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Autore Discussione: Piero IGNAZI.  (Letto 54989 volte)
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« inserito:: Ottobre 31, 2007, 12:14:16 am »

POTERE&POTERI

Che cosa manca a Fini
di Piero Ignazi


Dopo 13 anni il leader di An deve ancora dare al suo partito la convinzione di essere 'normale'. Senza il bisogno di certificati di garanzia del Cavaliere  Qualche saluto romano non manca mai alle radunate di Alleanza nazionale. Si sa, la nostalgia è un mal sottile, che scende lentamente nelle vene. E così, nelle sezioni di An, dentro un armadio o in un angolo buio non manca mai qualche busto del Duce, qualche libro di memorie del ventennio, qualche ricordo epico di gesta militari (dalla parte dell'onore, ovviamente). Però, chi si fermasse a questi aspetti coglierebbe solo il lato folkloristico di Alleanza nazionale, buono, anzi ottimo, per qualche foto e qualche titolo ad effetto, e ne ricaverebbe un'immagine deformata.

Certo, la leadership di Alleanza nazionale ha fatto ben poco nei primi anni di vita del 'nuovo' partito per educare il proprio popolo alla fuoriuscita dalla nostalgia. Si è accontentata di sopire laddove scappavano dal senno iniziative e affermazioni troppo tinte di nero, e solo quando il clamore usciva dagli ambiti locali è intervenuta con pugno di ferro comminando espulsioni e commissariamenti. Comunque, a 13 anni dal lancio del marchio An, il punto dolente non è quello del taglio delle radici. La dirigenza nazionale lo ha metabolizzato da tempo e non c'è mai stato nessuno, a quel livello, che abbia innalzato lo stendardo della fedeltà all'Idea. Nemmeno Francesco Storace, nonostante la sua recente deriva, poteva essere arruolato in quella schiera. Al vertice, tutti erano convinti che il futuro si chiamasse Alleanza nazionale. E che Fini fosse il suo profeta. Persino nei momenti più acuti del solipsismo finiano, quando il leader imponeva agli esterrefatti compagni di ventura il diritto di voto agli immigrati o il sì al referendum sulla fecondazione artificiale, passando per il 'fascismo male assoluto', non c'era anima viva che pensasse seriamente di poter fare a meno di lui.

An non è risucchiata dal passato che, benché lentamente, inesorabilmente passa. Piuttosto,
è spaventata dal futuro. Fin qui ha rappresentato la forza moderatrice del populismo demagogico forzaleghista. La voce pacata a fianco degli sbraitamenti della coppia Berlusconi-Bossi. L'incarnazione di un minimo senso dello Stato rispetto all'arrembaggio e alla dilapidazione delle risorse pubbliche ad uso delle clientele siculo-padane. L'idea di una politica fatta con passione. Non per nulla i giovani di An si sentono superiori sul piano politico, culturale ed etico ai loro coetanei di Forza Italia e Lega, come dimostrato da una ponderosa e accurata ricerca condotta da Stéphanie Dechezelles dell'Università di Bordeaux sui giovani del centro-destra.

Ma se Alleanza nazionale si limita a giocare di sponda con gli alleati rischia di fare la parte dell'eterna giovane promessa che non sboccia mai. È vero che, al di là di ogni idiosincrasia o imbarazzo (indimenticabile quello di Fini a fianco di Berlusconi nella tumultuosa presentazione del semestre italiano di presidenza Ue al Parlamento di Strasburgo), il legame di ferro con il Cavaliere non si è mai intaccato. Ora, però, il partito è di fronte a un bivio. O spera che il leader di Forza Italia dopo eventuali, vittoriose elezioni si faccia magnanimamente da parte per incoronarlo (auguri.). Oppure conquista con la forza della politica il primato del centro-destra. Dalla fine della scorsa legislatura in poi, Fini ha imboccato la prima strada. Corollario di quella scelta era la nascita del partito unico del centro-destra: in sostanza, Forza Italia, con il suo fondatore ritirato in villa, spalancava le porte alle truppe finiane e si faceva tranquillamente egemonizzare. Negli ultimi due mesi, lo sponsorship frenetico del Cavaliere a un personaggio da rotocalco con la chioma rossa e le troupes al seguito ha incrinato quella prospettiva.

La recente manifestazione di Roma sulla sicurezza e il fisco, organizzata in solitaria da An, annuncia un cambiamento di strategia. Del resto, se vuole conquistare la leadership del centro-destra Alleanza nazionale deve contare sulle proprie forze. L'esibizione muscolare della scorsa settimana segna un primo punto. A questo atout il partito affianca un elettorato socialmente più centrale e moderno rispetto a quello degli altri partner del centro-destra: mentre Forza Italia sbanca tra le casalinghe (soprattutto anziane e con bassa istruzione) e nei pensionati, ed è abbandonato dagli studenti e dal ceto medio dipendente (- 6,9 e - 6,7 punti percentuali rispetto alla media dei suoi elettori), An attira non solo studenti (+ 3,9) ma anche operai (+ 1,8), ed è premiato dai lavoratori autonomi e dai liberi professionisti quasi quanto Forza Italia (+ 3,8 contro + 4,5).

Cosa manca allora ad An? La convinzione di essere un partito 'normale' e di non avere più bisogno del certificato di garanzia del Cavaliere. E di agire di conseguenza.

(29 ottobre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 09, 2007, 05:44:29 pm »

POTERE

Armageddon in senato

di Piero Ignazi


Le grida, le invettive, i lazzi lanciati contro Rita Levi Montalcini fotografano il degrado della lotta politica  Rita Levi MontalciniQuelle che un tempo furono aule auguste e solenni, dove galantomismo e rispetto, prevalevano sopra ogni divisione, sono ora diventate suburre incandescenti, dai cui spalti piovono insulti postribolari all'indirizzo degli avversari. Parliamo dell'odierno Senato della Repubblica, specchio fedele quanto angosciante della cultura politica che alberga in buona parte del paese. Le grida, le invettive, i lazzi, lanciati dalla quasi totalità dei senatori del centro-destra all'indirizzo di Rita Levi Montalcini, nel silenzio e nell'acquiescenza dei dirigenti politici di quello schieramento, fotografano il degrado della lotta politica italiana.

Una delle persone più illustri della cultura nazionale, una delle pochissime insignite di un premio Nobel in una disciplina scientifica, una donna di veneranda età, invece di essere omaggiata per il servizio che ha reso al suo paese, e che continua a rendere interpretando con senso del dovere esemplare il suo nuovo compito di senatrice, viene dileggiata ad ogni suo apparire dalle centurie dell'opposizione. L'attacco a cui viene quotidianamente sottoposta Rita Levi Montalcini rasenta la pura vigliaccheria perché mira ad intimidirla per indurla a disertare le sedute del Senato. Questo atteggiamento bullistico non cade dal cielo: riflette una cultura dell'odio, del disprezzo e dell'aggressione che sta montando da troppo tempo nel cuore del centro-destra. I titoli dei giornali più in sintonia con il forzaleghismo, vero asse portante della Cdl, dal 'Giornale' a 'Libero' al nuovo 'Panorama' con l'elmetto, sorvolando su altri organi di informazione più di nicchia, ma su cui si abbeverano comunque i militanti di quell'area, trasudano di una ostilità sorda e rancorosa contro i 'nemici'.

Alcuni buontemponi continuano a trastullarsi con l'immagine della sinistra unita solo dal nemico Berlusconi; accecati come sono dal loro furore contro tutto ciò che odori di sinistra, non vedono le colate di astio bollente che tracimano dai vulcani politico-informativi della destra. C'è un fetta di opinione pubblica che è stata alimentata in questi anni dall'evocazione di nemici, reali o immaginari non importa, ma comunque tutti infidi e minacciosi: i comunisti e l'euro, i poteri forti e i magistrati, i sindacati e l'Ue, gli immigrati e gli intellettuali, la tv pubblica e le banche, e in cima a tutti, ovviamente Romano Prodi. In quale paese, del resto, si è sentito un primo ministro in carica - e parliamo di Silvio Berlusconi - disprezzare così apertamente e volgarmente gli elettori dello schieramento opposto definendoli "coglioni" o denigrandoli come "naturalmente predisposti al broglio elettorale" (quando invece bisogna ancora chiarire il mistero delle schede bianche scomparse e delle incursioni degli hacker al Viminale la notte delle elezioni).


Alla virulenta denigrazione dell'avversario non vengono alzati argini: quali interventi abbiamo letto dagli aedi autentici o mascherati della Cdl che stigmatizzassero le espressioni indegne contro la Montalcini? Silenzio assordante. Di questa deriva una responsabilità va anche al centro-sinistra. E non per la ragione sostenuta dai buontemponi di cui sopra. Bensì perché il belato dei dirigenti del centro-sinistra si limitava a invitare sommessamente gli avversari ad abbassare i toni, come azzimati signorini che chiedono un po' di buone maniere a una banda di bulli di periferia, senza pretendere rispetto e rispondere per le rime a chi butta nella spazzatura le regole del viver civile.

