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Autore Discussione: UGO MAGRI  (Letto 200181 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Settembre 22, 2009, 11:51:12 pm »

22/9/2009 (7:16)  - RETROSCENA

Fini e Berlusconi, tregua d'interesse

Il premier Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini

Lo «scambio»: più peso nel Pdl per l'ex leader di An, più sostegno al governo su finanziaria e giustizia

UGO MAGRI
ROMA

Chissà se la padrona di casa ha riproposto la stessa celebre crostata che suggellò il patto delle riforme fra D’Alema e Berlusconi. Magari no, visto che portò male. Però di certo il pranzo a casa Letta, ospiti stavolta Fini e il Cavaliere, s’è concluso a tarallucci e vino. Volèmose bene. Non facciamoci del male. Silvio a Gianfranco: «Ma figurati se ti ho mai voluto mettere in un angolo... Ma come hai potuto pensare che proprio io volessi prescindere da te... Se credi a queste maldicenze io ci resto molto male...». Almeno a parole, il presidente della Camera non sarà più snobbato. Sarà reso compartecipe di tutte le decisioni politiche importanti. Si riprenderà per intero il ruolo di co-fondatore del Pdl perché (Gianfranco a Silvio) «ricordati sempre, il Pdl l’abbiamo fatto nascere in due, mica tu e basta».

Se il metro di giudizio sono le promesse, impossibile che il colloquio potesse avere un esito migliore. Uscendo dal quieto condominio di via della Camilluccia, il premier s’è cucito la bocca: «Non parlo» ha chiuso la saracinesca con i cronisti, ma qualcuno l’ha visto mostrare il pollice in su, tutto okay. E per telefono ai fedelissimi ha confidato trionfante di avere ottenuto il suo scopo «siamo andati d’amore e d’accordo su tutto, io taccio perché voglio che lo faccia sapere Fini, i problemi erano i suoi, da parte mia non ce ne sono mai stati». In effetti, dal giro della Camera vengono solo conferme: armonia pressoché totale. Anche su Vittorio Feltri. Berlusconi s’è professato ignaro degli attacchi, alla direzione del «Giornale» ce l’ha messo lui, è vero, ma per fare più copie e non per creargli problemi... Fini non ha insistito.

Certo i due conservano visioni diverse, impossibile passarci sopra. Tuttavia (per dirla con l’ufficiale di collegamento Italo Bocchino) sotto l’occhio apprensivo di Gianni Letta «è stato realizzato il migliore stato di avanzamento possibile nelle condizioni attuali», di più non si poteva pretendere. Consultazione permanente tra Berlusconi e Fini? Sarà fatto. Un argine alle pretese eccessive della Lega? Idem come sopra. Le cene con Bossi del lunedì? Verranno allargate a qualcuno che rappresenti la componente di Alleanza nazionale. Gli organi del partito? Si riuniranno regolarmente per discutere di politica...

Non occorre essere elefanti per ricordare che, di accordi del genere, i due ne hanno già stipulati una decina, salvo ritrovarsi a litigare. Bossi, perfido, prima dell’incontro: «Faranno la pace, c’è sempre stata...». Sempre Bocchino (reduce da un colloquio con Fini) mette le mani avanti, «ora bisogna passare dalle parole ai fatti, se sono rose fioriranno». «Certo che fioriranno», garantisce Bonaiuti, il portavoce berlusconiano. «L’incontro è andato bene davvero», ringhia il capogruppo Pdl Cicchitto. E stavolta qualcosa autorizza a credere che, per qualche mese almeno, il patto verrà onorato.

Quel «qualcosa» sono le prossime scadenze parlamentari. Berlusconi è in ansia. Se Fini non dà una mano vera, lui rischia i guai. Sulla Finanziaria (è di ieri il tentativo di «blindare» Tremonti: gli eventuali maggiori introiti dello scudo fiscale finiranno in un fondo a Palazzo Chigi, inutile strattonare il ministro). E poi sulla giustizia. La mente del Cavaliere è tutta proiettata sul «Lodo Alfano», sugli scenari che si apriranno se la Corte costituzionale, tra un paio di settimane, costringerà a rifarlo daccapo. Montecitorio diventerà più invivibile di Kabul, territorio di guerriglia e di agguati. Berlusconi sa benissimo che Fini, nella veste di presidente della Camera, avrà un peso altrettanto decisivo di quando, l’anno scorso, illustrò le motivazioni giuridiche per cui non poteva concedere il voto segreto sul contestatissimo provvedimento.

Ammesso che questo scambio ci sia (più peso a Fini nel partito uguale meno grane in Parlamento), sta tutto nella testa del Cavaliere. Inutile cercare conferme dal colloquio a casa Letta. E comunque tra poco, sussurra un autorevole esponente berlusconiano, «parleranno i fatti».

da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:27:23 pm »

9/10/2009 (6:50)

Fini e Schifani: "Lealtà tra istituzioni"

Berlusconi: eletto dal popolo, rispetto
 
I Presidenti di Camera e Senato al Quirinale: "Il Colle ha seguito con rigore la nostra Costituzione"

UGO MAGRI
ROMA

I risentimenti del premier (contro la Corte Costituzionale, contro i magistrati e contro lo stesso Napolitano) faticano a sbollire. Ma con il trascorrere delle ore fa progressi il tentativo di salvare, quantomeno, le apparenze. Ne sono protagonisti Fini e Schifani, presidenti delle due Camere. In veste di «pompieri», si sono recati insieme sul Colle. E dopo un’ora di conversari hanno dato atto al Presidente della Repubblica «del suo rigoroso rispetto delle prerogative che la Costituzione gli conferisce».

Sbaglia dunque il Cavaliere a sentirsi «preso in giro» da Napolitano: seconda e terza carica dello Stato mettono la mano sul fuoco che davvero il Presidente non poteva fare nulla di più del poco (o troppo, secondo Di Pietro) che ha fatto per tenere in piedi il lodo Alfano. Di suo Fini va oltre, Berlusconi sia più rispettoso del Colle e della Corte Costituzionale («È un suo preciso dovere», si sbilancia in un comunicato). Però poi lo stesso Fini, molto criticato da Bondi e difeso dal solo Augello, riconosce al premier «l’incontestabile diritto di governare». E la dichiarazione sottoscritta insieme con Schifani contiene l’«auspicio che tutti gli organismi istituzionali e di garanzia agiscano, in aderenza al dettato costituzionale e alla volontà del corpo elettorale, per determinare un clima di leale e reciproca collaborazione nell’interesse esclusivo della nazione».

Chi può dirsi contrario ad argomenti del genere? Non certo Napolitano. Ma nemmeno il capo del governo. Ciascuno ha la sue buone ragioni, certificano Fini e Schifani, l’importante è intendersi. Berlusconi sembra aver recepito. Incassa la solidarietà dell’ufficio di presidenza del Pdl, dove si teme un’offensiva giudiziaria in piena regola («Tiro al bersaglio», dice Bonaiuti). Riafferma a voce alta il diritto «ad essere rispettato in quanto eletto dal popolo». Ma ripone saggiamente nel cassetto l’idea che i più scatenati dei suoi gli proponevano: una grande manifestazione di piazza contro la Corte Costituzionale. Ed è già un passo avanti rispetto ai toni adrenalinici dell’altra sera, sfoderati durante il collegamento telefonico con Vespa, ripresi ieri mattina in un’intervista molto determinata al Gr1: «Andremo avanti con più grinta di prima, del resto senza il lodo abbiamo governato dal 2001 al 2006, continueremo a governare senza». Con quell’annuncio minaccioso («Esporrò al ridicolo i miei accusatori e farò vedere a loro e agli italiani di che pasta sono fatto»), ma soprattutto con il nuovo attacco al Capo dello Stato («E’ stato eletto da una maggioranza che non è più tale nel Paese, ed ha le radici della sua storia nella sinistra... Anche l’ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte Costituzionale dimostra da che parte sta»).

