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« Risposta #285 inserito:: Dicembre 04, 2015, 07:04:37 pm » |
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Medio Oriente Il ruolo offuscato degli Usa Un’America che rinuncia alla leadership atlantica, come si è visto, è un’America che rinuncia alla leadership tout court. Ma anche l’Europa, come testimoniano questi anni, diventa un continente allo sbando Di Angelo Panebianco Previsioni no ma un’ipotesi fondata su qualche dato di fatto si può avanzare: l’offensiva finale contro il Califfato, plausibilmente, non comincerà prima della metà del 2017. Nel 2016 ci saranno le elezioni presidenziali statunitensi. Il nuovo presidente si insedierà all’inizio del 2017. A lui o a lei occorrerà un po’ di tempo per elaborare una strategia utile allo scopo di venire a capo del problema nei suoi aspetti militari e politici. Obama, figlio di una stagione in cui l’opinione pubblica americana era stanca di guerre (accadde anche negli anni Settanta: Jimmy Carter fu il presidente di un Paese estenuato dopo il Vietnam), non farà nulla di nuovo, non restituirà all’America, men che mai nelle faccende mediorientali, il ruolo dello Stato guida, della potenza che esercita una forte leadership sull’insieme degli alleati. A meno di eventi così sconvolgenti da far cambiare idea a Obama, perché ciò accada bisognerà aspettare un nuovo presidente, democratico o repubblicano. Fino ad allora vivremo in mezzo alle contraddizioni di coalizioni di guerra più nominali che reali, prive del collante che può fornire solo uno Stato egemone e deciso a esercitare l’egemonia. Inoltre, non potendo distruggere subito la principale fonte dell’infezione, continueremo ancora a lungo a fronteggiare un elevato rischio terrorismo. Va così inquadrato anche lo scontro in atto fra il russo Putin e il turco Erdogan. Putin non sta soltanto attaccando un nemico del suo alleato Assad di Siria (l’aereo russo abbattuto era in azione contro i ribelli anti Assad filoturchi). Sta anche sferrando colpi alla già precaria posizione americana. Mettendo a nudo il doppiogioco della Turchia (membro della Nato) nel rapporto col Califfato, Putin ottiene il risultato di accrescere le difficoltà degli americani e di rendere ancor più ardua la formazione di una vera coalizione a guida occidentale contro lo Stato Islamico. È in questo quadro strategico che va anche collocata la polemica russa contro il Montenegro nella Nato: serve ad alzare il prezzo nei negoziati con gli occidentali sui futuri assetti mediorientali (e far distogliere l’attenzione, il che non guasta, dalle responsabilità russe in Ucraina). Il presidente francese Hollande spera di realizzare («nodo» Assad permettendo) una cooperazione stretta con la Russia contro lo Stato Islamico. E sono molti i leader, Matteo Renzi compreso, che pensano che senza la Russia non si potrà fare nulla. Berlusconi (Corriere del 2 dicembre) auspica un’ampia coalizione Onu guidata dalle principali potenze, Usa e Russia in primo luogo. Ma se è giusto sostenere che con la Russia occorra comunque cooperare in quel conflitto, è un’illusione pensare che ciò possa essere fatto senza un rilancio della leadership americana. Una Russia aggregata a una coalizione guidata, militarmente e politicamente, dagli americani è una cosa. Una Russia che non deve fare i conti con una forte America è un’altra cosa: perché sarebbe libera di fare soltanto i propri interessi, non necessariamente coincidenti con i nostri. Ha ragione l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fisher (Corriere del 29 novembre): per tentare di liberarci dello Stato Islamico, oggi rischiamo di doverci affidare a un blocco sciita (Iran, Siria di Assad, hezbollah libanesi) sotto la guida russa. Sarebbe politicamente una catastrofe - si pensi a come reagirebbero i sunniti- se Assad assurgesse al ruolo di «liberatore» dei territori oggi in mano al Califfato. La Russia va bene, insomma, ma non con un’America debole. Oltre a imprimere una forza che oggi manca alla coalizione anti Stato Islamico rendendo possibile una seria azione di contrasto all’estremismo, il ritorno della leadership americana servirebbe in molti modi agli europei. Servirebbe, per esempio, a distogliere tanti dalla cattiva idea secondo cui, poiché l’America latita, tanto vale legare le proprie sorti a quelle di un «vero» uomo forte. Il fascino che Putin esercita su molti europei è pericoloso: fa dimenticare che la Russia è un regime illiberale con cui dobbiamo certamente collaborare ma senza abbassare la guardia, senza dimenticare l’abisso, culturale e istituzionale, che separa quella democrazia autoritaria dalle nostre democrazie liberali. Nonché le insidie che sono sempre presenti nei rapporti con i regimi autoritari. Servirebbe anche a ridare ragioni e motivazioni a una comunità atlantica che non è stata solo un’alleanza di pura convenienza dei tempi della Guerra fredda. Nel lontano 1958, un grande storico liberale, Vittorio de Capraris, scrisse un libro suggestivo e quasi dimenticato, Storia di un’alleanza: la comunità atlantica, per lui, era il punto di arrivo di un percorso secolare, il momento di coagulo di un blocco di Paesi unito dalla consapevolezza di rappresentare una «comunità di destino», fondata sulla condivisione di valori e dotata degli istituti necessari alla vita e allo sviluppo di società libere. Un’America che rinuncia alla leadership atlantica, come si è visto, è un’America che rinuncia alla leadership tout court. Ma anche l’Europa, come testimoniano questi anni, diventa un continente allo sbando. Come De Capraris aveva capito fin dagli anni Cinquanta, non c’è nessuna integrazione europea possibile se non all’interno di un rapporto di partnership con gli Stati Uniti. Entrata in crisi la seconda, difatti, è entrata in crisi anche la prima. Talvolta, nel momento di maggior pericolo, di fronte a gravissime minacce esistenziali, uno scatto inaspettato non solo allontana il pericolo ma apre nuovi scenari. Oggi il mondo occidentale è certamente in pericolo. È difficile che possa superarlo se non ritroverà le smarrite ragioni di un’antica solidarietà. 4 dicembre 2015 (modifica il 4 dicembre 2015 | 07:38) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_04/ruolo-offuscato-usa-a348dc8a-9a4e-11e5-99f9-ca90c88b87df.shtml
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« Risposta #286 inserito:: Dicembre 17, 2015, 07:15:42 pm » |
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Le Pen e la Ue Il segnale francese all’Europa L’Europa che ci serve, e che può sconfiggere le forze centrifughe in atto, è un’Europa che fa scelte diverse dal passato Di Angelo Panebianco Gli elettori hanno fermato la corsa del Fronte Nazionale di Marine Le Pen al secondo turno delle Regionali. Ma sbagliano coloro che, preoccupati per le sorti dell’Europa, tirano un sospiro di sollievo. La Le Pen si avvicina al trenta per cento dei voti e ha ottime chance di arrivare al ballottaggio alle Presidenziali del 2017. La forza del lepenismo dimostra che l’europeismo tradizionale è finito e che senza un rinnovamento di linguaggi e di pratiche la disgregazione dell’Unione Europea diventerà probabile. Bastava ascoltare i discorsi del primo ministro Valls e dell’ex presidente Sarkozy sui risultati delle Regionali: ostilità nei confronti del Fronte, richiami ai valori della «République», nessun accenno all’Europa. Solo l’ex primo ministro Alain Juppé, compagno di partito e avversario di Sarkozy, si arrischia a stigmatizzare l’antieuropeismo del Fronte. I «patrioti», come li chiama la Le Pen, i fautori del ritorno alla piena sovranità nazionale, i nemici della globalizzazione e dell’Europa, sono già vittoriosi nel discorso pubblico francese. Per giunta, tale «patriottismo» non è una specialità solo francese. Una decennale crisi economica, la sfida dell’immigrazione, la delegittimazione delle istituzioni europee (esclusa la Banca centrale ma non si sa ancora per quanto) ad opera di governi - Germania in testa - che hanno scelto la rinazionalizzazione delle decisioni, hanno favorito la diffusione dell’antieuropeismo. I «patrioti» o sono già maggioranza, come in Polonia o in Ungheria, o alimentano ovunque forti movimenti di opposizione di cui chi governa è costretto a tenere conto. Chi pensa che se prevalesse la disgregazione dell’Unione ci troveremmo a buttar via non solo l’acqua sporca (il tanto che non va) ma anche il bambino (i benefici) dovrebbe capire che se non si cambia subito registro è finita. È da almeno un decennio (dal referendum francese del 2005 sulla cosiddetta «Costituzione europea») che si è aperta la crisi dell’europeismo tradizionale, ma i suoi adepti sono stati per lo più incapaci di rinnovarsi. Non si sono accorti di un’opinione pubblica che stava ritirando la delega, il mandato in bianco che per tanti decenni aveva concesso alle élites impegnate nella costruzione europea. Il linguaggio spoliticizzato, pseudo-tecnico, dell’europeismo tradizionale non è più vendibile nel momento in cui l’Europa si politicizza, diventa un tema di confronto e divisione negli elettorati. Considerate quanto scarso appeal abbiano per l’opinione pubblica gli argomenti di solito proposti a favore dell’integrazione politica. Il primo è l’argomento del «si può contare di più»: non è il titolo di una canzone ma il ritornello di chi vorrebbe convincerci che abbiamo bisogno di un’Europa unita perché solo così possiamo «contare» in un mondo di giganti. È un argomento veritiero ma politicamente inutile se proposto in questi termini alle opinioni pubbliche: come potrebbe convincere le persone ad abbandonare identificazioni secolari (nei loro Stati) a favore di una entità burocratica così distante dalle loro menti e dai loro cuori? Il secondo argomento è quello del «hai voluto la bicicletta? Ora pedala». È di chi dice che fatta l’integrazione monetaria non possiamo che farla seguire dall’integrazione politica. Insomma, dovremmo unificarci politicamente - a sentire costoro - per una ragione tecnico-funzionale. Ma vi pare che un argomento di tal fatta possa mobilitare le opinioni pubbliche? Il terzo argomento è migliore dei primi due. È di chi dice che se il processo di integrazione si arrestasse il rischio sarebbe la dissoluzione: una tragedia peggiore non sarebbe possibile perché l’integrazione ha contribuito (insieme alla Nato) a tenere la guerra lontana dalle contrade europee. È un argomento serio. Per i «patrioti», ritornare alla sovranità nazionale significa sia ripristinare rigidi controlli alle frontiere sia recuperare sovranità economica (da