LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: UGO MAGRI  (Letto 228872 volte)
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« Risposta #345 inserito:: Novembre 08, 2016, 10:56:15 pm »

Deluso dal premier, Berlusconi ha un piano per batterlo nelle urne
“Propaganda per categorie, decisivo superare il 60% di affluenza”
Silvio Berlusconi ha deciso di scatenare l’offensiva a favore del No

05/11/2016
Ugo Magri
Roma

Renzi non gli dà alternative. Lo snobba, pretende di fare senza di lui, si comporta come se tutto fosse dovuto e gratis. Berlusconi ha atteso per mesi un gesto del premier, senza troppe illusioni ha perfino sperato che l’ipotesi di rinviare il voto fosse un’occasione per guardare insieme al futuro. Invece niente: ancora una volta «è stato come parlare al muro», confidano personaggi della sua cerchia. Per cui al Cav non resta che battersi. Controvoglia, tra dubbi e rimpianti, però con la rabbia di chi si sente stretto alle corde. Pare che in queste ore stia preparando seriamente la riscossa. Lucido e perciò politicamente pericoloso. «I sondaggi dicono che la mia discesa in campo può spostare dai 5 punti percentuali in su», si fa forza Silvio a Villa Gernetto davanti ai giovani della Missione Italia (gireranno la Penisola con una carovana di Cinquecento riconoscibili dal simbolo di Forza Italia). La vera notizia è che l’ex premier sta facendo sul serio, vuole vincere a tutti i costi, sebbene la prova definitiva si avrà soltanto (fa notare scettico Calderoli) il giorno in cui darà ordine a Mediaset di sostenere il NO, smettendola con il «fair play» tenuto finora per ordine del saggio Confalonieri.

Strategia mirata 
Come tutti i condottieri prima della battaglia, Berlusconi studia le mosse del nemico. Si è accorto, ad esempio, che Renzi da qualche tempo adotta una comunicazione astuta, gli esperti la definirebbero «mirata» o «per target», cioè rivolta a settori precisi anziché a tutti senza distinzione. Si rivolge alle categorie con temi molto concreti, cerca di soddisfarle una per una in quanto il premier ha capito che sarà la somma a fare il totale. Berlusconi farà lo stesso: anche lui «segmenterà» il messaggio, si sforzerà di modularlo diversamente rivolgendosi un giorno agli anziani, il giorno dopo alle casalinghe e via promettendo. «Basta copia e incolla, mai più due video-messaggi uguali tra loro», garantiscono gli strateghi del Cav, «ciascuno avrà sempre un destinatario diverso e chiaro». Per incominciare, l’anziano leader rispolvera l’argomento tasse, cioè il suo cavallo di sempre, che lancerà al galoppo negli ultimi dieci giorni della campagna referendaria, con qualche colpo a sorpresa.

L’affluenza sarà decisiva 
Berlusconi non si illude di vincere facile, tantomeno si fida dei sondaggi che premiano il NO. «Molti intervistati raccontano bugie», spegne gli entusiasmi di Brunetta. L’unico conto che si può fare adesso, secondo il Cav, è quello dei voti necessari per la vittoria. Grosso modo ne servono 15 milioni, in quanto Renzi potrebbe andarci molto vicino con l’apporto degli italiani all’estero, passati in massa dalla sua parte dopo la tournée americana della «star» Maria Elena Boschi . L’affluenza sarà dunque decisiva per il trionfo finale. Sopra il 60 per cento degli aventi diritto (che corrispondono a 30 milioni di elettori), il No vincerà facile. Se si resterà sotto la soglia, invece, potrà farcela il SI. Questo ha calcolato l’ex premier, che di campagne elettorali ha una certa esperienza. Per cui decisivo sarà portare tutti alle urne. «Chi non andrà a votare farà solo un favore a Renzi»: il tormentone berlusconiano è già incominciato.

Da - http://www.lastampa.it/2016/11/05/italia/politica/deluso-dal-premier-berlusconi-ha-un-piano-per-batterlo-nelle-urne-zqQTiX9L0K9jRDisLTo3LK/pagina.html


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« Risposta #346 inserito:: Novembre 20, 2016, 11:50:03 am »

Partiti, onorevoli, comitati: a chiedere il referendum non è stato solo il premier
La prima richiesta è arrivata da 166 deputati schierati per il No

Pubblicato il 19/11/2016
Ultima modifica il 19/11/2016 alle ore 07:02
Ugo Magri
Roma

Perfino nelle cancellerie europee, sono quasi tutti convinti che il voto del 4 dicembre sia solo un capriccio temerario di Renzi. E non c’è dubbio che il premier sia stato sempre molto a favore del referendum, tanto che il suo partito ha raccolto le 500 mila firme necessarie per supportarne la richiesta: uno sforzo anche organizzativo notevole.

Ma se si guarda bene a come sono andate le cose, il voto sulle riforme sarebbe arrivato ugualmente, con o senza il “placet” di Renzi. Perché il 19 aprile scorso, quando la raccolta delle firme Pd non aveva ancora avuto inizio, in Cassazione era già pervenuta la richiesta di 166 deputati del No, primi firmatari Roberto Occhiuto, Stefano Quaranta e Cristian Invernizzi a nome, rispettivamente, di Forza Italia, Sinistra Italiana e Lega Nord. In base alla Costituzione attuale (articolo 138, secondo comma) quella richiesta era di per sé sufficiente a far scattare il referendum. Solo qualche giorno dopo si sono fatti avanti i senatori del No e del Sì, infine i deputati favorevoli alla riforma Boschi. In totale, dunque, sono 5 le richieste validate in Cassazione. E sarebbero state addirittura 6 qualora fosse andata in porto la raccolta di firme lanciata dal Comitato del No, sospesa per stanchezza a quota 350 mila.