L'assenza di minimo comun denominatore nella politica italiana è però storia vecchia quanto il Colosseo. Lo scontro radicale, assoluto, totale, amicus/hostis, da sempre connota il carattere nazionale. Solo dopo gli anni di piombo, a fatica, era finalmente emersa una sensibilità diversa che vedeva la fine delle contrapposizioni violente, la tolleranza verso gli avversari politici, l'apertura al dialogo a 360 gradi.

Dalla discesa in campo del Cavaliere e dall'affermarsi della Lega si è invece innescato di nuovo un processo di radicalizzazione. In questa corsa scomposta verso l'Armageddon politico dello scontro finale non stonano certo le aggressioni verbali ad una minuta e canuta signora. Fanno parte anch'esse di quella 'antica festa crudele' in cui tanti, troppi, si dilettano. E invece bisogna cacciare Clausewitz dall'arena politica.

(08 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 28, 2008, 10:59:50 am »

Piero Ignazi

Laicità repressa


Se c'è un problema di minoranze offese e marginalizzate, oggi in Italia, esso riguarda ancora una volta i laici 

La Città del Vaticano, in termini di diritto internazionale, è uno Stato sovrano titolare di 'soggettività internazionale'.

È ammesso come osservatore permanente all'Onu, mantiene rappresentanze diplomatiche presso gli organismi internazionali e scambia ambasciatori accreditati con tutto il mondo.

In termini istituzionali la Città del Vaticano è una sorta di monarchia elettiva. Al vertice dello Sato vi è infatti una figura assimilabile a un presidente a vita, eletto da un conclave di maggiorenti (i cardinali). Il pontefice esercita la sua attività coadiuvato da un consiglio da lui scelto (come nelle corti di un tempo) a cui sono affidati compiti e funzioni varie; ma è da lui che promana ogni iniziativa in campo civile, oltre che religioso ovviamente. Come è scritto nel sito ufficiale del Vaticano, "nell'esercizio della sua suprema, piena ed immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della curia romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori".

Del resto, anche l'articolo 1 della Costituzione della Città del Vaticano, entrata in vigore il 22 febbraio 2001, non lascia adito a dubbi sul suo ruolo: "Il Sommo Pontefice, Sovrano (sic) dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario".

Ebbene, in base a questi dati, sotto il profilo giuridico-politico, il Sommo Pontefice Benedetto XVI è, innanzitutto, un capo di Stato. E, come ogni altro capo di Stato, quando va in visita in un altro paese, può essere omaggiato e osannato oppure può essere criticato e contestato. Ancora prima di ogni valutazione sulla vicenda dell'invito della Sapienza di Roma, questo è il primum mobile della questione. Chi mette piede in uno Stato democratico come, pur con enormi difetti e manchevolezze rimane ancora, forse per poco, l'Italia, è sottoposto alle regole della democrazia. In cima alle quali c'è la libertà di espressione, verbale e non verbale.

Quando Richard Nixon venne in Italia e il ricevimento in suo onore fu disturbato dalle proteste di piazza, che arrivavano fino alle ovattate stanze del Quirinale, 'quel' presidente rispose ai suoi imbarazzati anfitrioni: ""No problem, this is democracy".
 
Premesso tutto ciò, rimane il versante politico della questione. Anzi, più che politico, delle buone maniere: su questo i papa-fans hanno ragione da vendere, non si invita qualcuno sapendo di metterlo a rischio di sgradevoli contestazioni. Prima ci si accerta che sia accolto con largo consenso e poi, se ci sono degli irriducibili, si soprassiede. Il pasticciaccio e la brutta figura ricadono tutte sul rettore della Sapienza. Abilmente, la curia vaticana ha colto la palla al balzo per avviare una campagna di vittimizzazione, consentendo ai sicofanti di turno di lanciare allucinanti proclami sulla "libertà di parola negata".

L'episodio getta comunque un fascio di luce sullo stato della laicità in Italia. Da un lato è, essa sì, praticamente ridotta al silenzio dalla continua aggressione verbale che le gerarchie ecclesiastiche di ogni ordine e tipo scatenano contro chi non si allinei. Ma dall'altro, checché strombettino le fanfare clericali, dal 'Foglio' in su, il processo di secolarizzazione avanza. Gli studi condotti sotto la supervisione del professor Renato Coppi per l'Osservatorio sulla Secolarizzazione e pubblicati da 'Critica Liberale' dimostrano come la secolarizzazione sia andata costantemente avanzando dal 1991 al 2004 (data dell'ultima rilevazione).

Questo processo trova conferma nella sconsolata conclusione di una approfondita ricerca curata da Franco Garelli, Gustavo Guizzadi ed Enzo Pace, secondo la quale "Dio, Cristo, la Bibbia, sono diventati anche per alcuni fedeli oggetti incerti di fede".

Per far fronte a questo deperimento la Chiesa ha elevato il livello di scontro, intervenendo in ogni settore della vita civile italiana (e di altri paesi). Ad esempio, con la massima tranquillità certe diocesi discutono sulla eventuale costruzione di moschee, sentenziando sul diritto di altri a praticare degnamente la loro religione.
E non si limita a questi aspetti, e ad altri assai materiali e terreni (si veda la perorazione per gli ospedali cattolici della capitale fatta dal papa a sindaco e presidenti di Regione e Provincia la scorsa settimana): la Chiesa pretende anche di delegittimare qualunque altra etica non fondata sui principi della fede cattolica, come se i non credenti o i cultori del libero pensiero fossero una sottospecie morale, degli Untermenschen dell'anima.

Se c'è un problema di minoranze offese e marginalizzate, oggi, in Italia, esso riguarda, ancora una volta, come nei secoli passati, i laici.

Non certo la Chiesa, onnipresente su tutti i media.

(25 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 15, 2008, 09:31:16 pm »

Piero Ignazi

Elezioni con l'handicap


Si va verso il voto con la grossa novità rappresentata dal Pd, ma Berlusconi mantiene il vantaggio competitivo di risorse mediatiche che distorce la competizione  Silvio BerlusconiC'è un equivoco che sta montando impetuosamente in questi primi giorni di campagna elettorale: quello che scambia una alleanza elettorale come l'accordo Berlusconi-Fini, con Bossi e, probabilmente, Casini a seguire, con un nuovo partito già bello e fatto. Tra lo stringere un patto elettorale e il dar vita a una organizzazione partitica c'è di mezzo il mare, come si è visto dalle parti del centro-sinistra: dall'Ulivo al Partito democratico è passato più di un decennio. E quindi, invertendo il celebre commento di Mark Twain sulla sua annunciata scomparsa, la notizia della nascita di un nuovo soggetto politico nel centrodestra appare alquanto esagerata. Il massimo a cui si è spinto fin qui il presidente di An è l'auspicio di un gruppo parlamentare unico. Vedremo poi quali saranno gli umori nella direzione allargata di Alleanza nazionale convocata per fine settimana.

Con ogni probabilità filerà tutto liscio, con i molti 'berluscones' aennini liberati dalla fatica di dover rincorrere il capo sugli impervi terreni del voto agli immigrati e dell'accettazione della fecondazione assistita nonché di dover reggere le improvvise freddezze ("Siamo alle comiche finali") nei confronti dell'amato Cavaliere. In ogni caso, parlare oggi di fusione tra i due partiti è solo un futuribile, più vicino rispetto al passato, ma ancora ben lontano da realizzarsi. Questa accelerazione della prospettiva unitaria nel centrodestra è, palesemente, una risposta al vero, compiuto, fatto nuovo della politica italiana, vale a dire il Partito democratico. La sua genesi è stata quanto di più tormentato, incerto e defatigante si potesse immaginare e il suo slancio ideologico-culturale assolutamente asfittico. Nulla di entusiasmante. Eppure tre milioni e mezzo di persone si sono mobilitate per incoronare il leader e fornirgli piena legittimità .

Di questa forza Walter Veltroni ha fatto buon uso. Prima muovendosi a viso aperto verso gli avversari per tentare una riforma elettorale, mettendo a nudo l'indisponibilità /incapacità del centrodestra a formulare una proposta. Poi imponendo la corsa in solitaria alle elezioni, costi quel costi. Con questa scelta coraggiosa Veltroni ha imboccato una direzione di marcia e ha obbligato il centrodestra a rincorrerlo. Il front runner sul piano dell'innovazione politica è lui, mentre rimane ancora l'outsider sul piano elettorale. Ma con chances enormi, mai godute dai suoi predecessori. In primo luogo perché il confronto tra la fissità tolemaica del centrodestra, con le stesse facce - Berlusconi, Fini, Bossi e Casini - a offrirsi all'elettorato 15 anni dopo, e il rinnovamento rappresentato in sé dal Pd è impietoso per la Casa delle libertà sub-specie di Popolo della libertà (o come si vorrà chiamare).

