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Autore Discussione: UGO MAGRI  (Letto 231086 volte)
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« Risposta #375 inserito:: Giugno 03, 2017, 11:19:09 am »


Legge elettorale, i tre nodi da sciogliere
L’impianto tedesco tiene e si lavora ai ritocchi.
Ma in Parlamento restano molti dubbi

Pubblicato il 03/06/2017 - Ultima modifica il 03/06/2017 alle ore 08:47

Ugo Magri
Roma

L’impianto “tedesco” resterà quello, affermano con sicurezza Pd, Forza Italia e Movimento 5 stelle. Al massimo, concedono sottovoce, ci saranno dei ritocchi su questo o quel dettaglio. Ma poiché il diavolo è proprio lì che si annida, nelle pieghe della Storia, ecco come mai gli “sherpa” dei tre partiti non hanno smesso di lavorarci.

La scelta degli eletti 
Risulta in corso un approfondimento sul congegno che decide gli eletti. La bozza in discussione alla Camera prevede una specie di graduatoria, come nei concorsi pubblici, che determina «idonei» e «vincitori». Sono considerati idonei quelli che arrivano primi nel proprio collegio uninominale: però poi vincono solo quelli che, nell’ambito dello stesso partito, si sono meglio piazzati. Potrebbe dunque verificarsi un «effetto flipper», o «roulette russa», o «lotteria Italia» (le similitudini abbondano, ndr) per cui il Fantozzi di turno straccia l’avversario nel proprio collegio, ma poi viene lasciato a casa. La colpa è del criterio proporzionale, per cui scattano tanti eletti quanti ne giustifica la percentuale dei voti presi. Ma la casualità con cui ciò può accadere solleva dubbi tra i giuristi e, soprattutto, mette in agitazione quei deputati e senatori che nelle prossime settimane dovranno pronunciarsi sulla legge. Si sta cercando, pare, la via d’uscita. In particolare Dario Parrini, esperto renziano, pare abbia individuato una formula più equilibrata che elimina (o attenua) il rischio di casualità.

Sono 453 i collegi da ripartire 
Altro dossier aperto: i collegi. La bozza di legge ne prevede 303 alla Camera, 150 in Senato. Ritagliarne i confini è operazione fondamentale perché, a seconda di come li configuri, è possibile renderli vincenti o perdenti (a seconda dei punti di vista, si capisce). Attualmente, nell’interno di fare più fretta, vi provvede una tabella da cui emergono errori marchiani. Per esempio, Rignano viene separata dalla vicina Pontassieve e nemmeno Renzi capisce perché. Addirittura Venezia sta in un collegio, mentre la Giudecca (isola di fronte a Piazza San Marco) è aggregata alla terraferma. Assurdità che si potrebbero meglio correggere se vi provvedesse il ministero dell’Interno. Se invece la mappa dei collegi verrà decisa in Parlamento, prepariamoci a un delirio: tutti contro tutti e migliaia di emendamenti.

Quante firme servono per le liste 
A minacciare dure proteste sono pure i Radicali italiani e il presidente della prima Commissione, Andrea Mazziotti, ma nel loro caso per una questione nobile. Contestano l’obbligo di raccogliere decine di migliaia di firme per presentare nuove liste, ciascuna con tanto di autenticazione. Basterebbe raccoglierne 200 per collegio (in Francia non servono nemmeno quelle), e magari con gli strumenti moderni della posta certificata. Ma forse è proprio quello che si desidera: ridurre la concorrenza. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/03/italia/politica/legge-elettorale-i-tre-nodi-da-sciogliere-xOTnH5sxe6yuY6ZdyiPvlL/pagina.html
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« Risposta #376 inserito:: Giugno 08, 2017, 11:16:00 am »

Ma il Capo dello Stato guarda con favore all'accordo. Nessuna obiezione al voto
Se bisogna anticipare le urne «meglio prima che dopo»

Pubblicato il 07/06/2017 - Ultima modifica il 07/06/2017 alle ore 06:33

Ugo Magri
Roma

Nove anni di presidenza Napolitano ci avevano assuefatto all’idea che l’ultima parola, la più alta e definitiva, venisse sempre pronunciata sul Colle. Per quel riflesso condizionato, non deve sorprendere che in queste ore tutti gli sguardi siano rivolti al Quirinale. Ciascun protagonista vorrebbe che Sergio Mattarella si schierasse dalla sua parte. In particolare, l’ultima speranza di quanti considerano una disgrazia votare subito è che l’attuale Presidente si faccia sentire, rivendichi le proprie prerogative costituzionali in materia di scioglimento delle Camere e vieti ai partiti di commettere una doppia sciocchezza: correre alle urne il 24 settembre, per giunta con una legge proporzionale che ci riporterebbe ai fasti della Prima Repubblica. E quanto più il Capo dello Stato tace, tanto più forte risuonano le dichiarazioni del suo predecessore: come se Giorgio Napolitano, con la sua opinione sempre autorevole, in qualche misura supplisse alle prudenze e ai silenzi. 

Il riserbo di Mattarella è ormai proverbiale. In questa fase, poi, la stessa cautela contagia i più stretti collaboratori. Però chi conosce il Presidente, e spesso lo frequenta, si è fatto un’idea diversa da quella corrente: che la presunta timidezza (contrapposta alla verve polemica di Napolitano) in questo caso non c’entri un bel nulla. E se Mattarella si astiene dalle esternazioni è perché ha una visione diversa da quanti gli chiedono di entrare in tackle, a piedi uniti, contro Renzi, Grillo, Berlusconi e Salvini. Cioè i leader di partiti che insieme rappresentano l’80 per cento del popolo italiano. Il Presidente non interviene a gamba tesa perché reputerebbe sbagliato farlo.
 
Intanto, non c’è ancora una legge con cui andare al voto. Esiste un vasto accordo di massima, che ogni giorno deve affrontare la sua pena. I giuristi del Colle tengono ben presenti le obiezioni di quanti annusano un «fumus» di incostituzionalità. Ma il giudizio compiuto lo formuleranno se e quando il “tedesco” sarà legge e arriverà sullo scrittoio presidenziale per la controfirma. Per ora siamo ben lontani da quella fase. Idem per quanto riguarda la data del voto: oggi abbiamo un governo e un premier nella loro piena legittimità. Di urne Mattarella discuterà il giorno che Paolo Gentiloni salirà al Colle, non prima. Le forme sono sostanza, violarle non sarebbe privo di conseguenze politiche. Far circolare dubbi sulla legge elettorale proprio mentre il Parlamento ne sta discutendo, attirerebbe sul Quirinale l’accusa di mettere in pericolo un accordo storico, di «pacificazione e coesione nazionali» (come è arrivato a magnificarlo ieri Brunetta). E se come conseguenza della nuova legge i grandi partiti chiedessero tutti insieme di votare, come potrebbe il Capo dello Stato rispondere «no, ve lo nego»?

Infatti, nelle massime sedi istituzionali già circolano delle ipotesi. Una è che Gentiloni, considerando esaurita la propria stagione, tra qualche settimana si dimetta “sua sponte”. L’altra ipotesi fa riferimento al precedente del 1994, quando le Camere vennero sciolte dall’allora Presidente Scalfaro senza che il governo guidato da Ciampi avesse nemmeno dato le dimissioni. Tutti i possibili scenari vengono presi in esame, nell’eventualità che i grandi partiti concordi pretendano di votare. Poi, è chiaro che Mattarella (al pari di Napolitano) nutre fortissimi dubbi sull’opportunità di precipitarsi alle urne. Ne coglie tutti quanti i rischi, specie per quando riguarda gli impegni finanziari da assolvere, in primis la legge di stabilità. Un voto alla naturale scadenza del 2018 sarebbe considerato sul Colle la strada più sicura. Ma se proprio si dovrà votare, ecco la previsione di chi meglio conosce Mattarella, il Capo dello Stato non alzerà certo le barricate per posticipare di qualche settimana le urne. Anzi, a quel punto tanto varrebbe tenere le elezioni il più presto possibile, perfino il 24 settembre, in modo da avere tempo sufficiente per ricomporre i cocci della politica e scongiurare quantomeno il danno dell’esercizio provvisorio. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/07/italia/politica/ma-il-capo-dello-stato-guarda-con-favore-allaccordo-nessuna-obiezione-al-voto-0cgEYs0dHJZwVMJWl21XsJ/pagina.html

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« Risposta #377 inserito:: Giugno 22, 2017, 09:12:47 pm »


Berlusconi ci riprova con l’Albero delle libertà: ecco il piano per candidarsi
Pronta la sfida alla Corte di Strasburgo. Ma Toti: «Non è più lui»

Pubblicato il 20/06/2017 - Ultima modifica il 20/06/2017 alle ore 12:15

Ugo Magri
Roma

L’estremo tentativo di scongiurare l’ineluttabile ha visto immolarsi, invano, il governatore ligure Giovanni Toti. Che poche sere fa ha osato ciò che dai tempi di Gianfranco Fini e del suo «che fai, mi cacci?» nessuno si era mai più permesso con Berlusconi: contestargli il grande rientro in scena, un evento che negli States verrebbe strombazzato come «Silvio is back», rièccolo. In una cena rimasta riservata, nonostante fossero seduti a tavola tutti i big di Forza Italia, da Renato Brunetta a Paolo Romani, da Anna Maria Bernini a Mara Carfagna, da Gianni Letta a Niccolò Ghedini, da Valentino Valentini a Sestino Giacomoni, Toti ha preso di punta Berlusconi e la sua decisione di riproporsi alla testa di Forza Italia in vista delle prossime Politiche, laddove per il governatore sarebbe tempo di mettere su «una lista unica con la Lega». Toni educati ma bestialmente duri nella sostanza, da cui tutti i presenti - in particolare Ghedini e Carfagna - hanno preso le distanze. «Io l’ho conosciuta, caro Presidente, ai tempi in cui ebbe la forza di unire il centrodestra», sono le parole di Toti che a Berlusconi rivolge il “lei”, «invece oggi ci viene a parlare di sistema proporzionale, di correre per nostro conto... Davvero, non la riconosco più». Velenoso: «Se vorrà venire a Genova per i ballottaggi sarà benvenuto, ma prima corregga la linea su Salvini». 
 
