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Autore Discussione: Roberto COTRONEO.  (Letto 37068 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:03:59 pm »

Undicietrenta

di Roberto Cotroneo 


L'apertura di Obama a Cuba


Ora davvero cambieranno molte cose. Obama ha aperto a Cuba, e lo ha fatto prima di quanto ci si aspettasse. E sta finendo un’epoca, durata più di un quarantennio. Il presidente degli Stati Uniti ha stretto la mano anche al “nemico” Chavez e sta cambiando la storia. Mentre noi dobbiamo barcamenarci in una palude sempre uguale, con le nomine Rai decise a palazzo Grazioli, come un Monopoli rivisitato, tutti lì a mettere tasselli, a pesare i nomi, quasi sempre gli stessi tra l’altro, a continuare a fare quello che si continua a fare da decenni. Il mondo cambia, con un accelerazione che conforta.

Quando mi dicono che Berlusconi è moderno penso che questa modernità è un mistero: uno ostaggio della Lega, pronto a bruciare 400 milioni di euro per non voler accorpare referendum ed elezioni. Uno che, facendo l’esatto contrario di quanto ha fatto nella sua carriera di imprenditore, si mette come fosse un Cencelli qualsiasi, a dosare le nomine del servizio pubblico, piazzando alle direzioni di rete e di giornali un elenco di persone lottizzate, che rispecchiano, con una certa precisione gli equilibri di potere della maggioranza. In questo paese d’Europa, affacciato sul Mediterraneo, accadono sempre le stesse cose, come un tedioso argomento, direbbe il grande T.S.Eliot. Polemiche sulla satira (ed è stata, comunque la si pensi, una enorme caduta di stile), demagogia sulla sinistra, argomentazioni da guerra fredda, noi siamo l’unico paese che non ha aggiornato la storia, e ritiene esistano ancora i due blocchi, e forse persino il muro di Berlino. Poi cambi canale del tuo televisore, vai su Cnn, e vedi Obama che ha sfaldato molti paradigmi degli equilibri mondiali in pochissimi mesi. Facendo qualcosa che metterà in ombra persino l’ultimo mito della rivoluzione cubana. Perché se Raul e Obama si parleranno, se l’embargo cesserà, e se Cuba si avvierà finalmente verso la strada delle libertà politiche e civili, e verso il riconoscimento dei diritti umani, Fidel diventerà una figura lontana e persino appannata. E suo fratello sarà l’uomo della svolta. Nessuno lo avrebbe mai detto, ma la storia funziona in questo modo.

Ma da noi la storia, anche nelle piccole cose, anche nei piccoli dettagli, che poi dettagli non sono affatto, è sempre la stessa. Logora, insostenibile, uguale a sempre, senza novità, senza sussulti, senza stupori. Senza un colpo di reni, ogni tanto, che ti faccia pensare che non tutto è sempre così prevedibile e scontato, che qualche volta anche da noi, il rullo della storia non sta inceppato in luoghi comuni e pregiudizi, esercizio del potere, e polemiche strumentali, ma in qualcosa di più. In qualcosa di diverso.

Quanto dovremo aspettare?
da unita.it
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« Risposta #46 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:03:06 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 


25 aprile, il balletto delle dichiarazioni inopportune


Siamo alle solite, al passato che non passa. Mancano quattro giorni al 25 aprile, e come ormai accade da qualche anno, ricomincia il balletto delle dichiarazioni inopportune, fuori luogo, e persino gratuite. Un paese diviso, diviso per molti anni sottotraccia, senza che fosse mai resa esplicita questa divisione, deve ricominciare a fare i conti con il giorno della liberazione. Il ministro della difesa Ignazio La Russa, ha dichiarato: «I partigiani rossi meritano rispetto, ma non possono essere celebrati come portatori di libertà». È una dichiarazione provocatoria che riporta ogni volta l’orologio della storia indietro, una incrostrazione che è dura da cancellare.

E che cancella persino quella ipotetica fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale che chiamiamo Pdl.

Una dichiarazione imbarazzante e sentita. E anche fortemente imprecisa.
Perché intanto dà una connotazione alla resistenza, decidendo che i partigiani erano “rossi”, ma è solo parzialmente vero.

Chiunque abbia studiato, non dico da ricercatore o da storico, ma anche soltanto da studente delle scuole medie inferiori, sa bene, che la resistenza ebbe varie componenti: azioniste, riformiste e naturalmente cattoliche. E che la resistenza non fu soltanto rappresentata e combattuta dalle Brigate Garibaldi. Il dibattito storiografico di questi anni, è vero, ha tolto di mezzo anche molte ipocrisie sulla guerra di resistenza, e Claudio Pavone, in un suo saggio esemplare, ci ha fatto capire ormai che si è trattata, nel dolore di un periodo oscuro e controverso, di una guerra civile.