In secondo luogo perché l'elettorato percepisce che questa volta, a sinistra, la scelta è molto 'diversa' rispetto al passato; e quindi è potenzialmente disponibile o a ritornare a votare dall'astensione o ad abbandonare lo schieramento più 'vecchio'. In terzo luogo perché la leadership veltroniana pur con tutti i suoi difetti, riassumibili nella tendenza al bambocciamento, sa parlare all'opinione pubblica, riesce a entrare in contatto con gli elettori. A rischio di abusare di un termine passpartout, incarna la figura più 'post-moderna' della politica italiana (anche del Cavaliere, ormai usurato, ripetitivo e, in sostanza, stantio). Infine, proiettandoci nelle prossime settimane, il Pd ha un'altra opportunità da cogliere per rosicchiare posizioni: aprire le sue liste a un nuovo personale politico; non necessariamente ai rappresentanti di quella mitica (e introvabile) società civile, quanto ai tanti dirigenti periferici che si sono fatti le ossa come bravi ed efficienti amministratori: gente concreta e fattiva, lontana dai riflettori nazionali, ma non per questo meno preparata e competente dei frequentatori abituali dei salotti televisivi.

Il Pd, però, vale la pena ripeterlo ancora, è gravato da un handicap, presente in tutte elezioni dal 1994 a oggi: il differenziale di risorse mediatiche a favore di Silvio Berlusconi. L'Italia rimane, agli occhi di tutti gli osservatori internazionali, un Paese a democrazia incompleta perché non garantisce una equa ripartizione dell'informazione televisiva. Lo ricordava efficacemente, dall'alto della sua esperienza personale, Vaclav Havel al World Freedom Press Day nel 2002. Il controllo del Cavaliere su Mediaset distorce la competizione elettorale, assicurando ancora, e per la quinta volta, un indebito vantaggio competitivo a uno dei concorrenti. Noi ci siamo mitridatizzati e nessuno ormai lo rileva più. Ma rimane un vulnus alla democrazia italiana e un handicap per gli altri concorrenti.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:28:44 pm »

L'egemonia del cavaliere

Piero Ignazi


Berlusconi, estraneo alla tradizione nera, è stato lo sponsor credibile del revisionismo storico e poi dell'agenda politica neoconservatrice  Silvio BerlusconiSe si fanno bene i conti, accasando micro-partiti e listine all'una o all'altra parte, alle ultime elezioni la destra ha sfiorato la maggioranza assoluta con il 49,6 per cento. Un ottimo risultato, ma ben lontano dal rappresentare i 2/3 del paese, come ha baldanzosamente affermato Silvio Berlusconi. Infatti, grazie alla (attuale) dissociazione dell'Udc di Pier Ferdinando Casini dal fronte berlusconiano, l'opposizione è al 49,1 per cento. Ancora una volta, un paese spaccato a metà.

Le sorti della sinistra sono quindi legate alla sua capacità di fare opposizione. E in questo la destra ha molto da insegnare. Perché non c'è alcun dubbio che l'attuale vittoria sia stata costruita sia con un lavoro di lunga portata di cui oggi si vedono i primi frutti - ed altri matureranno nei prossimi anni - sia con una efficacissima strategia di attacco nella lotta politica contingente. Sorvoliamo sull'abilità nell'incalzare continuamente l'avversario di cui ha dato prova la destra, adottando ogni linguaggio anche il più sprezzante e ogni strumento anche il più disinvolto, pur di ottenere il proprio scopo (due esempi per tutti: gli insulti a Rita Levi Montalcini e le profferte al senatore Nino Randazzo); vediamo piuttosto quali sono le origini lontane del suo successo.

In una parola si fondano sulla costruzione prima e sull'affermazione poi di una cultura politica di destra. Un fatto nuovo e, se vogliamo, rivoluzionario, perché non c'è mai stata una presenza solida, cosciente di sé e articolata della cultura di destra. Un po' perché intinta nell'inchiostro nero della nostalgia e della tradizione antidemocratica di inizio Novecento, un po' perché innervata da influenze clericali pre - e anti - conciliari, un po' perché provinciale ed estranea al dibattito internazionale, fino alla metà degli anni Novanta, in Italia, non si sono mai affacciati il neoconservatorismo e la moral majority, i due capisaldi culturali della destra occidentale degli ultimi due decenni del secolo.

La Dc, in quanto perno moderato del sistema e guidata da una classe politica formatasi su valori che spaziano dal personalismo al cattolicesimo democratico, ha fatto da argine alla penetrazione del neoconservatorismo. Fiocinata a morte la Balena bianca, rimaneva non solo un vuoto politico, ma anche uno culturale. La prima operazione conseguente a quel crollo è stata la postfascistizzazione del Msi e la conseguente eufemistizzazione del ventennio. Corollario di quella operazione, il picconamento dei pilastri cultural-politici dell'antifascismo e la svalutazione della resistenza. Si pensi alla differenza tra la ricezione positiva, anche a destra, del lavoro, problematico quanto magistrale, di Carlo Pavone, 'Una guerra civile', pubblicato nel 1991, e l'onda diffamatoria sulla resistenza degli anni successivi.

Per realizzare questo passaggio era necessario però un sponsor credibile, estraneo alla tradizione nera. Silvio Berlusconi è stato l'uomo della provvidenza. Ma il suo intervento non si è limitato a una copertura del revisionismo storico. Il dominus di Forza Italia ha introdotto e legittimato tutta l'agenda politica neoconservatrice, con un crescendo progressivo di radicalizzazione. Ma le sue esternazioni - come quelle di altri leader della destra - non sono cadute nel vuoto. Si sono giovate del lavoro di copertura culturale fornito dalle elaborazioni dei vari centri studi, delle riviste e delle pubblicazioni di ogni tipo e genere - elaborazioni prontamente rilanciate dai mass media previa riformulazione per il medium di destinazione.

In tal modo si è creata una koiné comune alla destra e si sono imposti nel dibattito politico-culturale temi quali: l'esaltazione dell'individualismo sregolato, la mitizzazione dello Stato minimo, il disprezzo per il pubblico, il neonazionalismo soft, l'ostilità agli immigrati rasentando la xenofobia, l'adozione, spesso impropria, dei riferimenti religiosi uniti a un via libera a ogni intromissione della Chiesa, la riduzione dei diritti civili a optional, la glorificazione acritica dell'Occidente e del Grande Fratello d'oltre-oceano, l'euroscetticismo, l'insofferenza per i checks and balances costituzionali a fronte dell'idolatria populistica del volere del popolo (salvo quando si schiera per quasi i 2/3 contro le proposte di riforma costituzionale dei geni di Lorenzago nel referendum, presto dimenticato, di due anni fa). Tutto questo non si è costruito in un giorno: è il risultato di un impegno 'metapolitico' di anni. E ora se ne vedono i frutti.

Cosa oppone la sinistra a questa offensiva? Quali sono le sue idee forza? Con quali strumenti pensa di proporle?

Lasciate ad altri la storiella dell'egemonia culturale della sinistra.

È vero esattamente il contrario, e per tornare a vincere deve prendere atto della realtà e rimboccarsi le maniche.

(09 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 02, 2008, 09:12:01 am »

Piero Ignazi.


Cosa farà il Pd da grande


 Il Partito democratico ha di fronte a sé tre dilemmi da sciogliere: il primo sul giudizio in merito al risultato delle elezioni (sconfitta o tenuta), il secondo sulla natura del partito (socialdemocratico, o democratico), il terzo sulla strategia da perseguire (vocazione maggioritaria o politica delle alleanze).

I dilemmi non sono isolabili e separabili, bensì intrecciati, quasi aggrovigliati l'uno all'altro: tuttavia è utile tenerli distinti per cercare di dipanare la matassa del Pd.

Il primo dilemma, pur essendo il più contingente, contiene in sé i codici dello sviluppo degli altri due. In termini banalmente numerici - ma si sa che nel paese dell''inferma scienza' i numeri, più che contarli, si pesano - il Pd è avanzato in valori assoluti e in percentuale rispetto a qualsiasi conformazione precedente dell'Ulivo. Il partito guidato da Walter Veltroni ha guadagnato consensi, non ne ha persi rispetto alle formazioni da cui origina, prese singolarmente o collettivamente sotto l'egida dell'Ulivo.

Da un punto di vista 'oggettivo', di semplice statistica elettorale, il Pd è riuscito non solo a mantenere il pre-esistente serbatoio elettorale ma a rabboccarlo un po'. E, date le condizioni di partenza (si riguardino i dati sulla popolarità del governo Prodi all'inizio della campagna elettorale), il risultato può essere considerato un 'successo'. Poi c'era chi, a cominciare dallo stesso Veltroni, vaticinava addirittura il sorpasso sul Pdl, e con una contagiosa forza di convinzione (tanto da smuovere anche uno scettico come il sottoscritto).

Lo scarto tra Pd e Pdl , oltre alla vittoria schiacciante del centro-destra nel suo insieme, ha fatto passare in secondo piano il risultato in sé del Pd. Walter Veltroni ha tentato nei primi giorni di qualificare in senso positivo il responso delle urne, ma
i suoi avversari interni, e ovviamente quelli esterni, si sono buttati a capofitto nello stigmatizzare il risultato come una rotta. Quando invece il dato del 37,5 per cento è perfettamente in linea con le percentuali di tutti i partiti socialisti europei, dal Labour inglese al Ps francese, dalla Spd tedesca ai socialdemocratici scandinavi, con la sola eccezione del Psoe spagnolo.