L’ULTIMA GALOPPATA
Dopo un simile “strappo”, Toti non è certo cresciuto nella considerazione del Cav. Il quale ha risposto secco che lui crede ancora nel centrodestra, però con Salvini non unirebbe le forze nemmeno sotto tortura. E comunque, è già lanciatissimo in quella che si annuncia come l’ultima galoppata elettorale della sua carriera, figurarsi se si tirerà indietro. A tutti i personaggi che gli fanno visita, Berlusconi poggia idealmente la spada sulla spalla: «Preparati, tu sarai un mio candidato» (senza mai specificare il come e il dove). A ciascuno l’uomo mostra in gran segreto l’arma atomica che, secondo lui, dovrebbe permettergli di puntare nientemeno che al 30 per cento: un disegnino di albero, tutto verde su sfondo azzurro, fronzuto come una quercia ma in realtà un melo o un pero per via dei frutti penzolanti, e con tre enormi radici. È l’albero della libertà, come Berlusconi l’ha battezzato (o degli zoccoli, nella definizione più in voga). Le radici sono la libertà, appunto, la democrazia, i valori dell’Occidente. Il fusto e i rami indicano i problemi da risolvere. I grossi pomi rappresentano le soluzioni. Per ora Silvio ne ha individuate sei: meno tasse, meno Europa, meno Stato, più aiuti a chi è rimasto indietro, più giustizia per tutti e più sicurezza. Mancano ancora risposte su giovani e immigrazione, ma l’ex premier presto aggiungerà qualche altra mela.

Nella cena si è stabilito che Forza Italia avrà il nome di Berlusconi nel simbolo. E non solo: darà battaglia per candidare il leader nonostante la legge Severino lo vieti. Il piano esposto dall’avvocato Ghedini fa leva sulla Corte di Strasburgo, alla quale Berlusconi fece ricorso dopo la decadenza da senatore. L’udienza è fissata per il 22 novembre, e la sentenza difficilmente arriverà in tempo per le elezioni se queste si svolgeranno a febbraio-marzo. Ma Berlusconi cercherà ugualmente di mettersi in lista, sostenendo che il verdetto potrebbe essere a lui favorevole. Chiederà l’ammissione «con riserva». Se l’ufficio elettorale glielo negasse, scatterebbero i ricorsi al Tar, al Consiglio di Stato, al tribunale ordinario. Il cancan che ne deriverà sarà comunque di aiuto alla propaganda. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/20/italia/politica/berlusconi-ci-riprova-con-lalbero-delle-libert-ecco-il-piano-per-candidarsi-A6HhMmmbLtRryMXEeiU5QP/pagina.html
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« Risposta #378 inserito:: Luglio 09, 2017, 09:37:21 am »

Il piano rivoluzionario di Berlusconi per dimostrare che l’età non conta

Un gag in tivù e un “doppio shock” per rilanciare l’economia

Pubblicato il 03/07/2017

UGO MAGRI
ROMA
La gag è già pronta. Berlusconi si presenta nello studio tivù tutto curvo, zoppicante, aggrappato a una stampella. Avanza titic-titoc e davanti alla telecamera sospira: «Questo vecchietto avrebbe voluto cedere il testimone a qualcuno più nuovo di lui. Ma siccome nessuno dei giovani è in grado, eccomi di nuovo qui», via la stampella, «costretto a tornare in campo per il bene dell’Italia». Avrebbe voluto mettere in scena lo sketch una decina di giorni fa, da Vespa. L’hanno tutti convinto a soprassedere, il Paese non è nel “mood” adatto, per gli scherzi sarà tempo più avanti. Ma stiamo certi che l’uomo ci riproverà. Per due ragioni.

Anzitutto, gli è tornata una smania di vincere. E quando avvista la preda, l’ex Caimano diventa iper-cinetico. Manterrà il ritmo faticoso di 2 interviste a settimana inaugurato con le Comunali, più 7-8 colloqui politici al dì, più riunioni sistematiche con lo stato maggiore “azzurro”: vuole dare il senso fisico della presenza perché, come sapeva bene Napoleone, ha effetti balsamici sulla truppa. Non solo conta di riprendersi gli elettori “rubati” da Grillo, ma perfino quanti si erano indirizzati verso Renzi considerandolo un Berlusconi con 40 anni di meno. Silvio vorrà convincerli che il vero “giovanotto” è lui, perché ha in testa un paio di idee dirompenti. Di sicuro, spericolate.
 
Va dicendo ai suoi che stiamo sull’orlo di una guerra civile. Con 15 milioni di famiglie in difficoltà e il 40 per cento dei giovani disoccupati, «non potremo uscirne fuori con le ricette ordinarie, serve uno doppio shock», è il mantra berlusconiano. Cosa ci può essere di più scioccante di un taglio netto delle imposte attraverso una «flat tax» sotto il 20 per cento? Chiaro che si porrebbe qualche problemuccio con Draghi e con Bruxelles, perché almeno nell’immediato salterebbero i conti. Finiremmo in bancarotta. Ma qui soccorre l’altro «shock» immaginato da Silvio: la «doppia moneta», che qualcuno credeva una mossa per andare incontro a Salvini, invece Berlusconi ci punta sul serio. Consisterebbe nel tenerci l’euro per le transazioni internazionali, e nell’uso corrente tornare alle lire, della quale potremmo stamparne a volontà. Nei conversari privati, il Cav ammette che ci ritroveremmo con l’inflazione a livelli di Sud America. Però «diversamente della Germania, incapace di conviverci, negli anni ‘70 e ‘80 noi non siamo stati così male nell’inflazione a due cifre, la priorità adesso è rimettere in moto l’economia». Ne discuterà con economisti di sua fiducia e con alcuni gestori di patrimoni mobiliari per sondare le reazioni. Chi, tra i meno ardimentosi dei suoi, ha osato sollevare dubbi si è beccato la seguente risposta: «Vinceremo solo con idee rivoluzionarie e non banali, lasciate fare a me». Toni da giovane visionario.
 

Il vecchio che avanza 
E qui sta l’altro obiettivo della gag con la stampella: aggredire l’idea, sparsa in primis da Salvini, che con 80 primavere sulle spalle Berlusconi non possa incarnare il futuro. L’anagrafe conta poco, «è più importante la freschezza politica», si ribella Silvio. Gli hanno segnalato la popolarità di Jeremy Corbyn nel Regno Unito, e di Bernie Sanders negli Usa, per citare due vecchioni. Qualcuno gli ha rammentato che Peron tornò al governo quando aveva 78 anni, e in fondo Giorgio Napolitano domina la scena nonostante abbia passato i 90. L’importante è conservarsi bene. Perciò le feste «eleganti» fino alle tre di notte sono ormai un ricordo. Qualora cadesse in tentazione, non troverebbe la compiacenza di chi ora lo assiste: da Licia Ronzulli in veste di segretaria ai due assistenti Valentino Valentini e Sestino Giacomoni, quasi filiali nel loro affetto, con la supervisione dell’avvocato Niccolò Ghedini e di Gianni Letta, ritornato vicino a Silvio dopo una fase di disincanto. Il risultato è che adesso raramente chiude le palpebre mentre qualcuno gli parla, e se ciò accade è segno di noia più che di età avanzata, perché quando l’argomento gli interessa sarebbe capace di discuterne ore. Come a una cena, qualche sera fa, quando si è cimentato in una gara di barzellette. Ne ha snocciolate 50 delle sue, una dietro l’altra.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/03/italia/cronache/il-piano-rivoluzionario-di-berlusconi-per-dimostrare-che-let-non-conta-7LvUSliW0DKpUuxG1AFV4N/pagina.html
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« Risposta #379 inserito:: Luglio 11, 2017, 09:33:51 am »

Roma-Bruxelles e la festa delle anomalie

Pubblicato il 11/07/2017

UGO MAGRI

Responsabilmente, Matteo Renzi ha chiarito che la sua proposta di «tornare a Maastricht» è musica dell’avvenire. Riguarderà la prossima legislatura, perciò non andrà a impattare la manovra economica di quest’autunno. E’ una precisazione importante perché a qualcuno - perfino ai piani alti delle istituzioni - poteva sorgere il sospetto che l’ex premier parlasse al presente anziché al futuro, e volesse spingere il governo Gentiloni a sfidare da subito l’Europa con una legge di stabilità tarata su un deficit del 3 per cento, in modo da impostare la campagna elettorale su uno scontro drammatico con Bruxelles. Va dato atto al premier e al titolare dell’Economia di aver mantenuto il sangue freddo, nonostante le temperature torride di questi giorni. Prima ancora che arrivasse nel pomeriggio la puntualizzazione di Renzi, Pier Carlo Padoan ne aveva già anticipato il senso ragionevole, e quasi con le stesse parole. 

