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Autore Discussione: Armando MASSARENTI -  (Letto 16853 volte)
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« inserito:: Maggio 26, 2016, 10:14:14 am »

A voler fare un complimento a Roberto Calasso - e in questi giorni, sulla stampa nazionale, nel rituale acritico delle anticipazioni editoriali, ne ha ricevuti di assai esagerati - si può dire che il suo ultimo libro, uscito giovedì scorso per Adelphi, la casa editrice che egli stesso possiede e dirige, ricorda molto da vicino, nello stile e nelle intenzioni, il filosofo tedesco che lui ha più amato, Nietzsche.
E ricorda anche, e per certi tratti ancor più da vicino, i «Minima morali “a di Adorno, che a loro volta si rifacevano a Nietzsche.

Anche «Il cacciatore celeste» (pagg. 508, € 27) può essere letto, come le migliori opere del filosofo tedesco, paragrafo per paragrafo, aforisma per aforisma, miniracconto per miniracconto, assaporando ogni volta un breve testo ben congegnato, relativamente autonomo e compiuto, e quasi sempre erudito e sorprendente, sapendo che, perseverando nella lettura per 440 fitte pagine di testo, molti temi centrali verranno espansi, approfonditi e ripresi da angolazioni diverse, fino a formare una visione complessiva, un affresco che fin dalle prima pagine promette di essere affascinante, incentrato com'è su un passaggio fondamentale della storia umana: quello in cui Homo diventò cacciatore.

Però Calasso sbaglia completamente il bersaglio cercando di coniugare il raccontare i miti, i riti e i sacrifici legati alla caccia con le attuali conoscenze di paleontologi e genetisti delle popolazioni. Prevale un atteggiamento sapienziale e un tono che privilegia la personale posizione filosofia di Calasso, che appare assai affascinante ma poco credibile, e assai fuorviante, alla luce delle conoscenze attuali. Ne risulta un libro, come cerco di argomentare nella copertina della Domenica di oggi, che mostra una sostanziale mancanza di umiltà, che presuppone una ingiustificata superiorità di una filosofia che (come già accadeva in Adorno) non si cura del generale avanzamento delle conoscenze scientifiche.
   
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« Ultima modifica: Gennaio 17, 2017, 11:39:12 am da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 30, 2016, 05:59:00 pm »

«Ma perché difendi la periferia?» Una domanda che rivolgono spesso a Renzo Piano da quando tre anni fa, nominato senatore a vita da Giorgio Napolitano, ha trasformato il suo ufficio da senatore, nello storico palazzo Giustiniani, in un vero e proprio studio da architetto per lanciare con una serie di giovani collaboratori un progetto sul «rammendo delle periferie». È stata proprio la Domenica a pubblicare e a seguire ad ogni tappa il progetto generale e i singoli interventi sul territorio dell'architetto genovese. Al rammendo delle periferie due anni fa è stato anche dedicato il tema di maturità che è stato il preferito e il più scelto dai ragazzi. Ora che la Biennale Architettura, che apre oggi a Venezia, dedica uno spazio apposito a questo impegno di Renzo Piano, ospitiamo in copertina un suo intervento in cui spiega perché lui, appunto, che è cresciuto nei dintorni di Genova, oggi difende le periferie. Innanzitutto perché sono crogioli di energia, libertà, passione e persino bellezza. Benché il loro appeal appaia immediato, vanno prese con la stessa considerazione con cui si sono ristrutturati i nostri meravigliosi centri storici. Il futuro delle nostre città dipenderà dal successo di questa idea.
   
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 09, 2016, 11:36:48 am »