Addirittura, nel disegno di legge costituzionale presentato nel 2013 dal governo Letta, si prevedeva che al referendum ci si sarebbe andati perfino nel caso in cui la futura riforma avesse superato in Parlamento la maggioranza dei due terzi: una soglia talmente alta che (sempre secondo l’articolo 138) rende superfluo consultare il popolo. Ricapitolando, dunque, Renzi non è stato decisivo. Il suo grande merito (o grave colpa) consiste semmai nell’aver dato da subito grande importanza al voto, alimentando quella drammatizzazione plebiscitaria di cui adesso sembra pentito.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/19/italia/speciali/referendum-2016/partiti-onorevoli-comitati-a-chiedere-il-referendum-non-stato-solo-il-premier-JfAroA4PeR5E1bGWWZFz9M/pagina.html
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« Risposta #347 inserito:: Dicembre 31, 2016, 02:30:10 pm »

Mattarella e il “Paese sfibrato” che deve ritrovare l’unità
Domani il Capo dello Stato si rivolgerà ai cittadini e non ai politici. Sarà un appello a superare l’odio e a ritrovare un destino comune
Domani sera, Mattarella farà un discorso sobrio e preoccupato. Non dirà che tutto va bene. Ricorderà invece che siamo alle prese con drammi piuttosto seri, in qualche caso «epocali», a fronte dei quali l’Italia dovrebbe darsi la forza di reagire con totale unità di intenti.

Pubblicato il 30/12/2016
Ugo Magri
Roma

In tivù, domani sera, Mattarella farà un discorso sobrio e preoccupato. Non dirà che tutto va bene, dunque possiamo festeggiare sereni. Ricorderà invece che siamo alle prese con drammi piuttosto seri, in qualche caso «epocali», a fronte dei quali l’Italia dovrebbe darsi la forza di reagire con totale unità di intenti. Invece purtroppo (sarà questo il succo vero del messaggio in preparazione) stiamo rischiando di smarrire il senso del destino comune. Troppi risentimenti, troppi egoismi, troppe divisioni a ogni livello. Non che manchino le isole di solidarietà, i buoni esempi ai confini dell’eroismo: a sentire chi frequenta il Colle, il Presidente ne citerà parecchi in quanto, se siamo ancora in piedi nonostante tutto, è proprio grazie a chi ci crede e si mette quotidianamente in gioco. Ma in questo clima di frustrazione e talvolta di odio, certamente di rabbia e di divisione, risalire la china può diventare ancora più complicato. Di qui l’appello a fare pace con noi stessi. A ritrovarci insieme sulle cose davvero importanti. E un invito trasparente ai partiti: nella loro libera dialettica, che si annuncia vivace, si combattano pure sulla legge elettorale e sul resto, a patto di non trascurare i problemi veri. Quelli per cui la gente comune sta soffrendo. Perché a che cosa serve la politica, se non a farsene carico?

La lista dei problemi 
Inevitabilmente, le parole di Mattarella verranno scannerizzate per ricavarne indizi sul futuro della legislatura. E qualche utile indicazione senza dubbio ne verrà fuori. Tuttavia al Quirinale spengono in anticipo gli entusiasmi dietrologici, in quanto destinatari del messaggio saranno i «concittadini», la gente comune. E diversamente dagli auguri rivolti pochi giorni fa alle alte cariche dello Stato, quando non poteva che prendere spunto dalla crisi di governo appena risolta, stavolta il Presidente partirà dai problemi reali. Dal lavoro che manca per tanti giovani e non solo. Dal terrorismo che insanguina l’Europa. Dai risparmi e dal sistema bancario che urge mettere in sicurezza. Il suo discorso toccherà vecchie piaghe nazionali come la corruzione e nuove calamità come il terremoto. Né trascurerà i rifugiati, in fuga dalle guerre, con le tensioni che gli sbarchi e l’accoglienza si portano dietro. Insomma, Mattarella elencherà a una a una le piaghe di un paese «sfibrato», dove sta venendo meno la sicurezza del futuro. Un malessere di cui la politica non è stata la medicina, e probabilmente non lo sarà nemmeno nei prossimi mesi. Con i principali leader già proiettati al voto, e un governo dichiarato «provvisorio» dagli stessi partiti che lo dovrebbero sostenere. Insomma: questo equilibrio fragile non può durare. Perciò si illude chi pensa (o spera) che il Capo dello Stato farà di tutto per ritardare la resa dei conti elettorale. Una volta chiarito con quale legge voteremo, l’arbitro fischierà la fine di questa XVII legislatura. Il popolo sovrano potrà finalmente esprimersi. L’importante, insisterà domani sera Mattarella, è che la politica non si avviti su se stessa, perché di guai ne abbiamo già abbastanza.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/30/italia/politica/mattarella-e-il-paese-sfibrato-che-deve-ritrovare-lunit-ZXrzxsssQdPqo0D7qxyMNN/pagina.html
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« Risposta #348 inserito:: Gennaio 12, 2017, 12:26:59 pm »

Il partito del rinvio ora gongola: “Così si allontanano le elezioni”
Renzi incassa l’ok alla sua riforma ma si apre un duello a sinistra

Matteo Renzi, segretario del Partito democratico è soddisfatto a metà per la decisione della Consulta sui referendum

Pubblicato il 12/01/2017
Ultima modifica il 12/01/2017 alle ore 07:49
Carlo Bertini, Ugo Magri
Roma

Le voci filtrate dalla Consulta narrano di uno scontro epico, combattuto a colpi di precedenti giuridici, in cui mai nessun giudice costituzionale si è azzardato a tirare in ballo ragionamenti politici. Eppure non ce n’è uno, tra i quasi mille onorevoli riuniti ieri alla Camera in seduta comune, che considerasse la sentenza diversamente da un Valium. Il cui effetto è distendere i nervi e rallentare la corsa verso le urne. Soprattutto i peones (attenti alla data del 15 settembre quando matureranno la pensione) sono convinti di avere sventato il rischio che un sì della Corte sull’articolo 18 terrorizzasse a tal punto l’establishment, da spingerlo alle urne pur di posticipare di un anno il nuovo show-down referendario. La battuta più in voga nel Transatlantico, non a caso, è: «La Consulta ha approvato l’articolo 2018», cioè l’anno in cui a questo punto si andrà a votare.