Il testacoda, dunque, è stato evitato. Si torna nei binari di una dialettica che da tempo, ormai, vede svaporare le distinzioni classiche tra destra e sinistra in tema di Europa. Chi più chi meno, tutte le forze in campo cavalcano la contestazione anti-Ue, gareggiano nel fare «più uno».
 
Per non perdere terreno rispetto ai «sovranisti», il segretario Pd rischia a volte addirittura di surclassarli. In questo caso Renzi ha frenato in tempo la sua rincorsa specificando come, appunto, le proposte racchiuse nel suo libro siano semplicemente primizie, un trailer del mondo nuovo che vedremo a breve. Ma prima dell’«happy end» sono emerse un altro paio di anomalie politiche, ben afferrabili a occhio nudo. 
 
La prima singolarità è rappresentata dall’«effetto sorpresa». La riscoperta improvvisa dei parametri di Maastricht ha colto alla sprovvista tutti, dentro e fuori il Pd. Pare assodato che lo stesso Paolo Gentiloni non ne fosse al corrente. Il silenzio di Palazzo Chigi segnala un filo di imbarazzo al riguardo. Da nessuna parte ovviamente sta scritto che Renzi dovesse alzare il telefono e discuterne in anticipo con il suo successore. Ma l’esito della vicenda è di uno scollamento sempre più marcato tra le finalità del governo in carica e la visione strategica coltivata dal segretario Pd. Il quale ha scelto di picconare certi paradigmi Ue su deficit, tasse e debito proprio mentre l’esecutivo sta tentando di far applicare le regole comuni in tema di accoglienza. Si può sostenere qualunque cosa, perfino che Gentiloni possa trarre vantaggio da questa iniziativa. L’impressione raccolta a Bruxelles, tuttavia, è quella di un premier precario, poco sostenuto dal suo stesso schieramento politico, con una voce in capitolo sempre più modesta.
 
E qui scatta la seconda palese anomalia. Sta nel modo sbrigativo, quasi sprezzante, con cui le istituzioni in Europa hanno bocciato la proposta renziana. Anche in questo caso, l’auto-inganno potrebbe spingersi al punto di considerare «normali» le reprimende di commissari europei come Dijsselbloem o Moscovici. E a giudicare formalmente ineccepibile che un portavoce di Juncker rifiuti di «commentare i commenti» formulati da persone «non più in carica». Forse sarebbe più onesto domandarsi se la Commissione Ue si sarebbe mai permessa di adottare lo stesso tono liquidatorio, qualora la stessa proposta di tornare a Maastricht fosse stata formulata, per esempio, dal partito della Merkel o di Macron. Renzi, invece, è stato rottamato senza che una sola voce autorevole si levasse in sua difesa, dentro e fuori Italia. La conferma un po’ umiliante di come siamo messi.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/11/cultura/opinioni/editoriali/romabruxelles-e-la-festa-delle-anomalie-kBfq1Qyag9kwnnAaM4jl0N/pagina.html
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« Risposta #380 inserito:: Luglio 16, 2017, 05:26:46 pm »


Berlusconi ferma la campagna acquisti perché vuole evitare il voto anticipato
Indebolendo i verdiniani cadrebbe anche il governo, Silvio non vuole
Berlusconi si è accorto che lo “shopping” politico potrebbe ritorcersi contro di lui. Ridurre i margini della maggioranza avrebbe l’effetto di mettere a rischio Gentiloni sullo «ius soli»

Pubblicato il 12/07/2017

Ugo Magri
Roma

La fretta renziana sullo «ius soli» sta suscitando sospetti. Tra i senatori Pd sono in molti a chiedersi che bisogno c’è di ricorrere addirittura a 4 voti di fiducia, uno per ciascuno degli articoli di cui si compone la legge. Tra l’altro, si fa notare, ogni votazione è un rischio perché al Senato i numeri sono incerti. I bersaniani sosterranno la riforma, è vero; però mancheranno i voti di Ap. E in assenza degli alfaniani diventeranno decisivi gli 80 senatori che stanno nel mondo di mezzo, in quella terra di nessuno guidata solo dalle rispettive convenienze. Finora, per conservare più a lungo l’indennità parlamentare e i benefici annessi, questa zona grigia ha sempre sostenuto il governo nei passaggi decisivi. Probabilmente andrà così pure la prossima settimana, quando lo «ius soli» arriverà in aula; o magari no, nessuno se la sente di mettere una mano sul fuoco. Di qui il punto interrogativo sulle reali intenzioni di Renzi: per quale motivo il Pd, anziché scegliere la scorciatoia pericolosa, non imbocca la strada lenta ma più sicura della fiducia su un unico maxi-emendamento? Servirebbe poi un ulteriore passaggio alla Camera, però il governo non rischierebbe di cadere nel burrone.

Forse, ecco il dubbio, qui sta il vero obiettivo di Matteo: esorcizzare la noia della politica provando il brivido dell’azzardo. Se lo «ius soli» passa, bene; se non passa e il governo cade, perfino meglio. In quel caso andremmo a votare sul finire dell’estate o all’inizio di autunno. Per quanto il segretario si sforzi di negarlo pubblicamente, chi gli sta intorno lo descrive tuttora pronto a cogliere l’attimo per tornare alle urne, qualora si presentasse l’occasione. Una certa preoccupazione lambisce gli ambienti istituzionali e gli stessi leader di opposizione. Uno in modo particolare: il Cav.

Colpo di freno 
Berlusconi era stato (e rimane) disposto a votare prima della naturale scadenza, perfino il 24 settembre prossimo, ma chiede in cambio una legge elettorale come piace a lui. L’ha individuata nel sistema tedesco, interamente proporzionale. Gli eviterebbe patti con Salvini, del quale Silvio non sopporta né le idee né le maniere. Il mese scorso era sembrato che l’intesa sul tedesco fosse matura, ma poi si sa come andò. Da allora, sotto sotto, Berlusconi ha continuato a sperare che Renzi cambiasse idea. E per ingannare il tempo si è messo a fare campagna acquisti, in modo da avere un maggior numero di senatori il giorno in cui l’altro dicesse «ok, ripartiamo dal modello germanico». Un paio di verdiniani sono già stati arruolati e ce ne sarebbero altri 8 che non vedono l’ora, metà di Ala e l’altra metà di Alfano. Sennonché adesso Berlusconi si è accorto che lo “shopping” potrebbe ritorcersi contro di lui. Ridurre i margini della maggioranza avrebbe l’effetto di mettere a rischio Gentiloni sullo «jus soli». E se il governo cadesse sugli immigrati, andremmo alle urne con le due leggi elettorali passate al vaglio della Consulta: proprio ciò che il Cav vorrebbe evitare. Di qui lo stop agli acquisti. Gli appuntamenti in agenda sono stati messi tutti in stand by. A ciascuno dei personaggi è stato recapitato il messaggio: «Sei dei nostri, ma per il momento è meglio se rimani lì dove sei». Come sostiene Maurizio Gasparri, «per Forza Italia non sarà in fondo una gran perdita, è gente impresentabile. Anzi, per dirla tutta, siamo alla raccolta differenziata, ecologica certo, ma sempre di quella roba si tratta». 