Venti anni fa, Il 9 giugno 1996, la Domenica pubblicò il Manifesto di bioetica laica, che conteneva, tra l'altro, una riflessione su ciò che è “naturale”: «al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola un qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine tra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell'idea di natura».
Nell'articolo pubblicato oggi in copertina Roberto Casati ci propone invece l'idea secondo cui proprio le cose naturali sono quelle in grado di regalarci un po' di pace mentale, sottraendoci per un momento alla nostra tendenza ad antropomorfizzare ogni cosa e a vedere cause e intenzioni laddove non ve ne sono. Ma anche rovesciando la questione in questo modo, e ammesso che la tesi sia difendibile (non è proprio osservando la natura che l'uomo ha visto ovunque spiriti e dei?), la natura rimane un concetto quanto mai culturale.
La natura resta una riserva euristica per costruire, con mezzi tutti diversi, beni che prima non esistevano. E ciò vale a maggior ragione se pensiamo alla cultura nel senso del patrimonio dei beni culturali, la quale, come la natura, si pensa che dovrebbe avere un valore intrinseco, sacro, intoccabile, che sfugge alle logiche dell'economia. Ebbene, anche in questo ambito le cose sono assai più sfumate, ma ciò non impedisce di affermare con fondatezza alcuni valori che non sono disgiunti da una pertinente comprensione dei fatti. È ciò che la Domenica si proponeva con un altro Manifesto, quello per la cultura («Niente cultura, niente sviluppo», 19 febbraio 2012), un manifesto decisamente impregnato di idee economiche che rifiutava innanzitutto proprio la metafora petrolifera dei giacimenti, semmai preferendole quella ecologica delle energie rinnovabili. Per quanto riguarda la cultura (o la natura più o meno incontaminata) è difficile pensare a un principio diverso da quello per cui è proprio la volontà di conferire un valore intrinseco ad alcuni beni o capacità (in primis la libertà della ricerca), selezionati con saggezza e lungimiranza, a generare ricchezza, prosperità, progresso, sviluppo.
   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 01, 2016, 12:37:38 pm »

Domenica, 31 Luglio 2016   
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«” Per favore, prendi il secchio d'acqua e buttalo su quella piantina”. “Quale? Non vedo nessuna piantina Pia”.
Il suo giardino è un miracoloso equilibrio di disordine e precisione.
Lei sa dove si cela il germoglio di un lupino, il luogo in cui la camelia si fa strada tra l'erba alta. Cerco con più attenzione.
“Lì, lì”. Accenna con il capo il confine estremo della proprietà a due passi dal sentiero su cui avanza con la carrozzina elettrica.

Guardo attentamente: un esile ramo con foglie minuscole svetta dal terreno, deciso, tenace» ... Così comincia il ricordo che Margherita Loy ha scritto della storica collaboratrice della Domenica, la scrittrice ed esperta di giardini, Pia Pera, morta martedì scorso a 60 anni, uccisa dalla Sla. Un ritratto della sua opera di scrittrice lo propone, sempre sul numero di oggi, Nicola Gardini. Inizia così: «Scriveva articoli, memoir, racconti, romanzi; traduceva dal russo e dall'inglese, misurandosi con colossi come l'Onegin.

Ma Pia Pera possedeva troppo estesamente il senso del rapporto tra letteratura e vita perché possiamo identificare la sua opera solo con le pubblicazioni. Aveva lo stupendo dono del discorso infinito, di un comporre che non si esaurisce su un foglio di carta o uno schermo di computer, ma s'identifica con le cose, gli animali, le piante, gli amici, i libri degli altri, e fa scrittura del mondo intero. Pia, si può dire, componeva in ogni momento». L'ultimo libro di Pia Pera è anche il suo ultimo capolavoro di autenticità. Vi narra, in maniera toccante e umanissima, il suo rapporto con la malattia. Si intitola «Al giardino ancora non l'ho detto». Già, cosa diremo ora al suo giardino?

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« Risposta #4 inserito:: Settembre 16, 2016, 11:44:09 pm »

Il liceo classico è stato, ed è tuttora, una eccezionale palestra per il pensiero critico.

È, anche, il luogo privilegiato per coltivare l'idea del carattere disinteressato della cultura. Unisce dunque, idealmente, due aspetti essenziali di una buona formazione: una chiave universale di grande utilità, e il massimo del piacere che deriva dall'esperienza della pura bellezza. Forse è per questo che gli articoli di Nicola Gardini e Guido Tonelli, un umanista e uno scienziato, pubblicati due settimane fa in difesa di questa nostra gloria nazionale, hanno raccolto un ampio consenso. In questo numero torniamo sull'argomento con diversi interventi che pure sottolineano l'unità della cultura. Ma se è vero che i saperi umanistici possono aprire la strada a vocazioni scientifiche, è anche vero che la mentalità scientifica, o i metodi mutuati da essa, sono assai produttivi per lo sviluppo delle humanities.