Nessuno nega che anche nella guerra partigiana accadero episodi e fatti condannabili. Ma la resistenza fu una guerra civile combattuta da italiani che stavano dalla parte giusta, e italiani alleati dei nazisti che stavano dalla parte sbagliata.

E la parte sbagliata era rappresentata da ragazzi che combattevano con l’esercito tedesco e le Ss, mentre dall’altra parte c’erano uomini diversissimi che combattevano al fianco delle più importanti democrazie occidentali.

Per quanto dovremo ascoltare ancora frasi a sproposito di questo genere? Quanto ancora quel sottile fascismo eterno dovrà sopravvivere nelle pieghe ideologiche del nostro paese? Per quanto tempo ancora dovremo stupirci che valori condivisi da sempre debbano essere messi in discussione?

E perché mai un ministro della Repubblica deve mettere sullo stesso piano giovani che partecipavano ai rastrellamenti tedeschi, con altri che volevano un paese libero?
La Costituzione Italiana, una delle migliori Costituzioni del mondo, è figlia della resistenza.

Potremo una volta per tutte, trovare un accordo, e del buon senso storico, e celebrare il 25 aprile come è giusto celebrarlo, senza miopie, e senza ignorare anche quel sangue dei vinti, che fu comunque una tragedia per questo paese?

da unita.it
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« Risposta #47 inserito:: Aprile 24, 2009, 10:25:14 am »

Undicietrenta

di Roberto Cotroneo 


Cosa c'è dietro gli attacchi alla Costituzione


Tutta la polemica sulla Costituzione ha moltissimo che non mi piace. Non mi piace che qualcuno abbia potuto dire che si tratta «di un residuato bellico», da riformare, da smontare, da mettere in discussione. Ora, tutto è migliorabile, ma la Costituzione non è un giocattolo su cui si può dibattere come fosse una legge qualsiasi. Come afferma il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che della Costituzione è prima di ogni cosa il garante: «È del tutto legittimo politicamente modificarla sulla base di motivazioni trasparenti e convincenti». Ma è proprio su quella parola, utilizzata da Presidente, la parola trasparenza che vorrei soffermarmi. Perché il dibattito sulla Costituzione non ha criteri di trasparenza, ma criteri ideologici e politici. Una buona parte del mondo politico espresso dalla maggioranza del Parlamento ritiene la Costituzione figlia di un momento storico in cui non è opportuno riconoscersi. Perché la Costituzione è stato uno sforzo, e uno sforzo encomiabile, di unità del paese, anche se era il frutto di componenti politiche molto diverse tra loro, se non addirittura antitetiche.

E la Costituzione italiana è stato il punto di partenza per voltare pagina, il distacco vero, l’uscita definitiva e permanente da un regime autoritario a una democrazia moderna. Dietro tutte le polemiche sulla carta costituzionale di questi ultimissimi anni c’è un disegno neppure troppo oscuro per delegittimare, e cancellare i principi generali che hanno ispirato la carta costituzionale. E soprattutto il problema che questi principi sono stati condivisi da un partito cattolico e atlantista come la Democrazia Cristiana, e un partito di ispirazione marxista, con forti legami con l’Unione Sovietica come il Partito Comunista di allora. Come è stato possibile? Centinaia di saggi storici usciti negli ultimi sessant’anni lo spiegano bene, anche con inevitabili divergenze. Ma il punto su cui non si può non concordare è che tutti, ma proprio tutti, hanno avuto a cuore il presente e il futuro civile e democratico di questo paese. Se poi il problema, e mi sembra un problema non da poco, è contestare la Costituzione perché si vogliono negare «i valori maturati nell’opposizione al fascismo, nella Resistenza», come ha detto il presidente della Repubblica. Allora lo si deve dire. Ed è qualcosa di molto sconfortante.

da unita.it
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« Risposta #48 inserito:: Aprile 30, 2009, 05:05:54 pm »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 


Berlusconi, le veline e i politici "maleodoranti"


Silvio Berlusconi ha ritirato le veline. Non saranno più candidate dal Pdl alle elezioni europee. E qualche giornale già dice che ha vinto Veronica Lario contro il marito. Sarà anche vero. Certo il problema non riguarda soltanto le veline, ma il modo in cui è cambiata la politica in questi ultimi anni. Ha ragione Ilvo Diamanti a dire che siamo entrati nella categoria dell’impolitico. Ed è comprensibile tutto questo clamore per l’uscita pubblica della Lario. Però sorprendersi di questo vuol dire non essersi accorti di una cosa, che è ripetuta spesso, ma senza troppa convinzione, come a volerla esorcizzare.