A complicare le relazioni con Renzi, ha contribuito la ricostruzione nel nuovo libro del segretario Pd, dove si narra che il famoso Patto del Nazareno fallì quando Berlusconi confessò candidamente di aver concordato pure con Massimo D’Alema la candidatura al Colle di Giuliano Amato: per non subire la scelta di quei due, Renzi preferì eleggere Sergio Mattarella. Rivangare la vicenda è come spargere sale su ferite mai del tutto rimarginate. Altro indizio di freddezza: nello scorso weekend, a pranzo con familiari e amici nella sua villa sarda, Berlusconi ha scartato tanto il «piano A» quanto quello «B». Il primo consiste nell’alleanza con Salvini, il secondo punta a un governo con Renzi. L’uomo ha deciso che vincerà da solo, proponendo tagli alle tasse, doppia moneta e separazione carriere dei magistrati (pm e giudici addirittura in palazzi separati). Ha congedato gli ospiti regalando a ciascuno un barattolo di «Marmellata del Presidente», ecologica e autoprodotta. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/12/italia/politica/berlusconi-ferma-la-campagna-acquisti-perch-vuole-evitare-il-voto-anticipato-iERdQB35eLNBcdRnt9sDeI/pagina.html
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« Risposta #381 inserito:: Luglio 30, 2017, 05:34:16 pm »

Addio all'editorialista de La Stampa
Enzo Bettiza, raccontò il mondo e la fine del comunismo
Enzo Bettiza era nato a Spalato il 7 giugno 1927, aveva appena compiuto 90 anni

Pubblicato il 28/07/2017 - Ultima modifica il 28/07/2017 alle ore 16:45
Ugo Magri

Enzo Bettiza è stato la prova vivente che, per diventare un grande del giornalismo, non serve far leva sulla simpatia: contano di più altre doti, professionali e umane. La coerenza con la propria storia, anzitutto. Quella di Bettiza è passata attraverso grandi drammi che ne hanno reso aspra, ironica e in qualche caso feroce la descrizione di come va il mondo. Si ritrovò profugo dalla Dalmazia (era nato a Spalato da una famiglia italiana altoborghese) quando non aveva ancora vent’anni. Sopravvisse per miracolo a una grave malattia. Campò di espedienti, contrabbandiere e venditore di libri a rate (come raccontò poi) per sbarcare il lunario, sognando di diventare uno scrittore di successo. 

Iniziò dal settimanale Epoca, nel 1957 arrivò a La Stampa dove fu corrispondente da Vienna e poi da Mosca. Nessuno meglio di lui sapeva descrivere vicende e personaggi di una Mitteleuropa caduta sotto il tallone sovietico. Ma desiderava cambiare, e questa voglia di fare altro lo mise in urto con l’allora direttore Giulio De Benedetti, temperamento poco incline al compromesso, che alla fine lo licenziò (dopo averlo fatto attendere in anticamera, si racconta, fino alle quattro e mezza di notte). Correva il 1964. Bettiza ritornò a casa trent’anni dopo, da editorialista e commentatore politico, senza più lasciare La Stampa.

Nel mezzo, un decennio al Corriere della sera da cui se ne andò in polemica con la svolta a sinistra impressa da Piero Ottone, e un altro decennio al Giornale, di cui fu il fondatore nel 1974 insieme con Indro Montanelli. Li divise il giudizio su Bettino Craxi, dal quale Enzo fu politicamente attratto e invece Indro detestava. Bettiza sperimentò la vita parlamentare nel partito liberale prima e in quello socialista poi, sempre con un tono alto e aristocratico, teorizzando il «lib-lab», cioè l’incontro della cultura liberal con quella laburista. 

Fu tra le rare stelle, nel firmamento del giornalismo, che diede credito a Umberto Bossi e alla Lega di una sostanza «asburgica», quasi da vecchio impero austro-ungarico. Conservatore Bettiza è stato sempre, ma di un’intelligenza rara. La sua critica spietata al comunismo dell’Est, negli anni in cui il mito sovietico esercitava ancora un’attrattiva, lo rese bersaglio di molte critiche. Salvo che poi la Storia, con la maiuscola, gli diede ragione.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/28/cultura/addio-a-enzo-bettiza-raccont-il-mondo-con-ironia-senza-tradire-lo-spirito-polemico-KMLNJfoDymNb1ULGOGB7fI/pagina.html
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« Risposta #382 inserito:: Luglio 30, 2017, 05:39:13 pm »

La strategia del Quirinale per rompere l’isolamento
Mattarella teme un’offensiva su più fronti e appoggia il governo. L’idea di un vertice con la Merkel per ridimensionare Macron

Pubblicato il 29/07/2017 - Ultima modifica il 29/07/2017 alle ore 07:17

UGO MAGRI

Il rischio che l’Italia diventi un vaso di coccio nei giochi di potenza europei, con la Francia di Emmanuel Macron protagonista, è ben presente ai piani alti della Repubblica. Dove Sergio Mattarella segue l’evolversi della tempesta diplomatica in una veste che non è di pura e semplice vigilanza, ma di attivo sostegno al governo Gentiloni.
 
È viva, tra i frequentatori del Colle, la sensazione di un attacco lanciato su piani diversi (contro la paziente tessitura italiana in Libia, secondo una logica protezionistica contro Fincantieri), però con l’obiettivo di rimodellare la mappa politica continentale sulla base di un asse sempre più esclusivo tra Berlino e Parigi. La Gran Bretagna con Brexit se ne è sfilata, e Paesi come la Spagna da tempo sollecitano una contro-iniziativa di quanti, a cominciare dalla Polonia, contestano la legittimità di questa diarchia. Di sicuro, nelle riflessioni in corso tra Quirinale e Palazzo Chigi, domina una doppia presa d’atto. Anzitutto, che in Europa va crescendo questa pericolosa tendenza a metterci di fronte al fatto compiuto. E poi, che la scelta politico-diplomatica di puntare sul «nuovo», rappresentato da Macron, a questo punto merita di essere meglio calibrata. Sicuramente all’Eliseo non c’è più un presidente che si muove, come il predecessore Hollande, in sintonia con la famiglia socialista europea e la sua idea solidaristica. 
 
Si va facendo strada l’idea che il governo, per rompere l’accerchiamento, avrebbe dei vantaggi nel riprendere l’iniziativa. Non in una logica di occhio per occhio rispetto agli interessi francesi in Italia, come piacerebbe a qualche ambiente politico sconsiderato (Telecom sarebbe un fin troppo facile bersaglio), ma secondo le corde che Gentiloni meglio di tutti sa toccare: quelle della condivisione. Facendo appello a coloro che in questa fase ritengono pericolose le fughe in avanti, sono dunque insospettiti dall’attivismo di Macron e puntano semmai a rafforzare il comune sentire europeo. Una prima mossa concreta potrebbe consistere ad esempio nella richiesta di un summit italiano con la Germania, che ribadisca le nostre buone ragioni e rimetta un filo d’ordine nella fiera dei protagonismi. A quanti dubitano che Angela Merkel possa o voglia darci retta, impegnata com’è nella sua campagna elettorale e nella costruzione di migliori rapporti con Parigi, fonti di una certa dimestichezza con questi temi fanno notare la vastità delle relazioni economiche italo-tedesche, lo stretto legame produttivo tra le manifatture dei due Paesi, il grado raggiunto dalla reciproca interdipendenza. A Berlino sono ben consapevoli dei danni che una lacerazione di questo tessuto potrebbe determinare nel caso in cui la libera circolazione di persone e merci dovesse tornare in discussione attraverso una riforma degli accordi di Schengen.
 
Il premier non ha ovviamente la stazza politica dei governanti consacrati dal voto. La sua coalizione è quanto di più fragile. Tuttavia può contare su una squadra che rema nella stessa direzione, incominciando da Padoan e Calenda. Di sicuro, se prenderà con decisione l’iniziativa in campo Ue, avrà un sostegno forte dal Capo dello Stato. L’atteggiamento combattivo e solidale di Mattarella si è colto lunedì scorso, nelle stesse ore in cui Macron si cimentava con le fazioni libiche in lotta. «La stabilizzazione delle aree di crisi, prima fra tutte la Libia, necessita di azioni che travalicano la portata dei singoli Paesi», ha scandito il presidente alla XII conferenza degli ambasciatori. Aggiungendo parole che il ministro degli Esteri Yves Le Drian (lì presente) non avrà avuto bisogno di interpretare: «L’interesse nazionale è sempre, naturalmente, per tutti, un obiettivo al quale tendere. Pensare tuttavia che esso coincida con una sorta di angusta chiusura in se stessi è un errore gravido di conseguenze pericolose».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/29/italia/politica/la-strategia-del-quirinale-per-rompere-lisolamento-6419VDds75zcfAaHVMpdCP/pagina.html
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« Risposta #383 inserito:: Agosto 03, 2017, 05:26:06 pm »

La processione dei centristi da Berlusconi: così la maggioranza di governo è in bilico al Senato
Il Pd potrebbe persino chiedere a Mattarella di esercitare una pressione su Ap e Mdp per evitare l’esercizio provvisorio
Numeri in bilico in Senato (sopra, una foto dell’aula). Silvio Berlusconi di nuovo al centro del gioco politico, complice la debolezza del Pd e lo stallo del M5S

Pubblicato il 20/07/2017

CARLO BERTINI, UGO MAGRI
ROMA

È chiaro che Costa nel governo non ci può più stare per quello che ha detto su Berlusconi. Quindi, Angelino, dovete farlo dimettere». Senza giri di parole, nel faccia a faccia a Palazzo Chigi di martedì sera, Paolo Gentiloni fa capire chiaramente ad Alfano che la misura è colma. Passi per la dichiarazione del titolare degli Esteri sulla collaborazione col Pd che si è conclusa, ma addirittura l’elogio dell’avversario no: il ministro degli Affari Regionali non può restare nell’esecutivo. Per questo Gentiloni apprezza l’uscita di Costa, ma le sue dimissioni sono accolte come atto dovuto. Anche se l’immagine che trasmettono è quella di uno sfaldamento del governo, un suo indebolimento inarrestabile. Rialza la testa il partito del «così non si può andare avanti».