Napolitano c’è rimasto malissimo. Mancino, che gli fa da vice al Csm, illustra lo stato d’animo presidenziale, «la rozzezza delle accuse di Berlusconi questa volta non ha proprio un limite, escludo che tra le funzioni del Capo dello Stato ci sia quella di persuadere i giudici costituzionali». Però in fondo neppure Napolitano desidera la scazzottata, «se la lite qui finisce è meglio per tutti», sussurrano sul Colle. E’ una polemica che scopre il fianco del Presidente agli attacchi di Di Pietro. L’ex pm continua a rimproverargli di aver messo la firma al lodo. E insieme a quanto resta della cosiddetta sinistra radicale, coltiva l’idea di tornare in piazza per chiedere il voto anticipato, previe dimissioni del Cavaliere troppo impegnato a difendersi nei tribunali. «Fosse per noi del Pd», allarga le braccia Franceschini, «Berlusconi dovrebbe dimettersi tutti i giorni», ma chiederglielo è inutile, tanto non lo farà. Piuttosto il Cavaliere si guardi da nuove leggi «ad personam», se crede di aggirare la bocciatura del lodo Alfano «troverà un popolo capace di reagire». Non pare per ora questa l’intenzione del premier. Al quale Casini rivolge un consiglio «da membro dell’opposizione ma anche da amico di Berlusconi: lavori per il Paese, è stato eletto per questo. Dunque calma, calma, calma...». Le elezioni regionali sono dietro l’angolo.


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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 25, 2009, 06:03:03 pm »

25/10/2009 (7:58)  - RETROSCENA

Berlusconi furioso non cede al diktat di Giulio vice-premier

Il ministro scortato dai lumbard indispettisce Silvio.

Il Tesoro insiste: volete i soldi? Trovateli da soli


UGO MAGRI
ROMA

Il tiro alla fune continua, la corda rischia di spezzarsi. Da una parte Tremonti, dall’altra Berlusconi. Uno dei due dovrà abbassare le penne. Tre ore di discussione nella reggia di Arcore, alla fine un grande gelo. Già, perché fonti vicine al premier raccontano di un Cavaliere ai limiti della pazienza. L’errore capitale di Tremonti, sostengono, è di essersi presentato all’appuntamento con il premier «accompagnato dai suoi guardaspalle»: vale a dire insieme con Bossi e Calderoli. I quali in un primo momento non erano affatto previsti, il chiarimento doveva essere a tu per tu tra i due Indispensabili, Silvio e Giulio da soli, senza Umberto e Roberto. Invece eccoli pure loro intorno al tavolo nella veste di sponsor, a parteggiare per il ministro dell’Economia, a dargli conforto politico. La scena va vista nell'ottica di Berlusconi.

E’ la prima volta (forse l’ultima) che un «suo» ministro gli oppone resistenza facendo leva su Bossi. Tanto da farsene riassorbire e da diventare, ai suoi occhi, il quarto ministro del Carroccio. Nella mente irata del Cavaliere, Tremonti sta commettendo lo stesso peccato di superbia dell’Arcangelo che osò sfidare il Padreterno: il ministro dell’Economia si rivolta al presidente del Consiglio fino a rivendicare per sé un ruolo di contrappeso. Per la precisione da vice-presidente del Consiglio, se si dà retta al tam-tam che vuole Fini e l'intera nomenklatura Pdl fuori dei gangheri per questa richiesta in grado di rovesciare tutte le gerarchie celesti, che sarebbe stata avanzata (ma Tremonti nega) nel bel mezzo del pranzo. Berlusconi pare si sia ben guardato dal rispondere sì o no, limitandosi a prendere tempo e a compiere alcuni sondaggi dentro il partito, dall’esito scontatissimo: non c’è un solo gerarca favorevole alla promozione di Tremonti.

Berlusconi, si stracciano le vesti i fedelissimi, «se stavolta cede viene commissariato da Tremonti e dalla Lega, che gli impongono la linea». Nel vertice, il ministro dell’Economia è stato categorico: «Non esiste una strada diversa da quella che io sostengo», il rigore in chiave europea di cui si fa paladino «è senza alternative», dunque vietato insistere su tagli dell’Irap. Addio colpo d'ala in vista delle prossime Regionali. Sarà il Tesoro a decidere il come e il quando. «Non ce lo possiamo permettere, mancano i soldi, trovateli voi se siete in grado», è il semaforo rosso del super-ministro. La nota serale di Bonaiuti, che del premier è portavoce, rappresenta il «fixing» più onesto della giornata, il punto d’equilibrio molto provvisorio che è stato raggiunto. Visto il «niet» di Tremonti, prima si faranno le riforme a costo zero, cominciando da quelle della Costituzione, quindi semmai sarà la volta delle tasse e dell’Irap demandate alla seconda parte della legislatura.

Però si tratta di una fragile tregua, «potrebbe saltare da un momento all’altro», avvertono le fonti meglio al corrente. Risulta che Berlusconi si sia documentato, ieri mattina, sui 4 miliardi di euro improvvisamente «mollati» da Tremonti e da Calderoli alle Regioni, con grande soddisfazione di Errani e dei governatori di sinistra. «Ma allora i soldi ci sono!», risulta abbia tradito il suo sconcerto il premier: sulle richieste della Lega, che vanno nella direzione del federalismo, i denari saltano sempre fuori. I rubinetti si chiudono, viceversa, quando a battere di cassa sono altri ministri come la Gelmini (in stretto contatto con Draghi, l'anti-Tremonti) che si è vista bloccare la riforma universitaria. Quel che è peggio, non c’è una lira neppure per il presidente del Consiglio, il quale vorrebbe marcare il «cambio di fase», dalla crisi nera alla ripresa annunciata, con un po’ di ossigeno per le imprese. Verso sera, l'aria nel governo è irrespirabile. Chi parla con Capo, scuote la testa: «Comunque vada a finire, il suo rapporto con Tremonti ormai è al lumicino».

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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 26, 2009, 09:51:49 am »

26/10/2009 (7:51)

L'incognita Tremonti sul governo

Tornano le voci di dimissioni

UGO MAGRI


La vera incognita è cosa farà Tremonti. Lascia? Resta al suo posto? Le intenzioni del premier, invece, sono sufficientemente chiare: guadagnare tempo. Prendere qualche giorno prima di rispondere all’ultimatum del suo ministro che, secondo la versione accreditata ai vertici Pdl, avrebbe posto al Cavaliere un aut-aut, «o divento vice-premier oppure me ne vado». Berlusconi non è in grado di dirgli sì. Avrebbe la sollevazione dell’intero partito, dove non c’è uno solo dalla parte di Tremonti. Tuttavia nemmeno è in condizione di sbattergli la porta in faccia, perché la Lega sostiene a spada tratta il ministro e manda segnali minacciosi. Dunque, Berlusconi adotta la tattica del troncare e sopire. Chi gli ha parlato ieri, racconta un premier parecchio prudente. Non si pone più come controparte del ministro ribelle, bensì come mediatore nel braccio di ferro tra Giulio e il partito. Dunque oggi riceverà ad Arcore la trojka dei coordinatori, Bondi-Verdini-La Russa. Ma non prenderanno decisione alcuna. Dovrebbero limitarsi, secondo quanto filtra, a convocare un ufficio di presidenza, sede istituzionale dove dirimere le beghe interne. Nel frattempo, il Cavaliere avvierà la sua opera di persuasione. Da una parte metterà la museruola a quanti, tra i fedelissimi, nei giorni scorsi avevano addentato i polpacci del Professore.