qui l’ostilità all’euro), da ottenere con dosi massicce, si suppone, di protezionismo. Realistico o irrealistico che sia un tale programma, basterebbe una sua attuazione solo parziale per generare decadenza economica. E non soltanto. Lo si sappia o meno, con il recupero dell’antica sovranità nazionale, la guerra fra Stati tornerebbe (non subito ma in prospettiva) ad essere una possibilità in Europa. Dei tre argomenti è, in teoria, il più comprensibile per l’opinione pubblica ma si scontra con il fatto che, quasi scomparsi del tutto coloro che hanno vissuto sulla propria pelle la Seconda guerra mondiale, divenute maggioritarie le generazioni post-belliche, la sua capacità di convincimento è ogni giorno più debole. Non è più tempo di élites che «si parlino addosso», che agitino temi incomprensibili per le opinioni pubbliche. Chi volesse impegnarsi in una battaglia culturale a favore dell’Europa per sconfiggere i «patrioti», dovrebbe poter dire ciò che al momento non può credibilmente dire, ossia che grazie all’Europa (ma in alleanza con gli Stati Uniti) avremo la sicurezza in più che ci serve per sconfiggere i nostri nemici, nonché più prosperità e più libertà per tutti. Ma non c’è rinnovamento possibile del linguaggio senza un contestuale rinnovamento delle pratiche. L’Europa che ci serve, e che può sconfiggere le forze centrifughe in atto, è un’Europa che fa scelte diverse dal passato. Non va più a raccontare favole sulla possibilità di «superare» gli Stati nazionali, anche se non rinuncia a mettere in guardia contro i rischi di scelte nazionaliste. All’Europa serve una riscrittura dei Trattati che ne riorienti istituzioni e pratiche in direzione confederale: poche cose riservate al centro e tutto il resto nella potestà degli Stati. Il che significa ridisegnare i poteri delle istituzioni (e anche togliere prerogative alla Commissione e al Parlamento europeo). Continuare come se nulla fosse accaduto, riproporre un europeismo di maniera, fossilizzato, proprio del tempo in cui l’Europa era una faccenda per iniziati, fingere che all’Unione non serva un radicale cambiamento, è il modo per sfasciare tutto, per distruggere anche il buono che c’è. 16 dicembre 2015 (modifica il 16 dicembre 2015 | 07:23) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_16/segnale-francese-all-europa-15d36ab0-a3bc-11e5-900d-2dd5b80ea9fe.shtml
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« Risposta #287 inserito:: Dicembre 29, 2015, 12:26:21 pm » |
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Il sistema elettorale L’Italicum è il minore dei mali Di Angelo Panebianco Anche se molti faticano ad accettarlo, la politica non ci mette mai o quasi mai nella condizione di scegliere fra il bene e il male. Nella schiacciante maggioranza dei casi, ci è data solo la possibilità di decidere quale sia, dal nostro punto di vista, il male minore e quale sia il maggiore. Non danno l’impressione di esserne consapevoli coloro che criticano l’Italicum, il sistema elettorale voluto da Renzi e già approvato dal Parlamento. Alcuni di questi critici (i quali sperano in una bocciatura da parte della Corte costituzionale) lo considerano un pasticcio e vorrebbero al suo posto un maggioritario con collegi uninominali. Questi critici hanno ragione nel ritenere i sistemi maggioritari (non entro qui nella disputa per iniziati su turno unico, all’inglese, o doppio turno, alla francese) decisamente migliori dell’Italicum. Ma hanno torto nel pensare che se la Corte lo bocciasse si riaprirebbero i giochi. Nossignore, non si riaprirebbe nessun gioco per chissà quanto tempo, ci troveremmo a votare con un sistema proporzionale puro. Per la felicità di quei nostalgici i quali non hanno capito che senza i partiti forti e radicati della Prima Repubblica (partiti che non è più possibile riprodurre) la proporzionale assicura l’ingovernabilità e, alla lunga, mette a rischio la democrazia. Ricapitoliamo brevemente le caratteristiche dell’Italicum. Si tratta di un (complicato) sistema «misto» che combina ripartizione dei seggi con metodo proporzionale, collegi plurinominali e doppio turno, con clausola di sbarramento, ballottaggio e premio di maggioranza. La superiorità dei maggioritari classici rispetto all’Italicum è indubbia anche se non è sicuro che le ragioni qui addotte per sostenere tale tesi siano condivise dai suddetti critici. Se pensiamo che un sistema elettorale funzioni meglio o peggio non solo in virtù delle sue caratteristiche tecniche ma anche per come viene recepito e utilizzato dagli elettori e dai politici, allora possiamo comprendere quale sia la principale debolezza dell’Italicum e dove stia la superiorità dei sistemi maggioritari con collegi uninominali. La debolezza consiste nel fatto che un sistema misto (una combinazione di elementi proporzionali e maggioritari), adottato in un Paese con un’antica e radicatissima tradizione proporzionalistica, non permette di seppellire tale tradizione, la mantiene viva e vegeta, e ciò ha effetti distorsivi, rende meno efficaci i marchingegni maggioritari previsti (clausola di sbarramento, ballottaggio e premio di maggioranza). Nel periodo in cui restò in vigore (1993-2005) un altro sistema misto (maggioritario con collegi uninominali e lista proporzionale), la componente proporzionale residua ebbe potenti effetti negativi: impedì al Paese di perdere abitudini radicate, favorì i continui tentativi di forzare quel sistema elettorale in senso proporzionale. In che cosa consiste la principale ragione di superiorità di un sistema maggioritario puro? Nel fatto che le persone, in poco tempo, si abituano ad accettare come «naturale» il fatto che il governo che esce dalle urne sia espressione di una minoranza (la minoranza più forte) del corpo elettorale. Poiché, salvo casi rari, è questo l’esito normale dell’operare di un sistema maggioritario. Invece, dove resiste la tradizione proporzionalistica tante persone credono che un governo non espresso dalla maggioranza (o qualcosa che vi si avvicini) degli elettori - per il tramite di partiti che dispongono di una quantità di seggi proporzionale alla quantità di voti ricevuti - non sia realmente «democratico», e faticano a riconoscerne la legittimità. Essendo un sistema misto, l’Italicum produrrà (in virtù della sua componente maggioritaria) governi di minoranza ma non potrà mai scacciare (in virtù della sua componente proporzionale) le abitudini proporzionaliste dei partiti. Né potrà mai togliere dalla testa degli elettori l’idea che un governo scelto da una minoranza non abbia tutte le carte democratiche in regola. Per questa ragione, si può ipotizzare che il carattere misto dell’Italicum ne impedirà il radicamento. Probabilmente, esso durerà quanto durerà la leadership di Matteo Renzi. Quando Renzi uscirà politicamente di scena, uscirà di scena anche l’Italicum. Perché allora Renzi non ha scelto un maggioritario con collegi uninominali (a un turno o a due turni), perché ha optato per un sistema elettorale che certamente garantisce un vincitore (questo è l’aspetto positivo) ma che ha anche costi notevoli? Per due ragioni. La prima è l’allergia di tutto il Parlamento per i collegi uninominali: troppo rischiosi per i peones (si vince l’unico seggio in palio o si va a casa) e poco affidabili dal punto di vista dei leader (l’eletto in un collegio uninominale può più facilmente sfuggire al controllo gerarchico). La seconda ragione consiste in un calcolo, non si sa ancora se corretto o no: con l’Italicum non è soltanto probabile la vittoria di Renzi. Lo è anche la frammentazione, e quindi, plausibilmente, l’impotenza dell’opposizione. Se abitassimo nell’«Isola che non c’è», dove ogni desiderio dei bimbi perduti si realizza, potremmo (anzi, dovremmo) sbarazzarci dell’Italicum e sostituirlo con un semplice, pulito, sano sistema maggioritario con collegi uninominali. Ma poiché viviamo nel mondo reale, dobbiamo tenerci stretto l’Italicum, il male minore. 28 dicembre 2015 (modifica il 28 dicembre 2015 | 07:28) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_28/italicum-minore-mali-c454bb46-ad28-11e5-9cdb-e2ca218c6ee2.shtml
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« Risposta #288 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:52:22 pm » |
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Due errori strategici Il fronte estero del premier Di Angelo Panebianco Gli amici italiani della Russia si dividono in due categorie, gli antiamericani (Grillo e Salvini) e i filoamericani, quelli che si barcamenano (Renzi e Berlusconi). Questi ultimi devono essersi sentiti affranti quando pochi giorni fa, a conferma di una svolta che risale a qualche anno addietro, Putin ha varato il nuovo piano strategico, ribadendo che Nato e Usa sono l’avversario principale, il potenziale nemico numero uno. E Renzi deve essere ancor più a disagio di Berlusconi visto che è lui che governa, è lui che deve fare fronte a tutte le grane. Grane che dipendono da una congiuntura internazionale che per noi europei si rivela ogni giorno più cupa: il Medio Oriente è a ferro e fuoco per diverse ragioni, fra le quali una delle più importanti è lo scontro fra sunniti e sciiti precipitato nella rivalità, e nella crisi in atto, fra Arabia Saudita e Iran, ma anche nel conflitto yemenita, nella guerra civile siriana, nella cancellazione dei confini statali (Siria, Iraq) tracciati nel Novecento dalle potenze coloniali, e di cui è espressione la nascita dello Stato islamico. Si aggiungano gli effetti dirompenti che le vicende mediorientali esercitano sull’Islam europeo, i flussi migratori potenti e così difficili da controllare, il terrorismo, la competizione di potenza fra Russia e Stati Uniti che complica la partita mediorientale ed esaspera le divisioni entro l’Ue (fra i Paesi dell’Est che temono l’imperialismo russo e quelli dell’Ovest per i quali la Russia è solo un partner commerciale, un’opportunità per gli affari). Tutto ciò obbliga a rifare qualche conto anche in Italia. Fino a poco tempo fa si poteva pensare che la scommessa politica di Renzi fosse legata esclusivamente alla sua capacità di fare ripartire una macchina economica imballata. Adesso non è più così. Oggi egli deve anche rassicurare gli italiani a proposito della propria capacità di guidare il Paese in acque internazionali turbolente. Non è sicuro che sia in grado di dare questa dimostrazione, di convincere l’opinione pubblica che egli possieda qualità di condottiero. Sia chiaro: gli oppositori, per quel che si vede, non sono meglio di lui. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’onere di dimostrarsi all’altezza spetta a chi governa. Gli oppositori possono limitarsi a gridare improperi e a fare confusione. È stata soprattutto la sfida terrorista ad evidenziare i limiti dell’azione internazionale di Renzi. È vero, c’era in ballo il Giubileo, il che rendeva e rende l’Italia particolarmente esposta al rischio di aggressioni terroristiche ma, comunque, non pare proprio che la reazione di Renzi di fronte agli attacchi di Parigi sia stata adeguata. Sarà stato probabilmente a causa di una maggioranza parlamentare nella quale è così forte il partito del «mettete dei fiori nei vostri cannoni», ma Renzi ha commesso due grandi errori in quel frangente, seminando dubbi sulla propria capacità di guidare il Paese in condizioni di emergenza. Ha preso di fatto le distanze da Hollande negandogli quel sostegno militare che il presidente francese gli aveva richiesto. Con ripercussioni negative anche su altri tavoli europei: non puoi, come ha fatto Renzi, contrapporti al «governo tedesco» dell’Europa se pochi giorni prima hai perso l’occasione di stringere i tuoi legami di solidarietà con la Francia e non sei in grado quindi di rivendicarne l’appoggio. Se il primo errore ha avuto ripercussioni diplomatico-politiche, il secondo ha intorbidito le acque dal punto di vista dell’interpretazione del fenomeno terroristico. Perché siamo stati così in pochi a scuotere la testa quando Renzi se ne è uscito dicendo che, di fronte al terrorismo, bisogna sì investire in sicurezza ma anche in «cultura», bisogna contrastare il degrado culturale delle periferie urbane? Non che non sia una buona cosa occuparsi del degrado urbano. Ma il fatto è che non c’entra nulla, proprio nulla, con la difesa dall’aggressione terrorista. Siamo stati in pochi a scuotere la testa perché tanti condividono, o sembrano condividere, l’argomentazione pseudo-sociologica (radicalmente sbagliata) secondo cui il terrorismo islamico sarebbe figlio del «degrado» e della «povertà». Detto per inciso, è stupefacente che la pensino così anche diversi cattolici: se costoro, infatti, considerano il radicalismo islamico (che è comunque frutto di scelte religiose) un fatto «sovrastrutturale» in senso marxiano, dipendente cioè dalle condizioni «materiali», come fanno poi a non pensare la stessa cosa del proprio cattolicesimo, della propria scelta religiosa? Le prese di posizione di Renzi non sono state comunque all’altezza. In una situazione di emergenza serve un Churchill, non un Andreotti (pur con tutto il rispetto dovuto ad Andreotti). Vero è naturalmente che l’Italia è impegnatissima sul fronte mediorientale. I nostri soldati verranno impiegati nella difesa della diga di Mosul. E sono anche impegnati da tempo con compiti vari (addestramento truppe, logistica) a sostegno di coloro che combattono sul terreno contro lo Stato Islamico. Nessuno di questi compiti prevede, se non a fini strettamente difensivi, la partecipazione a scontri a fuoco. La causa, plausibilmente, è che, in caso contrario, la maggioranza parlamentare si squaglierebbe. C’è poi la diplomazia. Abbiamo svolto un importante lavoro di sostegno per favorire un accordo, in funzione anti Stato Islamico, fra le diverse fazioni libiche. E abbiamo rivendicato a più riprese per noi stessi un ruolo preminente nel futuro processo di pacificazione della Libia. Ma le nostre condizioni politiche interne lo permetteranno? Sarà impossibile pacificare la Libia senza usare la forza. Che succederà a Roma quando arriveranno le notizie dei primi scontri a fuoco fra italiani e jihadisti? In condizioni di emergenza, un vero capo politico si rivela tale perché non si mette a rimorchio della sua maggioranza, si sforza di rimodellarla, come fosse creta, di imporle una diversa visione delle cose. Renzi non ha ancora mostrato di possedere una tale qualità. 5 gennaio 2016 (modifica il 5 gennaio 2016 | 07:34) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_05/fronte-estero-premier-fbc30772-b372-11e5-9fa2-487e9759599e.shtml
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« Risposta #289 inserito:: Gennaio 17, 2016, 05:35:57 pm » |
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Il Senato e le alleanze Quel club anomalo anti riforma Di Angelo Panebianco La politica può dare luogo alle più imprevedibili e bizzarre convergenze. Se non abbiamo capito male, nella lotta, già iniziata, fra le opposte propagande in vista del referendum costituzionale di ottobre, assisteremo - come ha già notato Il Foglio - all’alleanza di fatto fra due gruppi (i quali useranno più o meno gli stessi argomenti) che, un tempo, mai avremmo potuto immaginare insieme: gli iper-conservatori costituzionali, i fan della «Costituzione più bella del mondo», a braccetto con i berlusconiani. Per vent’anni, i primi hanno accusato i secondi, oltre che di ogni possibile misfatto, anche di tramare disegni autoritari. Sarà curioso vederli spalla a spalla, mano nella mano, a inveire contro «l’autoritarismo» di Matteo Renzi, a mobilitare il Paese contro l’incombente tirannia renziana. Va peraltro ricordato che fra i due gruppi, e futuri alleati, una differenza importante c’è: gli iper-conservatori costituzionali sono per lo meno coerenti con la propria storia, i berlusconiani no. Anche se i vantaggi dell’abolizione del bicameralismo paritetico (due Camere con uguali poteri) superano di gran lunga, secondo chi scrive, gli svantaggi, non è certo illecito essere contro la riforma del Senato. Per esempio, perché si è perplessi su certe soluzioni tecniche o su aspetti della riforma che richiederebbero un approfondimento ulteriore (e su cui ha richiamato l’attenzione Michele Ainis sul Corriere del 14 gennaio). Oppure si è contrari alla riforma perché si ricordano i tanti casi del passato in cui la seconda Camera rimediò a qualche grave errore commesso dalla prima. O anche, per esempio, perché si sostiene una tesi (tutt’altro che disprezzabile) la quale suona grosso modo così: avete già fatto un grave errore abolendo le Province (che avevano tradizioni e dignità amministrativa) anziché quei carrozzoni burocratici che sono le Regioni, e adesso perseverate nell’errore attribuendo alle medesime Regioni - che di sicuro non sono i Lander tedeschi - un potere decisivo nella formazione del nuovo Senato. Sono critiche legittime anche se non dirimenti: l’alternativa, lasciare le cose come stanno, tenersi il bicameralismo paritetico, è peggiore. Ma che dire, invece, dell’obiezione (la principale obiezione dei nemici della riforma) secondo cui il superamento del bicameralismo paritetico sarebbe parte di un disegno autoritario? È vietato ridere. Perché dietro una simile convinzione c’è qualcosa di molto serio: ci sono, nientemeno, una tradizione costituzionale e una cultura politica che per decenni sono stati dominanti nel nostro Paese. Tutto si decise ai tempi della Costituente. Fu allora che il «complesso del tiranno» da una parte e i reciproci sospetti fra comunisti e democristiani dall’altra, spinsero a creare un assetto costituzionale fondato sulla debolezza dell’esecutivo, un assetto che non doveva permettere in alcun caso la formazione di governi forti e efficienti ma solo di governi fragili, circondati, e anche eventualmente paralizzati, da forti poteri di veto. Un assetto istituzionale in cui c’erano (ed erano fortissimi) i «contrappesi» ma in cui mancava il «peso» di un forte esecutivo. Il bicameralismo paritetico che ora si tenta di superare fu uno di questi cosiddetti, e mal detti, contrappesi. Fu così che, da allora, in Italia l’assemblearismo è sempre stato confuso con il parlamentarismo (mentre il primo va piuttosto trattato come una forma degenerata del secondo). Fu così che si affermò la stravagante idea secondo cui un governo istituzionalmente forte (come è, ad esempio, il Cancellierato tedesco) sia del tutto incompatibile con la democrazia. Ciò che, a quanto pare, sentiremo ripetere continuamente prima del referendum d’ottobre a proposito di autoritarismi e progetti autoritari ha dunque un’origine antica, e non si spiega se non ricordando ciò che scrisse Keynes: le idee circolanti in ogni momento si devono invariabilmente alla penna di scribacchini defunti ormai da tempo. L’incapacità di distinguere, di tracciare una linea in grado di separare assemblearismo e parlamentarismo, si trascina dietro un’altra conseguenza: rende difficile riconoscere la differenza che corre fra la democrazia liberale e la democrazia autoritaria. Se volete sapere che cosa sia una democrazia autoritaria dovete guardare alla Turchia di Erdogan o anche alla Russia di quel Putin che, a quanto pare, gode di così vaste simpatie qui in Europa. In una democrazia autoritaria, i media sono controllati dal governo, i giornalisti scomodi finiscono in galera, gli oppositori considerati più pericolosi muoiono per mano di misteriosi assassini che la polizia non riesce mai a trovare. Per cortesia, se è possibile, non si dica che la volontà di superare il bicameralismo paritetico abbia qualcosa a che spartire con tali esperienze. Oltre a certe virtù, Renzi ha anche, indubbiamente, molti difetti. Fra questi difetti non pare proprio che ci sia quello di voler emulare Erdogan o Putin. 17 gennaio 2016 (modifica il 17 gennaio 2016 | 07:12) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_17/quel-club-anomalo-anti-riforma-senato-e6d381b2-bce0-11e5-9ebd-3d31e1693d62.shtml
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« Risposta #290 inserito:: Aprile 02, 2016, 12:33:31 pm » |