E qui viene il secondo dilemma. Socialdemocratico o democratico? Cosa siano oggi i socialdemocratici, con una certa fatica, riusciamo a rintracciarlo; cosa siano i democratici, cari ai 'novatori' del Pd, francamente no. Niente di male. Basta coinvolgere le migliori intelligenze del centro-sinistra e sfornare contributi a getto continuo per una riflessione collettiva sul senso da dare a questa parola nella politica italiana ed europea, vista l'assenza di modelli.

'Vaste programme', avrebbe ironizzato il generale De Gaulle, ma anche avventura intellettuale e politica affascinante. Finora però, a parte casi isolati e rimasti fuori dal dibattito interno ed esterno al partito, non c'è praticamente nulla. Quindi, delle due l'una: o accetta di entrare, pur con alcune peculiarità, nella famiglia socialista, o si fa portabandiera di una nuova famiglia politica in Europa. In assenza di passi in avanti significativi su questo secondo obiettivo, non rimane che confluire nell'alveo socialista, con buona pace dei residui, pochi, cattolici rimasti nel Pd. I quali dovrebbero comunque ricordare che il Labour è il partito dei cattolici inglesi e che la Spd accoglie la maggior parte dei fedeli di confessione protestante. E, più in generale, che in 12 paesi europei il 45 per cento di coloro che dichiarano di appartenere ad una religione vota per partiti socialisti.

Infine, vocazione maggioritaria o strategia delle alleanze. La risposta sembra ovvia, visti i risultati elettorali. Eppure, se si ragiona non sul breve periodo - le elezioni europee - ma sul medio periodo - le prossime politiche - l'alternativa mantiene tutto il suo senso.O il Pd assume il ruolo di partito cardine del centro-sinistra che decide, a seconda delle sue convenienze, se allearsi con altre formazioni, che accettino però tranquillamente un ruolo di junior partner , oppure ritorna al carosello delle coalizioni (instabili) con partiti a cui viene garantita 'pari dignita''. In quest'ultimo caso il Pd prosegue con il piccolo cabotaggio, mentre nel primo deve attraversare una marcia del deserto. E per questo necessita di una leadership autorevole e condivisa, che trascini il partito verso la (una) sua nuova identità - socialdemocratica o democratica che sia - convinta che un terzo dei consensi costituisca una ottima base di partenza.

(01 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:47:54 pm »

Piero Ignazi


Law and order fuorilegge


La tolleranza zero dei nostri neoconservatori alla vaccinara diventa razzismo e repressione del dissenso  Un soldato in strada a RomaNella visione del mondo dei conservatori classici il law and order, l'imposizione di norme severe e rigorose per far rigar dritto criminali e devianti, racchiudeva l'essenza stessa del vivere ordinato, civile, rispettoso delle leggi. Oggi, nell'epoca del neoconservatorismo populista, il legame organico tra ordine e legalità proprio dei vecchi conservatori si è allentato fin quasi a sciogliersi. I neo-cons trionfanti, soprattutto quelli nostrani, alla vaccinara, non 'vedono' nemmeno il rapporto tra il law and order e l'omaggio assoluto, rigoroso, quasi automatico al primato della legge in quanto tale. Quando le attuali più alte cariche governative sostengono che le leggi vanno interpretate politicamente, e chi non si attiene al nuovo 'benpensare' berlusconiano viene additato come un nemico del popolo, esse rivelano la loro propensione all'utilizzo strumentale - e in prospettiva pericoloso - della potestà normativa.

Una politica di tolleranza zero contro il crimine, come quella lanciata a suo tempo dal sindaco di New York, Rudy Giuliani, poteva essere contestata sulla base della sua efficacia (e infatti gli studi condotti sul caso newyorkese hanno mostrato che il calo dei reati violenti dipendeva da una diversa distribuzione anagrafica della popolazione: diminuendo drasticamente i giovani, i reati calavano in rapporto); ma non rappresentava un problema di legalità perché non veniva messo in discussione il primato della legge, la rule of law. E infatti i casi di abuso di potere della polizia hanno riempito le pagine dei giornali, infiammato il dibattito e costretto le autorità a intervenire per rimediare ai danni. Nessuno si è alzato a sostenere che il sindaco e i suoi poliziotti avevano comunque ragione perché eletti dal popolo. Evidentemente, c'erano dei 'giudici' a New York. Ed erano rispettati. L'11 settembre 2001 e la vittoria dei neoconservatori hanno modificato anche negli Stati Uniti il concetto di Stato di diritto, imponendo una visione emergenziale e d'eccezione a molti aspetti della vita civile. Ma, assorbito lo shock delle Torri Gemelle, l'America è ritornata nell'alveo della tradizione: la cultura liberale sta infatti imponendosi di nuovo.

In Italia, invece, il rischio di travolgere la rule of law agitando gli spettri delle invasioni rumeno-tzigane o berbero-saracene si è innalzato con la vittoria del centrodestra. Per la semplice ragione che i nostri neocons alla vaccinara non hanno alle spalle una cultura politica liberale, nemmeno in versione ipermoderata. Hanno acquisito e assemblato alla meglio la versione più estremista e populista del neoconservatorismo, innervandola di quanto di originale ha prodotto il genio italico nel XX secolo: vitalismo futurista, strapaese qualunquista e familista, fascismo aggressivo o querulo a seconda delle occasioni. Il tutto riconfezionato sulla taglia della società postmoderna dello spettacolo e dell'infotainment di cui Silvio Berlusconi è il massimo interprete (e impresario). Questa visione del mondo ha in dispetto la divisione e il bilanciamento dei poteri, il pluralismo delle idee e degli interessi, il rispetto sempre e comunque delle norme (comprese quelle tributarie). Preferisce esprimersi con una proiezione ipertrofica del proprio ego politico.

Di qui derivano le scelte sulla sicurezza. La ridicola messinscena di un migliaio o poco più di militari nelle città italiane a fronte della disponibilità di circa 300 mila agenti delle forze dell'ordine, numero quasi doppio di cui dispongono gli altri paesi europei, e la campagna d'odio e di discriminazione razziale lanciata contro gli zingari, servono per mantenere sotto pressione l'opinione pubblica, alimentando il circuito perverso della paura e per saggiare le reazioni all'utilizzo improprio, 'eccezionale', delle forze armate.

Dato che l'efficacia di qualche militare in giro per le città è pressoché nulla, il senso di questa operazione è tutto nell'utilizzare la logica del law and order al di là e al di fuori della legalità; creando in tal modo un cortocircuito tra invocazione della mano dura contro i nemici e lassismo nei confronti delle regole generali e impersonali, prive di nemici reificabili. Il tutto giustificato dal richiamo al volere del popolo (spaventato), contro il quale non ci possono essere argini o contropoteri legittimi. Questo atteggiamento genera una inquietante incognita: che la tolleranza zero contro il crimine, in paesi governati da maggioranze povere di cultura liberal-costituzionale, degeneri in tolleranza zero per il dissenso e la diversità. O produca una, cento, mille Bolzaneto. Il trattamento riservato alla prostituta nigeriana a Reggio Emilia e alla studentessa peruviana a Roma sono i primi campanelli d'allarme.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 13, 2008, 12:40:06 am »

Piero Ignazi


Ecco la nuova lotta di classe


A combattere non sono più gli 'ultimi' ma i 'primi' sostenuti dal governo di Berlusconi.
Quando si pensa alla lotta di classe si immaginano folle di tute blu vocianti o moltitudini di contadini scalcagnati e scamiciati - ma anche composti e dignitosi come nel celebre quadro di Pellizza da Volpedo - che sfilano per rivendicare pane e lavoro. Questa immagine è sbiadita come una vecchia fotografia, rimanda ad un mondo antico di cui si stanno perdendo le tracce. Non ci sono più quegli attori: il proletariato si è sfrangiato in mille componenti diverse e gli 'ultimi' della società riflettono un caleidoscopio di etnie, costumi e culture che non può certo essere ricompattato in una classe sociale omogenea.

Ma se si è dissolta la lotta di classe fatta di scioperi e picchettaggi che aveva nel proletariato la sua spina dorsale, non per questo è scomparsa. Si è spostata di 180 gradi. Ha subito una rivoluzione copernicana. Non è più condotta dagli 'ultimi', bensì dai 'primi'. Sono i detentori delle risorse economiche e politiche che prendono l'iniziativa per mantenere e rafforzare le posizioni acquisite a discapito degli altri. L'offensiva non passa più per le antiche vie contrattuali, sempre meno rilevanti in termini numerici e sempre più residuali per definire i rapporti di forza (anche se il tentativo di scardinare la contrattazione collettiva a favore di una contrattazione individuale indica una precisa linea di attacco), bensì per l'iniziativa pubblica, per il matrimonio d'interesse tra corporazioni economiche e potere politico celebrato dal governo Berlusconi.

Lo si è visto con uno dei primi provvedimenti del governo di centro-destra. Uno dei tanti, ma esemplare per la sua precisione chirurgica: l'eliminazione della tracciabilità degli onorari dei liberi professionisti, strumento efficace di contrasto all'evasione e al riciclaggio introdotto dal governo Prodi.