Fari accesi sul Cav. 
La fibrillazione lambisce i vertici istituzionali, dove non si sentiva alcun bisogno di un’ulteriore scossa. La poltrona vacante è stata subito congelata grazie all’interim, e presto sarà riconsegnata al partito di Alfano. Ma lo smottamento di Ap suscita un punto di domanda sulla tenuta parlamentare della maggioranza, e soprattutto sulle vere intenzioni di Berlusconi: come mai d’improvviso ha ripreso la campagna acquisti che era stata interrotta proprio per non mettere in ginocchio Gentiloni? Nel giro di Arcore si minimizza l’accaduto: l’«Operazione Costa», come viene definita, mira a lanciare ami soprattutto alla Camera, dove i numeri del governo largheggiano. E serve a scremare la lunga lista degli «homeless» che, in vista delle prossime elezioni, cercano di accasarsi nel centrodestra. Ovvero, per dirla con l’espressione di Gasparri, a distinguere tra «riciclabili» e non con una sorta di «raccolta differenziata». Appartengono alla prima categoria personaggi come Flavio Tosi, ex sindaco di Verona, che porta in dote 7 parlamentari; poi l’ex segretario di Scelta Civica, Enrico Zanetti, inoltre Lorenzo Cesa, segretario Udc, e perfino il piemontese Giacomo Portas, titolare del simbolo di centrosinistra dei «Moderati», corteggiato proprio per questo. Berlusconi ha dato invece disposizione di andarci piano a Palazzo Madama, dove il governo balla (e si è visto ieri sui vaccini). Restano perciò in stand-by una quantità di personaggi di varia estrazione centrista, da Ala a Gal ma soprattutto Ap, che attendono soltanto un segnale per tornare all’ovile berlusconiano. Chi sono? Al richiamo del Cav non resisterebbe nessuno. Più facile indicare gli unici due che troverebbero porte sicuramente chiuse: Alfano e Fitto, che si sono visti l’altra sera a cena con Casini per fronteggiare l’emergenza.
 
Lo scoglio della manovra 
A Palazzo Chigi nessuno nega che lo scenario sia pessimo, «lo sapevamo fin dall’inizio». Però lo sguardo nel partito, che ormai di fatto si sobbarca da solo l’onere di reggere il governo, ovvero il Pd, è rivolto al vero scoglio, quello della legge di stabilità, quando potrebbe risultare ostico trovare i voti per la manovra d’autunno. Renzi pare abbia del tutto dismesso qualsiasi volontà di forzare verso le urne; perciò questa uscita di Costa non viene considerato esplosiva. Ne sono convinti vari ministri Pd, da Orlando a Delrio, renziani di ferro come il sottosegretario alla Salute, Davide Faraone: «Paradossalmente finché spingevamo per il voto, tutti si coalizzavano per evitarlo, ora che non c’è più questa spinta, si creano le condizioni naturali... ma ormai non succederà nulla», garantisce. Renzi non a caso ormai si programma a lunga scadenza: partirà in tour con un treno affittato da Trenitalia in settembre per tenersi anche fisicamente lontano da un esecutivo non più in grado di approvare quasi nulla. Si è convinto che l’unica strada per il Pd è sostenere il governo Gentiloni, provando a fare una legge di bilancio da poter rivendicare in campagna elettorale.
 
L’impegno del Colle 
Tra i renziani non viene nemmeno escluso che, di fronte al rischio di una drammatica penuria di voti in Senato sulla manovra, il Pd possa chiedere a Mattarella di esercitare una moral suasion sui gruppi di maggioranza che sostengono il governo, Ap e Mdp, onde evitare l’esercizio provvisorio. Il Presidente non si tirerebbe indietro. L’unico segnale che induce il governo all'ottimismo giunge da Pisapia. Il quale richiama la sinistra alle sue responsabilità verso il governo. Bisognerà però vedere se sarà seguito da Bersani e compagni. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/20/italia/cronache/la-processione-dei-centristi-da-silvio-la-maggioranza-in-bilico-in-senato-DP58zYEZVfMLsUJyYT3kWI/pagina.html
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« Risposta #384 inserito:: Settembre 17, 2017, 08:55:56 pm »

Mattarella: sulla Libia ci hanno lasciati soli

Pubblicato il 15/09/2017
Ultima modifica il 15/09/2017 alle ore 17:55

UGO MAGRI
LA VALLETTA

Lasciati soli a gestire una situazione drammatica. «Senza molto aiuto e in qualche caso senza nessun aiuto», precisa Sergio Mattarella parlando davanti agli altri capi di Stato riuniti a Malta per l’incontro annuale del cosiddetto Gruppo di Arroiolos. Il Presidente si riferisce al nostro impegno in Libia, e lo sottolinea «senza alcuna vis polemica lontanissima da me». Nemmeno punta l’indice contro quanti si sono rifiutati di darci una mano, sebbene molti indizi portino a ritenere che le mosse recenti del francese Macron non siano state di aiuto. L’importante per Mattarella è ricordare che «stiamo facendo la nostra parte. Abbiamo rifornito di mezzi, addestrato la Guardia libica costiera; abbiamo fatto degli accordi, oltre che col governo insediato dall’Onu, anche con l’altra parte che vi è contrapposta; abbiamo stipulato accordi molto importanti con le municipalità che realmente governano il territorio. E questo», tira le somme il Presidente della Repubblica, «ha provocato negli ultimi mesi, quelli estivi, abitualmente di maggior transito sul Mediterraneo, un abbassamento deciso, molto forte, dei flussi migratori».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/15/italia/politica/mattarella-sulla-libia-ci-hanno-lasciati-soli-6VKPTWEgTTZGgmvfZkwTNO/pagina.html
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« Risposta #385 inserito:: Ottobre 01, 2017, 11:01:41 am »


Governo del presidente. Per il dopo voto cresce l’ipotesi del paracadute
Complicato tornare alle urne in caso di stallo.
D’Alema lancia l’esca, Berlusconi apre a Minniti
Il ministro dell’Interno Marco Minniti, pur del Pd, è la soluzione che viene ponderata dal centrodestra perchè sarebbe difficile per Salvini non accettarla, viste le sue politiche sui migranti

Pubblicato il 30/09/2017
Ultima modifica il 30/09/2017 alle ore 11:19

Ugo Magri
Roma

Con l’aria di chi va dicendo cose scontatissime, già chiarite da uno scienziato come il compianto Giovanni Sartori, Massimo D’Alema giorni fa ha posato il cappello sul «governo del Presidente». Vale a dire sul paracadute che si aprirebbe nel caso, altamente probabile, di elezioni politiche senza un chiaro vincitore, dove nessun partito ottenga una maggioranza tale da consegnargli le chiavi del potere. In pubblico se ne parla poco poiché i leader, tutti, preferiscono spargere l’illusione di un trionfo a portata di mano. Invece D’Alema, con la sua furbizia, ha anticipato il tema che sicuramente si porrà all’indomani del voto e anzi già è oggetto di valutazioni nelle sedi che contano.

LE PREFERENZE DI ARCORE 
Un esempio: da Arcore, dove nessun segreto resiste più di dieci minuti, emerge come i berlusconiani non solo sarebbero pronti a infilarsi in un «governo del Presidente», quale atto di responsabilità verso l’Italia, ma pare siano stati discussi con Berlusconi perfino i nomi di chi avrebbe le migliori chance di guidarlo. Paolo Gentiloni rimane in pole position perché nulla è più semplice che prorogare chi occupa una poltrona, specie se si è distinto per garbo verso il Cav. Ma cresce prepotente in Forza Italia la considerazione verso un’altra figura istituzionale, qual è senza dubbio il ministro dell’Interno. Per come Marco Minniti si sta muovendo su sicurezza e immigrazione, assicurano i “berluscones”, lo stesso Salvini farebbe fatica a tirarsi indietro, lo preferirebbe certamente a un amico della Merkel come Antonio Tajani.