La frenata 
Ai piani altissimi delle istituzioni c’è chi considera la decisione della Corte un sano elemento di riflessione per tutti, ex premier compreso. Il quale viene descritto in quegli ambienti come intento a preparare le elezioni, certo, ma non ancora del tutto determinato a staccare la spina della legislatura. Potrebbe farlo, ma anche no, soppesandone i pro e i contro. In pubblico il Pd nega che il finale sia già scritto. Anzi, il traguardo ufficiale resta lo stesso: votare a giugno come termine massimo. Con qualunque legge elettorale, meglio se corretta per favorire la governabilità. «Le elezioni nulla c’entrano con una sentenza che conferma la bontà del jobs act», taglia corto il numero due del partito, Guerini. Anzi, Gentiloni e lo stesso Renzi risultano soddisfattissimi che sia stato confermato l’impianto di una riforma come quella sul lavoro. Con una motivazione che smonta la tesi secondo cui Renzi, machiavellicamente, avrebbe tifato per un via libera al referendum: «Vi immaginate cosa sarebbe successo se, dopo avere interrotto la legislatura e magari avere vinto le elezioni, Matteo si fosse ritrovato a fare i conti con un altro referendum, per giunta sui licenziamenti?». Solo un masochista poteva desiderarlo.
Quesiti da sminare 
Sia come sia, ora il governo ha un «mission» in più: sminare i due quesiti rimasti in piedi. Secondo uno che se ne intende, come l’ex leader Cgil Epifani, evitare il referendum sarà facile sugli appalti e molto complicato sui voucher. Dalle parti di Gentiloni contano di farcela e dal loro punto di vista si capisce perché: guai se si arrivasse alle elezioni politiche con la sinistra lacerata sul tema lavoro. La minoranza Pd già minaccia una campagna per «due sì», Emiliano e Speranza lo vanno sbandierando, Bersani vorrebbe rivoltare il job act come un calzino. Voucher e lavoro nero sono dunque già il cuore della battaglia congressuale anti-renziana dentro il Pd.

Enigma Consulta 
Tra due settimane la Corte sarà di nuovo protagonista, ma sull’Italicum. E il risultato è incerto. Se avesse deciso a ottobre, è sicuro che l’avrebbe bocciato: così garantiscono autorevoli membri. Ma da allora gli equilibri interni sono mutati, e nessuno mette più la mano sul fuoco. Ogni previsione potrebbe essere ribaltata, perfino sul ballottaggio.

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http://www.lastampa.it/2017/01/12/italia/politica/il-partito-del-rinvio-ora-gongola-cos-si-allontanano-le-elezioni-l4jQ8Vxt5d8GZCDQuMyKJM/pagina.html
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« Risposta #349 inserito:: Gennaio 18, 2017, 10:49:21 pm »

Pubblicato il 12/01/2017 Ultima modifica il 12/01/2017 alle ore 13:03
Il Partito del rinvio ora gongola: “Così si allontanano le elezioni”
Renzi incassa l’ok alla sua riforma ma si apre un duello a sinistra

CARLO BERTINI, UGO MAGRI
ROMA
Le voci filtrate dalla Consulta narrano di uno scontro epico, combattuto a colpi di precedenti giuridici, in cui mai nessun giudice costituzionale si è azzardato a tirare in ballo ragionamenti politici. Eppure non ce n’è uno, tra i quasi mille onorevoli riuniti ieri alla Camera in seduta comune, che considerasse la sentenza diversamente da un Valium. Il cui effetto è distendere i nervi e rallentare la corsa verso le urne. Soprattutto i peones (attenti alla data del 15 settembre quando matureranno la pensione) sono convinti di avere sventato il rischio che un sì della Corte sull’articolo 18 terrorizzasse a tal punto l’establishment, da spingerlo alle urne pur di posticipare di un anno il nuovo show-down referendario. La battuta più in voga nel Transatlantico, non a caso, è: «La Consulta ha approvato l’articolo 2018», cioè l’anno in cui a questo punto si andrà a votare.

La frenata 
Ai piani altissimi delle istituzioni c’è chi considera la decisione della Corte un sano elemento di riflessione per tutti, ex premier compreso. Il quale viene descritto in quegli ambienti come intento a preparare le elezioni, certo, ma non ancora del tutto determinato a staccare la spina della legislatura. Potrebbe farlo, ma anche no, soppesandone i pro e i contro. In pubblico il Pd nega che il finale sia già scritto. Anzi, il traguardo ufficiale resta lo stesso: votare a giugno come termine massimo. Con qualunque legge elettorale, meglio se corretta per favorire la governabilità. «Le elezioni nulla c’entrano con una sentenza che conferma la bontà del jobs act», taglia corto il numero due del partito, Guerini. Anzi, Gentiloni e lo stesso Renzi risultano soddisfattissimi che sia stato confermato l’impianto di una riforma come quella sul lavoro. Con una motivazione che smonta la tesi secondo cui Renzi, machiavellicamente, avrebbe tifato per un via libera al referendum: «Vi immaginate cosa sarebbe successo se, dopo avere interrotto la legislatura e magari avere vinto le elezioni, Matteo si fosse ritrovato a fare i conti con un altro referendum, per giunta sui licenziamenti?». Solo un masochista poteva desiderarlo.
 
Quesiti da sminare 
Sia come sia, ora il governo ha un «mission» in più: sminare i due quesiti rimasti in piedi. Secondo uno che se ne intende, come l’ex leader Cgil Epifani, evitare il referendum sarà facile sugli appalti e molto complicato sui voucher. Dalle parti di Gentiloni contano di farcela e dal loro punto di vista si capisce perché: guai se si arrivasse alle elezioni politiche con la sinistra lacerata sul tema lavoro. La minoranza Pd già minaccia una campagna per «due sì», Emiliano e Speranza lo vanno sbandierando, Bersani vorrebbe rivoltare il job act come un calzino. Voucher e lavoro nero sono dunque già il cuore della battaglia congressuale anti-renziana dentro il Pd.
 
Enigma Consulta 
Tra due settimane la Corte sarà di nuovo protagonista, ma sull’Italicum. E il risultato è incerto. Se avesse deciso a ottobre, è sicuro che l’avrebbe bocciato: così garantiscono autorevoli membri. Ma da allora gli equilibri interni sono mutati, e nessuno mette più la mano sul fuoco. Ogni previsione potrebbe essere ribaltata, perfino sul ballottaggio.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/12/italia/politica/il-partito-del-rinvio-ora-gongola-cos-si-allontanano-le-elezioni-l4jQ8Vxt5d8GZCDQuMyKJM/pagina.html
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« Risposta #350 inserito:: Febbraio 01, 2017, 08:43:09 pm »

Il lamento dei centristi: “Renzi ci ha usato, e adesso ci scarica”
Alfaniani e Ala esclusi dalla lista Pd alle prossime elezioni, denunciano l’ingratitudine, dopo “i servigi resi”

Pubblicato il 31/01/2017 - Ultima modifica il 31/01/2017 alle ore 12:06

UGO MAGRI

Il piccolo pianeta centrista trabocca sdegno nei confronti di Matteo Renzi. Con qualunque esponente si scambino due parole, alla terza l’ex-premier viene catalogato nella specie umana degli «ingrati» o addirittura dei «mancaparola». Che lo sia o meno è un altro conto: qui interessa solo segnalare il profondo sconforto in cui è piombata l’intera area dell’ex berlusconismo, dove non si aspettavano di essere così brutalmente scaricati a fronte dei servigi resi al Pd e ai suoi leader. Il Bruto in questione è, ai loro occhi, un politico educato e corretto che risponde al nome di Ettore Rosato, presidente dei deputati Pd. Il quale, intervistato ieri da «Repubblica», aveva escluso categoricamente la possibilità di liste comuni con Area popolare. Con la sinistra di Pisapia forse, ma con gli alfaniani proprio no.
 