Siamo passati da una vecchia politica, quella della prima Repubblica, fatta di carriere vere e proprie, come se il fare politica fosse un mestiere quasi per tutta la vita, a una politica di contorno, che ha regole e strutture tipiche delle aziende dello spettacolo, del cinema, della televisione soprattutto. Se un tempo una candidatura si sudava dopo anni di riunioni, volontariato, dedizione e ovviamente portaborsismo, oggi la politica è trovare il volto nuovo, il nome che tutti conoscono, che siano giornalisti noti al grande pubblico, magistrati di diverso orientamento, attori, e per ultimo belle ragazze prive di competenze, ma con un forte appeal verso l’elettore. Elettore che ormai si è trasformato, attraverso una lenta mutazione, in spettatore. Uno che potrebbe, come paradosso, utilizzare anche il televoto. Se volete votare la signorina bionda per il parlamento europeo inviate un sms, alle tariffe del gestore naturalmente, al numero che vedete sovraimpresso sul video.

Non basterà il dietrofront di Berlusconi per risolvere il problema della selezione della classe dirigente politica in Italia. Si è dissolta quella non troppo gloriosa del passato, ma siamo finiti peggio e ora siamo preda di partiti personali, gestiti da leader che hanno bisogno di stewart e di hostess, e non di competenze. Perché le competenze, quando servono, si utilizzano fuori dalla politica, mentre a schiacciare un pulsante in parlamento è meglio mettere deputati e parlamentari più coreografici.

Ma la domanda è d’obbligo: cosa si diranno alle riunioni tutti questi incompetenti? In che modo si faranno venire delle buone idee, se sommati tutti assieme non riescono a farne una? Forse sono troppo ottimista nel pensare che oggi in Italia questo possa essere considerato un problema.

da unita.it
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 04, 2009, 06:33:13 pm »

 
Undicietrenta di Roberto Cotroneo 


Caso Mattei, quando la Storia è un romanzetto

Ieri ho visto con molta attenzione la fiction di Rai Uno su Enrico Mattei. Se ne è parlato molto prima che andasse in onda, come un evento, come un appuntamento da non perdere. Per l’argomento, intanto: il ritratto e la vita di uno degli uomini più controversi di questo dopoguerra. E perché l’attore che interpreta Mattei è Massimo Ghini: un bravo attore, molto amato dal pubblico.

Eppure ho avuto moltissime perplessità. E subito dopo mi sono andato a rivere quel capolavoro di Francesco Rosi, del 1972 che è “Il caso Mattei”. In quel film il ruolo di Mattei è interpretato, come molti ricorderanno, da Gian Maria Volontè. Ora, quali sono le perplessità? La perplessità viene dal fatto che la fiction di Rai Uno è sostanzialmente un fotoromanzo. Dove Mattei appare come un uomo che non è affatto un uomo di quel tempo, e non assomiglia per nulla al vero. Il Mattei di Ghini è un uomo generoso, appassionato, di buoni sentimenti. È un self made man che ama il suo paese, che ha tanta voglia di fare, e che si oppone ai cattivi padroni delle società petrolifere americane, le sette sorelle, come un qualunque signore che si oppone ai soprusi e alle posizioni dominanti, con etica e semplicità.

Il Mattei di Ghini piange con la moglie quando perde il bambino tanto atteso, stacca il telefono quando vuole stare con lei anche se lo chiamano dall’Agip. E quando individua il primo giacimento di metano fa portare la moglie dall’autista fino al luogo del giacimento e accende lui stesso il pozzo.

La fiction alterna episodi veri, ed episodi da romanzo popolare. Ma in nessun modo, da quella fiction (al contrario del film di Rosi) lo spettatore può farsi un’idea di chi fosse davvero Mattei. Ma, anzi, assistiamo, attraverso le fiction a una vera e propria riscrittura della storia d’Italia in chiave buonista; e commovente, e ormai si sta davvero un po’ esagerando.

Nella fiction il Mattei partigiano è un bravo uomo che fa il suo dovere di cittadino e di democratico, La Pira, con tutto il suo misticismo, pare un capo militare assertivo e deciso. Mattei non appare per quello che fu: uno spavaldo manager d’altri tempi, che non ha mai rispettato regole, che pagava, influenzava. Un grande demagogo, capace di cambiare la realtà delle cose. Ucciso nel 1962 in un incidente aereo, è ormai ufficiale, di «natura dolosa», Mattei fu un atlantista convinto, un uomo che possedeva fascicoli riservati, legato ai servizi segreti, tra i fondatori di Gladio, uno dei segreti più impenetrabili, e per decenni, della nostra Repubblica. Raccontarlo come uno che fa il picnic con la moglie sul fiume, è un po’ grottesco.

La cosa che colpisce di più è che la fiction di Rai Uno riprende esattamente il film di Rosi (che quasi 40 anni fa era di una modernità strepitosa) con quasi gli stessi episodi, ma ridisegnati in una chiave buonista, entusiasta, generosa, patinata, fumettistica. Ne viene fuori un eroe buono e al tempo stesso un eroe tragico (che in questa chiave Ghini interpreta con bravura), dentro un paese che non è mai esistito: un racconto che non restituisce a nessuno la complessità del personaggio. Un Mattei a uso famiglia, uguale per certi versi a tutti gli altri eroi della nostra storia recente su cui le reti e i produttori si esercitano da anni.