Il messaggio non poteva essere più chiaro: sappiamo chi sono 'i nostri' e interveniamo subito in difesa dei loro interessi. E, specularmente, sappiamo chi sono i 'nemici': i lavoratori dipendenti, soprattutto del settore pubblico, che votano a sinistra. Contro di loro si è scatenata una offensiva tambureggiante puntando sulla delegittimazione morale al punto da affibbiare loro l'etichetta di 'fannulloni'. Non basta. Mentre il ministro dell'Istruzione - che non sa nulla di scuola e università ma in compenso ha guadagnato l'avvocatura a Reggio Calabria - decreta l'espulsione di decine di migliaia di insegnanti (ovviamente dei fannulloni) negli Stati Uniti i candidati alla presidenza fanno a gara a chi promette più interventi nel sistema educativo e Barack Obama arriva a dichiarare testualmente alla Convention democratica che "arruolerà legioni di insegnanti pagandoli meglio anche a costo di aumentare le tasse".

Tutto questo perché nel sistema americano si crede ancora nell'istruzione, nella conoscenza e nella competenza come veicoli di successo professionale, mentre da noi la cultura, e chi lavora nel mondo dell'educazione, sono trattati con sufficienza e mal sopportati, come un orpello inutile. In fondo basta essere una bella soubrette per diventare ministro, perché consumarsi gli occhioni sui libri e al computer? Questo è il vero messaggio, subliminale e quindi autentico, della nomina di Mara Carfagna. Il resto è accessorio.

La lotta di classe impostata dal governo ha un obiettivo preciso: scardinare quel poco che è rimasto della classe operaia sindacalizzata, peraltro priva di una guida all'altezza della sfida, difendere i lavoratori autonomi da ogni meccanismo regolativo e fiscale per riprendere la redistribuzione del reddito a loro favore avviata nel precedente governo Berlusconi (e incautamente ammessa anche dallo stesso superministro Tremonti) e, infine, spremere il ceto medio per compensare i benefici alle altre componenti sociali - e per chi abbia dubbi in proposito basta leggere l'intervento, inquietante per usare un eufemismo, di Laura Pennacchi, 'Un decisionismo (poco) compassionevole', sull'ultimo numero della rivista 'il Mulino'.

La difesa degli interessi corporativi implica un drenaggio di risorse dal lavoro dipendente, perché se si toglie l'Ici alle case dei ricchi, si abbandona la lotta all'evasione fiscale (il crollo del gettito dell'Iva sta a dimostrare come il lavoro autonomo si sia immediatamente adeguato al nuovo clima), si rifinanziano i progetti faraonici come il ponte sullo stretto, e si fanno pagare a noi cittadini, anzi ai 'tax-payers' come si dice nei paesi anglosassoni, le perdite dell'Alitalia lasciando i profitti agli happy few, in qualche modo bisogna trovare i soldi. È per questo che il governo si schiera in prima fila a fianco degli interessi corporativi contro il lavoro dipendente in una nuova versione della lotta di classe.

(12 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Settembre 13, 2008, 11:45:44 am da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 04, 2008, 03:46:21 pm »

Piero Ignazi.


L'arbitrio al governo


Il caso Alitalia dimostra come la classe dirigente è pronta a picconare lo Stato di diritto. 
Il caso Alitalia costituisce la cartina di tornasole della persistenza di alcuni tratti tipici della cultura politica italiana: iper-corporativismo sindacale, uso discrezionale della legislazione e predilezione per furbizie e scorciatoie, inattitudine della sinistra a fare opposizione, retorica patriottarda, fiancheggiamento al potente di turno di una imprenditoria 'compradora', acquiescenza al potere degli intellettuali con contorno di liberismo alle vongole.

Se il catalogo è (ancora) questo, c'è poco da stare allegri: vuol dire che abbiamo azzerato gli sforzi di modernizzazione compiuti da minoranze virtuose negli ultimi 15 anni e che procediamo come gamberi scatenati via dall'Europa, diritti verso il peronismo.

Mettiamo sotto la lente il comportamento della classe imprenditoriale, quella che negli ultimi anni, sorvolando con nonchalance sui casi Parlamat e Cirio, è stata esaltata come la punta di lancia dell'Italia moderna. A parte quei settori dove si produce in regime di concorrenza globale, e che fanno la vera ricchezza della nazione, molti (ex o soi-disant) imprenditori si sono adagiati sulle reti di protezione pubblica garantite da tariffe, da concessioni, da barriere. Del resto, l'esempio viene dall'alto. Il nostro presidente del Consiglio, infatti, ha agito sempre in settori connessi con i pubblici poteri attraverso 'concessioni', vuoi edilizie, vuoi di frequenze televisive; il rischio d'impresa era azzerato dalla protezione politica, indiretta ai tempi di Craxi, diretta ora.

Nessuno stupore quindi che un gruppo composito di imprenditori abbia risposto all'appello pressante (e immaginiamo quanto pressante) del presidente del Consiglio a dar vita alla cordata per impiccare la vecchia Alitalia e sfornarne una nuova di zecca, ripulita dei debiti e pronta a spiccare il volo in tratte protette grazie all'intervento dello Stato. In effetti non c'è che da ammirare il coraggio di questi imprenditori che affrontano il rischio di affiancare il potente di turno, scaricano sui contribuenti il costo del deficit (almeno un miliardo di euro) accumulato dalla compagnia di bandiera e si tutelano per legge dalla concorrenza. Un modello di investimento di grande innovazione che certo entrerà nel novero dei più intriganti 'case study' delle Business School di tutto il mondo.

Qualcuno ricorda gli articoli grondanti di sdegno perché uno sprovveduto consulente economico di Romano Prodi aveva inviato un progetto di ristrutturazione aziendale al presidente di Telecom? Guai alla commistione politica-affari tuonavano le prefiche del liberalismo a 24 carati. E poi, come si indignava il centrodestra per l'asta promossa dal governo Prodi: la Fondazione Magna Carta sentenziava che "il governo si è deliberatamente sostituito al mercato nella funzione di determinatore di valore. Alitalia non sarà venduta al miglior offerente, rispettando il principio cardine del mercato competitivo, ma all'investitore il cui piano industriale sia 'più rispettoso' delle clausole imposte dal governo stesso". Oggi quegli stessi tacciono, intenti a guardare altrove o a distillare veleno sul sindacato reo di lesa maestà per non essersi piegato subito al volere del principe alato. Sono assai pochi coloro che hanno mantenuto la barra dritta sui principi proclamati in passato e non si sono accodati al coro nazional-popolare pro Cai.

Ma se questi atteggiamenti rimandano a carenze strutturali di una classe imprenditoriale e di un ceto intellettuale, per cultura e tradizione troppo avvinti e 'disponibili' al potere politico, il lato più oscuro della vicenda Alitalia sta in una provvidenza solo apparentemente marginale del governo: il grazioso dono elargito alla Cai della sospensione dell'antitrust per sei mesi. Una iniziativa geniale e semplice come l'uovo di Colombo: se c'è una norma, un regolamento, un istituto, che intralciano, basta sospenderli. Se questa è la cultura giuridica del governo in carica, un tale precedente potrebbe essere esteso anche ad altri ambiti. In fondo, Silvio Berlusconi, all'indomani delle elezioni del 2006, non voleva sospendere l'esito del voto? Perché non farlo la prossima volta, se necessario? E perché non sospendere la Corte Costituzionale se non si comporta bene sul lodo Alfano? Al di là della fantapolitica (speriamo), l'assenza di reazioni al diktat governativo evidenzia la drammatica sottovalutazione di cosa significhi introdurre l'arbitrio 'principesco' in un sistema politico complesso. Significa, semplicemente, incominciare a picconare lo Stato di diritto.

(03 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:24:16 pm »

Piero Ignazi


Il ritorno dello Stato


La destra italiana si riconverte allo statalismo abbandonando con un giro di valzer il neoliberismo vantato fino all'altro ieri  Giulio TremontiIl sentiero stretto in cui si devono muovere i governi di fronte alla crisi finanziaria globale passa tra due opposti pericoli: quello del business as usual, non è successo niente, anzi 'un bel febbrone aiuta a crescere' e quindi evviva la distruzione creativa del capitalismo; e quello della crisi irreversibile del capitalismo e quindi riportiamo lo Stato nel ponte di comando dell'economia.

Per una volta, in mezzo sta la virtù. L'intervento pubblico non è, in sé, il male assoluto come per decenni hanno sostenuto i fondamentalisti dell''iper-mercato' e i neoconservatori di mezzo mondo, da Ronald Reagan in poi. Dipende da chi lo attua, con quali finalità e quale background culturale-ideologico (comunista o socialdemocratico , populista-autoritario o fascista).

Negli ultimi vent'anni e passa l'ideologia neo-liberista è dilagata in tutta Europa. La socialdemocrazia, per sua debolezza teorica, non è riuscita a far argine e ha ceduto passo dopo passo alle posizioni dell'avversario, spesso ricalcando in maniera grottesca le sue argomentazioni. Con il risultato di perdere l'identità, stretta tra un irrigidimento in difesa della tradizione e un adeguamento supino verso il pensiero della parte avversa.