Non ci è voluto molto, per le vecchie volpi centriste, a capire che Rosato riferiva il pensiero di qualcuno più in alto nella gerarchia Pd, cioè Renzi in persona. Per averne la conferma, gli hanno fatto replicare da Bianconi, e Bianconi a sua volta è finito nel mirino di Fiano (sempre per conto di Matteo). Insomma, quelli di Ap hanno avuto la certezza di essere stati messi alla porta. Con la soglia del «Consultellum» al Senato (8 per cento), la speranza di rielezione è zero. E pure alla Camera, dove con l’altro «Consultellum» lo sbarramento è del 3, sarà una bella lotta. «Ci hanno usati e scartati nonostante tutti i servigi che resi nella battaglia contro Berlusconi», è il coro lamentoso.
 
Accusati di cinismo e mendacio, i renziani «doc» replicano un po’ come la famosa formica alla cicala di Esopo: hai cantato un’estate, adesso balla. E cioè: ve la siete spassata al governo, occupando poltrone importanti da ministri e da sottosegretari, dunque il vostro bel tornaconto l’avete già incassato, che cos’altro pretendete da noi? Addirittura, si aggiunge ai piani alti del Pd, con 2-3 punti percentuali hanno occupato nella persona di Alfano il vertice della diplomazia dopo quello del Viminale, due posizioni chiave (Esteri e Interno) di cui la Dc per quarant’anni non si era mai voluta privare. Per cui, è la spietata conclusione, non hanno nulla di che recriminare.

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DA - http://www.lastampa.it/2017/01/31/italia/politica/il-lamento-dei-centristi-renzi-ci-ha-usato-e-adesso-ci-scarica-kFjyDD6uevEWrSyK1w6syI/pagina.html
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« Risposta #351 inserito:: Febbraio 04, 2017, 05:51:23 pm »

Babele Pd sulla legge elettorale. E il voto a giugno è più difficile
Scontro sul premio di coalizione. Moody’s rilancia l’allarme sulla stabilità

Pubblicato il 04/02/2017 - Ultima modifica il 04/02/2017 alle ore 08:48

Ugo Magri
Roma

Nel Pd è in corso un dibattito, ricco di passione, su un aspetto della legge elettorale che ai profani può sembrare cavilloso: se sia preferibile dare il premio al solo partito che arriva primo, oppure spartire il bottino con l’intera coalizione vittoriosa. Esponenti di rango come Graziano Delrio e soprattutto Dario Franceschini (ma pure Andrea Orlando è sulla stessa lunghezza d’onda) rispondono senza dubbio alcuno: meglio la seconda delle due. Per sperare di vincere, pensano che sia d’uopo mostrarsi generosi e associare tanto Angelino Alfano quanto la sinistra di Giuliano Pisapia. Aggiungono che, alleati insieme, sarebbe meno impossibile superare il 40 per cento o, perlomeno, più facile farlo credere agli elettori. A un certo punto della mattina, i favorevoli al premio di coalizione sembravano in vantaggio. Ma poi sono venuti allo scoperto quanti temono, invece, che un’ammucchiata sarebbe solo dannosa, dunque meglio soli che male accompagnati. Per cui a sera la confusione era al top. E Renzi, come la pensa?

Chi tirerà le somme 
Qualcuno sostiene che Matteo sia vittima della Babele nel suo partito; altri, al contrario, che il caos gli faccia comodo perché questa fioritura di opinioni contrastanti permetterà a lui di fare la sintesi, a modo suo come al solito. Chi lo sente sostiene che il segretario è contro il premio di coalizione perché mai fidarsi degli alleati, in caso di vittoria potrebbero impedirgli di tornare a Palazzo Chigi. Però certi contatti col mondo berlusconiano fanno ritenere che Renzi si tenga aperte tutte le strade, compresa quella di accontentare il Cav sul premio di coalizione (bocciato da Salvini) pur di averne in cambio un via libera alle elezioni in giugno. Ma pure qui aleggia la domanda: con i tempi ci siamo, o è già tardi?

Di sicuro, per votare a giugno presto non è. In Commissione alla Camera ci sono almeno 12 proposte da discutere, e prima di iniziare si attendono le motivazioni della Consulta. Il presidente Andrea Azziotti esige (a ragione) che non sia un semplice «pro forma» e si tenti di fare, oltre che presto, possibilmente bene. Il 27 è previsto che il parto della Commissione approdi in aula, ma da quel momento scatteranno gli agguati perché a Montecitorio è permesso il voto segreto, dunque vai con i «franchi tiratori». Poi toccherà al Senato, dove le maggioranze sono ballerine. Alle vecchie volpi del Parlamento, che si finisca prima di Pasqua sembra utopia pura. Eppure Renzi deve farcela, se non vuole perdere l’ultimo treno del voto che passa l’11 giugno, perché poi sarebbe troppo caldo per la campagna elettorale. Altro ostacolo da superare: i mercati. Secondo Moody’s, le elezioni del 2017 sono un fattore di rischio per l’Europa, «aumentano la volatilità». Nessuno ha la sfera di cristallo. Ma immaginiamoci se, il giorno in cui Gentiloni dovesse dimettersi e Mattarella sciogliere le Camere, lo spread fosse a quota 300. Impossibile far finta di niente.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/04/italia/politica/babele-pd-sulla-legge-elettorale-e-il-voto-a-giugno-pi-difficile-RsHWhybqOa5cmXNb2HW63I/pagina.html
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« Risposta #352 inserito:: Febbraio 13, 2017, 12:40:16 pm »

Sui resti dell’Italicum in arrivo altri 14 ricorsi. Il voto si allontana
Mattarella: Europa e G7 le scadenze più urgenti, sono l’occasione per rilanciare l’Europa

Pubblicato il 11/02/2017
Ultima modifica il 11/02/2017 alle ore 07:21

Ugo Magri - Roma

Il principale avversario di Matteo Renzi, colui che gli sbarra la via della rivincita elettorale immediata, è un settantaduenne avvocato italo-svizzero di nome Felice Besostri. Fu lui a far bocciare il «Porcellum», sempre lui a dichiarare guerra contro l’«Italicum». E non si accontenta. Dopo avere spulciato la sentenza della Corte costituzionale, è pronto a scatenare un’altra raffica di ricorsi per rendere inagibile quel poco che resta del sistema elettorale. Nel qual caso, altro che voto a giugno.