Eppure per chi sa e per chi conosce davvero la storia c’è un dovere etico nei confronti dei più giovani: raccontare al grande pubblico, con le ovvie semplificazioni, il clima, il colore e la realtà di quello che siamo stati, senza sconti e senza buoni sentimenti, soprattutto quando quei buoni sentimenti non ci sono stati. Non una storia riveduta e corretta, non una retorica per semplici, non la solita favola che non serve a nessuno, e non aiuta a capire il paese che siamo diventati.
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« Risposta #50 inserito:: Maggio 17, 2009, 11:14:58 am »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 


Non ci resta che vergognarci


L'articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, riguardante il "Divieto d'espulsione e di rinvio al confine", dice: "Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese.

E l'articolo successivo, sulla naturalizzazione, aggiunge: "Gli Stati Contraenti facilitano, entro i limiti del possibile, l'assimilazione e la naturalizzazione dei rifugiati. Essi si sforzano in particolare di accelerare la procedura di naturalizzazione e di ridurre, per quanto possibile, le tasse e le spese della procedura".
Ieri l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), Lauren Jolles ha detto chiaramente al nostro ministro degli interni Roberto Maroni che "la nuova politica inaugurata dal governo si pone in contrasto con il principio del non respingimento sancito dalla convenzione di Ginevra del 1951, che trova applicazione anche in acque internazionali: questo fondamentale principio, che non conosce limitazione geografica, è contenuto anche nella normativa europea e nell'ordinamento giuridico italiano".
Siamo riusciti a violare la Convenzione di Ginevra del 1951, e anche la Convenzione di Dublino del 1997, ma soprattutto, e questo è un nodo interessante, l'articolo 10 comma 3 della Costituzione Italiana: "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge".

Il 70 per cento degli irregolari sbarcati sulle coste italiane ha chiesto la status di rifugiato. Provengono da paesi dittatoriali, persecutori, e disumani. Ma il ministro Maroni respinge le obiezioni dell'Alto Commissario e dice: "non ci fermiamo". E chiede fumosi tavoli tecnici, anche con la Libia, per risolvere il problema. Aggiunge: se ne faccia carico l'Unione Europea. Siamo riusciti a violare la Convenzione di Ginevra, e sarebbe curioso capire se il ddl sulla sicurezza non violi anche i principi costituzionali. Ma in ogni caso siamo senza umanità e senza vergogna. Come un paese barbaro, incapace di rispettare un testo approvato 60 anni, e cardine irrinunciabile di qualsiasi paese civile e democratico. Altro che propaganda, molto peggio. Non ci resta che vergognarci.

da unita.it
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:39:30 am »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo 

I soliti fini intellettuali


Io continuo a non capire come sia possibile definire con il termine “dibattito” quello che sta accadendo in questi giorni tra il Governo italiano e l’Onu. La parola dibattito andrebbe usata in maniera un tantino più attenta. E fino a prova contraria un dibattito è un confronto di posizioni, acceso alle volte, persino polemico, ma dove si sostengono tesi ragionate e serie. Dove ci si contrappone, e il piacere del contraddittorio aiuta a capire meglio, a farsi un’idea più chiara, talvolta persino a correggere errori e pregiudizi, raramente – eppure accade – a raggiungere verità altre più efficaci e più utili.

Ma che diavolo di dibattito sarebbe quello del governo sui rifugiati? Un tempo si sarebbe detto che è un dibattito da Bar Sport. Dove per Bar Sport si intenderebbe un luogo dove figuri per nulla acculturati, con una passione per il calcio quasi fideistica, si scambiano accese espressioni da curva da stadio sulle corna di un arbitro che non ha dato un rigore, o sulla broccaggine di un attaccante che sbaglia il gol solo davanti alla porta di calcio. Vecchi tempi, come cantava De André nella sua celebre “Città vecchia”: «una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino, quattro avvinazzati mezzo avvelenati, a un tavolino”. Ma quei Bar Sport, con il progresso, non ci sono più. La moviola rende tutto più chiaro, e il dibattito sportivo può giungere a livelli sublimi di ermeneutica sportiva.

Sull’immigrazione invece, il livello è un po’ più basso. Esistono fondamentalmente due posizioni. La prima potremmo attribuirla a un epigono della Scuola di Francoforte, ed è ben rappresentata dal ministro della Difesa Ignazio Benito Maria La Russa. Dopo aver letto molti testi sulle migrazioni, dagli Ittiti a oggi, La Russa, con una posizione attenta anche alla storia diplomatica internazionale, e al ruolo prima della Società delle Nazioni, e poi dell’Onu, ha detto: «L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati? Non conta un fico secco». Interessante tesi, molto attenta, soprattutto per la citazione del fico secco, frutto ben conosciuto, in quella forma essiccata, in tutta l’area del Mediterraneo sin dai tempi di Alessandro il Grande. Una sensibilità per la storia, per le sue tradizioni, una metafora che avranno apprezzato in molti.