Ne era ben consapevole Vito Volterra, il primo presidente del Cnr, di cui si parla in copertina di oggi con un articolo dell'attuale presidente del Cnr, Massimo Inguscio, che ne riprende la lezione. Nelle pagine interne su questa linea troverete altri due interventi, di Angelo Varni e di Vincenzo Fano, insieme a quello di Claudio Giunta che sottolinea - accanto agli argomenti, assai forti, ancora oggi validi per iscriversi al liceo classico - la percezione diffusa che non sia più il veicolo privilegiato per la selezione delle élite. Classe dirigente oggi lo si diventa anche per altre vie.

Allora la domanda diventa: quali sono i saperi necessari oggi per farsi strada nel mondo? E se siamo tutti d'accordo che sono le capacità logiche e argomentative - il pensiero critico - gli strumenti decisivi, perché non mettere queste al centro dell'intero sistema educativo? Si dice che lo studio del latino e del greco sviluppa le capacità di ragionare, di produrre analogie e inferenze logiche. Ma è vero anche il contrario: i più bravi a tradurre lo sono perché hanno buone capacità logiche e dialettiche. Perché non partire da qui? Perché non pensare che il trionfo della classicità, negli anni a venire, non possa passare per la creazione di tanti piccoli Socrate, capaci di usare il loro sapere critico negli ambiti più diversi?

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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 05, 2016, 12:49:46 pm »

Il 4 settembre scorso su Domenica è uscito un importante articolo di Goffredo Fofi, intitolato «Tutto (o quasi) su Elena Ferrante», che esordiva così:
«Nel momento in cui, grazie al passaparola dei lettori e in particolare delle lettrici statunitensi l'opera e il nome di Elena Ferrante sono diventati notissimi urbi et orbis e le vendite della traduzione inglese dei quattro volumi di “L'amica geniale” gareggiano con quelle dei facitori e facitrici di best-seller elaborati al computer, tutto quello che è possibile sapere su Elena Ferrante è contenuto in “La frantumaglia” (e/o edizioni)».
Ebbene, se leggerete la Domenica di oggi potrete sapere qualcosa in più, e di decisivo: avrete cioè gli strumenti per rispondere alla domanda che in tutto il mondo ci si pone: qual è la vera identità che si nasconde dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante?
Claudio Gatti ha seguito una traccia extra letteraria che lo ha portato in una direzione ben precisa e assai convincente. Leggere per credere. Nel suo lungo servizio di oggi, il miglior giornalismo d'inchiesta si unisce alla ricomposizione del puzzle letterario di cui «La frantumaglia» (il volume recensito da Fofi uscito da poco in una nuova edizione ampiamente arricchita rispetto a quella del 2003) esponeva alcune volontarie lacune, e anche vari sapienti depistaggi, legati alla volontà dell'autrice di non rivelare la propria identità e di preservare, attraverso l'anonimato, la propria autenticità letteraria.
Ora dunque sappiamo davvero «Tutto su Elena Ferrante»? Se, dopo la lettura di oggi, ancora vorrete tenere il «quasi», certo è che la via per sapere tutto, ma proprio tutto, ora vi apparirà decisamente spianata.

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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 12, 2016, 03:09:15 pm »