La sorpresa a pagina 92 
L’attenzione di Besostri è caduta su un passaggio della sentenza, dove la Consulta bacchetta il Tribunale di Messina che aveva presentato ricorso contro le soglie di sbarramento diverse tra Camera e Senato. Sbagliato, obietta la Corte, in quanto quel Tribunale «non illustra le ragioni per cui sarebbero le diverse soglie di sbarramento e non altre, e assai più rilevanti, differenze riscontrabili tra i due sistemi elettorali (ad esempio, un premio di maggioranza previsto solo dalla disciplina elettorale per la Camera) ad impedire la formazione di maggioranza omogenee nei due rami del Parlamento». È come se la Consulta suggerisse ai ricorrenti: se aveste puntato sulle difformità del premio di maggioranza, magari vi avremmo dato ragione. Il pugnace Besostri non chiede di meglio: «Le motivazioni della sentenza sono paradossalmente una guida per formulare ordinanze ammissibili». Ci sono ben 14 Tribunali pronti a entrare in azione sulla scia della sentenza. L’unico modo per arginarli consisterebbe nello scrivere una legge a prova di Besostri. È la complessa sfida cui il Parlamento viene chiamato dalla Corte medesima. Renzi freme, ma per riscrivere il testo ci vuole tempo: nella Commissione Affari costituzionali alla Camera, presieduta da Andrea Mazziotti, i progetti da discutere sono già 18 e altri ne stanno arrivando, compresa una legge di iniziativa popolare promossa dai Comitati del No al referendum. Nel frattempo i ricorsi andranno avanti. E per quanto la Consulta ritenga di avere già dato in materia elettorale, non è da escludere che nel giro di poche settimane vengano ad accumularsi nuovi pesanti dubbi di costituzionalità: quelli che, nel messaggio di fine anno, il Presidente della Repubblica aveva consigliato, prudentemente, di chiarire in anticipo. 

Occasioni da non perdere 
Giusto ieri, Sergio Mattarella ha ribadito due appuntamenti internazionali che, comunque vada, andranno onorati nei prossimi mesi. Il primo cadrà il 25 marzo, sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma: le celebrazioni dovranno essere, secondo il Capo dello Stato, l’occasione per «ridare slancio al processo di integrazione Ue». L’altro appuntamento sarà a fine maggio, nel G7 di Taormina, dove si parlerà di immigrazione e anche, anticipa Mattarella, «di innovazione e lavoro». Un modo educato e rispettoso di ricordare che guai se la politica sprecasse due rare occasioni in cui l’Italia sarà, finalmente, in cabina di regia.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/11/italia/politica/sui-resti-dellitalicum-in-arrivo-altri-ricorsi-il-voto-si-allontana-NEOoFkBYSfqcgbHwd4TxsM/pagina.html
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« Risposta #353 inserito:: Febbraio 13, 2017, 12:59:05 pm »


Votare con lo spread: un rischio che neanche Renzi può permettersi
La nevrosi dei mercati finanziari sta toccando lo zenit, e pensare di andare al voto in questa congiuntura rischia di rivelarsi molto pericoloso
Spread Btp a 200 punti, è la prima volta da febbraio 2014

Pubblicato il 07/02/2017 - Ultima modifica il 07/02/2017 alle ore 16:11

Ugo Magri

La narrazione politica renziana suggerisce il seguente scambio: va bene anche una legge elettorale con l’aborrito premio di coalizione, a patto però che si voti in giugno. Niente voto? Allora niente coalizione... Non è l’unico «do ut des» che viene suggerito in queste ore. Altri riguardano primarie e congresso Pd, in base a calcoli di convenienza che ai comuni mortali sfuggono e, probabilmente, nemmeno interessano. Sullo sfondo, tuttavia, c’è sempre l’ipotesi di rinviare al 2018 la resa dei conti elettorali che a parole si voleva presto, anzi prestissimo, praticamente subito ma adesso verrebbe posticipata per effetto appunto di qualche patteggiamento.

La verità è più banale e prosaica: semplicemente si sta prendendo atto che votare in queste condizioni non è possibile. Per una somma di motivi solo in parte legati al cosiddetto teatrino politico. Il primo, e più noto, dipende dalla legge elettorale. Entro venerdì la Consulta farà sapere se (e fino a che punto) il Parlamento dovrà correggere i sistemi di Camera e Senato, in modo da renderli un filo più omogenei. Sul modo concreto di intervenire, le opinioni divergono; si registra invece una convergenza di opinioni sulla tempistica: che tutti giudicano molto stretta per votare entro giugno, come vorrebbe Matteo. Basta un minimo intoppo, e se ne riparla dopo l’estate. Ma non finisce lì.

Per effetto delle elezioni che si terranno in Francia il 23 aprile, con il ballottaggio finale il 7 maggio, la nevrosi dei mercati finanziari sta toccando lo zenit. E’ la conseguenza ovvia della dissoluzione europea che sarebbe assai probabile qualora dovesse vincere Marine Le Pen (ha promesso di lasciare Nato e Ue). Già ora lo spread viaggia sui 200 punti percentuali, possibilmente destinati a salire. La ricaduta italiana è che, per votare a giugno, il governo Gentiloni dovrebbe dimettersi proprio nei giorni più caldi della campagna elettorale francese. E Sergio Mattarella dovrebbe sciogliere le Camere in un quadro politico confuso, senza la certezza che dalle urne verrà fuori una maggioranza, anzi con l’alta probabilità di ricominciare con i governi tecnici, balneari o del Presidente. Quanto basterebbe, cioè, per scatenare contro di noi l’ira dei mercati e la forza della speculazione.