La seconda posizione potremo attribuirla, quasi senza incertezze alla Scuola di Palo Alto. Ed è ben rappresentata da Maurizio Gasparri, che sulla medesima questione, ovvero sull’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha detto, con un’espressione inaspettata, quanto incisiva: «Me ne frego». E cita una vecchia canzone dei primi anni Venti, un inno a sfidare la morte, in nome di D’Annunzio e Mussolini. Non dobbiamo farci ingannare da questo dettaglio, Gasparri vuole riferirsi certamente al rischio che i migranti corrono ogni giorno per raggiungere le nostre coste, e fa un sottile parallelismo tra il desiderio di morte, tipico del superomismo dannunziano e quella stessa pulsione che deve cogliere, uomini, donne e bambini che si mettono in mare e sfidano la sorte per raggiungere un luogo migliore.

Il ministro Maroni, che è il solito leghista, ha detto che certe polemiche posso rovinare un lungo lavoro diplomatico con la Libia. Ma è un povero di spirito, ed è pessimista. Se avesse letto meglio avrebbe capito che da noi il dibattito raggiunge livelli quasi sublimi. E che per fortuna ci facciamo riconoscere sempre, come i soliti fini intellettuali.

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« Risposta #52 inserito:: Giugno 07, 2009, 07:43:51 pm »

Undicietrenta

di Roberto Cotroneo 

La solita commedia


Il discorso del presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Cairo, ieri, era impressionante. Per forza, autorevolezza, per potenza storica, se così possiamo chiamarla. Un grande presidente che scardina i luoghi comuni, che arriva in fondo alle cose, che apre e vuole risolvere uno dei nodi politici e culturali fondamentali di questo terzo millennio. Tutto il mondo è impressionato dal discorso che ha fatto Obama. Tutto il mondo è impressionato da come la politica, quella vera, possa ancora, fino in fondo, incidere sui progetti, sui sogni delle persone comuni, e cambiare veramente le cose, anche quando sembrava che nessuno fosse più capace di questo. Anche quando si era ormai convinti che i grandi riformatori, che gli uomini con dei sogni, quelli che hanno tentato di costruire futuri migliori non fossero più di questa epoca, di questi anni, ma appartenessero a tempi lontani, dove l’ottimismo e la volontà di realizzare erano ancora qualcosa di possibile. Oggi Obama ha dimostrato che non è più così.

Poi però guardo la politica italiana, qualche riga sotto le notizie sul discorso di Obama, e rimango sconvolto. La nostra politica, i nostri sogni, la nostra progettualità è sul fatto che si possa o non si possa – in un mondo globalizzato – pubblicare le foto delle ragazze carine in piscina da Berlusconi, se sia chiaro o meno quello che dice la famiglia Letizia da Napoli, sulla figlia Noemi e l’amicizia con “papi”, se il cantante napoletano Apicella poteva essere legittimamente sull’aereo di Stato del premier che lo portava in Sardegna, se il “Times” è un giornale influenzato dai soliti comunisti italiani.

Intanto il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi viene attaccato dal presidente del Consiglio. Secondo Berlusconi, quando Draghi dice che 1,6 milioni di lavoratori non hanno alcun tipo di sostegno in caso di perdita dell’occupazione ha dei dati sbagliati. Non era mai accaduto che il capo del Governo smentisse platealmente il governatore della Banca d’Italia. Lo sconforto ci assale nel prendere coscienza che siamo un paese ridicolo, privo di importanza, preso in giro da mezzo mondo. Un paese da commedia all’italiana, che torna ai vecchi

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« Risposta #53 inserito:: Luglio 05, 2009, 10:55:19 am »