La conseguenza di questo arretramento è che oggi il 'ritorno dello Stato' in Europa rischia di sfuggire di mano alla sinistra e trasformarsi in una risorsa a disposizione della (nuova) destra. È solo una possibilità che comunque va declinata paese per paese. Se in Gran Bretagna non ci sono dubbi che sia il Labour ad avere il monopolio della politica interventista nell'economia, senza peraltro essere più tacciato come inconcludente dissipatore del denaro pubblico grazie ai governi di Tony Blair - al punto che oggi Gordon Brown può proporsi come un novello Clement Attlee, pronto a difendere sia l'economia che i sottoprivilegiati - in Francia e in Italia sono le destre a guidare la riscossa dello Stato. Che siano i gollisti di Nicolas Sarkozy a farlo Oltralpe non stupisce visto che non fanno altro che riprendere la tradizione statalista del Generale (le prime grandi nazionalizzazioni post belliche portano la sua firma, non quella della sinistra). E sappiamo bene come, per i francesi, il riferimento a L'État abbia un suono particolare.


Ma in Italia è tutto un altro discorso. L'intervento statale, da noi, ha un antecedente culturale di segno diverso. Si ritrova innanzitutto nel fascismo con la teoria corporativa - peraltro rimasta sulla carta - e con la creazione dell'Iri e nazionalizzazioni collaterali. Del resto, l'espansione dello Stato nell'economia era congruente con la visione delineata dall'ideologo del regime, il (purtroppo grande) filosofo Giovanni Gentile, quando sosteneva che lo Stato era tutto e fuori dallo Stato non c'era nulla.

Ora non c'è niente di più normale che la destra italiana si riconverta allo statalismo abbandonando con un disinvolto giro di valzer il neoliberismo vantato fino all'altro ieri e della cui carenza rimproverava burbanzosamente la sinistra. Nulla di più facile questa piroetta della destra, perché nei suoi geni non ci sono mai stati i codici del liberismo economico (e nemmeno del liberismo tout court, peraltro). Il suo liberismo era anarchismo, indifferenza e fastidio per ogni vincolo pubblico, animal spirits della giungla non del mercato, privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. In assenza di un coerente framework teorico da difendere, la crisi finanziaria mette nelle mani della destra una opportunità preziosa e irripetibile: riprendere la via fanfaniana dell'occupazione pubblica dell'economia attraverso aiuti alle industrie, chiusura al mercato internazionale, innalzamento di barriere, difesa dalla contendibilità delle nostre aziende e, ovviamente, corsie preferenziali per gli amici (Alitalia docet), ecc.

Se per la destra questa è una occasione d'oro per conquistare una stabile egemonia, la sinistra può però rispondere dimostrando di saper coniugare con maggior coerenza dell'avversario 'Stato e mercato'. In sostanza, ritrovare le ragioni e la convinzione di essere 'liberal' anche in tempi di ferro come questi. Le risorse intellettuali e politiche non mancano: devono solo avere il coraggio di uscir fuori, senza chiedersi cosa penseranno Massimo o Walter, cosa diranno i media, ecc, ecc. È tempo di grilli parlanti alla Paul Krugman e di leader innovativi.

(24 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 14, 2008, 10:47:04 pm »

Piero Ignazi.


Servono nuovi leader


Chi può dare risposte credibili alla crisi economica, ai giovani, a chi perde il lavoro? Polizia nelle università, carcere per gli inquinatori (ma solo del napoletano), sproloqui sulla crisi e sul neo-presidente americano conditi da insulti alla stampa, avvertimenti mafiosi del ministro Giulio Tremonti ai banchieri non amici, altolà all'ingresso della Croazia nell'Ue da parte nientemeno che del sindaco di Roma: il catalogo delle ultime iniziative ed esternazioni del governo è questo. Al di là di sconsolanti considerazioni sulla qualità della presente offerta governativa, quello che preoccupa maggiormente è la concezione della politica che questi esempi segnalano: la divisione del campo in amici o nemici e l'uso del potere come un maglio che cala contro tutti coloro che non sono ossequienti. Questa concezione populista e arrogante delle responsabilità di governo porta il centrodestra sempre all'attacco, su ogni fronte, incurante di travolgere decoro istituzionale, fair play e interessi nazionali.

Esempio: la manifestazione del Pd a Roma; un flop, nemmeno 200 mila persone hanno ripetuto tutti i leader della maggioranza, con un misto di irrisione e di disprezzo (anche nei confronti di tutti coloro che avevano visto le riprese dall'alto e si erano resi conti del suo clamoroso successo).

Ma non potevano attenersi a commenti più sobri ed equilibrati? Macché, via all'assalto denigrando e insultando: esemplari gli epiteti sparati a raffica con futuristico ardore dal ministro della Difesa Ignazio La Russa contro il direttore de 'l'Unità' Concita De Gregorio, da "cretina" a "mettiti un turacciolo in bocca" (ogni allusione sessuale è ovviamente esclusa).

Finora comunque il governo non ha avuto modo di esercitare in corpore vili la sua pulsione aggressiva. Sono mancate le occasioni propizie e sono quindi rimasti nel cassetto i consigli dati dall'ineffabile ex presidente della Repubblica - e soprattutto ex ministro dell'Interno - Francesco Cossiga di riempire le manifestazioni studentesche di infiltrati e di provocatori e poi di spaccare la testa a studenti e insegnanti tanto per far capire chi comanda. Ma non è detto che nei prossimi mesi non si prospettino situazioni favorevoli per attuare i buoni propositi kossighiani. Il clima sociale sta cambiando e come sempre gli studenti sono l'antenna più sensibile di un malessere, indefinito e oscuro quanto ormai chiaramente percepibile.

Alcuni hanno giustamente osservato che per la prima volta gli studenti non rivendicano quello che non va della loro condizione: aule, biblioteche, laboratori, didattica, servizi, ecc. E ne avrebbero ben d'onde di lamentarsi. Invece sono preoccupati - anche - di finanziamenti, ricerca, reclutamento e selezione dei professori. Un segnale di spostamento d'ottica e persino di maturità (anche se la dinamica della protesta può prendere facilmente altre direzioni e perdersi nelle fumisterie degli acchiappanuvole di professione). Lo sguardo degli studenti non è infatti sul presente - 'vogliamo tutto e subito', si diceva un tempo - bensì sul futuro. Ma il futuro appare costellato di precarietà, di mobilità sociale bloccata, di sotto-occupazione intellettuale. Il tutto aggravato all'ennesima potenza dalla crisi finanziaria ed economica.

Questa visione cupa è condivisa da larga parte dell'opinione pubblica perché suffragata da dati 'duri', reali e incontestabili. Nei prossimi mesi, se non si invertirà miracolosamente il trend economico, migliaia di imprese chiuderanno e milioni di persone perderanno il lavoro o passeranno nel precariato. E molte di queste saranno immigrati, destinati quindi in breve tempo, grazie alla Bossi-Fini che li tratta da Gasterbeiter (lavoratori ospiti e temporanei), a diventare clandestini. Ci troveremo di fronte a una inedita confluenza nell'area del malessere sociale di lavoratori precarizzati o ridotti sulla strada e di una massa non indifferente di 'non-cittadini' costretti alla clandestinità con tutto quello che ne consegue. Di fronte alle probabili tensioni che tale malessere produrrà, il governo, viste le premesse, dichiarazioni bellicose, atteggiamenti di sfida, rifiuto del dialogo (salvo una improvvisa e benvenuta resipiscenza del ministro dell'Istruzione), potrebbe agire seguendo il tracciato dell'ordine a ogni costo e della repressione stile Diaz-Bolzaneto. Ovviamente sarebbe una scelta disastrosa, ma su quali anticorpi cultural-politici può contare la maggioranza per evitare questa deriva? Chi ha l'autorevolezza, oltre alla perspicacia, per intervenire prima che la conflittualità sociale esploda? O per gestirla senza strappi alla convivenza civile e allo Stato di diritto? Forse, solo di fronte al precipitare della crisi su ogni fronte emergeranno nel centrodestra figure alternative e, sperabilmente, più responsabili. Abbiamo un gran bisogno di nuovi leader, su ogni fronte.

(14 novembre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 05, 2008, 11:01:39 pm »

Piero Ignazi.

Il vero il falso e il finto

Le esternazioni della Carlucci e l'Ambrogino negato a Enzo Biagi: due episodi che svelano una cultura politica per nulla liberale e moderata.
Dice Carlo Ginzburg, storico di molte storie, che il suo lavoro consiste nel "districare l'intreccio tra vero, falso, finto". Per dipanare le matasse più intricate, per comprendere le ragioni più contorte di un accadimento bisogna identificare degli indizi, delle tracce che disvelino il falso che sembrava vero, e viceversa. Se adottiamo questo metodo 'indiziario' alla politica italiana, piuttosto che prender per buone le dichiarazioni solenni, gli scontri all'arma bianca nei salotti televisivi, e qualche volta anche in parlamento, vale rifugiarsi nelle pieghe della politica a tutto volume per recuperare qualche traccia del vero al di là del finto e del falso. Da indegni apprendisti stregoni di Ginzburg proviamo a muoverci alla ricerca di alcuni elementi indiziari delle 'vere' coordinate ideali del Pdl.