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Noi e l’islam L’Europa non venda la sua anima La guerra si combatte sul fronte militare in Medio oriente e su quello interno: per vincere l’estremismo dovremo fare delle concessioni alle comunità dei seguaci di Allah più ragionevoli. Dobbiamo sapere fino che punto possiamo andare loro incontro Di Angelo Panebianco Quale prezzo dovrà pagare l’Europa, quali concessioni dovrà fare alle comunità musulmane che risiedono nei suoi territori per ottenere che esse si impegnino a contrastare le vaste aree (così risulta dai sondaggi) di simpatizzanti e sostenitori dell’estremismo islamico presenti al loro interno? La guerra santa viene combattuta su due scacchieri distinti ma interdipendenti: il Grande Medio Oriente (dal Pakistan alla penisola arabica, a una parte dell’Africa) e l’Europa. Il primo scacchiere corrisponde al dar al-islam (la dimora dell’islam), ossia i territori a maggioranza musulmana. Qui le minoranze cristiane (come in Pakistan) sono oggetto di attacchi continui perché considerate filiazioni dell’odiato Occidente, ma il principale bersaglio della guerra santa sono altri musulmani. Il secondo scacchiere è l’Europa (ex) cristiana, il dar al-harb (la dimora della guerra), dove vivono gli infedeli e dove l’islam è minoranza. Naturalmente, ciò che accadrà nel primo scacchiere influenzerà ciò che accadrà nel secondo. Se, ad esempio, lo Stato islamico subirà brucianti sconfitte militari, gli entusiasmi che oggi suscita in molti giovani musulmani europei, col tempo si smorzeranno. Ma non si creda che ciò sia semplice da ottenere. Non si tratta di una questione risolvibile solo sul piano militare. Si pensi al fatto che se si vorranno stabilizzare politicamente le zone ove è nato e si è sviluppato lo Stato islamico non si potrà tornare alla situazione precedente A lla sconfitta militare dello Stato islamico dovrà accompagnarsi una conferenza di pace, presenti tutte le potenze interessate, che dia vita, sulle ceneri del vecchio Iraq e della vecchia Siria, a nuove organizzazioni statali (rispettivamente dei sunniti, degli sciiti e dei curdi) e a nuovi confini. E sapendo comunque che nella futura carta geopolitica del Medio Oriente, se si formeranno, come è probabile, Stati mono-religiosi o mono-etnici, non ci sarà spazio, purtroppo, per altre minoranze, cristiani in testa. L’Europa dovrà allora accoglierli con la necessaria generosità. Ma anche se questa complicatissima operazione riuscisse è evidente che non basterebbe per mettere in sicurezza l’Europa. Ciò potrebbe accadere solo se venissero avviate trattative con i rappresentanti della seconda religione di diversi Paesi europei per numero di adepti, l’islam appunto. Perché solo le comunità musulmane possiedono le risorse culturali per riportare alla ragione tutti quei giovani (ma non solo) che oggi simpatizzano per l’estremismo. Ma poiché nessuno fa niente per niente, il problema diventerà: quali concessioni verranno fatte dai governi europei in cambio dell’aiuto richiesto? Non è difficile immaginare che natura e entità di quelle concessioni avranno una grande influenza sul futuro dell’Europa. Gli europei sono soliti nascondere la propria inerzia e la propria impotenza dietro a una cortina fumogena fatta di bolsa retorica e di parole vuote, del tipo (una delle preferite) «difenderemo i nostri valori e i nostri principi». Il bello (o il brutto) è che questi valori e principi vengono spesso lasciati nel vago: di quali valori e principi si parla? Il punto non è affatto irrilevante. Soprattutto se si andrà (e ci si andrà senz’altro) a negoziazioni, aperte o tacite, con le comunità musulmane europee. Fra questi «valori» c’è per caso la laicità, a sua volta fondata sulla capacità di distinguere fra il sacro e il profano, fra il regno di Dio e il regno di Cesare? E, ancora, fra questi valori c’è per caso l’uguaglianza giuridica fra gli individui a prescindere da sesso, religione o altro? E c’è, infine, per caso, il principio della libertà individuale? Perché se è così, allora bisogna sapere che quando si andrà a trattare con le comunità musulmane per ottenere il loro appoggio, i suddetti valori e principi dovranno essere difesi con particolare accanimento. Occorrerà pronunciare degli inequivocabili «no» di fronte alle eventuali richieste, se non di sospendere, quanto meno di attenuare la validità e l’applicabilità di tali principi in presenza di cittadini musulmani. Sembra facile ma non lo è. Soprattutto perché le società europee sono divise e, per questo, non daranno un sostegno compatto, sincero e coerente ai governi impegnati in queste cruciali negoziazioni. Uno dei fatti più singolari della storia recente è l’alleanza che si è stabilita fra certi settori della società europea (con parecchi intellettuali al seguito) che questa società, in sostanza, detestano e la parte più reazionaria, chiusa alla modernità, del mondo islamico. I nemici europei della società liberale hanno trovato in quella parte un alleato. Sono quelli che «è sempre colpa dell’Occidente». Quelli che «Salman Rushdie, l’autore dei Versetti satanici, si meritò la condanna a morte, la fatwa di Khomeini del 1989». Quelli che qualunque intellettuale di origine musulmana denunci i difetti dell’islam è uno spregevole e pericoloso «islamofobo». Eccetera, eccetera. È evidente che la folta presenza di questi «compagni di strada» dell’islamismo indebolirà le capacità negoziali degli europei. Quali «patti» verranno siglati? Quali alla luce del sole e quali sottobanco? La parte più insidiosa di qualunque patto sta nei suoi effetti differiti, nel fatto che le conseguenze sociali, politiche, economiche, culturali, del patto stesso si vedranno solo molto tempo dopo, probabilmente molti anni dopo. Riuscirà l’Europa ad ottenere l’appoggio delle comunità musulmane contro il terrorismo e l’estremismo in genere senza vendersi l’anima? Servirebbe a tutti (anche ai musulmani) se laicità, libertà individuale, uguaglianza di fronte alla legge, non risultassero infine formule vuote e retoriche ma principi non negoziabili. 1 aprile 2016 (modifica il 1 aprile 2016 | 20:02) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_aprile_02/europa-non-venda-sua-anima-1cf7cdc4-f833-11e5-b848-7bd2f7c41e07.shtml
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« Risposta #291 inserito:: Maggio 30, 2016, 06:10:26 pm » |
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SCENARI I movimenti populisti e gli errori delle élite Dietro i movimenti cosiddetti populisti ci sono problemi autentici. Solo se verranno offerte risposte convincenti, essi potranno essere battuti. Se si sceglie il silenzio o il disprezzo, allora hanno già vinto e l’Europa andrà in pezzi Di Angelo Panebianco Le battaglie politiche sono condotte usando le parole e se le parole di qualcuno sono sbagliate la sua sconfitta è sicura. Chi continua a usare come un insulto la parola «populisti» per bollare gli attuali movimenti di protesta in crescita in tutta Europa (ma anche negli Stati Uniti), sembra non capire quanto grande sia il favore che ha già fatto e che sta facendo a quei movimenti. Senza rendersene conto sta dicendo all’opinione pubblica, agli elettori, che di qua ci sono coloro che comandano, le élite al potere, con il loro palato fino e il birignao e le arie da aristocratici, e dall’altro lato i «populisti», gli uomini e le donne rudi che si rivolgono al popolo, chiedono il voto del popolo (contro le suddette élite) e parlano anche «come» il popolo. Una volta ascoltate le élite fare concioni contro i populisti, per chi altri, se non costoro, potrebbe mai votare il «popolo»? Il vero problema, e il tarlo, delle democrazie occidentali non sono i suddetti movimenti di protesta. Sono le non risposte o le risposte sbagliate delle élite, degli establishment. Sono loro a portare la responsabilità per la crescita dei movimenti che li sfidano. Questi ultimi non sono la malattia ma la febbre che segnala la malattia. Di fronte alla marea montante dei movimenti di protesta le élite hanno fin qui risposto con due strategie. La prima è consistita nell’inazione: non fare niente, limitarsi a condannare con parole dure tali movimenti, delegittimarli in ogni modo, e aspettare che passi «’a nuttata». L a seconda strategia, a cui talvolta si è fatto ricorso quando ci si è accorti che la prima non funzionava, è consistita nel cavalcare la protesta: come hanno fatto i socialisti austriaci al governo minacciando la chiusura del valico del Brennero. Entrambe le strategie sono fallite. La prima perché, ignorando i problemi che hanno fatto insorgere le proteste, non facendo nulla per affrontarli, le ha alimentate. La seconda perché, legittimando implicitamente le tesi dei protestatari, ha convinto gli elettori che fosse meglio fidarsi degli originali anziché delle copie, dei protestatari anziché di coloro che li scimmiottavano. È così che i partiti storici austriaci (socialdemocratico e cristiano - sociale) si stanno suicidando, stanno aiutando chi vuole spazzarli via. Sono problemi autentici quelli che alimentano i movimenti di protesta. Solo se alle opinioni pubbliche verranno offerte convincenti soluzioni, diverse da quelle proposte da quei movimenti, essi potranno essere battuti. Al di là delle differenze, anche al di là del fatto che essi si collochino a sinistra (come Sanders) o a destra (come Trump o Le Pen o tanti altri), o in qualunque altro luogo, ciò che li accomuna, il loro minimo comun denominatore, è la voglia di isolazionismo politico e di protezionismo economico. Il cosiddetto antieuropeismo ne è una conseguenza. È il loro modo di intercettare le paure (più che comprensibili, da non disprezzare affatto) delle persone di fronte a un mondo interdipendente, di fronte a ciò che viene malamente riassunto con il termine «globalizzazione». Se si sceglie il silenzio o il disprezzo nei confronti di quelle paure, allora i cosiddetti «populisti» hanno già vinto: l’Europa andrà in pezzi, al pari dei legami transatlantici, ci troveremo in un mondo occidentale completamente «ri-nazionalizzato» che ricorderà una delle fasi più buie della storia europea recente, gli anni Trenta dello scorso secolo. Solo se quelle paure verranno prese sul serio e si riuscirà a mostrare alle opinioni pubbliche che proprio grazie all’Europa e al suo mercato comune, nonché grazie all’interdipendenza globale, si potranno avere più sviluppo, più posti di lavoro, più benessere, solo allora sarà possibile contrastare efficacemente la propaganda dei movimenti di protesta. Se invece si sceglierà un atteggiamento protezionista (come ha già fatto Hollande a proposito del trattato di libero scambio con gli Stati Uniti) allora si darà ragione a Marine Le Pen e a tutti gli altri come lei, non si offrirà agli elettori un buon motivo per non votarli. La stessa cosa vale per l’immigrazione. O le classi di governo europee riusciranno a trovare la forza di fare una politica comune mostrando alle opinioni pubbliche che in tal modo è possibile governare senza troppi traumi questo fenomeno, oppure i movimenti che vogliono la chiusura delle frontiere nazionali, quali che ne siano i costi economici e politici, alla fine vinceranno. Occorre anche smetterla con le sciocchezze e le superficialità politicamente corrette (anch’esse alimentano il voto di protesta) in materia di multiculturalismo. Che le nostre società siano multiculturali è un fatto. Ma ritenere che questo non sia anche un problema che richiede di essere governato è un atteggiamento che prepara disastri. Occorre soprattutto chiarire alle opinioni pubbliche che non si intende permettere che si formino ordinamenti giuridici paralleli, che non possono e non devono esserci eccezioni, culturalmente o religiosamente giustificate, all’uguale trattamento di tutti i cittadini. Se si vogliono rassicurare le opinioni pubbliche occorre scolpire questi principi nella roccia, nelle leggi e, meglio ancora, nelle costituzioni. Abbiamo bisogno di un melting pot, di una pacifica convivenza fra persone di diversa origine all’insegna di leggi uguali per tutti, non di una «segmentazione» di tipo libanese (tanti gruppi organizzati, ciascuno con le proprie leggi) delle nostre società. Oltre che ridicolo, il «vade retro» rivolto agli attuali movimenti di protesta è politicamente controproducente. È la regola della democrazia: devi saper offrire agli elettori, alle prese con problemi veri, soluzioni migliori, più convincenti, di quelle del tuo avversario. Queste soluzioni convincenti non sono state ancora proposte. 26 maggio 2016 (modifica il 26 maggio 2016 | 21:18) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_maggio_27/i-movimenti-populisti-errori-elite-54241e1a-236c-11e6-853e-9c2971638379.shtml