Tremonti gli ha sottoposto un intero dossier con tutti gli attacchi ricevuti dal «fuoco amico», cominciando dal «Giornale» per finire alle controproposte di politica economica circolate sui «blog», dietro le quali il Professore intravvede la sagoma dei vari Sacconi, Brunetta, Baldassarri e Matteoli che dice: «Abbiamo bisogno di soluzioni non di nuove poltrone». Basta, dirà a tutti Berlusconi, Giulio è il migliore. Nello stesso tempo, però, chiederà a Tremonti di essere più flessibile, perché pure il partito ha le sue ragioni, e comunque l’ultima parola (come segnala Quagliariello) spetta pur sempre al premier. Il quale ha in mente, secondo il portavoce Pdl Capezzone, un cambio di passo sull’economia. Taglio dell’Irap e non solo: anche quoziente familiare, e poi riduzione dell’Irpef a due sole aliquote, suo antico pallino... Il Cavaliere proverà a convincere Tremonti che la carica di vice-premier non gli aggiungerebbe nulla, in fondo già guida da solo quattro ministeri (Tesoro, Finanze, Bilancio e Partecipazioni Statali) e gode di un potere immenso. Di cedere su questo punto, non ci pensa nemmeno. E’ il passaggio più delicato. Se le intenzioni attribuite a Tremonti fossero vere, dovremmo attenderci le sue dimissioni. Difatti un tam-tam incontrollato sostiene che potrebbe darle addirittura già oggi, con Berlusconi pronto a chiamare in campo al suo posto il governatore di Bankitalia, Draghi. Palazzo Chigi fa gli scongiuri. Però il fatto stesso che circolino queste voci, la dice lunga sull’aria che tira. Dove Tremonti è in urto praticamente con tutti. Ha litigato con Fitto e Scajola, con Gelmini e Prestigiacomo, ha fatto arrabbiare Bondi e perfino Letta.

Nello stesso tempo, però, il premier sa bene che senza Tremonti si aprirebbe una crisi devastante con la Lega. Calderoli è quasi irridente: dare il ministero dell’Economia a Draghi? «Un tecnico durerebbe quanto un gatto sull’Aurelia», dunque assai poco. E Berlusconi, avverte Calderoli, non si illuda di mettere tutti in riga con la pistola del ricorso alle urne: «Più che il rischio di elezioni anticipate», taglia corto, «c’è quello di governicchi». Che non sarebbe Berlusconi a guidare. E lui lo sa.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 31, 2009, 10:59:44 am »

31/10/2009 (7:28)  - RETROSCENA

Berlusconi apre ma spera che l'Europa lo bocci

In gioco la poltrona di Tajani

UGO MAGRI


Al cospetto dell’Europa rischia di andare in scena la più classica commedia degli equivoci, con finale esilarante. Già, perché di intenzioni serie dietro le quinte non se ne vede, semmai si assiste a una gara di furbizie in cui per ora vince D’Alema (ma con Berlusconi non si sa mai). Tutto nasce nei giardini di Villa Madama, due settimane fa. C’è un convegno su Fiumicino e Malpensa, Gianni Letta parlotta con l’ex ministro degli Esteri, poi gli fa stringere la mano al Cavaliere, pace fatta dopo mesi di insulti, ed è già una notizia. Salta fuori adesso che l’oggetto dei conciliaboli era proprio l’ipotesi di «Baffino» capo della diplomazia europea. Qualche giorno dopo, stavolta ad Asolo, D’Alema ci torna su con Fini. Il presidente della Camera vede uno spiraglio per una ripresa del dialogo sulle riforme, auspicata pure sul Colle. Ne ragiona col solito Letta e con lo stesso Berlusconi. Il quale peraltro, con chi gli parla ieri mattina, risulta combattuto nell’intimo, incapace di scegliere tra il sì e il no. Finché D’Alema rompe gli indugi. E verso l’ora di pranzo chiama Palazzo Chigi, «insomma che avete deciso? I giochi stanno entrando nel vivo...».

Letta si precipita ad avvertire il Capo, sempre alle prese con la scarlattina. Berlusconi vorrebbe traccheggiare, però il Consigliere gli fa presente che qualcosa dovrà pur dire comunque, magari un’apertura molto cauta, in perfetto stile Prima Repubblica, così nessuno potrà accusare il governo di aver negato all’Italia un’ipotesi talmente prestigiosa, quella di avere appunto il responsabile della politica estera europea. Il comunicato che segue è un piccolo capolavoro di ipocrisia, allude senza impegnarsi. Ma non fa i conti con quel grandissimo paravento di D’Alema. Che ruba il mestiere al portavoce di Palazzo Chigi, Bonaiuti, e dà lui l’interpretazione autentica, «grazie al governo per la candidatura», come se il caro Silvio l’avesse davvero avanzata. Peccato che in serata, al telefono da Arcore, il premier risulti tuttora in dubbio: «Non ho promesso un bel niente» giura a un amico, «figurati se posso proporre io D’Alema, e poi tutta questa disponibilità socialista a sostenerlo non mi risulta affatto, anzi il contrario, ci penserà l’Europa a bocciarlo...». Come sempre in questi casi, il mondo berlusconiano si spacca come una mela. E invece di aiutare il leader nella sua scelta, i suggeritori gli confondono ancor di più le idee. Su un piatto della bilancia c’è l’ovvio desiderio di metter fine alle demonizzazioni reciproche, tra l’altro segretario Pd è appena diventato Bersani, tutto congiura per il cambio di fase.

Un gesto generoso e patriottico aprirebbe un credito politico a favore del Cavaliere. Campa cavallo, obiettano i nemici di D’Alema, quando mai Massimo si è dimostrato grato? Mai fidarsi degli ex comunisti dalla lingua biforcuta. Insistono i fautori, anche autorevoli, del «via libera»: se dialogo dovrà essere col Pd, caro Silvio, molto meglio che lo conduca tu direttamente con D’Alema, sennò a tessere la tela saranno altri, magari Fini, oppure Bossi, e ti taglieranno fuori. L’argomento non lascia insensibile Berlusconi, uomo sospettoso. Però al tempo stesso molto concreto. Per insediare D’Alema, dovrebbe privarsi di un commissario europeo fedelissimo come Tajani. Che non solo gli cura dossier importanti tipo Alitalia, ma gli fa pure da sentinella contro eventuali blitz anti-Mediaset. A quel punto il Cavaliere resterebbe nudo a Bruxelles dove l’ambasciatore Feroci, ricordano nei Palazzi, fu già capo di gabinetto con D’Alema ministro. Sarebbe come mettersi due volte nelle sue mani.

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« Risposta #35 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:17:38 am »

5/11/2009 (8:17)  - RETROSCENA

Giustizia, nuovo piano salvapremier

Il premier ieri all'Aquila è tornato a parlare di riforme per rafforzare l'esecutivo
   
Il Cavaliere vuole per iscritto il sostegno degli alleati prima delle candidature.

E intanto corteggia Casini

UGO MAGRI
ROMA


Par di sentirlo, il Cavaliere, mentre con voce flautata annuncia via telefono a Casini: «Sappi, carissimo, che per incontrare prima te di loro ho appena rinviato la cena di stasera con Bossi e Fini...». Mai corteggiamento politico fu più appassionato. E non solo per via delle Regionali, con l’Udc «ago della bilancia», in grado di farla pendere o di qua o di là (proprio ieri Casini ha visto Bersani, e l’esito del faccia a faccia non è stato fantastico). C’è qualcosa di più nell’insistenza con cui Berlusconi insegue i centristi, e quel qualcosa ha parecchio a che vedere con il suo stato d’animo tornato gonfio d’irritazione nei confronti degli alleati. Volendo attingere alle sue confidenze con gli amici, basterebbe affondare le mani. E si raccoglierebbero sfoghi apocalittici della serie «non ne posso più, qui è impossibile governare», con minacciose promesse di portare tutti quanti alle elezioni anticipate nella prossima primavera, altro che Regionali...

L’umore è quello, tipico, che precede i colpi di testa. Casini, da autentico professionista, l’ha capito al volo. Domani si vedranno a Palazzo Chigi, ed è certo che il premier non si limiterà a parlargli del Piemonte e del Lazio, della Puglia e della Campania, ma tenterà di allargarsi, di sondare l’Udc su un possibile nuovo inizio, perché la bizzarria del destino è tutta qui: rotta l’alleanza con i centristi a causa dei loro continui «distinguo», Berlusconi è piombato dalla padella nella brace. Adesso deve dire sempre di sì alla Lega; gli tocca esercitare la propria pazienza con Fini, il quale obietta su tutto, e in particolare su ciò che il Cavaliere più di ogni altra cosa desidera: la soluzione definitiva ai suoi guai con la giustizia, l’arma finale contro i processi che lo inseguono.