Due episodi recenti, per quanto minori (ma proprio per questo), sembrano illuminanti.

Il primo viene dalla presa di posizione di un illustre esponente del partito di maggioranza, membro della commissione Cultura della Camera dei deputati, l'onorevole Gabriella Carlucci, in risposta alle reazioni del mondo accademico e artistico a fronte della progettata istituzione di una Direzione generale per i musei e le gallerie, e la loro valorizzazione, direzione affidata per di più a una persona dal profilo squisitamente manageriale, ma per nulla addentro alle problematiche dell'universo museale e conservazionistico. Ebbene, a fronte dell'appello contro questa proposta promosso dall'Associazione Bianchi Bandinelli e sostenuto da migliaia di firme da tutto il mondo, l'ottima deputata rappresentante del partito di maggioranza nella commissione Cultura ha testualmente dichiarato che "i firmatari dell'appello contro la saggia decisione del ministro Sandro Bondi di istituire un manager che valorizzi adeguatamente il patrimonio museale italiano, i quali in questo momento ricoprano incarichi pubblici, dovrebbero immediatamente dimettersi". E conclude: "A questo punto l'incompatibilità funzionale palesata suggerirebbe di rassegnare immediate e responsabili dimissioni".

L'invito è perentorio quanto la gravità del reato commesso: lesa maestà! Qualche servitore dello Stato si permette di dissentire e, horribile dictu, di esternarlo pubblicamente. Il funzionario deve eseguire gli ordini e tacere. Oppure dimettersi. Traluce forse una nostalgia per il giuramento di fedeltà al regime imposto ai professori universitari dal regime fascista? Non ancora. Vi sono persone ben più ragionevoli dell'onorevole Carlucci nel Pdl; e infatti il ministro Bondi ha 'saggiamente' ritirato la proposta. Eppure, l'imperversare delle scorrerie della sunnominata onorevole nel campo della cultura - l'onorevole non è nuova a imprese di questo genere - lascia due tracce. La prima: per il Pdl la cultura non è materia da lasciare agli specialisti, bensì al primo che passa. Ma fin qui non si svela nulla di eclatante. La seconda, assai più grave: dalle fila del partito di maggioranza promana una concezione illiberale e autoritaria dello Stato, al quale si deve solo cieca obbedienza: siamo a un passo dallo Stato etico. E nessuno si è scandalizzato più di tanto, né ha intinto la penna per sottolineare il deficit di cultura liberale della destra; tanti commentatori pronti ad alzare il ditino di rimprovero verso le manchevolezze della sinistra si sono voltati dall'altra parte dimostrando, una volta di più, lo strabismo di gran parte dell'intellinghenzia moderata.

Il secondo indizio viene dalla decisione del consiglio comunale di Milano (a maggioranza di centrodestra) di bocciare la proposta del sindaco di conferire il riconoscimento cittadino (l'Ambrogino d'oro) a Enzo Biagi. Gli stessi che avevano candidato a questa onorificenza la spia 'Betulla', al secolo il giornalista Renato Farina, ora la negano a un maestro del giornalismo come Biagi per la sua opposizione ai diktat bulgari di Berlusconi. Una dimostrazione di faziosità al limite dell'odio politico nei confronti di chi non si allinea.

Fatti minori questi, ma forse spie rivelatrice del vero al posto del falso e del finto nell'ideologia della destra. Criminalizzazione del dissenso e mentalità da stato etico, spirito di vendetta ed astio imperituro per l'avversario sono due indizi di una cultura politica in totale contrasto con la sua auto-immagine (falsa e finta, quindi) liberale e moderata.

(05 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 25, 2008, 09:52:31 am »

Piero Ignazi.


Calvario democratico


Per un nuovo inizio del Pd serviva un gesto forte: l'offerta di dimissioni da parte di Veltroni  Walter VeltroniDi nuovi inizi sono lastricate le strade del declino. Il Partito democratico vi si è incamminato con passo leggero e irresponsabile. Non sembra rendersi conto della gravità della situazione. Tra la manifestazione del 25 ottobre e la vittoria elettorale in Trentino (peraltro assai poco valorizzata e immediatamente dimenticata in tutti i commenti) il Pd ha vissuto una fase di rilancio. Una boccata di ossigeno per un partito messo alle strette dalla pessima gestione della sconfitta elettorale: provincialismo, rancori interni e fragilità nervosa si erano fusi a creare un impasto micidiale di svalorizzazione del risultato ottenuto e di sfiducia nella leadership. Come se il patrimonio di un terzo dei voti fosse una misera cosa e, in Italia o in Europa, la sinistra avesse sempre veleggiato ben al di sopra di questa cifra. Tutto ciò ha prodotto l'ingabbiamento progressivo del segretario in una rete di delegittimazione. Ruolo dal quale Walter Veltroni non è riuscito a uscire nemmeno con la grande manifestazione di Roma. Un discorso piatto di fronte a una folla entusiasta e un'azione politica senza fantasia né rigore nelle settimane successive, fino al travaso di bile prodotto, com'era destino, dall'epatologo Riccardo Villari. E infine la mazzata degli arresti a raffica.

Invocare la moralità dei 'compagni di un tempo' come qualcuno ha fatto con riflesso pavloviano non ha molto senso per il semplice fatto che il Pd non è la continuazione del Pci-Pds-Ds, ma un partito in cui sono confluiti esponenti della Margherita i cui percorsi politici, al di là del nocciolo duro degli ex Ppi, sono stati i più fantasiosi, senza una adeguata socializzazione politica all'interno di un partito strutturato. Del resto, all'epoca veniva teorizzato che la Margherita non dovesse essere altro che un traghetto verso il grande partito dell'Ulivo e quindi verifica di curriculum e selezione interna erano viste come quisquilie o, peggio, forche caudine da vecchio partito. Senza un partito forte, i cacicchi prosperano.


"L'amalgama non è riuscito", ha sentenziato Massimo D'Alema alla prima vera direzione del partito dove, finalmente, si è incominciato a discutere (riconoscendo che quello è 'il luogo' della politica democrat). Bella scoperta quella di D'Alema, come se potesse riuscire la maionese con lo strutto al posto dell'olio. Gli ingredienti del Pd non si sono 'contaminati' in una nuova cultura politica come i più ottimisti auspicavano, recitando un atto di fede più che articolando una riflessione. Perché non si dà nuova identità senza un progetto politico-ideale forte, alto, evocativo e, soprattutto, senza sostegno convinto da parte del gruppo dirigente. Sono queste le due irrinunciabili condizioni per effettuare cambiamenti veri e farli accettare sia ai vecchi militanti che ai nuovi adepti. Queste condizioni continuano a mancare drammaticamente nel Pd.

C'è però anche un'altra strada per imporre il rinnovamento. Il cambio radicale della classe dirigente. L'Spd di Willy Brandt, il Ps di François Mitterrand e il Labour di Tony Blair dimostrano che i 'nuovi inizi' necessitano di leadership collettive rinnovate in profondità, non di un uomo solo al comando.

Per il Pd non si tratta tanto di una questione generazionale - e quello dei giovani è ormai uno stucchevole leit-motiv ad usum bamboccioni - quanto piuttosto del rapporto centro-periferia. La forza del Pd, soprattutto nella componente ex diessina, sta proprio nel governo delle città, delle provincie e delle regioni. La qualità politica di tanti dirigenti locali - ed è ridicolo pensare che dieci inchieste annullino migliaia di buone amministrazioni - è più che sufficiente per ritemprare un partito sfibrato, esausto. Solo coloro che hanno dimostrato esperienza e capacità a contatto con le realtà locali, affrontando i problemi quotidiani della vita dei cittadini, e allo stesso tempo sono estranei ai 'giochi romani', possono produrre (probabilmente) un migliore amalgama e (certamente) una migliore gestione politica.

Il nuovo inizio evocato da Veltroni sembra invece ridursi a un pio desiderio, fatto per consolare e illudere, reso credibile da una unità emergenziale. Invece, solo un gesto drammatico, eroico, come l'offerta delle sue dimissioni avrebbe rimesso tutto in gioco: per un vero nuovo inizio. Adesso si dovrà aspettare il risultato delle europee per rifare gli stessi discorsi, e magari attuare ciò che non è stato fatto adesso. La crisi di identità e di convinzione, all'interno come all'esterno del partito, non si risolve aspettando. Ma iniziando davvero.

(24 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 24, 2009, 04:58:21 pm »

Piero Ignazi

Un paese anormale


A renderci unici in Europa è l'ineffabile leggerezza con cui vengono recepiti xenofobia e razzismo alimentati dalla Lega  Quando dieci anni fa siamo ufficialmente entrati nell'area euro grazie all'impegno del primo governo Prodi che impose la sanguinosa finanziaria del 1996, accettata peraltro dall'opinione pubblica senza troppi mugugni tanto era chiaro e condivisibile l'obiettivo, abbiamo pensato che l'Italia stesse avvicinandoci a quella sospirata 'normalità' che da sempre ci sfuggiva. Un paese moderno, capace di indirizzare i propri sforzi verso mete ambiziose e di investire nel futuro, e con un governo in grado di convincere con argomenti razionali i propri cittadini. In quella fase tra bicamerali e 'normale' azione di governo la transizione sembrava avviarsi a conclusione. Poi, saltati uno dietro l'altro entrambi i tavoli grazie all'insipienza dei protagonisti del centro-sinistra d'allora, siamo ritornati in una fase di 'anormalità'; che perdura tuttora.