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di Roberto Cotroneo 


Lo scossone del G8


Ora, ma dico io, ma tutto si può capire. Che fosse giusto spostare all'Aquila il G8 perché si puntano i riflettori su una città bellissima da ricostruire. Che fosse giusto fare un G8 in piena crisi che non fosse sfarzoso ed eccessivo, e la caserma va benissimo. Che fosse giusto usare L'Aquila per evitare scontri e zone rosse, perché si spera che i provocatori di professione, quelli che movimentano i G8 con vetrine infrante e disordini vari, abbiano rispetto per un luogo e per molta gente che ha già avuto disagi seri e tragedie personali.
Ma si può davvero, tra persone serie, decidere di portare un summit di quella portata in un posto dove ieri c'è stata una scossa di magnitudo 4.1? Roba da far saltare dal letto Obama, e tutti i capi di stato, e tutti i segretari e tutti gli sherpa? Roba da generare il panico veramente? E pensare che anche l'opposizione era d'accordo quando Berlusconi fece la proposta. E sono di quegli abbagli che accadono, per carità, ma abbagli rimangono. È mai possibile che per un summit serio si possa scegliere un luogo dove a un certo punto ti si rovescia l'acqua sul vestito e cominciano a piegarsi le pareti e rischi che ti cade in testa un lampadario?
L'epicentro di ieri era a un chilometro, dicasi un chilometro, dalla caserma di Coppito. Un chilometro è come starci sopra. È accaduto ieri, certo, poteva accadere mercoledì, potrebbe accadere giovedì prossimo o sabato. E non si sa neppure come. Abbiamo passato un mese ad ascoltare tutti i più grandi esperti di geofisica che spiegavano: i terremoti non si possono prevedere. Abbiamo imparato, noi ignari, il termine "sciame sismico". Lo sciame continua, la gente si spaventa e va in strada, e un 4,1 di scala Richter è una cosa da far impallidire chiunque, anche un presidente degli Stati Uniti. Abbiamo lavorato sulla sicurezza e sicuramente in quei giorni L'Aquila sarà blindata, e tutto funzionerà a dovere, compresi gli aerei spia Predator, che sono telecomandati. Peccato che dal centro della terra non arrivano buone notizie, a quanto pare.
Certo, la caserma sarà totalmente antisismica, ma non è piacevole lo stesso. Poi che facciamo dopo, ci scherziamo su? Facciamo una battutona, genere: abbiamo dato uno scossone al G8? Ma per favore...

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« Risposta #54 inserito:: Agosto 19, 2009, 12:00:07 pm »

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di Roberto Cotroneo 


La lezione della Pivano


Beati i vecchi che hanno il coraggio, la voglia di parlare con i giovani. Senza temerli, senza averne paura, senza sbarrar loro la strada. L'ultimo articolo, scritto per i suoi 92 anni, di Fernanda Pivano è commovente proprio per questo. Perché dice questo, perché racconta di tutti i giovani che la andavano a trovare e le chiedevano cosa fare, come avvicinarsi ai propri sogni, come riuscire a realizzarsi in un mondo che non lascia spazio a nessuno. In un mondo di gente sempre più vecchia ed egoista, e di gente che sta invecchiando, che si rifiuta di guardare davanti a sé, che non ha il coraggio di formare i più giovani, che non ha alcuna intenzione di insegnare, di passare il testimone, ma che lascia il resto del mondo, quello fatto da gente di 20 e di 30 anni in un limbo senza futuro e senza soddisfazioni, in un sogno scoppiato troppo presto, in un sogno che finisce in una strada senza uscita.

Ieri è morta Fernanda Pivano, ha fatto scoprire a cinque generazioni la beat generation, e non solo. Anche Masters, e anche Henry Miller, e anche Hemingway. Nel suo ultimo articolo, per il "Corriere della Sera", ha scritto: "Ho sempre cercato di vivere di passioni e tutto questo mi riporta solo alla disperazione dei miei 92 anni, con le vene che non reggono la pressione di una semplice iniezione. Ma grazie a Dio ci sono questi ragazzi di 18 anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti su come fare a superare le tragedie della vita. Ahimè. A 92 anni ancora non so cosa rispondere. Dico loro di sperare. Di battersi per vivere in un mondo senza guerre volute solo da capitani ansiosi di medaglie. Di sorridere senza il rimorso di non aver aiutato nessuno. E proprio questi giovani sono una grande, meravigliosa, consolazione. Il segno che qualcosa di ciò che hai fatto ha lasciato un piccolo segno, un piccolo seme".

Dovrebbero avere lo stesso atteggiamento verso i giovani anche gli arroganti cinquantenni, e i sessantenni che oggi si tengono stretto fama e poteri immeritati. Dovrebbero riflettere sulle parole di saggezza della Pivano. Dovrebbero capire che questa è la scommessa di tutti noi. Come racconta un altro grande scrittore americano, caro alla "Nanda" come la chiamavano gli amici, ovvero Jerome D. Salinger, dovremo stare là in fondo, in quel campo di segale, a salvarli quando si avvicinano troppo al precipizio.

E invece li abbiamo lasciati soli, indifferenti ai loro sogni e ai loro destini. Questa è l'ultima lezione della Pivano, spero che tutti possano ricordarla, veramente, e senza retorica. Sennò non ci sarà futuro per nessuno.

da unita.it
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« Risposta #55 inserito:: Settembre 09, 2009, 11:47:49 am »

Undicietrenta di Roberto Cotroneo

   
Berlusconi, Feltri e le bocce


La domanda è questa: Silvio Berlusconi conosce davvero la strategia e le intenzioni del direttore del "Giornale" Vittorio Feltri? Il presidente del Consiglio sostiene di non esserne informato. La nota che ha inviato ieri sera, era molto netta: "Come si può ben immaginare non ero a conoscenza dell'articolo del dottor Feltri". Berlusconi si riferisce, questa volta, all'articolo che Feltri ha dedicato a Gianfranco Fini, chiedendogli se è ancora di destra, e ironizzando su ipotetiche aspirazioni di Fini, di salire al Colle dopo Giorgio Napolitano.