È impressionante vedere - nel testo pubblicato in copertina dalla Domenica di oggi (in uscita nella collana Quaderni della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli) - come esattamente un secolo fa il filosofo pragmatista e grande educatore John Dewey avesse le idee chiare su temi oggi di stretta attualità. Le grandi ondate migratorie dell'Europa di oggi pongono problemi, sociali e culturali, che Dewey affronta guardando allo sviluppo del sistema educativo come al fulcro di un processo di lungo periodo e individuando negli insegnanti, e non nei politici, dunque nella cultura, i soggetti più consapevoli dei processi in corso. Una cultura consapevole dei propri valori di fondo, come abbiamo ribadito più volte negli ultimi cinque anni dopo la pubblicazione del nostro Manifesto per la cultura, è il motore di ogni possibile sviluppo. Soprattutto se, come nel caso di Dewey, essa si nutre di uno spirito autenticamente democratico.
La democrazia alla Dewey ha peraltro molto a che vedere con il progetto culturale la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli inaugurerà il 13 dicembre con l'apertura della monumentale sede di via Pasubio, progettata da Jacques Herzog e Pierre de Meuron. «Una nuova sede iconica per una grande casa delle culture sociali», la definisce il presidente Carlo Feltrinelli; e il segretario generale Massimiliano Tarantino uno «Spazio di cittadinanza. Una piazza, contemporanea, meticcia, accessibile, utile» oltre che un luogo ospitale per i ricercatori che, in postazioni progettate per loro, vorranno mettere a frutto la straordinaria documentazione contenuta negli archivi.
Milano Porta Volta. Luogo dell'Utopia possibile è il titolo del volume che presenta il progetto. E chi se non proprio Dewey può guidarci con lucidità verso una Utopia concreta, a portata di chiunque, per realizzare una società di cittadini liberi ed eguali, secondo il sogno di Amartya Sen (ricordato da Salvatore Veca) di una libertà vera per tutti? Magari imparando anche dagli errori della storia e dalle Utopie sbagliate o mal realizzate, come la Rivoluzione russa, cui la fondazione dedicherà nel 2017 numerose iniziative per ricordarne il centenario. O meglio ancora dall'Illuminismo, pezzo forte degli archivi e degli studi promossi da sempre dalla fondazione. Ebbene, l'Utopia possibile di Dewey si identifica proprio nello stretto legame che egli istituisce tra democrazia e spazio pubblico. Come ha ricordato il francofortese Axel Honneth, in Dewey la sfera politica, o pubblica, «non è, come nella Arendt o, sebbene in forme attenuate, in Habermas, il luogo dell'esercizio comunicativo della libertà, bensì il medium cognitivo, mediante il quale la società tenta di determinare, elaborare e risolvere i problemi insorgenti nella coordinazione dell'agire sociale». Dewey ha come modello una comunità di ricercatori scientifici sinceramente impegnati a risolvere un problema. Egli osserva che, nella scienza, l'intelligenza e la qualità delle soluzioni dei problemi emergenti sono direttamente collegati alla democraticità della ricerca, cioè alla possibilità da parte di tutte le persone coinvolte di scambiarsi informazioni e avanzare critiche e considerazioni in modo libero e aperto. Gli fa eco l'architetto Herzog: «Resto convinto che investire nella cultura e nell'istruzione sia fondamentale per creare e mantenere in vita una società aperta».
   
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 08, 2017, 09:25:29 pm »

«Quando affisse le sue 95 tesi sulla porta della Schlosskirche di Wittenberg il 31 ottobre 1517, vigilia di Ognissanti, Martin Lutero non aveva nessuna intenzione di provocare lo sconquasso che ne sarebbe seguito». Con queste parole inizia la lunga analisi che Massimo Firpo propone di nostri lettori su quello che sarà l'anniversario più discusso e celebrato di questo 2017: l'inizio della riforma protestante, cui grande attenzione ha già dato lo scorso anno Papa Francesco, il quale peraltro, come ricordato sulle pagine della Domenica, nello scegliere per il giubileo il tema della Misericordia proprio a Lutero si era ispirato. Cambiare la Chiesa, denunciandone tutti gli scandali, era l'intenzione del monaco agostiniano, non fare una rivoluzione. Buona lettura dunque. E buon 2017, con gli auguri che vi indirizziamo attraverso le parole di un grande protagonista della nostra storia letteraria (in realtà misconosciuto quasi come Lutero): Giacomo Leopardi.
   
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:39:46 am »

La copertina di oggi, scritta da Massimo Bucciantini, ci conduce nella Parigi degli illuministi del Settecento, «nel bel mezzo di una battaglia tra ancien régime e un nuovo mondo che preme ma che stenta a venire alla luce», una battaglie contro i pregiudizi e le gerarchie di un sistema politico che riguarda soprattutto la sfera estetica e culturale, divenuta il terreno principale di scontro tra due modi alternativi di pensare il mondo è la società... È questa una parte importante del modo in cui si manifestò l'Illuminismo francese nel suo attacco a un ancien régime che non era «solo - scrive Bucciantini - una fortezza di verità politiche e religiose per definizione intoccabili, ma anche di gusti, di generi musicali, artistici, letterari, che avevano il compito di rendere piacevole quello che altro non era che una gigantesca impostura». «Arte e politica della cultura dei Lumi. Diderot, Rousseau e la critica dell'antico regime artistico» è il libro di cui si parla, scritto da Gerardo Tocchini, che ci racconta l'impegno dei philosophe di bandire per sempre dalle scene «il sovrannaturale, il metafisico, il meraviglioso per dedicarsi unicamente all'uomo e al complesso delle sue responsabilità sociali».