Chi sta molto vicino al premier la vede così: «Berlusconi è stufo di essere spremuto come un limone dai suoi cari alleati. I quali vogliono, pretendono, ma gli concedono in cambio solo chiacchiere. Alla prescrizione dei suoi processi lui può arrivare con vari escamotages, ma lo fa impazzire l’idea che gli venga negato il diritto di governare in pace...». E’ il suo chiodo fisso, ormai. E allora, spiegano in via del Plebiscito, «Silvio ha deciso di dire basta, vuole mettere le carte in tavola. La Lega reclama il Veneto? Fini chiede il Lazio? Se lo devono meritare. Il vertice dove erano sicuri di incassare, senza nulla restituire in cambio, slitta perlomeno di una settimana».

Risulta in queste ore un frenetico lavorio per mettere a punto una proposta di legge che faccia le veci del Lodo Alfano. Niente a che vedere con la prescrizione breve («ghedinate», le liquida un ministro coinvolto in prima persona nella redazione del testo), ma qualcosa cui stanno lavorando le menti più creative del governo, si vocifera addirittura di Tremonti: una proposta che sia possibile difendere alla luce del sole, su cui né Fini né la Lega possano nutrire imbarazzi. Pare tragga ispirazione dalla «legge Pinto» che prevedeva, quando fu proposta, un equo indennizzo a chi subisce processi troppo lunghi. Servirà qualche giorno per rifinire la bozza. Quindi Berlusconi riunirà gli alleati, pretenderà un sì o un no definitivo. Magari per iscritto. E solo un attimo dopo la trattativa sulle Regioni entrerà nel vivo.

Casini, in tutto questo, che c’entra? Se domani Berlusconi lo aggancia con le lusinghe o con le minacce (nuova legge sulla «par condicio» televisiva), nessuno dei suoi alleati è più indispensabile. «Non sono ricattabile», aveva fatto sapere due giorni fa. Ieri ha aggiunto: «Una maggioranza è compatta, se no non è più tale...». Ognuno interpreti queste parole come meglio crede.

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« Risposta #36 inserito:: Novembre 10, 2009, 09:40:01 am »

10/11/2009 (7:21)  - RETROSCENA

Giustizia, Fini e Berlusconi ancora lontani

Alta tensione sulla bozza tra i due leader Pdl


UGO MAGRI
ROMA

La trattativa sulla giustizia è a un punto morto, i mediatori tra Berlusconi e Fini hanno fallito, tutto dipende dal faccia a faccia tra i due, stamane alle 9 e mezza. L’esito tocca personalmente molti italiani. Si discute infatti la sorte di 600 mila processi: entusiasmo tra gli imputati se la spunterà Silvio. Sollievo delle parti lese, se avrà la meglio Gianfranco.

I due concordano sul principio ispiratore: i processi debbono avere una «ragionevole» durata. La riforma in gestazione fisserà un limite massimo di 6 anni, poi sul processo calerà la mannaia. In più verranno previsti dei «tetti» biennali corrispondenti a ciascun grado di giudizio. Fini ha il dubbio che la Consulta possa mettersi di traverso, come già è capitato al Lodo Alfano. Però qui vince la ragion di Stato: prima che la Corte costituzionale decida, passano altri dodici mesi. Nel frattempo addio processo Mills, addio anche alle inchieste Mediaset che riguardano il Cavaliere, finalmente libero dalle sue pendenze.

Secondo i finiani, Berlusconi dovrebbe dirsi già molto soddisfatto. Invece no. Il suo avvocato (Ghedini) si sta battendo per introdurre pure la «prescrizione breve»: verrebbe sforbiciato di un quarto il tempo che occorre a mandare in archivio i reati, perlomeno quelli meno gravi. Dove sta l’interesse del premier? Sarebbe messo al riparo non solo dalle inchieste passate, ma pure da quelle future che dovessero scaturire dai soliti filoni milanesi. E’ come se venisse apposto il timbro «scaduto» su tutti i fascicoli che lo riguardano. La stessa regola, si capisce, varrebbe per gli altri 600 mila processi in corso. Secondo la Finocchiaro (Pd) sarebbe un’«amnistia mascherata». Il Pd, confermano Letta e Bondi, sparerebbe a palle incatenate. Fini punta i piedi. Ne fa questione di principio. Battaglia anche sull’ultimo codicillo che il Cavaliere vuole introdurre. Se si dà retta ai finiani, sarebbe una norma a vantaggio esclusivo di Mediaset. Che subì dieci anni fa un mega-accertamento fiscale con relativa multa. L’idea ora è quella di liberarsene con un’oblazione del 5 per cento. «Questo è davvero troppo», protestano dalle parti di Fini. Un macigno sulla via dell’intesa.

Nei programmi del Cavaliere c’era di calare a Roma domani, con calma. La strenua resistenza dell’alleato lo costringe ad anticipare l’arrivo (già questo lo maldispone). Si aggiunga che Berlusconi è molto irritato dalle parole di Fini l’altra sera su RaiTre. Non gli va già quella battuta, «il Pdl non è una caserma», unita all’altra («un leader non è il monarca assoluto»). L’ha entusiasmato invece un commento sul «Foglio», dove Ferrara sostiene che a decidere chi governa dev’essere il popolo, non le procure della Repubblica. Di sicuro Berlusconi non si presenterà all’incontro con tono dimesso. Il partito delle elezioni anticipate ieri sera guadagnava nuovi adepti. Chi scommetteva sulla rottura senza rimedio, e chi su un soprassalto di buonsenso.

da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:16:34 am »

11/11/2009 (7:5)  - RETROSCENA

"Meglio se ti accontenti"

E il premier si convince

Moral suasion del presidente della Camera: «Non possiamo rischiare»

UGO MAGRI
ROMA


C’è il Berlusconi che urla strepita minaccia. Quello che «se mi rendete impossibile difendermi allora è meglio andare alle urne», che la butta sul piano sgradevolmente personale, che tira in ballo la fiducia mal riposta e l’ingratitudine. Secondo certe ricostruzioni del suo colloquio con Fini, la recita del «Berlusconi furioso» è andata in scena per non più di quindici minuti, altri sostengono invece mezz’ora. Poi però il personaggio ha cambiato copione. Pragmaticamente ha preso atto della realtà che il presidente della Camera, senza toni ostili, gli ha fotografato. E la realtà coincide con il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Disco verde alla «ragionevole durata» dei processi, semaforo rosso alla «prescrizione breve». Spintarella finale nel burrone ai due processi (Mills e diritti televisivi) peraltro già quasi prescritti.
Nessuno scudo per il premier contro le inchieste future, il suo conto con la giustizia rimane aperto, la «caccia all’uomo» continua. Inesorabile.

Vista con gli occhi dei «falchi» sconfitti, di coloro che nei giorni scorsi avevano additato in Fini il nemico da battere, siamo all’eterna Incompiuta.
Un po’ sorpresi dal Capo, increduli che sia tornato dal colloquio con un pugno di mosche. Agli occhi delle «colombe», invece, l’intesa è un passettino avanti, meglio l’uovo oggi. Bisogna accontentarsi. E se un domani dovessero partire da Milano o da Palermo nuovi siluri giudiziari, in quel momento si provvederà, ora è inutile fasciarsi la testa. Berlusconi sembra più deluso che rassegnato. Sperava di meglio. Dopo l’incontro niente dichiarazioni, solo una battuta poco convinta («è andata bene...»), poi fuga a Milano, giù le saracinesche. Quanto ce l’abbia con Fini, è arduo dire. Chi li ha visti mentre si congedavano assicura che i volti erano sereni, «ciao Gianfranco, allora ci rivediamo», «certo Silvio, e a presto». Qualunque cosa si siano urlati poco prima, solo Gianni Letta può saperlo, unico testimone del match nello studio di Fini a Montecitorio.

La sostanza però si conosce.