Oggi l'anormalità italiana si nutre di due fattori principali sul piano politico (e quindi escludiamo macro-fenomeni come la criminalità organizzata, l'economia grigia, l'evasione fiscale, ecc. ). La prima, arcinota, ma repetita iuvant perché si fa sempre finta di niente, riguarda, né più né meno, la (sempiterna) presenza al vertice del governo di Silvio Berlusconi in ragione della sua biografia e del suo conflitto di interessi. La seconda, anch'essa sottaciuta e sottostimata, riguarda la circolazione tranquilla - e quindi la sostanziale accettazione - delle argomentazioni, della fraseologia e degli stereotipi del razzismo identitario. Questa versione del discorso razzista ha soppiantato il tradizionale, storico, razzismo biologico secondo il quale esiste una gerarchia delle razze e, ovviamente, quella bianca e/o ariana è naturaliter superiore alle altre.

Nemmeno nell'estrema destra europea viene più adottata questa versione del razzismo. Più sottilmente, si declina la differenza tra i vari gruppi etnici in termini di diversità culturale. Ma il risultato è lo stesso: alcuni sono accettabili, altri no. Se un gruppo vuole esprimere la propria identità culturale, liberissimo: ma lo faccia a casa sua, non venga a 'mescolarsi' con noi. E se per un impulso di bontà glielo concediamo, almeno lo faccia ben nascosto dai nostri occhi, in qualche sottoscala. Questo è l'approccio adottato per primo e con più coerenza dal Front National di Jean-Marie Le Pen, e poi diffuso in tutto il continente. Questo è l'approccio che sta diffondendosi, con velocità e successo crescenti, in Italia grazie alla Lega Nord.

L'ineffabile leggerezza della ricezione della vulgata xenofoba e razzista (sub specie identitaria) costituisce anch'essa una anomalia italica: negli altri paesi europei discorsi di tal fatta sono stigmatizzati dall'opinione pubblica democratica, e gli esponenti politici che li veicolano sono emarginati dagli altri partiti. In Francia, ad esempio, Nicolas Sarkozy ha eretto un invalicabile cordone sanitario nei confronti del Front National. Qui la Lega continua a imperversare con una tambureggiante offensiva volta a stigmatizzare i 'bingo bongo' come elegantemente Umberto Bossi definì gli immigrati (domanda: qualcuno pensa che negli Usa pre-Obama o in Gran Bretagna o in Francia sarebbe ancora ministro un politico che si fosse espresso così?). Ora siamo all'introduzione di una nuova tassa ad hoc per gli immigrati. In fondo, nonostante il governo Berlusconi si vantasse di voler abbassare le tasse, tartassare i più poveri rientra perfettamente nelle corde di un governo di destra.

L'odio contro i diversi alimentato in questi anni dalle fornaci leghiste si sta riversando lungo tutta la Penisola. L'offensiva anti-immigrati non si ferma di fronte a nulla, né di fronte a quelle voci, peraltro fioche, alterne, sporadiche, della Chiesa che reclamano un po' di umanità, né ai richiami delle organizzazioni internazionali e dell'Europa (sulla opposizione interna meglio stendere un velo). Un solo esempio: ancora pochi giorni fa il gaffeur principe della nostra diplomazia - l'ex brillante ministro degli Esteri Franco Frattini - ha emesso una dura nota contro le critiche sulla questione rom mosse da Thomas Hammarberg, commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa - sprezzantemente definito 'il signor Hammarberg' (sic).

La ricezione tranquilla del discorso razzista, senza reazioni di rigetto, senza la forza dell'indignazione, senza l'opposizione di valori universali, ci rende, una volta di più, anomali rispetto al mondo civile. Altrove, chi attraversa il confine tra il lecito e il non-lecito nella tavola dei valori democratici viene emarginato. Nel Belpaese, va al governo e viene riverito.

(23 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 14, 2009, 03:24:41 pm »

Piero Ignazi

Un regime postmoderno


Berlusconi ha dato il via alla fase due: la vicenda  di Eluana è solo un pretesto abilmente gestito  Ci siamo arrivati. I benandanti della politica - illusi o corrivi non è dato saperlo - che ritenevano il presidente del Consiglio un uomo politico 'normale' hanno materia per ricredersi. Alla prima occasione utile con la freddezza, il cinismo e l'abilità che contraddistinguono Silvio Berlusconi è partita la fase due della costruzione del regime. E, per cortesia, non si venga a dire che non si tratta di regime: quando al potere economico e al controllo assoluto sull'informazione, si unisce anche il dominio sul politico, siamo alla costruzione di un regime, per quanto adeguato ai tempi post-moderni; e quindi suadente e dissuasivo allo stesso tempo, che vuole essere amato più che temuto, benché all'occorrenza sappia usare il pugno di ferro. L'offensiva contro il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ne è la prova.

La fase uno della costruzione del regime si è modulata lungo un quindicennio, con la costruzione del mito dell'uomo della provvidenza, con la demonizzazione dell'avversario e l'instaurazione di un clima da guerra civile a bassa intensità, con la creazione di un gigantesco sistema di interessi grazie all'uso spregiudicato di sconfinate risorse economiche, con il consolidamento dell'impero mediatico e il suo intelligente uso ad usum delphini. Tutto questo è stato costruito dal nulla in 15 anni grazie a eccezionali capacità e risorse, e alla miseria cultural-politica degli avversari, incapaci di cogliere i passi falsi e le battute d'arresto in cui questo progetto di tanto in tanto incappava. Ora è troppo tardi. Annichilito il Pd a causa delle sue debolezze interne, di personale politico nazionale innanzitutto, e di progettualità e strategia in secondo luogo, non ci sono barriere.

La fase due dell'instaurazione del regime è tutta in discesa. Bastava aspettare il momento buono per avviarlo. E questo è arrivato sfruttando un tema di fortissimo impatto emotivo come la vicenda di Eluana Englaro. Berlusconi non aveva alcuna idea su questa dolorosa vicenda. Ancora due giorni prima del consiglio dei ministri di venerdì 6 febbraio il presidente del Consiglio dichiarava di non averne maturato una precisa.

Poi il suo staff ha suggerito una strategia d'attacco su questo tema per introdurre una nuova, drammatizzante, contrapposizione politica tra la maggioranza identificata come il fronte della vita e l'opposizione marchiata come i portatori della falce della morte. Semplificazioni volgari ma efficacissime, che si depositeranno nella memoria collettiva perché l'opinione pubblica non si interessa affatto del federalismo, della legge elettorale, della riforma della giustizia, ecc., ma ha una sua posizione su questa vicenda che tocca la vita (e la morte) di ciascuno. Riuscire a politicizzare questo confronto brandendo lo stendardo immacolato della vita contro lo spettro della morte è una operazione di grande abilità e di sicuro, duraturo, successo. Sarà questo il leit-motiv dei prossimi mesi e anni, e sarà dura strappare all'appassionato e compassionevole presidente del Consiglio l'aura del salvatore degli inermi e dei più deboli presso tanta parte di elettorato, soprattutto quello più disattento alla politica e meno provvisto di strumenti culturali.

Messa l'opposizione in un angolo terribilmente buio (buio come la morte), Berlusconi può procedere al suo obiettivo ultimo: impiantare un regime personalistico di tipo peronista che si fondi sul rapporto mediatico-medianico con il popolo, azzerando ogni contropotere e ogni impiccio al dispiegamento della benevola e benevolente attività del 'capo'. Ovviamente la separazione e l'equilibrio tra i poteri andranno a quel paese, ma che importa: di fronte al fine ultimo, cioè l'eliminazione politica della sinistra - un remake, con qualche adattamento al palato del XXI secolo, del 1922 - anche i dubbiosi si allineeranno. Del resto, il principio della democrazia delegata, tanto caro agli inglesi, è stato abbandonato un po' da tutti. La mitologia delle primarie 'aperte al popolo', che tanto ha affascinato la sinistra negli ultimi tempi e da cui fatica a rinsavirsi , ha picconato anch'essa la concezione della lenta e graduale formazione delle scelte, saltando d'un balzo tutte le mediazioni e aprendo la strada al plebiscitarismo e alla presidenzializzazione dei partiti.

Gli anticorpi culturali al dilagare del populismo berlusconiano sono oggi più deboli rispetto a quindici anni fa per il lavorìo continuo ed abile condotto dalla destra e per la scarsa consapevolezza della sinistra. E il tema sul quale si innesterà il cambiamento istituzionale, 'per la vita e contro la morte', è così emotivo e tranchant che sarà assai difficile contrastare. O quanto meno ci vogliono convinzioni forti e persone coraggiose, all'altezza della sfida. Ancora una volta, attendiamo il Godot democratico.

(13 febbraio 2009)
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