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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 24, 2017, 06:20:15 pm »

«E Iddio creò il male» è il titolo dell'apertura della Domenica di oggi.
Giulio Busi, con grande chiarezza esamina, sulla scorta di un volume uscito ora da Adelphi, i testi cabbalistici medievali dove i mistici ebraici hanno tentato di spiegare il «secretum» di incomprensibili «errori» divini che hanno portato il male nel mondo. E nelle pagine interne ospitiamo una serie di articoli che ricordano in due fitte pagine, in vista della Giornata della memoria, ciò che di più vicino al male assoluto si è verificato nella storia umana: lo sterminio degli ebrei e di altre minoranze da parte dei nazisti.
Il giovane direttore del museo del campo di sterminio di Auschwitz vi lancia un appello fuori da ogni retorica: «Non è sufficiente prendere posizione e denunciare il tiranno. Aiuta una persona. Solo una. Puoi sempre farlo. Fallo adesso». Una morale minima, essenziale, per scacciare qui e ora - per quanto ci è possibile - un po' di male del mondo.
   
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 29, 2017, 09:03:44 pm »

Lo sapevate che la maggior parte dei manoscritti de I fratelli Karamazov di Dostoevskij - ben “trentadue chili di carta scritta” - furono rubati «e restano ancora oggi al centro di una misteriosa vicenda in cui figurano il custode di una dacia, banditi caucasici, un disonesto funzionario del Dipartimento investigativo rivoluzionario, alcuni čekisti, Stefan Zweig»? Provvidenziale per i filologi e studiosi è stata l'apertura ufficiale, nel 1921, della cassetta di sicurezza che conteneva i taccuini preparatori di Delitto e Castigo, L'idiota, I demòni, L'adolescente e appunto dei Karamazov. Il motivo principale della preziosità di questi manoscritti sta nella quantità di disegni che essi contengono, a dimostrazione di quanto la cultura visiva fosse importante per Dostoevskij e quanto ne informasse il processo creativo. «Nei fittissimi, spesso caotici appunti di Dostoevskij - scrive Serena Vitale sulla copertina del domenicale di oggi - l'immagine non illustra ciò che è scritto nello stesso foglio, il suo legame con la parola sfugge quasi sempre a una spiegazione logica - e del resto con la logica, lo sappiamo, lo scrittore aveva pessimi rapporti... È piuttosto un'ideografia creativa, l'espressione non verbale dello sforzo di dare un volto all'“Idea”, il diario figurativo di una nervosa e spesso febbrile quête del Disegno romanzesco».
Le pagine preziosissime di Dostoevskij sono raccolte in un altrettanto prezioso volume edito dall'editore di Bergamo Lemma, intitolato Disegni e calligrafia di Fëdor Dostoevskij (pagg. 452, € 150) curato da Konstantin Baršt. Una competenza grafica e visiva di enorme interessa accompagna la magmatica attività della scrittura. E «negli intermezzi calligrafici - di dimensioni variabili, a volte occupano un angoletto della pagina, talvolta si allargano a tutto il foglio - la penna sembra finalmente calmarsi e quasi riposare mentre sperimenta l'armonia nella sua forma più accessibile, innocente».

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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 07, 2017, 06:30:06 pm »