LA CARTA VINCENTE 
Più monta il chiacchiericcio nei partiti, meno il Colle desidera assecondarlo. Ovvio il rifiuto di “speculare” su qualcosa ancora futuribile. Mancano sei mesi alle elezioni, le variabili del “dopo” sono mille. Inoltre, chi frequenta Sergio Mattarella esclude che il presidente scalpiti per mostrare i suoi super-poteri. Un po’ il protagonismo gli è estraneo, e poi il Capo dello Stato non è in grado di costringere nessuno. «Può costruire le condizioni con una tenace regia», osserva il “dem” Giorgio Tonini, attento a queste dinamiche, «ma qui si tratta di far nascere una maggioranza che poi voti la fiducia al “governo del Presidente”». Insomma, la bacchetta magica non esiste. Eppure, al Quirinale non manca la carta vincente, vero asso pigliatutto. Si tratta dell’impossibilità pratica di tornare alle urne come è avvenuto in Spagna, qualora lo stallo del dopo-voto da noi fosse totale. 

TEMPI OBBLIGATI 
È tutta una questione di calendario. Se voteremo a marzo, le date più probabili il 4 o l’11, poi ci vorranno i canonici venti giorni per la prima riunione delle Camere e un’altra decina perché queste eleggano gli organi indispensabili: i rispettivi presidenti, gli uffici di presidenza e i gruppi parlamentari, senza i quali il Capo dello Stato non saprebbe chi consultare. Dopodiché si apriranno le consultazioni. Nel 2013 Giorgio Napolitano fu un fulmine, vide tutti i partiti in sole 24 ore sottoponendosi a un tour de force, eppure la soluzione della crisi arrivò due mesi dopo il voto. Perfino prendere atto che formare una maggioranza è impossibile richiederebbe il suo tempo e un passaggio parlamentare per prenderne atto. Gli esperti del ramo assicurano che, votando a marzo, l’iter non si concluderebbe prima di metà maggio, col risultato che nuove elezioni «alla spagnola» cadrebbero a fine luglio, impensabile. Dunque un governo dovrà nascere per forza, pena sconquassi istituzionali e drammi sui mercati. Nessuno dotato di buon senso rifiuterà di aprire il paracadute.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/30/italia/politica/governo-del-presidente-per-il-dopo-voto-cresce-lipotesi-del-paracadute-4Ur6ofHWAPDtTgDn0PW8CM/pagina.html
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« Risposta #386 inserito:: Ottobre 04, 2017, 11:40:35 am »


Berlusconi contro Salvini: “Venderò cara la pelle”
Centrodestra in bilico, il voto tedesco allontana la lista unica

Pubblicato il 26/09/2017 - Ultima modifica il 26/09/2017 alle ore 07:12

Ugo Magri
Roma

Berlusconi si attende, decisamente «seccato», anzi parecchio «infastidito», che Salvini attacchi a suonare la fanfara, con lui la Meloni, e tutto il gruppo dei forzisti pro-Lega ne profitti per gridare che le ragioni dell’unità a destra sono più forti dopo il voto tedesco, dunque vai col “listone” alle prossime elezioni, vai con i candidati comuni, vai con il partito unico e con il grande cambio generazionale destinato a pensionare il Cav, giunto all’età di anni 81 (li compirà tra 3 giorni). Tutto ciò mette l’ex premier di pessimo umore. Ma il paradosso è che adesso gli tocca addirittura difendere la Merkel, proprio lei, e per difendersi da Salvini sostenere che Angela non ha perso, no, semmai «è riuscita nell’impresa ammirevole di farsi riconfermare Bundeskanzlerin dopo 12 anni di governo, un record assoluto nonostante abbia spalancato le braccia a 1 milione 200mila migranti». Lo va ripetendo al telefono con Antonio Tajani, o negli scambi di valutazioni con i rari collaboratori ammessi nelle riunioni strategiche del lunedì. Sestino Giacomoni, la sua «ombra», argomenta il contrario esatto dei «sovranisti», cioè che in Germania hanno vinto i moderati e pure in Italia bisognerà seguire l’esempio. Quanto più Salvini canta vittoria, tanto più ad Arcore si minimizza. Un clima che promette nulla di buono. 

ARIA PESSIMA 
Basta poco, a volte, per determinare i cambi di umore. Fino a poco fa Berlusconi non vedeva l’ora di abbracciare i suoi alleati, voleva incontrarli e quelli sfuggivano, Silvio proponeva di unire le forze ma Giorgia e Matteo si telefonavano tra loro, «io non ci penso nemmeno, e tu?», «ma figuriamoci». Poi è arrivata la nuova proposta di legge elettorale, il «Rosatellum», con la Lega super-favorevole e Forza Italia tiepidamente. Gianni Letta ha messo una pulce nell’orecchio del Cav, «attento è una trappola, con i candidati comuni finirà che Salvini ti sfila il partito, diventerà padrone in casa tua». Nemmeno il tempo di dirlo, che il consigliere politico berlusconiano, Giovanni Toti, è andato ad applaudire Salvini a Pontida. E loro due, insieme col capogruppo Paolo Romani, si sono fatti un selfie alla festa della Meloni: il ritratto di famiglia della destra post-berlusconiana. Uno show di balzanza, forse un peccato di presunzione perché dopo il selfie si sono precipitati in tanti dal Capo a denunciare i «golpisti», a dirgli che «c’è un’Opa ostile su Forza Italia, dobbiamo vender cara la pelle». 

ATTACCO DI NERVI 
Così il pendolo berlusconiano è ritornato indietro. La convenienza politica spingeva all’unità del centrodestra, ora è tornata l’insofferenza dell’uomo per gli urlatori, gli odiatori, gli estremisti in genere. Le ultime, di fonte più che autorevole, raccontano come il «piano B» di Berlusconi stia diventando «A», dunque la voglia di marciare da solo contro tutti, con qualunque sistema elettorale, prevalga ora sui calcoli di convenienza. A costo di perdere seggi pur di farne perdere a Salvini e sbarrargli la via verso Palazzo Chigi. Domanda un dignitario berlusconiano tra i massimi: «Si rende conto Matteo che, se gli prende un attacco di nervi come spesso capita, il nostro presidente è prontissimo a mandare al diavolo gli alleati? Rinuncerebbe a qualche seggio, ma resterebbe padrone di Forza Italia. Gli eletti sarebbero tutti suoi, nessuno in condominio con la Lega. L’Europa non chiede di meglio. E potrebbe dargli una mano il 22 novembre a Strasburgo, quando la Corte deciderà sulla decadenza da senatore. Le sensazioni? Erano buone, sono diventate ottime». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/26/italia/politica/berlusconi-contro-salvini-vender-cara-la-pelle-Gj285WrMN6uYU8pRhF7UaN/pagina.html
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« Risposta #387 inserito:: Ottobre 28, 2017, 11:39:19 pm »

Cavalcata verso le urne. Al via il gioco dell’oca disseminato d’incognite

Pubblicato il 28/10/2017

UGO MAGRI
Alle ore 12 di giovedì scorso siamo entrati in campagna elettorale. C’è finalmente una legge per tornare alle urne, si è dunque realizzata la condizione posta da Sergio Mattarella, nulla più impedisce di dare la voce al popolo. Ma da qui ai primi di marzo, quando quasi certamente si terranno le prossime elezioni, mancano ancora quattro mesi. E sarà tutto un susseguirsi di eventi in grado di premiare (o punire) i protagonisti della politica.
 
Il primo appuntamento è fissato tra 8 giorni in Sicilia, dove si voterà per la Regione. Il secondo tra due settimane alla Commissione parlamentare sulle banche, quando testimonierà Ignazio Visco e si annuncia tempesta. Il terzo a Strasburgo il 22 novembre, con la sentenza della Corte europea su Silvio Berlusconi. Resteranno leggi da approvare prima che cali il sipario: la manovra economica, il testamento biologico, la riforma dei vitalizi, lo Ius soli... Una corsa a ostacoli, anzi un gioco dell’oca dove chi sbaglia mossa ritorna indietro.
 …
1. Legge elettorale, si aspetta l’ok di Mattarella (prossima settimana) 
Il macigno che per dieci mesi ha impedito di tornare alle urne verrà rimosso entro la prossima settimana. Non appena il testo arriverà sul Colle (si parla di lunedì), la legge elettorale verrà esaminata con la stessa puntualità che ieri ha indotto Sergio Mattarella a negare la promulgazione delle norme sulle mine. Nell’ottica presidenziale, il “Rosatellum” non è immune da critiche. Per fare un esempio: collegi più piccoli avrebbero permesso di rafforzare i legami col territorio degli eletti nel prossimo Parlamento. Tuttavia nessuno, al Quirinale, scorge quel “fumus” di incostituzionalità che giustificherebbe secondo M5S un rinvio alle Camere. Dunque appare pressoché certa la firma presidenziale in calce alla nuova legge che avrà la particolarità di entrare in vigore il giorno dopo, senza nemmeno attendere la pubblicazione in “Gazzetta Ufficiale”. A quel punto, la corsa al voto sarà virtualmente lanciata.
 