Dopo la sfuriata iniziale del premier, il presidente della Camera ha calato i suoi assi. «La mia lealtà», ha giurato, «è fuori discussione. Sono pronto a darti una mano perché la persecuzione nei tuoi confronti è innegabile, l’ho pure detto in tivù. Ma noi dobbiamo scegliere la strada del minor danno». Ciò che Fini ha provato a spiegare, raccontano i suoi, si riassume nella differenza che corre tra desiderio e realtà. Un conto è sognare a occhi aperti, altra cosa metterlo in pratica. Chiedere troppo sulla giustizia significa, caro Silvio, sollevare un putiferio e non ottenere nulla. Una prescrizione breve Napolitano non la permetterà mai, sotto quel provvedimento la controfirma è del tutto esclusa. Così come si illude chi pensa che il Presidente scioglierebbe le Camere su schiocco di dita del premier.

Non funziona così. Già sarà tanto, ha argomentato Fini mentre Letta annuiva, se Napolitano chiuderà un occhio sulla regola dei sei anni, termine massimo per chiudere i processi. Ci sarebbero mille dubbi di costituzionalità, quando verrà giudicata dalla Consulta magari farà la fine del Lodo Schifani prima e del Lodo Alfano poi, però intanto portiamo a casa quello che si può. «E se ti copro io, è più facile che il Presidente della Repubblica metta la firma». Un inno alla ragionevolezza. Il Cavaliere non ha più obiettato. Perciò gridano vittoria i finiani della Camera e quelli del Senato. Che sostengono di avere evitato a Berlusconi una figuraccia.

Addirittura, di avergli regalato sulla giustizia un progetto più ampio della pura sopravvivenza.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:13:24 am »

18/11/2009 (7:9) - RETROSCENA

E in serata Berlusconi prende le distanze
 
Smentita di Palazzo Chigi, ma tutti danno per certo l’ordine del premier

UGO MAGRI
ROMA

Tutti, nel giro che conta, danno per certa la telefonata del Sommo Capo. Il quale avrebbe ordinato personalmente a Schifani di intimidire Fini con la minaccia di elezioni anticipate, a seguito delle quali il leader di An resterebbe senza più poltrona, così impara. E il presidente del Senato si sarebbe messo a disposizione con zelo... Questa la ricostruzione più in voga, seguita a ruota dall’altra che estende il messaggio ai giudici, guai se da Palermo qualche pentito lanciasse accuse infamanti sul premier, o se a Milano si riaprisse il vaso di Pandora delle tangenti: l’ultima parola tornerebbe al popolo.

Palazzo Chigi però smentisce, e lo fa nella maniera più perentoria. Bonaiuti giudica addirittura «offensivo che qualcuno possa immaginare un input di Berlusconi alla seconda carica dello Stato». Se davvero è stato lui l’ispiratore, ma il suo portavoce giura di no, sta di fatto che il Cavaliere innesta la retromarcia. Al massimo si è trattato di un ballon d’essais. E comunque, un diretto testimone della vicenda è pronto a giurare che l’attacco lancia in resta di Schifani contro Fini nasce per davvero dai mediocri rapporti tra i due: il presidente del Senato se l’è concepito da solo durante il viaggio in aereo da Palermo a Roma. Anzi, una prima stesura della dichiarazione strombazzata più tardi dal suo ufficio stampa era perfino più veemente, molto poco istituzionale, per cui è stata riveduta e corretta già prima di mettere le ruote a terra.

Quale che sia la verità vera, l’immagine al Paese è di una maggioranza in piena crisi epilettica. Il solo fatto di evocare elezioni anticipate costituisce un regalo politico a Bersani, incredulo di tanta buonasorte. Anche qui, non è un caso che il solito Bonaiuti tenti di gettare acqua sul fuoco, «alle elezioni il presidente del Consiglio non pensa affatto, sono tutte ipotesi legittime ma prive di fondamento...». Si diffonde la «sindrome del bordello», definizione popolaresca di Verdini, coordinatore nazionale Pdl.
Tutti vanno a ruota libera, e ne nasce un vociare sgraziato. Il lungo silenzio di Berlusconi alimenta gli equivoci: in mancanza di direttive chiare, chiunque si sente legittimato a interpretare il «verbo». Parli con i falchi, e ti danno per certo che «Silvio ha deciso, o Fini piega la testa oppure si vota a marzo».
Bussi dalle colombe, e scuotono la testa, «Berlusconi non è così matto, le elezioni sono un rischio mortale, lui lo sa bene».

Aggiungono che «Fini fa rima con Dini», anche nel ‘94 il Cavaliere aveva chiesto di andare alle urne ma non c’era riuscito perché l’ultima parola spetta sempre al Quirinale, Napolitano non dà maggiori garanzie di Scalfaro. Né funzionerebbero gesti estremi, come le dimissioni in massa dei deputati di centrodestra cui qualche «pasdaran» vagheggia come al martirio.

Il Cavaliere ancora non ha deciso. Chi parla con lui riferisce giudizi terribili sull’ex-amico Gianfranco, la rottura sembra irrimediabile, quantomeno sul piano personale. Berlusconi non sopporta che Fini tenga «il piede in due staffe, ha voluto l’incarico istituzionale di prestigio ma adesso pretende di dettare legge nel partito, o l’una o l’altra cosa». Circolano leggende sull’umor nero del premier che la notte non dorme, assediato dagli incubi familiari (il divorzio, i figli, le liti sul patrimonio) e dunque si sveglia irascibile come mai i fedelissimi l’avevano visto in passato. Ieri aveva la testa tutta presa dagli incontri internazionali, in fondo trattare coi capi di Stato è l’attività che più lo appaga. Oggi tornerà sulla terra, vedrà i proconsoli, studierà i dossier, sviscererà i sondaggi. Se desse retta ai famosi consulenti americani, non avrebbe dubbi: al voto, al voto. Le elezioni sarebbero una pura formalità, già vinte in partenza, questo gli dicono dall’altra sponda dell’Oceano.

Però Berlusconi vuol sentire cosa ne pensa la sua guru in materia, Alessandra Ghisleri. Gli hanno detto che il Pd cresce, lui vuol sapere come stanno le cose.

Con Bersani in ascesa, le urne sarebbero una roulette. E poi gli interessa capire quanto vale Fini agli occhi degli elettori: due o tre punti percentuali secondo certe stime, meglio accertarsi bene prima di compiere gesti politici irreparabili.

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Novembre 20, 2009, 03:29:11 pm »

20/11/2009 (7:15)  - RETROSCENA

Al Senato prove di dialogo su tutto, esclusa la giustizia

Marcia indietro del presidente del Senato Renato Schifani: «Siamo coesi, si va avanti»
   
Il 2 dicembre mozione bipartisan sulle riforme

UGO MAGRI
ROMA

Bersani prende coraggio e fa un passo che gli provocherà attacchi da Di Pietro, nonché accuse di «inciucio»: autorizza Anna Finocchiaro, capogruppo in Senato, a trattare con le destre sulle riforme costituzionali. E a stilare tutti insieme una lista di quelle più urgenti, dopodiché se ne potrebbe iniziare praticamente subito l’esame in commissione.

Questo elenco verrebbe scolpito sotto forma di solenne mozione comune, con tanto di firma in calce del Pd, del Pdl, dell’Udc e della Lega. E’ già fissata per il 2 dicembre la seduta del Senato in cui la mozione verrà discussa. Poi non è detto che ci si arrivi davvero. Magari nei prossimi giorni l’idea farà naufragio. Anche perché il Pd vorrebbe discutere esclusivamente quanto già stava nella famosa «bozza Violante» (riduzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo, Senato delle autonomie) laddove il capogruppo Pdl Gasparri sta tentando di infilarci non solo la «forma di governo», cioè l’elezione diretta del premier, ma pure il tema-giustizia.

Che porta con sé i processi del premier e i suoi tentativi disperati di cancellarli con qualche legge «ad personam». Se la maggioranza insiste (per Cicchitto riforme e giustizia sono «come due binari, se si divaricano il treno deraglia»), finisce che non se ne fa più nulla. Per evitare equivoci, Bersani sceglie una strada astuta: pone come condizione che Berlusconi si rimangi il «processo breve». Sa già la risposta, «non se ne parla nemmeno». Semmai la discussione in corso da quelle parti è se il processo breve sarà sufficiente a salvare il Cavaliere dai magistrati.