Davanti alla prospettiva di un salto nel buio, è possibile che lo stesso Renzi ci stia riflettendo. E che le negoziazioni politiche di queste ore siano un modo per mascherare il gap sempre più incolmabile tra i desideri e la dura realtà. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/07/italia/politica/votare-con-lo-spread-un-rischio-che-neanche-renzi-pu-permettersi-xhxkWqfYhToCv9oCvV7AgM/pagina.html
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« Risposta #354 inserito:: Marzo 01, 2017, 05:28:50 pm »

Mattarella in Cina punta sulla cultura per fare largo al “Made in Italy”
Mercoledì i colloqui con il Presidente della Repubblica popolare, Xi Jinping


Pubblicato il 21/02/2017 - Ultima modifica il 21/02/2017 alle ore 13:35

Ugo Magri
Pechino

Le dimensioni contano, soprattutto nei rapporti tra Stati. E al confronto con la Cina, l’Italia reciterebbe la parte della pulce se non fosse per la cultura, che ci salva. L’unico terreno in cui da queste parti ci considerano una super-potenza, per cui siamo trattati veramente alla pari, è proprio il campo dell’arte, dello stile, del design. Non a caso Sergio Mattarella, nella sua visita di Stato iniziata oggi a Pechino sotto la neve, metterà l’accento soprattutto sulle affinità culturali di due mondi che più distanti non potrebbero essere, però sono accomunati dal rispetto delle reciproche tradizioni e potenzialità.

Senza questo forte aggancio culturale non si spiegherebbe il chiaro interesse cinese nei confronti dell’ospite italiano. Nella giornata di domani, Mattarella avrà due incontri con il presidente della Repubblica popolare Cinese, Xi Jinping, che è anche segretario del partito comunista e capo delle Forze Armate. La prima occasione di colloquio sarà al Palazzo dell’Assemblea Nazionale del Popolo, in piazza Tiananmen, poco dopo le 10 ora italiana. Della nostra delegazione farà parte il titolare degli Esteri, Angelino Alfano, che scorterà il Presidente nella prima tappa della visita. Più tardi, Xi Jinping e Sergio Mattarella firmeranno una serie di accordi nel campo della cooperazione, quindi tireranno le conclusioni del Forum culturale italo-cinese e del Business forum, riuniti congiuntamente.

Davanti a una platea di imprenditori italiani, il Presidente della Repubblica ha insistito sia sul «forte legame» tra i due paesi, che affonda le radici nella storia, sia sulla «comune sensibilità artistica e culturale», che si esprime anzitutto nella collaborazione accademica e della tutela dei rispettivi patrimoni. «E’ una realtà vibrante», assicura Mattarella, «una relazione che sta crescendo».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/21/italia/politica/mattarella-in-cina-punta-sulla-cultura-per-fare-largo-al-made-in-italy-SIVrsxbAFFmMUHZCwVEoqN/pagina.html
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« Risposta #355 inserito:: Marzo 03, 2017, 04:23:55 pm »

Mattarella in campo per la stabilità

Pubblicato il 03/03/2017
UGO MAGRI

Gli scienziati della politica non hanno fatto nemmeno in tempo a calcolare l’impatto degli scandali romani, che già devono rifare i conti alla luce dell’inchiesta Consip, e domandarsi se i danni di immagine per Renzi saranno tali da pareggiare o addirittura superare quelli subiti dai grillini a causa della Raggi. Per effetto della «questione morale», chi veste i panni dell’accusa si ritrova da un giorno all’altro sul banco degli imputati, in un clima che ai meno giovani evoca quello cupo del 1992, alla vigilia di «Mani Pulite» e di «Tangentopoli». Come un quarto di secolo fa, sulla Repubblica aleggia l’incertezza; destinata ad aggravarsi per effetto delle primarie Pd, del referendum sul «Jobs Act» e delle elezioni comunali previste nella tarda primavera.

Non c’è da stupirsi dunque se si moltiplicano gli interrogativi sulla tenuta del governo, su quanto a lungo potrà reggere la barra Gentiloni con una maggioranza sempre più frastornata. E, per quanto cinica, è nell’ordine delle cose perfino la giravolta di Berlusconi: fino a ieri contrarissimo al voto, l’ex premier sembra adesso ingolosito dalla chance di profittare delle debolezze altrui. Sempre che la ruota non giri ancora.
 
È con lo sguardo a questo «cupio dissolvi» della politica italiana che vanno intese le parole forti pronunciate dal Capo dello Stato. Premiando al Quirinale le eccellenze del «made in Italy», ha puntato l’indice verso i pericoli cui l’Italia va incontro: un’allarmata rappresentazione di quanto sta accadendo sul piano internazionale, dove «ci troviamo ad affrontare un quadro complesso con significative instabilità». L’elenco incomincia dalle guerre commerciali che potrebbero scatenarsi per iniziativa di Trump; prosegue denunciando un ricorso «in aumento» alle misure protezionistiche; segnala i rischi che ciò potrebbe comportare per un’economia come la nostra «fortemente orientata all’esterno»; rivendica la necessità di «andare risolutamente controcorrente rafforzando la cooperazione», ciò che unisce la comunità mondiale anziché dividerla. 
 
Tutto qui? No, perché siamo alla vigilia delle elezioni in Olanda (15 marzo), dove se la giocano il conservatore Rutte e il nazionalista Wilders. Subito dopo toccherà alla Francia (23 aprile il primo turno), con Marine Le Pen che cresce ancora nei sondaggi. Quindi sarà il turno della Germania (24 settembre), e a quel punto non è detto che l’Europa sarà somigliante a quella attuale. Il «Libro bianco» annunciato dal presidente della Commissione Juncker già prefigura un’Unione a scartamento ridotto, che rinuncia agli obiettivi più ambiziosi per concentrarsi sullo stretto essenziale: una «recessione geopolitica», la definisce Mattarella, quasi un abbandono di responsabilità. E mette in guardia: tutte queste circostanze sommate insieme «possono alimentare l’incertezza e la volatilità dei mercati». Come dire che potremmo finire in pasto alla speculazione, già da tempo scatenata. Basta digitare su Google la parola «spread» per trovare la curva dell’ultimo anno. E individuare il momento esatto in cui siamo finiti sotto pressione: quando Renzi lanciò la scommessa (poi persa male) del referendum sulla Costituzione. È la riprova del legame diretto tra instabilità politica e costo del debito pubblico. L’inconcludenza rissosa dei partiti, segnala il Presidente, rischia di regalarci sacrifici aggiuntivi. Non è un monito, ma un avviso ai naviganti.