2. Le prove generali con il voto in Sicilia (5 novembre) 
Chi vincerà le prossime elezioni in Sicilia, domenica 5 novembre, si troverà sulla cresta dell’onda. Chi sarà sconfitto, viceversa, nuoterà in pessime acque perlomeno fino a marzo 2018, quando voteremo per il Parlamento nazionale. Le regionali saranno l’ultimo test (con i voti veri, non con i sondaggi) prima della competizione più attesa. Trasmettere un’immagine di successo conterà parecchio in un paese, come il nostro, dove è innata la tendenza a soccorrere il vincitore e a maramaldeggiare sul perdente. Anche perché la nuova legge elettorale si fonda sul “voto utile”, tenderà a concentrare i voti su chi potrà davvero farcela. La sfida si annuncia particolarmente dura per Matteo Renzi. Se il Pd arriverà terzo o addirittura quarto in Sicilia, i suoi nemici interni non perderanno l’occasione di affilare i coltelli. Anzi, hanno già incominciato.
 
3. L’audizione di Visco (6-7 novembre) 
A terremoto delle elezioni in Sicilia seguirà un ulteriore “Dies Irae”: l’audizione Ignazio Visco presso la Commissione parlamentare di indagine sui crac delle banche. Le ultime da Palazzo San Macuto ipotizzano che l’ora della verità possa scoccare il 6 o il 7 novembre. Centrodestra e grillini cercherano di indurre il governatore, fresco di riconferma, a vuotare il sacco su Banca Etruria e dintorni. Le domande saranno numerose e Visco non potrà mostrarsi reticente. A loro volta i renziani si difenderanno contrattaccando. Tenteranno di mettere sotto tiro l’attività di vigilanza facente capo a Via Nazionale (ma non solo). Lo scontro si annuncia feroce, a meno che nei prossimi giorni le parti in conflitto decidano sotto banco una sorta di disarmo bilanciato e controllato. Per ora non se ne vedono i presupposti. Anziché smorzare i toni anti-Visco, Matteo Renzi è il primo a dare battaglia, in un clima da lascia o raddoppia.
 
4. La sentenza europea su Berlusconi (22 novembre) 
Sono in due ad attendere con particolare apprensione la sentenza della Corte di Strasburgo, che il 22 novembre deciderà se fu giusto dichiarare Silvio Berlusconi ineleggibile dopo la condanna per frode fiscale. Il primo, ovviamente, è il diretto interessato. Se i giudici europei gli daranno ragione, il Cav potrà tornare in pista alle prossime elezioni. Ma soprattutto avrebbe un appiglio per dichiararsi vittima dell’ingiustizia e indossare i panni della vittima. I suoi avvocati, Niccolò Ghedini in testa, incrociano le dita perché le sentenze della Corte vengono pubblicate di regola dopo sei mesi, ma in alcuni casi eccezionali il succo viene anticipato subito, tramite comunicato. L’altro in trepidante attesa della sentenza di nome fa Matteo, ma di cognome non è Renzi. Se l’incandidabilità di Silvio venisse confermata, il sorpasso della Lega su Forza Italia sarebbe praticamente cosa fatta. E lo scettro del centrodestra passerebbe a Salvini.
 
5. La manovra del 2018 
Doveva già essere in Parlamento da almeno una settimana; invece il testo definitivo della legge di Stabilità (che definisce i conti dello Stato per il 2018) arriva al Quirinale solo in queste ore. Il Capo dello Stato di metterà di corsa la firma e da lunedì il Senato inizierà l’esame. Ma con un punto di domanda grosso così: chi sosterrà la manovra? Da quando Mdp non fa più parte della maggioranza, mancano sulla carta i numeri per far passare la legge. Per cui le soluzioni possibili sono tre: 1) Bersani ci ripensa e dà una mano; 2) il soccorso arriva dal vituperato Verdini; 3) nelle votazioni cruciali un tot di berlusconiani si assentano dall’aula con le scuse più diverse in modo che il Pd sbrighi in fretta questa pratica. Salvo sorprese, la manovra passerà alla Camera a fine novembre e tornerà a Palazzo Madama entro Natale per il timbro finale, che si annuncia come indispensabile adempimento agli occhi dell’Europa e dei mercati.
 
6. Ius soli, biotestamento e vitalizi: le tre leggi ferme in Parlamento 
Prima che staccare la spina, governo e Parlamento dovranno decidere la sorte di tre riforme rimaste in sospeso: ius soli, biotestamento e vitalizi. Le speranze di successo sono alte nel primo caso, modeste nel secondo, scarsine nel terzo. Matteo Renzi vuole fare una cosa di sinistra per mettere in un angolo Mdp, e il centrodestra finge di protestare ma non vede l’ora che il Pd imponga la cittadinanza per chi nasce in Italia, magari attraverso il voto di fiducia, in modo da poter gridare che così rischiamo un’invasione. Sul testamento biologico la fiducia non si può mettere per via della libertà di coscienza, col risultato che la legge (osteggiata dagli alfaniani) passerebbe soltanto grazie al sostegno determinante del solito Verdini. Quanto alla riforma dei vitalizi, il Senato modificherà il testo della Camera, la Camera modificherà le modifiche del Senato e via così fino al suono del gong.
 
7. Definire i 231 collegi elettorali 
Il “Rosatellum” è legge, ma per renderlo operativo ci sarà bisogno di un ulteriore passaggio. Tempo 30 giorni, il governo dovrà disegnare i 231 collegi uninominali sparsi nelle 28 circoscrizioni elettorali in cui è suddivisa l’Italia. Risulta che al Viminale già dispongano di un software, fornito da alcune società di consulenza, in grado di provvedervi quasi in tempo reale. Ma siccome il “taglia-e-cuci” dei collegi può far vincere un candidato (e perdere un altro), favorire certi partiti e danneggiare gli avversari, ecco che la legge prescrive un po’ di serietà. Verrà coinvolto l’Istat tramite apposita commissione, successivamente il decreto del governo finirà sotto la lente delle Commissioni parlamentari che avranno a loro volta 15 giorni di tempo per esprimere un parere non vincolante. Risultato: i collegi saranno pronti intorno a metà dicembre. Solo a quel punto Mattarella potrà mandare tutti a casa.
 
8. Scioglimento delle Camere (Natale-Epifania) 
Governo e Parlamento avranno sparato a Natale le loro ultime cartucce. Legge elettorale? Ok. Collegi? Fatti. Manovra economica? Licenziata. Ius soli eccetera? Chi ha avuto, ha avuto. In teoria Mattarella potrebbe trascinare avanti la legislatura fino alla scadenza naturale che cadrebbe il 15 marzo (le Idi) 2018. Ma è generale opinione che si tratterebbe di accanimento terapeutico. Per cui nei palazzi che contano si dà per quasi certo lo scioglimento delle Camere tra Natale e la Befana. Il Capo dello Stato lo motiverà nel suo messaggio di fine anno. Prenderà la forma giuridica di un decreto presidenziale controfirmato da Paolo Gentiloni. Seguirà a stretto giro un altro decreto, questa volta di Gentiloni controfirmato da Mattarella, per fissare la data delle urne. Infine le dimissioni del governo, che resterà almeno altri 100 giorni in carica per «disbrigare - come si dice - gli affari correnti».
 
9. Le liste e l’incognita degli impresentabili (gennaio 2018) 
Per la politica, gennaio sarà un mese convulso. Andranno decise alleanze elettorali e candidature. Il “Rosatellum” attribuisce ai leader un potere totalitario sulle liste, ma non avranno vita facile. Scatterà su di loro il pressing di chi vorrebbe collegi uninominali sicuri (per il centrodestra quelli del Nord-Est, per il Pd nelle regioni «rosse»). Ci sarà ressa pure sui primi posti dei “listini” proporzionali, perché garantiscono 5 anni di stipendio da onorevole. Tutti i nomi dei candidati saranno sulla “scheda”, dunque vita dura per gli sconosciuti onesti, magari scelti attraverso le “cliccarie”, e per gli “impresentabili” ben conosciuti: se candidati, metterebbero in fuga gli elettori perbene. Come se non bastasse, Renzi e Berlusconi subiranno l’assalto dei partitini-satelliti, disposti a versare sangue per Pd e Forza Italia però in cambio di qualcosa, perché non esistono pasti gratis nelle vita e tantomeno nella politica.
 
10. Al voto il 4 o l’11 marzo 2018 
L’alba del nuovo giorno sorgerà il 4 marzo 2018 oppure la domenica dopo: sono le date più probabili delle urne. Se le Camere verranno sciolte ai primi di gennaio, un paio di mesi è il tempo che normalmente impiega la nostra burocrazia per mettere in moto la macchina elettorale. Poi, una volta votato, trascorreranno 20 giorni per proclamare gli eletti e riunire il Parlamento nuovo di zecca. Un’ulteriore settimana se ne andrà tra elezione dei presidenti delle Camere e altre indispensabili nomine. Le consultazioni inizieranno a metà aprile, e c’è solo da augurarsi che emerga un vincitore chiaro, cui Mattarella possa conferire l’incarico. Altrimenti, come nel gioco dell’oca, torneremo alla casella iniziale del 2013: niente maggioranza stabile e governi del Presidente.