Due episodi che riguardano la cultura e la storia religiosa campeggiano nella prima pagina del supplemento domenica di oggi. La copertina vera e propria, scritta da Giuliano Boccali, riguarda un testo inedito del più grande storico delle religioni del Novecento: Mircea Eliade. Si tratta della sua tesi di dottorato, un testo prezioso in cui delinea con grande chiarezza la novità del proprio approccio. Il tema è quella delle pratiche dello yoga oggi così diffuse in occidente ma che nell'analisi di Eliade si innestano nella cultura religiosa da cui provengono. Così ad esempio impariamo a distinguere lo stato di ipnosi dall'autentica trance yogica, il samadhi, che rappresenta la meta ultima della pratica e si identifica con «l'autonomia suprema dello spirito affrancato dall'esperienza dei sensi e della mente, uno stato trascendente, nudo, inalterato, di pura autocoscienza».
Uno stato che si raggiunge, all'apice del percorso spirituale, senza mai avere perduto la coscienza di sé, a differenza di quanto invece avviene con gli stati indotti dagli stupefacenti o dall'ipnosi, che rispetto alla meditazione è «fenomeno ben noto agli indiani, ma disprezzato e ritenuto brutale, inutile».
Il secondo episodio, richiamato in copertina e pubblicato all'interno, ci porta nel Giappone di fine '500 e riguarda una straordinaria scoperta: il ritrovamento de «I 26 martiri del Giappone», un film
di Tomiyasu Ikeda del 1931 che anticipa la ricostruzione di una vicenda storica del romanzo «Silence» di Shusaku Endo da cui Martin Scorsese ha tratto ll suo ultimo film. Ne parla Goffredo Fofi che lo ha visto in anteprima. Il film sarà presentato domani (alle 16.30) presso la Filmoteca Vaticana (sala Cardinal Deskur, Palazzo San Carlo, Vaticano) a sessant'anni dal- l'ambientazione delle tragiche vicende narrate nel film.

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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 13, 2017, 10:20:12 am »

«Chi pone la questione della lingua e della scrittura sembra soprattutto impegnato nella ricerca di un colpevole. C'è chi lo trova nelle indicazioni ministeriali sostenute nel 2012 da Marco Rossi Doria, e c'è chi addirittura accusa il “linguista democratico” Tullio De Mauro. I capri espiatori sono la scorciatoria preferita da chi è incline alla pigrizia mentale, e sono lo stigma dell'intellettuale italiano. Ma è più grave avere carenze sul piano della bella scrittura oppure su quello della capacità di ragionare e analizzare i fenomeni, dimostrata da molte prese di posizione di questi giorni, peraltro incapaci di proporre soluzioni alla situazione che viene denunciata? Non dimentichiamo che gli italiani - giovani e vecchi - vantano il triste primato del paese Ocse con la percentuale maggiore di analfabeti funzionali». Così recita sulla Domenica di oggi la rubrica Il graffio, ospitata come di consueto in Terza pagina, riferendosi ai seicento docenti universitari che hanno inviato una lettera aperta al Presidente del Consiglio per denunciare le carenze linguistiche degli studenti che accedono agli studi accademici. Nella stessa pagina potete leggere una lunga ed elaborata riflessone di Claudio Giunta sui motivi per cui gli studenti non sanno scrivere. Senza negare che si tratti di un'abilità fondamentale, Giunta osserva che essa ha perso la sua rilevanza sociale, per cui oggi non serve più alla maggior parte delle persone. Sono aumentate le persone che scrivono grazie allo sviluppo esponenziale dei social network, ma sempre meno si sente l'esigenza di seguire le forme più corrette: anche chi scrive in maniera sciatta comunica di fatto con una certa efficacia e contribuisce a diffondere il cattivo uso della lingua. Che fare? Qualche suggerimento lo trovate in questo articolo: sono quelli che lo stesso Giunta adotta con i suoi studenti universitari. Ma spiega anche perché non è il caso di farsi troppe illusioni sulla loro efficacia.

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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 21, 2017, 12:31:18 am »