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« Risposta #356 inserito:: Marzo 10, 2017, 12:39:12 pm »


Dalla Consulta una sentenza al giorno, ma il castello legislativo resiste
Molti ricorsi e poche bocciature nell'attività della Corte costituzionale, nella relazione del presidente Paolo Grossi.


Pubblicato il 09/03/2017 - Ultima modifica il 09/03/2017 alle ore 17:07

Ugo Magri
Roma

Per gli appassionati di statistiche, la Corte Costituzionale ha documentato la mole di lavoro svolta nel corso del 2016 attraverso la relazione annuale del suo presidente, Paolo Grossi. Come di consueto, alla cerimonia hanno preso parte le più alte cariche istituzionali, da Sergio Mattarella in giù. Contrariamente alla prassi, però, per la prima volta dal 1956 quest’anno non è seguita la conferenza stampa che - unica tra le magistrature della Repubblica - la Consulta considerava un proprio tratto di distinzione e di apertura al mondo esterno.

La novità ha scatenato le proteste della Fnsi, organo sindacale dei giornalisti, perché non è certo nello spirito dei tempi. Può darsi che in questo modo Grossi abbia preferito evitare alcune domande importune, specie sulla recente sentenza che ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’«Italicum». Sia come sia, la relazione del presidente schiva le questioni più controverse sul terreno politico, incominciando proprio dalla legge elettorale, e si limita a fornire dei numeri, a testimonianza dell’impegno profuso dai 14 giudici della Corte (ne manca uno, che il Parlamento si guarda bene dall’indicare).

Emerge dalle 15 dense pagine della relazione 2016 che nell’arco dei 12 mesi sono stati pronunciati 366 giudizi, in pratica uno al giorno. Ventitré sono state le pubbliche udienze, 19 le sedute in camera di consiglio (anche se, giustamente, Grossi ha specificato come altre riunioni si siano tenute praticamente ogni lunedì per esaminare i testi delle varie decisioni, e poi anche per motivi di carattere amministrativo). Altro dato di indiscutibile interesse: le decisioni di rigetto rimangono molto più numerose di quelle cosiddette di accoglimento. Basti dire che, rispetto alle richieste dei vari tribunali, le dichiarazioni di incostituzionalità hanno superato di poco il 20 per cento del totale.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/09/italia/politica/dalla-consulta-una-sentenza-al-giorno-ma-il-castello-legislativo-resiste-LkMW4ptjeYgT8VcRjU8FCP/pagina.html
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« Risposta #357 inserito:: Marzo 16, 2017, 12:27:40 pm »

Lotti si salva grazie anche a Verdini
Bocciata la mozione presentata dai Cinque Stelle.
Ma il voto di Ala imbarazza il Pd.
Il ministro interviene in aula e contrattacca: “Si vuole colpire una stagione politica”

Pubblicato il 16/03/2017

UGO MAGRI
ROMA

La mozione grillina contro Luca Lotti non ha travolto il ministro, come era facile scommettere. Il braccio destro di Renzi ha raccolto al Senato perfino più fiducia di quanta ne potesse desiderare: 161 voti, oltre la maggioranza assoluta, solo 52 sì. Se fossero stati 14 sostenitori in meno non gli sarebbe dispiaciuto. Il Pd infatti ha tentato di convincere i verdiniani che del loro apporto non ci sarebbe stato bisogno, dunque meglio avrebbero fatto a scomparire per ragioni estetiche (Verdini si è ritagliato un ruolo pure nella vicenda Consip). Ma è stato tutto inutile: invece di uscire dall’aula, come ha fatto Forza Italia nel nome del garantismo, il gruppo di Ala ha manifestato aperto sostegno al titolare dello Sport, che si è difeso nel suo discorso con passione, respingendo l’accusa di avere messo sul chi vive gli indagati. Porterà in Tribunale chi lo ha calunniato, promette. Proprio ieri suo figlio ha compiuto 4 anni, e difendersi in Senato (ha voluto far intendere) non è stato il modo migliore per festeggiare.

Lo scontro con Gotor
Chi s’immagina un duello vibrante, gonfio di pathos e dai toni elevati, sbaglia di grosso. Gentiloni non c’era perché impegnato a Pistoia «Capitale della cultura». Idem la Boschi. Padoan si è affacciato all’inizio ma poi, evidentemente, aveva altro da fare. Emiciclo pieno, molti sguardi per la ministra Lorenzin con spolverino giallo, per la Cirinnà tutta in rossa, per la Pelino borchiata d’oro. Proteste e ironie dai banchi Pd quando la grillina Taverna ha tirato in ballo le indennità che i senatori perderebbero se cadesse il governo. I Cinquestelle hanno messo a segno alcuni colpi facili, ma pure loro ne hanno incassati per via della Raggi, del loro codice etico e delle disgrazie penali di Grillo, che Lotti si è spinto a bollare come «un pregiudicato» (sui banchi M5S qualcuno faceva gestacci del tipo «dopo vengo e ti sistemo io»). Si è celebrato il trionfo dell’ipocrisia, Pd e M5S impegnati a rinfacciarsi la doppia morale del giustizialismo nei confronti degli avversari, e del garantismo peloso quando i pm indagano gli amici. Per cui a conti fatti non è semplice stabilire chi le abbia buscate di più. Idem per quanto riguarda l’altro duello pieno di rancore tra il Pd e quelli che se ne sono appena andati.
Tra Pacciani e Cutugno
Come se mai fossero stati insieme nello stesso partito, il bersaniano Gotor ha consigliato a Lotti di dimettersi, o perlomeno di restituire le deleghe in campo economico. L’attacco è stato condito con velenosi riferimenti al «familismo amorale» renziano, al «groviglio di potere» cresciuto a Rignano sull’Arno, al «giro tosco-fiorentino degli “amici miei” in salsa governativa» (i leghisti, meno raffinati, hanno evocato addirittura il Mostro di Firenze). Mentre Gotor parlava, dai banchi del governo partivano sguardi carichi di odio verso l’esponente di Mdp. Ha provveduto più tardi Marcucci a bastonarlo, denunciandone «lo spirito vendicativo, provocatorio, insoddisfatto e minaccioso». Ma tanto è bastato per scatenare l’ironia di Gasparri, berlusconiano. «Eravate venuti da Firenze a miracol mostrare», si è rivolto ai renziani, «ma non avete innovato un bel tubo. Benvenuti nell’Italia di Toto Cutugno». 