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 http://www.lastampa.it/2017/10/28/italia/politica/cavalcata-verso-le-urne-al-via-il-gioco-delloca-disseminato-dincognite-mIL7ViJoDoPKjTYeCU1ADI/pagina.html
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« Risposta #388 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:15:24 pm »

La vittoria agrodolce di Berlusconi: “Ho fatto il gioco dei sovranisti”
Il leader di Forza Italia si aspettava di sfondare il 20% dopo l’impegno nell’isola. E adesso teme di apparire al traino di una coalizione anti-sistema
Pubblicato il 07/11/2017

UGO MAGRI
ROMA

Silvio Berlusconi non è affatto entusiasta del risultato: tra i trionfi della sua carriera, forse, è quello che più lo indispone. Tramite un video Facebook ha sostenuto l’esatto contrario, parlando di grande performance del suo partito, perché ammettere la verità sarebbe politicamente dannoso. Ma nella villa di Arcore l’aria che si respira è un mix di apprensione e inquietudine. Il Cav si aspettava di più. L’avevano illuso i bagni di folla nei quattro giorni passati in Sicilia, quando aveva messo in campo l’intero armamentario di lusinghe e promesse, compreso un ammiccamento al condono edilizio che in altri momenti avrebbe fatto faville. Perfino il suo assistente, Sestino Giacomoni, si è stupito di quanta energia avesse in corpo e quanta voglia di trasformare in voti le sue percentuali tuttora altissime di popolarità (superano il 30 per cento). L’immane fatica ha prodotto un 16,4 per cento che, di per sé, non sarebbe da disprezzare: in fondo è il triplo di quanto hanno raggranellato insieme Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Eppure, se si vanno a scartabellare i sondaggi di pochi mesi fa, già allora Forza Italia era stimata nell’Isola intorno al 16 per cento, appunto. Sfondare quota 20 era considerata riservatamente l’asticella minima, la dimostrazione che l’impegno diretto del leader paga ancora come una volta. Che Berlusconi non risulta solo simpatico e divertente come può esserlo un nonnetto arzillo, ma rimane il mago delle rimonte impossibili come nel 2006, come nel 2013. L’esperimento è andato così così: tanto valeva che il Cav restasse a casa e registrasse qualche appello-tivù.
 
Berlusconi: “Grazie a noi, la Sicilia non è finita nelle mani di chi non ha mai amministrato nemmeno un condominio”
 
Il patto col diavolo 
Alla delusione (inconfessata) si aggiunge un altro tipo di ansia: quella di apparire succube degli alleati. Legato mani e piedi alla loro politica «sovranista» e trascinato in una competizione con i grillini tutta spostata sulla rivolta antisistema. Per Berlusconi, sarebbe un errore imperdonabile, lo sbaglio più tragico, che spalancherebbe davanti a Di Maio un’autostrada. Silvio sostiene l’esatto opposto, che per stoppare i grillini si debba far fronte comune tra tutti i «responsabili», cioè gli italiani con il sale in zucca che non accendono gli zolfanelli sotto la grande catasta del populismo. Si mangia le mani per quel patto col diavolo stipulato a settembre, quando fu costretto a barattare l’unità del centrodestra (unica soluzione per non auto-affondarsi) con la candidatura di Nello Musumeci. Il quale già gli stava poco simpatico per le origini finiane, e come se non bastasse si è pure permesso di snobbare l’unico consiglio datogli a quattr’occhi quando si sono visti («senti a me, da amico: tagliati quell’orribile ridicolo pizzetto»). Il pizzetto non è stato rasato. E adesso che il centrodestra ha vinto, Belzebù si è presentato puntuale a riscuotere nelle sembianze di Giorgia Meloni, con gli occhi celesti e la chioma angelica, ricordando in mille interviste come Musumeci sia uomo non di centro ma di destra, anzi di destra-destra, un vero fascistone. 
 
E per battere i grillini sul loro terreno ce ne vorrebbero tanti col pizzetto alla Italo Balbo nelle candidature comuni al Sud, e tanti con la ruspa come Salvini al Centro-Nord, perché la guerra si vince nella trincea degli istinti primordiali: rabbia, insicurezza, protesta, paura.
 
Gli «smoderati» di Arcore 
Berlusconi è corso ai ripari proclamando, nel monologo su Fb rilanciato da qualche Tg, che la vittoria è «moderata», e il moderatismo «azzurro» è «la sola alternativa al pericolo che il Paese cada in mano al ribellismo, al pauperismo, al giustizialismo». Ce l’ha coi grillini, l’ex-premier, ma per sua disgrazia gli «smoderati» se li ritrova in casa. E se mai dovesse vincere, li porterebbe a Palazzo Chigi. Diventerebbe il loro Cavallo di Troia.
 
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« Risposta #389 inserito:: Dicembre 11, 2017, 05:54:58 pm »

Camere sciolte entro fine anno Ma Gentiloni non si dimetterà
Mattarella attenderà la fine dei lavori parlamentari, poi calerà il sipario
La data del voto dovrebbe essere il 4 marzo, resta l’incognita Ius soli
ANSA
Pubblicato il 10/12/2017 - Ultima modifica il 10/12/2017 alle ore 13:24

UGO MAGRI
ROMA

Ormai è chiaro che voteremo fra tre mesi, assicura Palazzo Chigi, per cui «una settimana prima o dopo che differenza fa?». E in effetti, come in un puzzle, i tasselli del fine-legislatura stanno scivolando tutti a posto. Pare certo che alle urne andremo il 4 marzo o al più tardi la domenica successiva. Il presidente della Repubblica non ha speciali preferenze, né sta mettendo fretta al Parlamento. Se le Camere volessero approvare qualche legge in extremis, per esempio lo Ius soli, Sergio Mattarella non starebbe lì col cronometro in mano. Aspetterebbe i giorni necessari, rendendo superflue eventuali pericolose scorciatoie tipo voti di fiducia cui, pare, nel Pd qualcuno starebbe pensando. L’importante è che la volontà politica sia seria e concreta: così si ragiona sul Colle. Altrimenti ricordarsi all’ultimo momento delle pratiche inevase diventerebbe un pretesto per allungare il brodo.

Ecco dunque il primo punto fermo: Mattarella si orienterà in base al calendario parlamentare. Salvo colpi di scena, il 22 o il 23 dicembre prenderà atto che la legislatura non ha più nulla da dire. Tenendola in vita, i nostri onorevoli resterebbero sfaccendati fino al 15 marzo: data in cui secondo Costituzione le Camere andrebbero comunque sciolte. Meglio abbreviare l’agonia. Passato Santo Stefano, ogni giorno sarà buono per ridare voce al popolo. Il 28 dicembre Gentiloni terrà la tradizionale conferenza di fine anno; quindi il giorno stesso (o l’indomani) riunirà un Consiglio dei ministri di “commiato”. Dopodiché non dovrà nemmeno dimettersi: anzi pare certo che a Camere sciolte il premier manterrà la pienezza dei suoi poteri, come del resto suggerisce una lunga lista di precedenti, iniziata con il VII governo De Gasperi (1953) e proseguita fino al Berlusconi ter (2006). Addirittura, in teoria, Mattarella potrebbe calare il sipario senza che Gentiloni nemmeno gli faccia visita, ma semplicemente dopo aver «sentito» i presidenti di Senato e Camera. Dati gli eccellenti rapporti, il premier sarà comunque ricevuto al Quirinale, come atto di cortesia e per fargli mettere nell’occasione la controfirma al decreto presidenziale di scioglimento. Le ultimissime dai piani alti suggeriscono che ciò avverrà entro la fine dell’anno. E poiché la Costituzione prescrive un massimo di 70 giorni tra decreto e elezioni, i conti sono facili: voteremo il 4 marzo, appunto, o al massimo domenica 11. 

Le dimissioni di Gentiloni arriveranno parecchio più tardi, dopo che le nuove Camere si saranno riunite, verso metà aprile. Ma se nessuna soluzione di governo verrà trovata, il premier resterà a disbrigare «gli affari correnti» per molti mesi ancora. Quanti? Nel libro «La presidenza più lunga», Vincenzo Lippolis e Giulio M. Salerno ricordano come per dar vita al governo Letta ci vollero 127 giorni. Per quello di Dini 123, per il primo di Andreotti ne furono necessari 121. Insomma: se disgraziatamente la crisi del dopo elezioni si rivelasse senza sbocco, e si dovesse votare nuovamente a metà ottobre, il governo Gentiloni potrebbe restare in carica fino a quella data senza bisogno di un voto di fiducia. E del resto, annotava un secolo fa Giuseppe Prezzolini, «in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio». Solo un premier precario da noi può durare a lungo.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/10/italia/cronache/camere-sciolte-entro-fine-anno-ma-gentiloni-non-si-dimetter-ogXEJdOOrUAi0Up0jru5YM/pagina.html
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