Tra i «pasdaran» berlusconiani c’è addirittura chi spinge per qualche ulteriore marchingegno giuridico perché il processo breve non basta (ma Bonaiuti, interpellato, nega che la mente creativa di Ghedini sia all’opera in tal senso). Dunque niente giustizia nella mozione del 2 dicembre. Il Pd sarà attaccato lo stesso da quanti dicono che «con Berlusconi non si tratta mai e su nulla, per principio». In compenso Bersani mette il cappello sulle riforme possibili. Spezza le catene che lo fanno apparire prigioniero politico di Di Pietro. Lancia un amo allettante ai centristi moderati. Offre una sponda tatticamente utile alle rare «colombe» della maggioranza.

E non è un caso che il passo sulle riforme, benedetto dal presidente della Repubblica, applaudito da Schifani, sia stato concordato riservatamente nei giorni scorsi con Gianni Letta. Vale a dire con il protagonista immancabile di tutte le transazioni. Vuoi che Letta non ne abbia parlato con Berlusconi? Il Cavaliere, scettico, pare gli abbia dato via libera, «proviamoci», dialogare con l’opposizione male non fa. Anche perché il suo vero cruccio rimane la maggioranza.

La minaccia di elezioni è rinfoderata tanto che Schifani, il quale si era spinto parecchio avanti sulla linea del Capo, ne prende atto: «La maggioranza è coesa, come dice il premier, per cui si va avanti senza il voto». Eppure sarebbe eccessivo parlare di pace con Fini. Chi va a trovare Berlusconi continua a raccogliere sfoghi furiosi contro i giudici, contro Veronica («Vuole portarmi via quello per cui ho lavorato tutta una vita») e contro il presidente della Camera, fonte di grande amarezza. Al massimo tra i due, precisa chi frequenta il premier, ci si può attendere una tregua armata. Gli scontri sono sospesi, ma potrebbero riprendere da un momento all’altro.

da unita.it
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 24, 2009, 06:12:11 pm »

24/11/2009 (7:23)  - RIFORME - MURO CONTRO MURO

Giustizia, Berlusconi pensa a un proclama

Ma Bonaiuti smorza i toni: non ci sarà nessun appello tv

UGO MAGRI
INVIATO A DOHA


E’ più forte di lui: non appena vede i giornalisti, ormai Berlusconi s’incupisce, gonfia il collo, contrae la mascella. Niente più battute scherzose tipo «sempre in giro a divertirvi, eh?», adesso solo fastidio per le domande che lo riportano inesorabili alle beghe italiane.

Questi malumori sono premessa indispensabile per intendere certe sue battute smozzicate, equivoche sulla giustizia, rimbalzate dal Qatar a Roma nel bel mezzo dello scontro tra il Guardasigilli e i magistrati sul «processo breve». Qualcuno le legge come l’annuncio di imminenti proclami al Paese, il Cavaliere che si presenta in televisione a reti unificate, oppure fa irruzione in Parlamento e da lì tenta l’ultima delle forzature...

Magari c’è anche questo, nella mente del premier, chi può escluderlo? L’uomo si sente braccato. E’ ai confini della sopportazione. Il suo amico produttore del cinema Tarek Ben Ammar, che nel viaggio in Arabia lo segue passo passo, ne interpreta lo stato d’animo: «Provate a mettervi nei suoi panni, invece di essergli riconoscenti lo attaccano da tutte le parti, chiunque al suo posto reagirebbe allo stesso modo». Per non dire della sfera privata con il divorzio di Veronica, e le liti tra i figli, e la divisione del patrimonio, e niente più feste con Apicella, e addio weekend in Sardegna, «mi hanno perfino tolto il piacere di coltivare le piante grasse», protesta con i fedelissimi il premier. La frustrazione si aggrava quando Silvio si muove all’estero.

Riverito come una rockstar (tale lo proclama beffarda la rivista-cult «Rolling Stones» per la sua vita sopra le righe) prima a Gedda poi a Doha, l’altra sera cena col Re, ieri con l’Emiro, consultato come un guru delle cose mondiali, portato in barca ad ammirare l’isola artificiale che qui stanno costruendo a tempo di record per farci su un quartiere di grattacieli e centinaia di negozi (quanta invidia del Cavaliere, «sembra davvero di stare dall’altra parte del mondo rispetto all’Italia dove permangono difficoltà per operare e costruire»).

Tutto gli sembra così scintillante e dinamico. Finché, appunto, torna in hotel e si trova davanti i cronisti. Smorfia del premier. Domanda su Brunetta che accusa Tremonti. «Non c’è nulla di meno che quieto», prova a minimizzare, «è l’esternazione di un ministro, rimane nell’ambito di una dialettica che meglio sarebbe se fosse soltanto interna...». Domanda numero due sull’opposizione che lo attacca, «a loro io non rispondo mai», fa per andarsene e arriva il quesito sulla giustizia. «Non voglio parlare di queste cose», sbuffa: «Ci sarà il momento più opportuno per spiegare agli italiani qual è la situazione in cui siamo».

Rullo di tamburi, il Cavaliere prepara il proclama... Se però fa fede il portavoce del governo, Berlusconi non ha in mente alcun appello televisivo. Bonaiuti lo nega categorico, informa che la strada maestra rimane il «processo breve», Alfano ci sta lavorando sodo, il premier l’ha sentito al telefono da Doha, tutto procede come previsto, non c’è motivo alcuno per alzare i toni. Per fare il diavolo a quattro c’è sempre tempo, specie se Napolitano negherà la promulgazione, ma adesso è presto: tra qualche mese si vedrà.

E per «spiegare al Paese» magari basterà un semplice «Porta a porta». Un’ora di confronto Come anticipato dal Presidente della Repubblica, e auspicato del presidente del Senato, si è svolto ieri un colloquio al Quirinale tra Napolitano e Schifani. Il «faccia a faccia» risolve così l’incidente generato dalle parole di Schifani della settimana scorsa: «Senza maggioranza, si va al voto» aveva detto l’inquilino di Palazzo Madama, paventando elezioni anticipate. Napolitano, in trasferta in Turchia, disse che non era «ossessionato da un incontro con Schifani, ma che tornato a Roma avrebbe valutato».

E così ieri il colloquio durato un’oretta, nel corso del quale Napolitano ha riaffermato le proprie prerogative, anche in materia di scioglimento delle Camere. Per il resto, le due cariche istituzionali hanno parlato di giustizia, anche se brevemente visto che il testo sul processo breve giace ancora in Parlamento, e di riforme. Napolitano e Schifani hanno discusso a lungo sul calendario dei lavori del Senato di fine anno ed entrambi hanno molto apprezzato il clima bipartisan che ha accompagnato la decisione di incardinare e far ripartire a breve in Senato il lavoro sulle riforme, con priorità per quelle condivise fra maggioranza e opposizione.

da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Novembre 28, 2009, 03:41:07 pm »

28/11/2009 (7:22)  - UN VENERDI' DI PASSIONE

La lunga giornata del premier

Dopo le voci, arriva la smentita
   
Berlusconi disdice gli impegni Bonaiuti: «Nessun avviso di garanzia»

UGO MAGRI
ROMA

Somma è l’agitazione intorno al premier per l’avviso di garanzia: arriva, non arriva, forse sta viaggiando dalle procure anti-mafia... L’entourage del premier è sommerso dalle telefonate, il picco intorno alle tre del pomeriggio quando si diffonde la notizia che Berlusconi non va più a L’Aquila, rinuncia all’ennesima passerella davanti alle telecamere perché lo bloccano non meglio precisati «impegni istituzionali». Che sarà mai? Una convocazione sul Colle da parte di Napolitano? Escluso. I rapporti tra i due sono così freddi, talmente gelidi che perfino Letta viene informato del monito presidenziale quando già lo conoscono tutti.

Né si può dire che Berlusconi prenda bene quell’invito salomonico alla calma, perché «i toni dovrebbero abbassarli per primi i magistrati che mi attaccano in televisione, io di mafia mi sono occupato solo per storielle», di cui ha dato un saggio raccontandone alcune a una cena con degli imprenditori.