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« Risposta #292 inserito:: Giugno 18, 2016, 12:02:42 pm » |
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Scenario I rischi della Ue tra Brexit e Trump Nel giro di due mesi ci potrebbe essere l’uscita della Gran Bretagna e la vittoria del repubblicano alla Casa Bianca. O ci si rassegna alla propria definitiva implosione o ci si impegna in una radicale riorganizzazione Di Angelo Panebianco Ipotizzare il peggio può aiutare ad aguzzare l’ingegno, a ricercare le soluzioni se il peggio si realizzasse. In questo momento, l’Europa è con il fiato sospeso in attesa del referendum britannico del 23 giugno. Ma le tegole che potrebbero cadere in testa all’Europa nel giro di pochi mesi sono due. Nello scenario più cupo, la Gran Bretagna abbandona l’Unione Europea e pochi mesi dopo Donald Trump viene eletto presidente degli Stati Uniti. Se questi due eventi si realizzassero entrambi, l’Europa si troverebbe a fare i conti con un mondo completamente diverso rispetto a quello fin qui conosciuto e dovrebbe molto presto scegliere fra rassegnarsi alla propria definitiva implosione o impegnarsi in una radicale riorganizzazione di se stessa. Le conseguenze di una vittoria dei fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione — tutti gli osservatori concordano — sono imprevedibili. I danni economici per la Gran Bretagna sarebbero, presumibilmente, ingenti ma lo sarebbero anche per gli altri Paesi europei data la stretta interdipendenza esistente. I danni politici sono ancora meno calcolabili. È vero che l’Unione sarebbe forse tentata di trattare con la massima durezza la Gran Bretagna allo scopo di farle pagare un prezzo economico salatissimo cercando così di scoraggiare il contagio, di rendere il più possibile difficile la vita agli imitatori, a tutti coloro che in giro per l’Unione vorrebbero seguire le orme del Regno Unito È anche vero che la Gran Bretagna non è la Grecia e che colpirla troppo duramente potrebbe rivelarsi un boomerang, provocare danni altrettanto gravi ai Paesi membri, come hanno giustamente osservato Alesina e Giavazzi sul Corriere di due giorni fa. In ogni caso, le conseguenze di Brexit sarebbero di vasta portata. Il prestigio e la reputazione dell’Unione, già piuttosto bassi di questi tempi, diminuirebbero ancora nel momento in cui uno Stato membro così importante se ne andasse sbattendo la porta. Lungo tutta la loro storia, le istituzioni europee avevano potuto contare sul fatto che i vari Paesi facessero la fila per entrare, non per uscire. Inoltre, la Brexit modificherebbe i rapporti di forza dentro l’Unione facendo venire meno un contrappeso, che comunque esisteva, rispetto alla potenza tedesca. Da ultimo (ma questo pare interessare solo ai pochi europei che ancora hanno a cuore l’economia liberale), verrebbe meno un elemento di resistenza a quegli eccessi di dirigismo economico sempre troppo apprezzati e praticati sul Continente. In ogni caso, la natura dell’Unione cambierebbe. Ma l’attenzione spasmodica per la possibile tegola numero 1, la Brexit, non dovrebbe farci dimenticare la possibilità che ci arrivi in testa, nel giro di pochi mesi, anche la tegola numero 2. Forse (qualunque europeo dovrebbe augurarselo) Hillary Clinton vincerà le elezioni presidenziali americane. E forse no. Data la scarsa simpatia che l’ex segretario di Stato riscuote persino fra gli elettori democratici, date le affinità di fondo (il comune sentire economicamente protezionista e politicamente isolazionista) che esistono fra l’elettorato che ha votato Sanders e quello che vota Trump, una vittoria finale di quest’ultimo non può essere esclusa. Fuori dagli Stati Uniti, chi più potrebbe rallegrarsi per il trionfo di Trump sarebbe Vladimir Putin. Trump significherebbe il definitivo affossamento del trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti. Ma significherebbe, soprattutto, l’apertura di una crisi, la più grave da quando l’organizzazione esiste, della Nato. Gli Stati Uniti di Trump pretenderebbero, come egli ha già anticipato, un impegno finanziario assai più ampio dell’attuale da parte dei Paesi membri dell’organizzazione. Ma l’America ha sempre accettato fino ad oggi di sopportare gli oneri finanziari maggiori in cambio del riconoscimento della sua leadership da parte degli europei. Un diverso atteggiamento significherebbe rinunciare alla leadership. E poiché i Paesi europei membri della Nato difficilmente potrebbero accedere alle richieste americane, la conseguenza sarebbe una crisi del sistema di sicurezza occidentale. Si sfregherebbero le mani soddisfatti tutti coloro che, da sempre, vogliono sbarazzarsi dell’«impero» americano. Ma si aprirebbe anche una voragine: chi potrebbe, e come, sostituire la Nato come garante della sicurezza europea? Nascerebbe finalmente il famoso «esercito europeo» sognato da sempre dai federalisti spinelliani? Chi conosce lo stato dell’Europa sa che questa è solo un’illusione. In materia di sicurezza, gli europei, senza gli americani, sono in grado di combinare poco o nulla. È anche la ragione per cui Putin brinderebbe a champagne in caso di elezione di Trump. La sua influenza politica sull’Europa (come sul Medio Oriente) si accrescerebbe. I gravissimi problemi economici della Russia non impedirebbero alla più grande potenza militare che incombe sui nostri confini orientali di sfruttare ogni occasione per condizionarci sul piano politico. Per la gioia dei tanti amici europeo-occidentali dell’uomo forte di Mosca. Già duramente provati a causa dell’incapacità di trovare soluzioni condivise nel governo dei flussi migratori, gli europei si troverebbero a dover fronteggiare la peggiore combinazione possibile: i danni economici e politici provocati da Brexit e l’avvento di un presidente americano isolazionista e protezionista. Se ci arrivassero addosso tutte e due le tegole, l’Europa continentale dovrebbe decidere in fretta — prossime elezioni francesi e tedesche permettendo — come riorganizzarsi. Si noti per giunta che una riorganizzazione, che a quel punto dovrebbe anche farsi carico della sicurezza (un tema con cui l’Europa, nonostante Maastricht, non ha alcuna dimestichezza) in una Unione resa ancora più «tedesca» di oggi dall’uscita della Gran Bretagna, richiederebbe di essere condotta con grande tatto e abilità: per non alimentare sentimenti ancora più forti di quelli che già oggi circolano di ostilità per la Germania. Magari poi il fosco scenario sopra immaginato non si realizzerà. La Gran Bretagna resterà nell’Unione (i fautori del Remain vinceranno con un buon margine) e Trump verrà sonoramente sconfitto da Hillary Clinton. L’Europa, allora, continuerà a galleggiare restando così come è oggi ancora per un po’. 15 giugno 2016 (modifica il 15 giugno 2016 | 21:39) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_giugno_16/i-rischi-ue-brexit-trump-3d51b1b0-3330-11e6-a482-ab4404438124.shtml
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« Risposta #293 inserito:: Agosto 13, 2016, 10:55:50 pm » |
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Esplora il significato del termine: SCENARI IN MOVIMENTO Il sultano islamico tra alleati e fratelli La crescente estraneità culturale fra la Turchia e l’Occidente, conseguenza di quella ri-islamizzazione della società iniziata con la conquista elettorale del potere avvenuta nel 2002, si è ora nettamente accelerata dopo il vittorioso contro-colpo di Stato di Erdogan Di Angelo Panebianco Ci saranno solo momentanee convergenze di interessi, da contrattare volta per volta. Conseguenza della crescente estraneità culturale fra la Turchia e l’Occidente, conseguenza di quella ri-islamizzazione della società turca, iniziata con la conquista elettorale del potere da parte del partito islamico nel 2002, favorita e condotta in modo prudente e strisciante per diversi anni, e ora nettamente accelerata a seguito del vittorioso contro-colpo di Stato di Erdogan. Spetta agli specialisti, ai conoscitori della società turca, rispondere a un quesito: Erdogan riuscirà a schiacciare definitivamente la Turchia europea, la Turchia laica erede di Ataturk? Certamente, egli ha oggi dalla sua la maggioranza del Paese. È grazie alle masse islamiche, oggi maggioritarie, che Erdogan ha conservato il potere contro i militari. Ma che ne sarà di quella cospicua, assai numerosa, minoranza (quasi la metà del Paese) figlia di un secolo di politica laica, che ne sarà della Turchia che non ha fin qui mostrato alcuna voglia di ri-islamizzarsi? Basteranno le brutali epurazioni del regime a piegarla definitivamente? È questa la chiave per capire come si muoverà sulla scena internazionale la Turchia del futuro. Se Erdogan non riuscisse a consolidare il suo potere a causa della impossibilità di soggiogare completamente la parte non islamica del Paese, allora la sua debolezza interna si riverbererebbe sulla sua azione internazionale: probabilmente favorendo, come è frequente quando i governi autocratici sono deboli, avventurismi e varie esplosioni di aggressività internazionale. Se invece il sultanato islamico si consoliderà, se la Turchia europea verrà definitivamente spazzata via, allora bisognerà fare i conti con l’apparizione di una nuova potenza che, come ha fatto a lungo l’Iran sciita, userà la religione per alimentare «scontri di civiltà», per porsi come potenza-guida della rivoluzione islamista. Diventerà in tal caso molto complesso il rapporto fra Turchia e mondo occidentale. Come conciliare, ad esempio, islamismo militante e permanenza nella Nato? Il realismo imporrebbe di essere molto cauti al riguardo. Per molte ragioni di carattere strategico, ivi compreso il rischio che il neo-sultanato islamico si impadronisca delle armi nucleari presenti nelle basi della Nato sparse sul suo territorio. Al tempo stesso, sarebbe complicato trattenere nella Nato, mettendolo a parte dei segreti dell’organizzazione, un Paese che, a quel punto, non potrebbe più fare mistero della propria vocazione antioccidentale. Se il sultanato islamico si consolidasse, ci sarebbe anche un grosso problema per l’Europa. La Turchia diventerebbe il grande sponsor, protettore politico e finanziatore, di quei Fratelli musulmani che sono ben radicati nell’Islam europeo. Dopo il colpo di stato che ha estromesso la Fratellanza dal potere in Egitto, Erdogan è rimasto il loro principale punto di riferimento. A differenza degli occidentali, essi non possono che applaudire la sua azione repressiva. È del resto naturale e comprensibile: per l’Islam politico, Ataturk e la sua eredità erano una aberrazione. Da cancellare, da spazzare via con ogni mezzo. Se il sultanato islamico si consolidasse, i rapporti fra i suoi sostenitori e le società europee in cui essi vivono diventerebbero piuttosto complicati. 10 agosto 2016 (modifica il 10 agosto 2016 | 21:30) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cultura/16_agosto_11/sultano-islamico-8dff0692-5f2e-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml
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« Risposta #294 inserito:: Novembre 01, 2016, 05:28:42 pm » |
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Democrazia e popolo La cattiva coscienza della nostra politica I tentativi di rintuzzare la sfida dell’antipolitica culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si presenta come una delle virtù principali la riduzione del numero dei parlamentari Di Angelo Panebianco I tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario, indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e maggiore capacità decisionale dei governi. Ci sono due tipi di antipolitica, una vera e una finta. L’antipolitica vera non è oggi di moda (lo è stata ai tempi di Reagan e Thatcher). È quella che non vuole una politica impicciona, che ha per ideale — da perseguire benché non possa mai essere compiutamente realizzato — lo «Stato minimo», uno Stato che si occupi di fronteggiare emergenze e sfide alla sicurezza e di produrre pochi beni pubblici essenziali, lasciando il resto al mercato e al libero associazionismo volontario. Ma non è questa l’antipolitica oggi di moda. È di moda l’antipolitica finta, la quale convoglia il disprezzo dei cittadini sulla politica ma pretende altresì che la politica resti l’impicciona di sempre (non si propongono privatizzazioni e liberalizzazioni ma protezionismo e dosi ancor più massicce di statalismo). L’antipolitica oggi di moda è un ossimoro: è un’antipolitica statalista. Cosa risponde la politica a questa antipolitica, cosa risponde quando l’antipolitica ripropone il mito del cittadino comune (o dell’Uomo qualunque) che sarebbe in grado di governare la cosa pubblica meglio — con più efficacia e con meno costi — dei politici di professione? La politica non sa cosa rispondere, balbetta frasi sconnesse. Non è capace per lo più di rintuzzare la sfida con argomenti seri in difesa di se stessa e delle proprie virtù. Certamente l’antipolitica non nasce sotto un cavolo né senza ragioni. La ragione principale del suo successo è che, sfiancati da una lunga crisi economica, i cittadini non possono più tollerare le cattive abitudini, lo spreco di denaro pubblico, molti chiedono (e hanno ragione) una politica più sobria, meno disinvolta nell’impiego dei soldi dei contribuenti. Ma il lecito slitta nell’illecito quando, estremizzando, si abbracciano i peggiori argomenti affioranti dal passato, da un’antica tradizione antidemocratica e antiparlamentare. Si passa all’illecito quando si sostengono tre tesi, diverse ma collegate. La prima dice che i politici sono «cittadini come tutti gli altri». La seconda afferma che qualunque cittadino (come la «cuoca» di Lenin) è in grado di amministrare la cosa pubblica. La terza (ma qui gioca, oltre all’ideologia antidemocratica anche quella antiscientifica) sostiene che non solo una «competenza politica» specifica ma anche le altre competenze (si tratti di competenze amministrative o di saperi tecnico-scientifici), quelle che, in principio, servono a coadiuvare l’azione dei politici, non hanno valore: conta solo il volere del popolo, e il volere è potere, non esistono vincoli od ostacoli (finanziari, tecnici) che rendano indispensabile il ricorso alle competenze. Basta volerlo e, ad esempio, si può dare il salario minimo a tutti riducendo contemporaneamente le tasse o distribuire benessere e fare a meno della libera circolazione delle merci. Quanto alla prima tesi, chi-unque affermi che i politici, anche quelli eletti, siano «cittadini come tutti gli altri» ha urgente bisogno di qualche lezione di educazione civica. I politici eletti non lo sono affatto. I cittadini comuni rappresentano solo se stessi. Quei politici rappresentano i loro elettori. C’è in gioco il delicatissimo rapporto di rappresentanza (l’essenza della democrazia moderna) il quale rende il politico eletto diverso dal cittadino comune. La tesi «il politico è un cittadino come tutti gli altri» nega valore alla democrazia rappresentativa. Deve essere rintuzzata da chiunque la apprezzi pensando che essa, pur con i suoi limiti, sia l’unica possibile democrazia. È il rapporto di rappresentanza che rende necessarie quelle guarentigie (inaccettabili «privilegi» per gli esponenti dell’antipolitica), che vanno dall’immunità parlamentare (del tempo che fu) alla disponibilità di risorse economiche necessarie a svolgere i compiti di rappresentanza. Anche la seconda tesi non sta in piedi. Non è vero che chiunque possa improvvisarsi politico e magari amministrare la cosa pubblica ai massimi livelli. Fatta eccezione per pochissimi particolarmente dotati, ai più alti livelli conviene arrivare dopo una lunga gavetta politica. In Italia, un tempo erano i partiti ad addestrare le persone. Oggi non più. Ma partiti come quelli di allora non sono indispensabili. Negli Stati Uniti, ad esempio, partiti di tipo italiano non ce ne sono mai stati ma sono comunque sempre esistiti percorsi alternativi in cui i politici tuttora si formano e acquistano competenze. I Trump non sono la regola. Le assemblee rappresentative, locali e nazionali, sono tipicamente le migliori palestre per la formazione di politici competenti, in grado poi di governare. Governare significa organizzare il consenso, formare coalizioni fra interessi anche divergenti e mantenerle unite mentre si affrontano i vari problemi pubblici. Chi crede che ciò sia alla portata di chiunque prende fischi per fiaschi. Se l’antiparlamentarismo e l’ostilità per la democrazia rappresentativa sono alla base delle suddette tesi, si deve soprattutto al pregiudizio antiscientifico (le scie chimiche, la polemica sulle vaccinazioni) la svalorizzazione delle competenze altre, di quelle competenze non politiche che tuttavia servono alla politica per affrontare i vari temi dell’agenda pubblica. Nonostante la loro inconsistenza, le tesi antipolitiche hanno successo, si diffondono e si radicano. Possono farlo impunemente perché la politica non sa ribattere colpo su colpo, non sa contrapporre argomenti seri, forti e duri in difesa di se stessa, della propria indispensabilità, delle proprie virtù. Non è stata fin qui capace di farlo a causa della cattiva coscienza, della consapevolezza degli errori accumulati. Emendarsene è necessario. Ma abbracciare i cattivi argomenti dell’antipolitica, non difendere con fierezza le virtù della democrazia rappresentativa, significa lasciare il campo senza combattere, significa suicidarsi. 31 ottobre 2016 (modifica il 31 ottobre 2016 | 21:07) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cultura/16_novembre_01/cattiva-coscienza-nostra-politica-9549107c-9fa3-11e6-9daf-5530d930d472.shtml
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« Risposta #295 inserito:: Marzo 09, 2017, 11:53:12 am » |
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Nuova egemonia La resa culturale ai 5 stelle Di Angelo Panebianco In modo non coordinato, una pluralità di forze sembra agire ormai da tempo, con scarsa consapevolezza della posta in gioco, per offrire su un piatto d’argento il Paese al movimento Cinque Stelle, fornendo ad esso la possibilità di imporre, su una parte cospicua dell’opinione pubblica, una propria egemonia culturale. Una classe politica sulla difensiva che non sa contrapporsi alla propaganda dei Cinque Stelle e anzi la subisce, molti mezzi di comunicazione che cavalcano, e amplificano, la cosiddetta «indignazione popolare contro la classe politica», le inchieste giudiziarie che toccando ogni giorno gangli vitali della vita pubblica, mantengono sulla graticola la democrazia, non consentono di attenuare lo stato di permanente delegittimazione della politica rappresentativa che ci trasciniamo dietro dai tempi (primi anni Novanta) di Mani Pulite. Come scoprire se si è affermata una egemonia culturale? C’è un modo: se una qualsiasi falsificazione della storia viene messa in circolazione con intenti partigiani e se, dopo un po’ di tempo, si scopre che quella falsificazione è penetrata nelle menti di molti, diventando una verità di senso comune, una verità che le persone accettano come ovvia, auto-evidente, allora è possibile riconoscere che una egemonia culturale si è consolidata. Durante la guerra fredda il Pci era escluso dai ruoli di governo ma la qualità dei suoi dirigenti e la forza della sua organizzazione erano tali che esso seppe trasformare varie falsificazioni della storia, messe in circolazione pro domo sua, in verità di senso comune, accettate come tali persino da una parte rilevante di non comunisti. Si pensi a come si diffuse, anche in ambienti lontani dal Pci, una espressione come «legge truffa», uno slogan contro la tentata (1953) riforma elettorale della Dc. Oppure, si pensi al successo propagandistico della tesi secondo cui fu la resistenza partigiana a liberarci dal fascismo (come se gli americani non c’entrassero per niente), una tesi che serviva al Pci a fini di legittimazione e che si trasformò in verità di senso comune anche per tanti non comunisti. O ancora, si ricordi con quanta abilità il Pci riuscì a convincere vari ambienti che la parola «sinistra» e la parola «anticomunismo» fossero