“I giornali devono combattere la crisi con l’affidabilità”
Direttore del «Wall Street Journal»Pubblicato il 19/03/2017 - Ultima modifica il 19/03/2017 alle ore 07:19
Gerard Baker, la carta stampata è in crisi ma il suo Wall Street Journal è uno dei pochi quotidiani in buona salute. Come mai?
«Abbiamo fama consolidata di credibilità e affidabilità. In un periodo in cui queste qualità latitano il WSJ ne ha notevolmente beneficiato». I social media come Facebook e Twitter hanno danneggiato l’informazione tradizionale?
«Facebook è enormemente popolare e si è appropriata di gran parte della pubblicità che andava ai giornali, così i profitti sono crollati. Noi abbiamo aggirato il problema: siamo Facebook e Twitter per promuovere il giornale ma per leggerci su Facebook e Twitter bisogna abbonarsi. Credo che il problema di Facebook siano le notizie false: possono danneggiare e paradossalmente aiutare media tradizionali come il nostro».
Il WSJ è un giornale finanziario ma presta molta attenzione all’arte, ai libri e agli eventi culturali, perché?
«I nostri lettori tendenzialmente sono persone istruite e interessate ai temi degli affari, della finanza e dell’economia. Naturalmente gente di quel tipo coltiva anche altri interessi - culturali e artistici. E fa parte del nostro compito dare loro anche questo genere di notizie».
Crede che il WSJ abbia un ruolo nel controbilanciare le opinioni del New York Times, soprattutto per quel che riguarda il presidente Trump?
«Noi cerchiamo di essere obiettivi. Altri media lasciano che i loro servizi prendano una piega fortemente ideologica. I nostri editoriali sono fieramente conservatori, ma indipendenti. Le pagine dedicate alle notizie hanno uno stile diretto e asettico. Penso che i nostri lettori lo apprezzino».
Qual è la posizione politica del WSJ?
«Le opinioni, che sono separate dalle notizie, sono indipendenti e di orientamento conservatore. Su Trump c’è una linea decisamente autonoma - critica verso alcune sue parole e azioni, di consenso per altre. Per quanto riguarda le notizie abbiamo lavorato duro per garantire una copertura obiettiva e corretta. Abbiamo scritto cose molto severe sulle politiche di Trump ma ci siamo imposti di esaminarle in modo imparziale. Non ci conterei tra gli oppositori: il nostro lavoro è informare di ciò che accade nel mondo della politica, indagando su possibili abusi di potere e contribuendo a dar conto di quello che fa il governo».
L’atteggiamento di Trump verso l’informazione ne mette a rischio la libertà?
«No davvero. La stampa ha un enorme potere ed è molto tutelata dalla legge. Trump ha un approccio retorico ostile verso la maggior parte dei media ma non c’è la minima evidenza che questi ultimi si facciano intimidire. Anzi manifestano nei suoi confronti aggressività mai vista verso nessuno nell’era moderna. E nessuno li ferma».
Dopo il voto le previsioni di una catastrofe economica si sono ridimensionate. Come stanno davvero le cose?
«Da anni gli Usa scontano una crescita relativamente lenta. L’elezione di Trump è stata salutata con ottimismo dai mercati finanziari, convinti che una combinazione di tasse più basse e liberalizzazione portino a un’accelerazione della crescita e a un maggior benessere. Ora come ora questa rimane una speranza, stiamo a vedere».
Sono in molti a preoccuparsi del rapporto con la Cina. Condivide l’allarme?
«Le relazioni economiche tra Usa e Cina sono molto importanti per entrambi i Paesi e per il mondo intero. Da parte di Trump ci sono stati segnali contrastanti. Se mantiene la promessa elettorale di tassare le importazioni cinesi il danno alle relazioni commerciali potrebbe essere notevole. E se la Cina decidesse di rispondere in modo analogo ci potrebbero essere conseguenze spiacevoli. Oppure la Cina potrebbe cogliere l’occasione per presentarsi (per quanto poco credibile sia) come paladina della globalizzazione in contrasto con l’agenda economica nazionalista e antiglobalista di Trump. Si veda il discorso di Xi a Davos».
Trump vuole cambiare gli accordi internazionali sul commercio, ritirarsi dal TTIP e stringere nuovi patti con il Regno Unito e altri. Che ne pensa?
«Chiaramente, la retorica di Trump dimostra ostilità verso l’integrazione economica globale. Questo preoccupa un sacco di governi. Ha parlato molto di favorire accordi bilaterali con Regno Unito e Giappone, vedremo».
Trump ha promesso che appoggerà la Nato, ma in Europa c’è grande apprensione in merito. E il rapporto con Putin?
«Ho il sospetto che la politica statunitense verso la Nato e la Russia non cambierà molto. Potranno aprirsi spazi per la collaborazione con la Russia, ad esempio nella lotta all’estremismo islamico, ma a dispetto della retorica, Usa e Russia hanno interessi divergenti su molti temi chiave e non mi aspetto grandi cambiamenti».
Che ne dice delle relazioni con Israele?
«Trump è molto più filo-israeliano dell’amministrazione precedente anche se ha espresso qualche preoccupazione su alcuni insediamenti. In generale mi aspetto che gli Usa assumano un ruolo più assertivo rispetto agli ultimi otto anni. Questo è destinato a creare tensioni tanto con gli alleati come con i potenziali avversari».
Qual è il suo ruolo al WSJ?
«Sono io a rispondere in ultima istanza dell’accuratezza e dell’affidabilità del giornale. Ho una grande squadra votata a far sì che il nostro modo di informare sia il migliore al mondo».
Traduzione di Carla Reschia
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