A caldo, esattamente un anno fa, alla notizia della morte di Umberto Eco, avvenuta il 19 febbraio 2016, tra molte cose pubblicammo anche questo breve ritratto: «Sapeva bene di essere il più famoso, il più importante, il più conosciuto al mondo, intellettuale italiano. E anche su questo amava fare dell'autoironia. Umberto Eco, nonostante la sua impressionante notorietà, ha mantenuto le abitudini di sempre. In primis, certo, l'amore per i libri, per i saperi che essi veicolano, ma anche per il lavoro editoriale ben fatto. Uomo di grande erudizione, e prima di questo filosofo e cultore di un pensiero critico che invitava a esercitare su ogni cosa, nel suo agire intellettuale era animato da un sano edonismo. L'importante è divertirsi. Sempre e comunque, o quasi. Ma il divertimento deve essere della più alta qualità. E orientato alla massima serietà, ispirato da una vocazione morale che miri a far sì che a divertirsi, e a imparare divertendosi, siano anche gli altri. Filosofo, semiologo, medioevista, giovanissimo autore Rai, linguista, enciclopedista, scrittore, bibliofilo, professore universitario, direttore editoriale, brillantissimo saggista e conferenziere, animatore del Gruppo '63, del Dams, delle facoltà di Scienza della comunicazione e di Libertà e Giustizia. Tante, troppe definizioni che ci depistano dal suo atteggiamento di fondo. Che è quello di un buon professore, di un “buon maestro”, come ce ne sono pochi. Di quelli che sono in grado di salvarti la vita. Mettiamo tra parentesi per un momento il Trattato di semiotica generale, La Rosa e l'Ornitorinco, e pensiamo a un libro del 1977, momento di massimo spaesamento di un'università divenuta velocemente da super elitaria a ultra massificata, intitolato Come si fa una tesi di laurea. Era pieno di arguzia e di umorismo, di letteratura e di filosofia, ma soprattutto di istruzioni per l'uso. Ecco cosa ci mancherà, caro Umberto: la tua capacità di farci sentire la tua indubbia, un po' altezzosa, superiorità intellettuale (che molti ti hanno rimproverato) unita alla sensazione che, a prenderti sul serio insieme a tutti i tuoi deliziosi giochi, tutti possiamo godere con te dei piaceri della cultura»
Sul numero odierno troverete un rinnovato modo di ricordarlo: un doppio ritratto di Unberto Eco da giovane che può ancora dare suggerimenti per svecchiare la cultura italiana di oggi.
   
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 26, 2017, 11:38:13 pm »

Una eco sorprendente delle tesi di Ronald G. Witt, sostenute nel volume che Gabriele Pedullà recensisce oggi in copertina della Domenica, «L'eccezione italiana: L'intellettuale laico nel Medio Evo e l'origine del Rinascimento», la troviamo in un libro di stretta attualità, «Università futura. Tra democrazia e bit», di Juan Carlos De Martin (Codice), che nel delineare un futuro possibile delle humanities nell'era digitale non manca di soffermarsi sulle pagine che Eugenio Garin dedicò alla rivoluzione educativa che tra la fine del '300 e l'inizio del '500 «ha lasciato tracce profonde nella storia d'Europa e oltre», introducendo un'educazione laica più attenta allo sviluppo degli individui, alla loro felicità personale, unendo lo spirito critico di stampo socratico all'eudaimonia aristotelica di una vita vissuta per la conoscenza. Non è questa la vocazione dell'università di oggi, che non è riuscita a coniugare i propri fini utilitaristici e professionalizzanti con i valori intrinseci della cultura. Quella evocata da Garin è stata «Una rivoluzione incompiuta», per dirla con il titolo di un libro di Ugo Dotti (Aragno), il quale parla di un protoilluminismo e un protorisorgimento italiano, con Dante, Boccaccio, Petrarca e Machiavelli protagonisti, traditi dal Rinascimento, per non essere riuscita l'Italia di allora a costruire uno stato unitario e per aver subito più di altri paesi le conseguenze del Concilio di Trento. I frutti di quel nostro Umanesimo sono maturati altrove, prima in Scozia, poi negli Stati Uniti, dove quella rivoluzione si è coniugata naturalmente con i saperi della modernità e con i metodi della scienza, mentre ancora oggi in Italia è popolare tutt'altra interpretazione dell'Umanesimo, che si nutre della strana alleanza tra neospiritualismo, relativismo postmoderno, «biopolitica» e post-verità, attingendo alle radici del Rinascimento, da Vico e da Gentile, e configurando l'idea di «un'altra modernità», e che vede ancora nell'America e nella Perfida Albione i principali nemici da abbattere. Ma non è proprio lì invece che sono cresciuti, fino a diventare sinonimo di crescita economica e civile, i frutti di un umanesimo che non nega il valore intrinseco della conoscenza e dei metodi logici ed empirici per conseguirla, e che li considera ingredienti fondamentali per la formazione dei cittadini di domani?

    Armando Massarenti - Responsabile il Sole24 Ore - Domenica
 
  @massarenti24


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