incompatibili, talché l’anticomunismo poteva essere soltanto di destra (questa diffusa convinzione diede di certo un contributo alla sconfitta finale di Bettino Craxi). Gli esempi potrebbero essere moltiplicati e servirebbero tutti a dimostrare con quanta efficienza, in una condizione difficile, nell’Italia democristiana e alleata degli americani, i comunisti riuscirono a costruire una egemonia culturale che finì per diventare incontrastata in luoghi strategici per la trasmissione delle idee, dal mondo dello spettacolo alle Università. Ho citato il caso del Pci perché fu un caso di parziale egemonia culturale ma anche per un’altra ragione. Per dimostrare che le egemonie culturali sono talvolta il frutto della capacità di chi le ha create ma altre volte danno un vantaggio a qualcuno senza particolari meriti di costui. L’egemonia culturale del Pci fu voluta e ricercata da gente di qualità (i dirigenti comunisti di allora). I Cinque Stelle potrebbero beneficiare di una egemonia culturale non per meriti propri ma per dabbenaggine altrui, perché altri ne hanno creato le condizioni. I Cinque Stelle stanno costruendo una egemonia culturale limitandosi a fare il loro mestiere: attaccare ogni giorno la democrazia rappresentativa. Nel loro caso, il contrasto alla democrazia rappresentativa (come provano le loro origini: i Vdays, l’utopia pseudo-democratica e illiberale di Casaleggio), è la loro più autentica ragione sociale. La combattono praticamente senza incontrare resistenza, sferrano attacchi con la porta avversaria vuota: coloro che dovrebbero difenderla sono scappati oppure restano silenti, oppure si sono uniti al quotidiano linciaggio mediatico della democrazia (l’unica possibile: quella rappresentativa appunto) pensando, puerilmente, che i Cinque Stelle si possano sconfiggere solo dando loro ragione. I Cinque Stelle sono i portavoce di una parte del Paese che della democrazia rappresentativa vorrebbe sbarazzarsi (“« politici? Tutti ladri»). Si tratti di colpire quel pilastro della rappresentanza moderna che è il divieto del mandato imperativo, di abbattere i privilegi dei parlamentari (stipendi, vitalizi) o di affermare la presunzione di colpevolezza in caso di inchieste giudiziarie che riguardino gli avversari, i grillini non incontrano vere opposizioni. Gli altri sono incapaci di restituire colpo su colpo, sembrano dare per scontato che la battaglia sia perduta. Nessuno che si batta con energia per far capire che i parlamentari non sono cittadini come gli altri (non rappresentano se stessi ma elettori che hanno dato loro fiducia) e per difendere dignità e insostituibilità della democrazia rappresentativa. Ad essere maliziosi si potrebbe osservare che questi attacchi avvengono proprio quando la classe politica è particolarmente debilitata e fragile, in balia di forze, amministrative e giudiziarie, molto più potenti. Non credendo nelle cospirazioni, ci limitiamo a constatare la diffusione di alcune «verità di senso comune» (falsificazioni della realtà) sulle presunte nefandezze della democrazia rappresentativa che segnalano lavori in corso: la costruzione di una egemonia culturale destinata forse a durare 7 marzo 2017 (modifica il 7 marzo 2017 | 20:19) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_marzo_08/resa-culturale-5-stelle-bc57cc2e-0369-11e7-abb5-4486feee70af.shtml
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« Risposta #296 inserito:: Maggio 12, 2017, 04:21:59 pm » |
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SCENARIO Un nuovo ruolo in Europa? Ma l’Italia è debole Dopo la svolta delle elezioni francesi, l’Italia dovrebbe lavorare per ritagliarsi un ruolo nuovo e importante negli equilibri europei, ma le nostre condizioni economiche e istituzionali difficilmente ce lo permetteranno Di Angelo Panebianco Subisce una decisa battuta d’arresto la «sequenza infernale» cominciata con Brexit, proseguita con la vittoria di Trump e con la conferma (esito del referendum costituzionale) che in un Paese-chiave dell’Europa e del mondo occidentale, l’Italia, non possono attecchire istituzioni in grado di dare un po’ di stabilità ai governi. Marine Le Pen prende tanti voti ma molti di meno di quelli che ci si poteva immaginare solo poco tempo fa, quando una sua vittoria non era data per probabile ma per possibile sì. La sua netta sconfitta, salvo sorprese, dovrebbe riverberarsi sulle elezioni parlamentari di giugno (con un effetto deprimente e respingente anziché di trascinamento dell’elettorato). È probabile che dopo quelle elezioni Macron dovrà accettare di formare un governo di coalizione con ciò che resta dei partiti storici francesi (socialisti e/o gollisti) annacquando un po’ il suo programma. Il rischio più grave che corre l’Europa adesso è quello di sedersi, congratularsi con la Francia e brindare per lo scampato pericolo, e non fare nulla, non riformare nulla. Tutto questo come se i problemi che negli ultimi anni hanno permesso all’antieuropeismo di gonfiarsi nel Continente non fossero ancora lì. Sospiri di sollievo a parte, le attese che circondano il neopresidente francese appaiono piuttosto esagerate. Un presidente liberale ed europeista è una buona notizia. Come lo è il fatto che la sconfitta di Le Pen sia un colpo per tutti i protezionisti-sovranisti d’Europa. Ma non conviene immaginare chi sa quali radicali cambiamenti. Certamente la Francia, con il suo nuovo presidente, avrà l’ambizione di ricostituire quell'asse franco-tedesco che fu il motore dell’Europa per decenni. Comunque vadano le elezioni tedesche del prossimo settembre, la speranza francese è destinata a essere frustrata. Macron non riuscirà a ricostituire il «governo» franco-tedesco dell’Europa, come non ci sono riusciti alcuni presidenti (come Sarkozy) che lo hanno preceduto. La Germania è troppo forte, lo squilibrio di potenza fra Germania e Francia è troppo accentuato, perché i vecchi tempi possano ritornare. Resta il fatto che ci proverà. Il che solleva la domanda su quale ruolo dovrà cercare di ritagliarsi l’Italia nel nuovo gioco che sta per aprirsi in Europa. Sulla carta l’Italia dovrebbe essere avvantaggiata dall'uscita della Gran Bretagna. Potrebbe occupare stabilmente la posizione del «terzo», traendo beneficio dalla possibilità di manovrare fra Germania e Francia. In pratica, le sue tradizionali debolezze interne ne riducono le potenzialità. C’è, innanzitutto, e come al solito, la palla al piede rappresentata dal debito pubblico. Ha sempre ridotto in Europa i nostri margini di libertà e la nostra autorevolezza. Continuerà a farlo. C’è poi, soprattutto, la nuova fase di instabilità e di ingovernabilità politica che si apre davanti a noi. Ormai è chiaro che ci terremo per chissà quante altre generazioni ancora la democrazia acefala a cui siamo da sempre abituati (fatta salva la parentesi di imperfetti esperimenti semimaggioritari durata circa un ventennio): un parlamentarismo congegnato in modo da assicurare governi instabili e precari, primi ministri deboli e ricattabili, una legge elettorale proporzionale senza neppure più i partiti forti di un tempo. Certo, quando, come in questo frangente, si vedono all’opera le istituzioni francesi, con la loro capacità di produrre stabilità politica e leadership solide, l’invidia è forte. E molti sognano di importare anche da noi qualcosa di simile. Ma è impossibile. Ricordo un tale, un uomo adulto e apparentemente raziocinante (il quale si limitava a ripetere argomenti della propaganda allora corrente), che, in mia presenza, prima del referendum costituzionale, paragonò la proposta di superamento del bicameralismo paritetico niente meno che alla marcia su Roma. Come pensate che potrebbero reagire simili lucidissimi cervelli di fronte a una proposta presidenzialista di tipo francese? Qui è già molto se riusciremo (sempre che la Corte costituzionale non abbia da ridire) a mettere nella legge elettorale proporzionale con cui presto voteremo un misero sbarramento elettorale del tre per cento: una foglia di fico che non frenerà in nessun modo l’instabilità politica ventura. Le istituzioni che abbiamo, generando ingovernabilità, ci tolgono la possibilità di svolgere un ruolo «pesante», ossia efficace e autorevole, in Europa. Ma il Parlamento non se ne preoccupa. Tanto meno se ne preoccupano quelle forze, amministrative e giudiziarie, che hanno interesse a che la politica in Italia sia sempre debole, sottomessa, ricattabile. C’è un altro elemento di preoccupazione. Uno dei grandi sconfitti delle elezioni francesi è Vladimir Putin. Al primo turno egli poteva contare su ben tre candidati filorussi (Fillon, Le Pen, Mélenchon). Ha vinto il politico da lui più lontano, il meno amichevole di tutti. Cercherà di rifarsi in Italia. Si spera che in vista delle prossime elezioni i servizi di sicurezza vigilino per ridurre al minimo le interferenze russe (che, probabilmente, ci saranno comunque) volte a favorire i nostri partiti filo-Putin (e, pertanto, antieuropei). Difficilmente potremo permetterci di avere un grande ruolo in Europa. Evitiamo, per lo meno, di diventare terra di conquista. 8 maggio 2017 (modifica il 8 maggio 2017 | 22:07) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_maggio_09/ma-l-italia-debole-5fa9e378-341e-11e7-8367-3ab733a34736.shtml
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« Risposta #297 inserito:: Maggio 16, 2017, 02:08:47 pm » |
