esperienza che faremo assieme.

da unita.it
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 23, 2008, 11:42:29 am »

Undicietrenta: E in video apparve il Berlusconi del 1994

di Roberto Cotroneo


Ieri i telegiornali hanno dato la notizia che Forza Italia si è sciolta, e si è formato un nuovo soggetto politico con Alleanza Nazionale, ovvero il Partito delle libertà. Fin qui la notizia è quella che è, era previsto, era in agenda, come si potrebbe dire. Come era prevista la solita claque, i lustrini, e persino il Berlusconi che si commuove, che fa riferimento alla sua età con civetteria, che rilegge alcuni passaggi del famoso discorso della discesa in campo. Ma ieri sera, tardi, Studio Aperto, il telegiornale di Italia 1 ha rimandato un breve brano della cassetta video originale, quella che Berlusconi nel 1994 mandò a tutte le televisioni. Non la vedevo da allora. E l’impressione è stata fortissima. Un Berlusconi ovviamente più giovane, rigido, quasi notarile.

Lo sguardo è severo, il momento è importante, ma soprattutto le parole di Berlusconi di allora, risentite oggi dànno esattamente l’idea di cosa fu allora Forza Italia, del perché Berlusconi scese in campo, come ama dire lui: «Le nostre sinistre pretendono di essere cambiate. Dicono di essere diventate liberaldemocratiche. Ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro più profondi convincimenti, i loro comportamenti sono rimasti gli stessi. Non credono nel mercato, non credono nell'iniziativa privata, non credono nel profitto, non credono nell'individuo... Non sono cambiati. Per questo dobbiamo contrapporci a loro».

Queste parole ci ricordano, oggi sempre di più di come, in realtà Silvio Berlusconi non fosse altro che un intermediario, un uomo a cui fu chiesto, un uomo che fu pressato. Pressato da un mondo imprenditoriale e culturale di matrice reazionaria, terrorizzato dall’idea che, nella dissoluzione della prima Repubblica e soprattutto nella fine della Democrazia Cristiana, le forze della sinistra avrebbero preso il potere in Italia.

Tutto questo si sapeva, ma dal video rivisto ieri sera, è apparso evidentissimo, perché contrastava assolutamente con il Berlusconi che ormai negli ultimi anni vuole raccontare agli elettori di essere l’espressione della modernità, di un paese delle libertà, di un paese sorridente, di un paese che guarda al futuro e non al passato.
Non era così. Il video del 1994 mostra un Berlusconi figlio di quel mondo finanziario e politico di impronta reazionaria e illiberale che scelse lui per salvare il suo salvabile, e che è stato la rovina del nostro Paese. Scelse lui per “sdoganare” la destra di Gianfranco Fini, per addomesticare ma a briglia sciolta e non troppo, la parte eversiva della Lega Lombarda.

Poi all’interno di Forza Italia si formarono, ma solo in un primo periodo, delle correnti liberal, che mettevano assieme la tradizione socialista con quella liberale, ma sono state sconfitte. Perché l’origine è un’altra. Ed è quella l’origine che spiega ancora oggi quello che sta accadendo, l’equivoco vero: l’idea che Berlusconi, il partito Forza Italia, e la sua coalizione fossero un fenomeno nuovo nella politica italiana. Quando invece rappresentavano la parte più vecchia e disperante di questo paese, quella che non ci ha mai trasformato in un paese normale. Che poi anche a sinistra di vecchio ci sia molto, è vero, ma questa è un’altra storia.

22 Nov 2008   

 
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