No, nessun impegno istituzionale. Ecco spargersi dunque la voce, sempre più eccitata, dell’avviso di garanzia: il Cavaliere asserragliato nel bunker di Palazzo Grazioli perché non sa che pesci prendere, è lì coi suoi avvocati che studia la strategia... Alle sette di sera Bonaiuti interviene, «escludiamo nel modo più deciso che sia in arrivo un qualsiasi atto correlato alle indagini di Firenze e Palermo. Non esiste. È fin troppo facile smentire ciò che non c’è» assicura il portavoce (il che non esclude un’iscrizione nel registro degli indagati per mafia). Pare ci siano state delle verifiche, si sarebbe mosso Ghedini, lo stesso avrebbe fatto il ministro Alfano ricevendo smentite dalle procure che contano, notizie di grande sollievo per il Cavaliere sulle spine. Tanto che a sera chi gli parla lo trova di buon umore, quasi pimpante. C’è però chi, ai vertici del partito, non sembra altrettanto ottimista. Cicchitto, ad esempio, diffida per principio. E tanti come lui pensano che qualche agguato si sta preparando, «se non è oggi sarà domani, il circo mediatico-giudiziario non molla certo la presa».

Nel qual caso la reazione del premier sarebbe violenta, disperata. Pretenderebbe una difesa a spada tratta dal governo, dal partito, dagli stessi vertici istituzionali. E se non bastasse, ecco Berlusconi pronto a sganciare l’atomica: dimissioni in massa dei deputati e dei senatori, con Giorgio Napolitano obbligato a sciogliere il Parlamento senza nemmeno passare per le consultazioni di rito. Uno scenario che parte del Pd sta valutando, e che spinge il segretario alla massima prudenza perché non c’è progetto berlusconiano di cui Bersani sia all’oscuro. E che guaio sarebbe farsi sorprendere dal Cavaliere impreparati, in mezzo del guado.

Ogni qualvolta Berlusconi sembra groggy, eccolo dare il meglio. Due sganassoni a Fini l’altra sera lo riportano al centro del ring. Si apprende ora che la mossa del premier era stata studiata con cura: s’era chiamato ad uno ad uno tutti i personaggi più in vista di An ponendo loro un aut-aut, «o con me o con Gianfranco». Al fianco del rivale sono rimasti Granata, la Perina, forse Bocchino, così perlomeno dicono fonti informate. Difficile che riescano a stoppare la sua immensa voglia di vendetta contro le toghe.

Fini abbozza, evita di reagire, aspetta che venga il momento. Nel frattempo Berlusconi esercita, dopo mesi, un briciolo di controllo. Prova ne sia il Consiglio dei ministri ieri mattina. Incredibile: nemmeno l’ombra di una lite... Brunetta mogio a testa bassa, Tremonti affettuoso col premier, e Bossi con la mano carezzevole sulla spalla di Silvio, come a dire «qui ti proteggo io».

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:20:48 am »

10/12/2009 (7:7)  - RETROSCENA

Sondaggio per Berlusconi, Il 70% non crede a Spatuzza

La vera preoccupazione è la sorte giudiziaria dell'amico Dell'Utri, ieri dal presidente della Camera
   
Ma sul “legittimo impedimento” teme un nuovo stop di Fini

UGO MAGRI
ROMA

Piccolo azzardo del Cavaliere: diserterà entrambe le votazioni su Cosentino, il sottosegretario di Tremonti che i magistrati vorrebbero vedere in manette. Ha scelto di fidarsi della sua maggioranza. Anche a scrutinio segreto.

Magari stasera se ne pentirà amaramente, però i segnali che gli arrivano da Montecitorio sono tutti dello stesso segno, non ci saranno agguati di «franchi tiratori» sebbene molti alleati ne avrebbero voglia, in particolare nella Lega e chiaramente i finiani. Che però si sentono osservati speciali, l’eventuale arresto del sottosegretario verrebbe politicamente addebitato a loro, il centrodestra si trasformerebbe in un ring. Letteralmente. Scherza (ma non troppo) il capogruppo Pdl Cicchitto: «Se tra di noi qualcuno fa il furbo, è la volta che gli metto le mani addosso...».

Dunque stamane all’alba Berlusconi volerà a Bonn per il congresso del Partito Popolare Europeo (Ppe) dove Fini non l’hanno neppure invitato, pare che il presidente della Camera ci sia rimasto un po’ così. E invece di rientrare di corsa a Roma per Cosentino, come in origine aveva programmato di fare, il presidente del Consiglio punterà su Bruxelles, sede del Consiglio europeo. Se gli va liscia, è un segnale di ritrovata tranquillità, la sirena del cessato allarme. Già festeggia il portavoce Bonaiuti: «Sono andate deluse le speranze di quanti a sinistra rincorrevano la soluzione giudiziaria...».

A rincuorare il premier provvede l’ultimo dei suoi sondaggi riservati che ogni settimana gli produce Euromedia Research. Il 70 per cento degli italiani pare non creda a una sola parola di quanto sostiene il pentito Spatuzza, definito da Gasparri «acronimo di spazzatura», bombardato da Vespa nell’ultima puntata del «Porta a porta». Domani per conferma a Palermo verranno sentiti i fratelli Graviano, ma qualunque cosa i boss di Brancaccio potranno dire sulle stragi del ‘93 non verranno creduti, così perlomeno scommette speranzoso il premier. Seria preoccupazione semmai è Dell’Utri, ieri ricevuto da Fini per uno scambio di strenne natalizie durato sette minuti d’orologio (53 quelli di anticamera): raccontano a Palazzo Grazioli che Silvio sia molto partecipe del caso processuale di Marcello e in grave apprensione per il dramma umano.

Pure Previti, altro vecchio sodale, era stato condannato. Ma qui si parla di mafia, forse di carcere, altro che di affidamento ai servizi sociali. Berlusconi non può preoccuparsi egoisticamente (sospetto molto diffuso) di salvare solo se stesso. Da qualunque parte la si giri, l’intera dialettica politica ruota intorno allo scudo per difendere il Cav. Tra Pdl e Pd qualcosa sotto sotto si sta muovendo, in modo assolutamente top secret. Però l’intesa ancora non c’è. «Qualcuno nel Pd ci starebbe pure», racconta chi frequenta il premier, «ma Bersani tentenna, tra l’altro come capogruppo ha dovuto mettere Franceschini, che non ci sembra l’interlocutore più adatto».

Se il prezzo politico dovesse consistere nella rinuncia al «processo breve», Berlusconi lo pagherebbe seduta stante: in fondo troppi sono i dubbi di costituzionalità, i magistrati annunciano mobilitazioni, lunedì il Csm darà il colpo di grazia. Il vero asso di Berlusconi si chiama «legittimo impedimento», niente udienze in tribunale fintanto che resta in carica. Quattro le proposte di legge che la Commissione giustizia di Montecitorio ha già iniziato a discutere, la settimana prossima si arriverà forse a un testo unificato. Purché il presidente della Camera non si metta pure qui di traverso.

Fini non ha digerito lo stop al progetto di cittadinanza per gli immigrati. E ha dato disposizione ai suoi di frenare, come ritorsione, l’esame del legittimo impedimento. Che arriverà in aula a fine gennaio, annuncia Giulia Bongiorno, con la speditezza di una tartaruga.

da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 20, 2009, 10:23:29 am »

20/12/2009 (6:58) - RIFORME - LA TATTICA DEI PARTITI

L'asso di Berlusconi: fiducia a Bersani
 
Cambio di strategie del premier: «Con Pier Luigi possibili intese»

UGO MAGRI
ROMA

La scelta strategica sta maturando. Berlusconi pare convincersi che il suo destino non dev’essere per forza quello del Caimano. Affrontando a morsi i nemici può sgominarli una, due volte, ma fatalmente verrebbe l’ora della sconfitta, e sarebbe tragica, come nel film di Moretti. Senza scomodare la Buonanima o Bettino, l’aggressione ha fatto vivere fisicamente al premier l’odio che parte della sinistra nutre verso di lui. Gli ha spalancato gli occhi. Nello stesso tempo lascia intravedere al Cavaliere una via d’uscita più degna, onorevole.