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L’unione da rilanciare Noi, i Paesi forti e l’occasione europea dell’Italia Un ipotetico nuovo asse franco-tedesco sarebbe molto squilibrato al suo interno (a favore della Germania) e meno autorevole e influente nei confronti del resto dell’Ue Di Angelo Panebianco Il rischio è di vendere la pelle dell’orso con eccessivo anticipo. La sconfitta di Marine Le Pen e la vittoria dell’europeista Macron in Francia segnalano solo uno scampato pericolo (avesse vinto Le Pen il colpo, per l’Unione, sarebbe stato fatale). Tutto qui. Per giunta, la vittoria di Macron, al momento, è solo parziale. Per sapere se potrà contare su una maggioranza, e di che tipo, bisognerà aspettare i risultati delle elezioni parlamentari di giugno. Solo allora capiremo se si tratterà di un presidente forte oppure debole, dimezzato. Poniamo che Macron esca vincitore anche da quelle elezioni, che dia vita a una presidenza forte, sostenuta da una coesa maggioranza parlamentare. Basterà perché egli possa ricostituire quell’asse franco-tedesco che fu un tempo il motore dell’Europa e il cui venir meno negli ultimi decenni è da molti considerato la principale causa della sua crisi? E, inoltre, è solo così che si potranno finalmente affrontare i suoi più gravi problemi? È vero che l’asse franco-tedesco fu il vero governo dell’Europa per un lungo periodo e che il suo tramonto ha coinciso con l’inizio della crisi dell’Unione. Ma la difficoltà di ricostituire quell’asse è dovuta al fatto che le condizioni europee sono drasticamente cambiate. Negli anni passati si sono verificati due processi, apparentemente, contraddittori, di concentrazione e, contemporaneamente, di diffusione di potenza. Il successo dell’unificazione tedesca ha concentrato potenza sulla Germania e ha reso il divario delle forze fra Germania e Francia molto grande. Contemporaneamente, l’allargamento dell’Unione ha diffuso potenza fra gli Stati europei. Un ipotetico nuovo asse franco-tedesco sarebbe molto squilibrato al suo interno (a favore della Germania) e meno autorevole e influente nei confronti del resto dell’Unione (a causa dell’allargamento e della risultante diffusione di potenza). In ogni caso, si tratterebbe di qualcosa di realmente nuovo, e non la riproposizione — come alcuni sembrano pensare — di una esperienza già vissuta. Certamente la Francia possiede degli atout importanti, il principale dei quali è rappresentato dal fatto che, dopo l’uscita della Gran Bretagna, si tratta della prima potenza militare d’Europa. Inoltre, per ragioni storiche, possiede una capacità di influenza, che manca alla Germania, su aree geografiche (Africa francofona) rilevanti per l’Europa. Ma ciò basterà per fare accettare all’opinione pubblica e, quindi, alla classe politica tedesche, un parziale ridimensionamento di quella posizione di assoluta supremazia entro l’Unione a cui entrambe si sono ormai assuefatte? La soluzione può allora venire dall’Europa a più velocità, un nucleo centrale più integrato composto da chi ci sta e, a corona, i restanti membri dell’Unione? Sì e no. Per certi aspetti le cose si semplificherebbero ma per altri si complicherebbero. Si semplificherebbero perché ormai è chiaro che, con l’attuale assetto, non ci sono alternative alla paralisi decisionale. Un’Europa a più velocità aggirerebbe e neutralizzerebbe i poteri di veto che oggi la bloccano. Si porrebbe rimedio agli effetti negativi della diffusione di potenza. Ma le cose, contemporaneamente, si complicherebbero. Perché nel nucleo duro, centrale, la Germania concentrerebbe ancora più potere di oggi, le relazioni interne sarebbero ancora più squilibrate. Per quanto alle orecchie di molti italiani questo possa apparire poco verosimile, proprio il nostro Paese, almeno in teoria, potrebbe essere chiamato a svolgere un ruolo di rilievo, potrebbe contribuire a superare l’impasse europeo. L’Italia potrebbe, e dovrebbe, essere un partner stabile per una Francia impegnata a bilanciare, almeno in parte, la potenza tedesca. Ciò, naturalmente, richiederebbe due condizioni. La prima è che l’Italia riesca a dare una soluzione minimamente decente ai propri attuali, gravi problemi di governabilità. La seconda è che abbia la possibilità di entrare a fare parte dell’eventuale nucleo duro dell’Unione. Le due condizioni sono fra loro connesse. Sono entrambe eventualità possibili anche se, al momento, nessuna delle due appare probabile. Chi l’avrebbe mai detto che le circostanze avrebbero reso proprio l’Italia decisiva al fine del rilancio del progetto europeo? Tale progetto dovrebbe in ogni caso essere ridefinito, reinterpretato. Occorre certamente puntare sulla sicurezza (è, del resto, ciò che chiedono i cittadini più attratti dalle sirene antieuropee). Ciò significa impostare sia una difesa comune che un effettivo controllo europeo delle frontiere. Ma significa anche rimediare ad errori passati: occorre attribuire all’Europa pochi compiti essenziali (solo quelli che gli Stati nazionali non possono più svolgere) mentre bisogna ri-nazionalizzare prerogative e poteri indebitamente trasferiti all’Unione nei decenni trascorsi. Sperando anche, naturalmente, che classe politica e opinione pubblica tedesche siano disposte in futuro a fare, sul governo dell’eurozona, qualche concessione ai partner. Rimettere in moto il motore imballato dell’Europa è una impresa assai complicata. Non è sufficiente l’elezione di un giovane e simpatico presidente francese. 14 maggio 2017 (modifica il 14 maggio 2017 | 21:18) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_maggio_15/noi-paesi-forti-l-occasione-europea-dell-italia-56028cc6-38ce-11e7-8530-ea2b12fbdf2c.shtml
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« Risposta #298 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:23:27 pm » |
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IL COMMENTO Legge elettorale, una gara tra chi urla di più Col proporzionale ognuno gioca per sé e si premia l’estremismo Di Angelo Panebianco La comunicazione politica funziona per automatismi: si dice ciò che ci si aspetta che i propri elettori vogliano sentire anche se si tratta di frasi senza senso o riferite a oggetti non più esistenti. Ecco due esempi: «Un centrodestra unito vincerebbe» (Berlusconi e i suoi). «Il leader del partito che risulterà più forte alle elezioni sarà il candidato-premier» (Renzi). Peccato che il «centrodestra» non esista più e che, difficilmente, nelle vigenti condizioni il leader del partito che avrà più voti diventerà primo ministro. Spesso, gli stati maggiori si preparano per la prossima guerra immaginando che sia simile alla precedente. Allo stesso modo i politici usano gli slogan di una stagione passata quando ormai il contesto è radicalmente mutato. Nel 1994 si tennero le prime elezioni con il sistema maggioritario. Anziché adattarsi immediatamente alle nuove condizioni i politici iniziarono quella campagna elettorale facendo riferimento agli schemi di gioco, agli stilemi e ai tic della passata epoca, quando era in vigore la proporzionale. Solo quando «scese in campo» Berlusconi, il primo autentico leader dell’età maggioritaria, il gioco cambiò bruscamente. Accade oggi di nuovo: ci avviamo (dopo un ventennio) alle prime elezioni con la legge proporzionale e molti politici parlano «come se» fosse ancora in vigore il sistema maggioritario. Se non sapessimo che è una finzione dovremmo accusare di incoerenza e di illogicità Berlusconi e i suoi quando evocano il «centrodestra». Il centrodestra esiste in regime di maggioritario e scompare in regime di proporzionale (da noi, ormai resiste sul piano locale e regionale solo perché lì è ancora in vigore una variante del maggioritario). Non si può volere la proporzionale, come vogliono Berlusconi e i suoi, e poi evocare una «creatura» che con la proporzionale non c’entra nulla. Idem per quanto riguarda la possibilità che diventi premier il leader del partito elettoralmente più forte. Sono cose da maggioritario, non da proporzionale. In età proporzionale si formano governi di coalizione dopo le elezioni e a nessuno dei partner conviene che il primo ministro sia anche il capo del partito più grande: meglio, per loro, che la presidenza del Consiglio vada a un esponente politicamente meno forte, con meno truppe al seguito. Dal loro punto di vista, poniamo, un Gentiloni sarebbe sempre molto più accettabile di un Renzi. Se si passa dal maggioritario al proporzionale (e viceversa) significa davvero che tutto cambia. La prima cosa che cambia è questa: se vige il sistema maggioritario si vota «contro», se vige il sistema proporzionale si vota «per». Nel primo caso, voto per A non necessariamente perché mi piace A ma perché votare A è il modo migliore per impedire che vinca B (da me detestato). Nel secondo caso, invece, scelgo, nell’ampio menù che mi viene presentato, la pietanza (il partito) che più si adatta ai miei gusti. È vero che, in circostanze eccezionali — come quelle propiziate in Italia dalla guerra fredda — si può votare «contro» anche in regime di proporzionale (come ci ricorda il celebre invito di Indro Montanelli: «Tappatevi il naso e votate Dc»). Ma non è la regola. Che si sia entrati in un nuovo mondo lo hanno capito per primi gli scissionisti del Pd, D’Alema, Bersani e soci: se vige la proporzionale ritorna il voto identitario (che è un tipico voto «per») e ci sarà pure nel Paese una quantità di nostalgici sufficiente per assicurare una rappresentanza parlamentare al loro partitino. Allo stesso modo, sul versante opposto, sembra che Salvini abbia compreso meglio dei berlusconiani come ci si deve muovere (e comunicare) in epoca di proporzionale. Certamente, la retorica politica ha le sue esigenze. E la democrazia ne vive. Prepariamoci a una campagna elettorale in cui verranno dette tante parole destinate a finire nel dimenticatoio appena si chiuderanno le urne. Si ipotizzeranno alleanze nonché fiere opposizioni alle presunte alleanze altrui. Ma solo quando si conosceranno i risultati elettorali, e la consistenza parlamentare dei vari partiti, cominceranno le manovre per formare un qualche governo di coalizione. Fra quelle manovre e le cose promesse in campagna elettorale non ci sarà una stretta relazione. Così vanno le cose in regime di proporzionale dove ciascuno gioca per sé e le alleanze si fanno dopo il voto. Fin qui i fatti. Dopo di che, cominciano le valutazioni. Non siamo in pochi a tremare per gli effetti che può avere il ritorno della proporzionale. Essa ha garantito in Italia la democrazia (pur al prezzo di una continua instabilità governativa) quando esistevano partiti forti, radicati nel Paese. Ora quei partiti non ci sono più (né mai più ci saranno): ci attende un futuro di instabilità e forse anche di rischi per la democrazia. Per giunta, il sistema proporzionale, quando la maggior parte dei partiti presenti è priva di un forte insediamento sociale, finisce facilmente per premiare l’estremismo. Per due ragioni. La prima è quella del tertius gaudens: i più moderati sono impegnati a combattersi fra loro per portarsi via i voti e ciò dà un vantaggio al partito estremista che li combatte tutti. La seconda ragione ha a che fare con le regole della comunicazione: tante voci, tante facce, tanti messaggi in conflitto confondono l’elettore e lo annoiano. In tanto bailamme, le voci degli estremisti risaltano. Essi urlano più forte di tutti e catturano l’attenzione dei presenti vendendo l’elisir di lunga vita: soluzioni semplicissime per problemi complicatissimi. 6 agosto 2017 (modifica il 6 agosto 2017 | 22:19) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/17_agosto_06/legge-elettorale-gara-chi-urla-piu-ddf1b2cc-7ae3-11e7-8803-6174d9288686.shtml
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