Mi ha colpito però quel: "Come si può ben immaginare". Come si può ben immaginare vuol dire che Vittorio Feltri dirige un giornale di famiglia, la proprietà della testata è di Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, ma non informa nessuno. Come si può ben immaginare vuol dire che Silvio Berlusconi non ha l'abitudine di fare pressioni e di occuparsi dei suoi direttori di giornale. Ma è davvero così? Fuori dai luoghi comuni su temi come questi, il premier ha avuto negli anni un atteggiamento contrastante: ha lasciato a Enrico Mentana tutta la libertà che voleva, ma poi lo ha rimosso quando Mentana voleva continuare ad avere quella libertà, ha tollerato Antonio Ricci, che in un certo senso fa informazione, e molte sue irriverenze, ma i direttori di Studio Aperto e soprattutto del Tg4 hanno sempre mostrato una fedeltà alla politica del premier indiscutibile. Ha nominato alla direzione di "Panorama" un giornalista indipendente come Pietro Calabrese, ma poi lo ha sostituito con Maurizio Belpietro, che non ha mai nascosto un allineamento ligio alla propaganda berlusconiana. Ha messo al vertice del Tg5 Clemente Mimun, che è uno su cui tutto si può dire, tranne che abbia mai rinunciato a fare il giornalista nella sua vita. Ma poi ha scelto Augusto Minzolini per il Tg1, un uomo che ha sempre avuto un trasporto e un'ammirazione totale e sincera per il premier, basta leggere gli articoli che scriveva sulla "Stampa" da qualche anno a questa parte. Ma poi ha approvato la nomina di Mario Orfeo al Tg2 che invece è culturalmente molto lontano da lui. E infine ha assunto un uomo difficile da gestire come Vittorio Feltri e gli ha dato la direzione del "Giornale".

Chi conosce davvero Feltri sa che non tipo da chiedere il permesso sulle cose che fa. Ma allora? Allora quello che ha combinato Berlusconi è un po' simile a ciò che fa il giocatore di bocce messo alle strette. Che non può più giocare di fino, che non è più in grado di fare il punto con un tiro calibrato. Allora che fa? Spariglia. Colpisce secco. Manda tutto all'aria. E solo dopo vede il risultato. Può vincere, può perdere. Può uscirne bene o male. Ma non lo sa neppure lui. Feltri è la boccia che spariglia. Berlusconi è il tiratore, ma in un vicolo cieco. Cosa accadrà è davvero impossibile da prevedere. Intanto il premier smentisce: ovviamente non ne sa nulla. Come non sa nulla il giocatore di bocce che spariglia, e distrugge il gioco degli avversari.

da unita.it
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« Risposta #56 inserito:: Settembre 19, 2009, 06:31:10 pm »


Undicietrenta di Roberto Cotroneo

Caro Di Pietro, la finiamo per favore?

Qualche volta bisognerebbe spiegare ad Antonio Di Pietro che fare una dura e responsabile opposizione non significa dire sciocchezze lugubri e imbarazzanti. Perché in questo modo non si fa altro che scatenare l'indignazione degli esponenti del centro-destra, e un imbarazzo evidente di tutto il centro-sinistra. Dire che Berlusconi finirà come Saddam Hussein, vuol dire affermare che Silvio Berlusconi sia paragonabile a uno dei più feroci dittatori degli ultimi cento anni. E vuol dire paragonare il nostro paese all'Iraq messo in ginocchio da un maniaco sanguinario che, al pari di Stalin, faceva sopprimere e assassinare oppositori e persino parenti. Tutto questo è francamente raccapricciante.

L'Italia non è l'Iraq e Berlusconi non è Saddam Hussein. Berlusconi è un uomo che vorremmo all'opposizione perché la qualità del suo governo, con alcune eccezioni, è decisamente mediocre, perché il suo modo di governare è inaccettabile, perché si è occupato quasi soltanto di far approvare leggi ad personam che difendono i suoi interessi e che lo mettono a riparo da processi penali dove potrebbe essere condannato. Berlusconi non è Saddam Hussein, ma è un uomo che ha un conflitto di interessi inaccettabile per un paese civile e occidentale. E il conflitto di interessi, mai risolto neppure dai governi di centro-sinistra quando potevano farlo, sta diventando sempre più ingombrante e sempre più difficile da accettare. Berlusconi non è Saddam Hussein, ma dovrebbe finire all'opposizione perché il suo modo di gestire il potere è spesso invadente e privo di regole, e il suo modo di gestire il suo privato è perlomeno discutibile, se non altro perché il presidente del Consiglio non dovrebbe frequentare persone che ieri sono state arrestate per traffico di stupefacenti e sfruttamento della prostituzione.