Che all’atto pratico s’incarna nella bonomia emiliana disincantata e sorridente di Pierluigi Bersani: finalmente, s’è detto Berlusconi, un potenziale vero interlocutore dall’altra parte. Venerdì sera a cena, in un consesso di amici, ha scoperto le carte: «Con Bersani penso di potermi fidare. Mi sembra ragionevole, dialogante. E pure lui ha interesse a riformare la giustizia, gli serve per non farsi sbranare da Di Pietro. Ho intenzione di provarci sul serio».

E sarebbe una grande svolta, poiché il vero ostacolo a qualunque colloquio coi nipoti di Togliatti finora era stato Berlusconi medesimo.
Con i suoi sbalzi d’umore. Con quelle sbandate incontrollabili che D’Alema ha sperimentato sulla propria pelle, e di recente pure Veltroni. Se il dubbio nel Pd è «faremo la stessa fine?», il Cavaliere sa che questo è l’ultimo treno, non gli saranno concesse altre chances.

Per cui sta apparecchiando un percorso politico dove la massima urgenza, forse addirittura prima delle leggi «ad personam», diventa quella di isolare gli «odiatori» e restaurarsi l’immagine: da qui l’irritazione manifestata a cena nei confronti del direttore generale Rai, reo di non aver messo alla porta i Santoro, i Travaglio e tutti i comici che gli guastano la reputazione. In cambio di un altro clima, Berlusconi pare orientato a gesti concreti.

Si interroga, ad esempio, se è ancora il caso di trasformare le prossime Regionali in un referendum su se stesso, drammatizzandolo al parossismo. Col risultato magari di strappare alla sinistra una Regione in più, ma di affondare l’unico personaggio, da quelle parti, disposto a dargli retta: cioè Bersani. Gettarsi in prima persona nella campagna elettorale, metterci la faccia, o lasciare che se la vedano il partito e i candidati vari? La seconda ipotesi sembra, di ora in ora, la più gettonata. Non a caso, il Cavaliere ha concesso la massima autonomia in materia ai suoi tre coordinatori nazionali. E ha dato piena fiducia a Fitto, il quale se la vedrà lui con Casini per trovare un candidato comune in Puglia, casomai il Pd dovesse confermare Vendola.

Tutti ragionamenti che Berlusconi ha trovato superfluo sviluppare ieri con Bossi, Tremonti, Cota e Calderoli, accolti verso sera a Villa San Martino dopo una giornata trascorsa, informa Bonaiuti, «nuovamente al lavoro, tra telefonate, visite e studio di dossier».

Come sempre quando arriva l’Umberto, gare di barzellette, canzoni dialettali, grande allegria ruspante. La Lega è al settimo cielo per le storiche candidature di Cota in Piemonte e di Zaia in Veneto (quest’ultima decisa ieri). L’accordo col Pdl è stato messo addirittura nero su bianco: come in un protocollo notarile con tanto di firme in calce dei coordinatori berlusconiani da una parte, di Calderoli dall’altra. Vi si prevede quanti assessori andranno ai due partiti in caso di vittoria. E si stabilisce che il ministero di Zaia (le Politiche agricole) verrà riciclato dopo le elezioni. Se la Lega vince in entrambe le Regioni, passerà allo spodestato Galan. Viceversa, se lo terrà ben stretto il Carroccio. E a Galan il premier dovrà trovare posto in qualche ente di Stato.

da lastampa.it
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 21, 2009, 10:39:16 am »

21/12/2009 (7:10)  - INTERVISTA

Frattini: "Se vogliamo cambiare l'Italia serve una nuova Costituente"

Il Ministro degli Esteri avverte: «E' giunta l'ora delle riforme»


UGO MAGRI

Per le riforme, ministro Frattini, davvero è arrivata l’ora?
«E’ più che mai il momento. Vedo due fenomeni preoccupanti. Un’Italia che non sa parlare con una sola voce sui grandi temi internazionali, che spesso si è divisa agli occhi del mondo».

Non è bello.
«Proprio no. E poi vedo in azione delle minoranze politiche coalizzate tra loro al solo scopo di creare divisioni e lucrare sui contrasti tra i partiti maggiori: penso anzitutto a Di Pietro».

In questo clima sembra arduo parlare di riforme condivise...
«Ragione di più per avviarle, e per trovare il modo di mettere il loro cammino al riparo dalle diatribe del giorno per giorno. Esistono diversi modi praticabili, ci si sta ragionando».

Qualche ex socialista rilancia la Costituente. Cossiga se ne fa portavoce. Che gliene pare?
«E’ un’idea interessante proprio perché limita i contraccolpi che la lotta politica quotidiana può avere sul dialogo per le riforme. Ma soprattutto perché una formula costituente consente di mettere in campo il sistema paese, di impegnare nell’impresa tanto la politica quanto la società civile».

Scusi, che c’entra la società civile?
«Sarebbe un valore aggiunto. Proviamo a rispondere a questa domanda: come si fa ad affrontare il nodo del federalismo costituzionale senza coinvolgere le Regioni, il mondo delle autonomie territoriali? Ancora: come si giudica possibile delineare un nuovo quadro costituzionale sul diritto al lavoro senza ascoltare le parti sociali?».

A proposito di sociale: Bersani propone un’apposita sessione parlamentare sull’argomento. Che gli risponde?
«Io credo che sia uno dei capitoli da inserire nel grande mosaico delle riforme. Nel momento in cui l’Europa ci chiede di mettere al centro la competitività e la crescita, come si ritiene possibile trascurare l’apporto dei sindacati, delle imprese, dei risparmiatori? La politica e i partiti devono restare ovviamente protagonisti. Ma a mio avviso serve un respiro più ampio, che dia voce a tutte le principali componenti del sistema Italia».

E lei crede davvero che siamo in tempo per mettere in moto un processo del genere? «Non siamo ancora arrivati a metà legislatura. Il tempo è sufficiente se non fa difetto quella volontà politica che, all’epoca della Bicamerale, a un certo punto mancò. Se i grandi partiti, Pdl e Pd, prendono in mano l’iniziativa. Se l’Udc non farà mancare il suo consenso...».

E la Lega? La lasciamo fuori?
«Al contrario. Nel momento in cui puntassimo a coinvolgere le autonomie territoriali, per costruire il federalismo costituzionale dal basso, sono sicuro che avremmo Bossi fortemente a favore di una simile svolta».

Meglio partire dalla «bozza Violante», lasciata in eredità dalla scorsa legislatura, o ricominciare daccapo?
«C’è un problema di metodo. La bozza Violante nacque alla Camera dalla Commissione Affari Costituzionali, e le grandi voci esterne al Parlamento non vennero ascoltate. Se noi oggi volessimo avviare un percorso sganciato dalle risse della politica quotidiana e attento alle voci del paese reale, quella base di partenza non basterebbe più».

Come si potrebbe aggirare il macigno giustizia?
«Non può essere aggirato. Stop. Perché rappresenta la cartina al tornasole di tutte le riforme. E’ difficile immaginare una nuova architettura istituzionale se non si sviluppa in modo equilibrato il rapporto tra potere politico e potere giudiziario. Né è possibile creare un autentico sistema federale senza modificare almeno in parte la composizione della Corte costituzionale».

In che modo?
«La Bicamerale guidata da D’Alema aveva individuato un meccanismo innovativo che introduceva un’importante aliquota di giudici costituzionali indicati dalle Regioni. Lo ricordo a titolo di esempio per mostrare come la giustizia non possa essere una zona franca impermeabile alle riforme».

Non vede il pericolo che i tentativi di dialogo vengano stroncati dalla imminente campagna elettorale?
«Purtroppo il pericolo c’è. Ma credo che Pdl e Lega debbano assumersi il rischio di un’offerta politica lungimirante. In modo da lasciare agli altri, eventualmente, la responsabilità di far cadere una proposta politica di così grande rilievo».

da lastampa.it
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