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« Risposta #358 inserito:: Marzo 16, 2017, 12:28:47 pm »

Il “giallo” della legge elettorale che sembra scomparsa nel nulla
Le opposizioni accusano: «È il Pd che adesso vuole rinviare»

Pubblicato il 16/03/2017 - Ultima modifica il 16/03/2017 alle ore 10:08

UGO MAGRI
ROMA

Sembrava una questione di giorni, anzi di ore: illustri personalità di governo sostenevano che rifare la legge elettorale (bocciata a gennaio dalla Consulta) sarebbe stato un gioco da ragazzi, e saremmo tornati alle urne al massimo entro maggio. Era stato perfino annunciato un ruolino di marcia parecchio stringente, con l'esame in commissione alla Camera concentrato in febbraio e l'esame dell'aula ai primi giorni di marzo. Chi osava sollevare dubbi, veniva tacciato di scarsa fede nella determinazione di Renzi, al quale premeva tornare alle urne, unita a quella di Salvini e di Grillo. Metà marzo però è già passata, e della nuova legge elettorale ancora non si vede traccia. L'approdo in aula è stato prudentemente rinviato al giorno 27, ma tutti i segnali portano a credere che nemmeno tra 10 giorni la «deadline» verrà rispettata. Che cosa sta succedendo?
 
L'ordine di frenare 
La spiegazione più banale punta l'indice contro le lungaggini del Parlamento, in particolare della commissione Affari costituzionali dove le proposte di modifica si sono moltiplicate, siamo ben oltre la ventina. Esaminarle a una a una richiede il suo tempo. Tra l'altro, fa notare il presidente Andrea Mazziotti, non è che i commissari stiano lì a girarsi i pollici: devono dare la precedenza a una folla di decreti legge che altrimenti andrebbero a scadenza, con ricadute negative. E poi, ecco il vero nodo, nessuno più spinge per fare di corsa. Semmai, il rovescio. Fonti assolutamente credibili fanno sapere che l'ordine di frenare è partito proprio dal quartier generale renziano. Il messaggio è stato recapitato alle principali opposizioni. Forza Italia, che sarebbe stata disponibile a trovare un compromesso anche subito, purché su base proporzionale, si è messa il cuore in pace: «Non è ancora il momento», sussurra agli amici il capogruppo al Senato, Paolo Romani. E Danilo Toninelli, che segue la pratica per conto dei Cinquestelle, la mette così: «Renzi vuole vedere anzitutto come vanno le sue primarie, convocate il 30 aprile. E poi si regolerà sulla legge elettorale, a seconda del risultato».
 
Normativa confusa 
Nell'attesa del chiarimento Pd, si moltiplicano i dubbi circa la possibilità di tornare alle urne con la legge che c'è. Proprio ieri il ministro dell'Interno Domenico Minniti, con l'aria di chi vorrebbe spianare la strada alle elezioni, ha infilato una ulteriore zeppa nel meccanismo spiegano durante il «question time» che «in via interpretativa, e pur con la necessità di fare ulteriori approfondimenti, si può dire che sussista la possibilità di presentare coalizioni al Senato su base regionale». Occhio alle mani avanti del ministro: «in via interpretativa», «con ulteriori approfondimenti», «si può dire» ... Significa che la normativa attuale è confusa, non offre alcuna vera certezza, e senza una nuova legge fatta per bene sarebbe un azzardo andare a votare.

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« Risposta #359 inserito:: Marzo 20, 2017, 10:45:59 am »

Perché il «caso Minzolini» è destinato a ripetersi
Leggi assurde regolano lo scontro tra politica e giustizia. Ma nessuno se ne occupa seriamente.
Pubblicato il 17/03/2017 - Ultima modifica il 17/03/2017 alle ore 09:59

UGO MAGRI
ROMA
Un cittadino qualunque non capisce come mai, se la legge Severino stabilisce la decadenza di un «onorevole» condannato, debba pronunciarsi pure la Camera di appartenenza (come è successo ieri per Minzolini). Delle due l'una: se l'ultima parola dev'essere quella dei giudici, sembra assurdo che si chieda il via libera del Parlamento. Anche perché i suoi membri non possono essere trattati come semplici passacarte, è logico che si esprimano liberamente. Ma se deputati e senatori esercitano il loro diritto di entrare nel merito e di sostituirsi ai magistrati, per quale diamine di motivo è stata approvata una legge sulla decadenza che poi non viene onorata? Chiaramente, nel meccanismo c'è qualcosa che offende la logica. Anzi, sembra studiato apposta da qualche mente malata per aggiungere discredito sulle nostre povere istituzioni. Né risulta che qualcuno se ne stia occupando. Per cui il «caso Minzolini» è destinato a ripetersi.

In realtà, questa legislazione assurda fotografa un campo di battaglia, quello tra politica e giustizia. Dove la linea del fronte si sposta a seconda delle fasi storiche. Nella Prima Repubblica (cioè fino a Tangentopoli, inizio anni '90) la volontà democratica era sacra, il popolo sovrano aveva diritto di eleggere perfino i ladri e i conclamati assassini. I magistrati non potevano nemmeno azzardarsi a iniziare le indagini senza un'apposita «autorizzazione a procedere» del Parlamento, che di regola veniva negata. Dopodiché la politica ha commesso suicidio e le parti si sono invertite. Alle Camere è rimasta la facoltà di negare provvedimenti estremi come l'arresto o, appunto, la decadenza. E quando esercita questo diritto, che sta nella Costituzione, se ne vergogna un po' perché sa tanto di Casta. Sarebbe bello se si trovasse finalmente un equilibrio onesto e rispettato. Per realizzarlo, non occorre chissà che. Basterebbe ad esempio abolire le «porte girevoli» tra Parlamento e magistratura, che generano solo sospetti (e alibi). Perché è vero che Minzolini è stato condannato per la carta di credito Rai, ma a rovesciare l'assoluzione in primo grado è stato un giudice che prima era stato deputato, poi senatore, quindi sottosegretario, salvo tornare come se niente fosse a rivestire la toga. Dunque un avversario politico dichiarato dell'ex direttore del Tg1. E' una commistione di ruoli contro cui si batte a ragione la stessa Anm, nella persona del suo presidente Camillo Davigo. Ma si procederà in tal senso? Molti segnali fanno temere di no.

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