Anche se non era a conoscenza di queste cose, certamente possiamo dire che non è prudente farlo per il suo alto ruolo e le sue funzioni.

Caro Di Pietro, talvolta non c'è bisogno di sparare nel mucchio dicendo sciocchezze che rendono sempre più in salita il lavoro del resto dell'opposizione, e soprattutto allontaneranno quelli che magari Berlusconi lo votavano, e ora hanno dei dubbi. Ma se la qualità dell'opposizione a Berlusconi è di questo tenore, scommetto che tornano indietro, perché peggio di Saddam ci sono solo Pol Pot, Hitler e Stalin. E speriamo che a nessuno venga in mente di paragonare Berlusconi a Hitler...

31 maggio 2005
da unita.it
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 28, 2009, 05:04:48 pm »


Undicietrenta di Roberto Cotroneo


Se Grasso parla di entità


Il nostro è stato un paese di grandi vecchi, o meglio del grande vecchio. Per anni il grande vecchio ha condizionato pensieri, decisioni, interpretazioni. E ha messo gli storici con le spalle al muro, come fosse un pezzo fondamentale, il tassello del puzzle che manca per leggere la storia d'Italia come dovrebbe essere letta davvero.
Per anni ho visto litigare furiosamente colleghi dietrologi, o retroscenisti, e colleghi impegnati e pronti a giurare che dietro la stagione del terrorismo non poteva che esserci il semplice terrorismo. Ho visto giornalisti che per una vita avevano fatto i cronisti di giudiziari, e di nera, e si erano occupati degli anni di piombo, giurare e inveire contro chiunque provasse a ipotizzare che non proprio tutto, di quella stagione era chiaro. E che i terroristi rossi non avevano proprio detto tutta la verità.

E non solo, che quella verità non detta non era affatto marginale, ma piuttosto determinante per leggere le vicende del paese.Per loro, per i media, e per buona parte della politica, di misteri non ce n'erano: neanche uno. Per molti la verità processuale non poteva che essere l'unica verità possibile. E il terrorismo fu fenomeno spontaneo, genuino, figlio degli errori del '68 e delle ideologie.Mentre bisognava sorbirsi queste ingenuità in buona e cattiva fede, sotto correva un fiume carsico di melma vera. Fatto di misteri, di intrecci, di assassinii, di servizi segreti, di centrali del terrorismo straniere su cui nessuno poteva indagare, di scorribande di terroristi palestinesi, di agenti di servizi stranieri che utilizzavano il nostro paese come un'autostrada senza pedaggio. Di trattative con tutti e verso tutti. Stato con i camorristi, camorristi con i terroristi (vedi il caso Cirillo), pezzi deviati (ma poi deviati quanto?) dei servizi con l'intero mondo. Criminali comuni, sebbene politicizzati, fatti fuggire dall'Italia con troppe complicità ad altissimo livello (vedi il delitto del Circeo), e poi latitanti eterni, gente condannata all'ergastolo che non ha mai fatto un giorno di carcere, o criminali e assassini che prima dalla Francia e poi dal Brasile pontificano sul nostro paese, sperando ancora di non essere estradati.Queste sabbie mobili insopportabili, che sono veramente la coscienza sporca di questo paese, e che sono uno degli elementi del degrado culturale e politico italiano (che è troppo facile ed anche un po' idiota imputare solo a Berlusconi) sono state rese ancora più profonde e inquietanti proprio ieri da Piero Grasso in commissione antimafia.Ieri il procuratore nazionale antimafia ha detto, testualmente: "Non c'è dubbio che la strage che colpì Falcone e la sua scorta sia state commessa da Cosa Nostra. Rimane però l'intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell'ideazione, nell'istigazione, o comunque possa aver dato un appoggio all'attività della mafia".

E poi ha aggiunto: "La scelta dell'attentato ha una modalità chiaramente stragista ed eversiva. Chi ha indicato a Riina queste modalità con cui si uccide Falcone? Finchè non si risponderà a questa domanda sarà difficile cominciare ad entrare nell'ordine di effettivo accertamento della verità che è dietro a questi fatti".Sono parole tremende, che arrivano dopo il sospetto di una trattativa tra mafia e istituzioni dello Stato già dal 1992. Sono parole che dicono che l'attentato a Falcone poteva avere fini "eversivi".

E che questi fini eversivi sono stati ispirati da "un'entità". Sono parole dette da un procuratore nazionale antimafia in Commissione antimafia. Non in un'intervista volante, non riportate da qualcuno che ha capito male. Ma possiamo stare tranquilli, passeranno senza lasciare traccia. È più interessante occuparsi di escort, di trans, e delle liti tra Tremonti e Berlusconi. E poi dicono che siamo un paese normale...

28 ottobre 2009
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