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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160434 volte)
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« Risposta #270 inserito:: Giugno 17, 2015, 05:04:18 pm »

Retorica e illusioni
La politica che manca all’Europa

Di Angelo Panebianco

Da decenni, con un’accelerazione dopo il varo della moneta unica, tanti invocano l’integrazione politica come panacea dei mali d’Europa. C’è del giusto. Non appare sostenibile la moneta unica in assenza di una «sintesi politica», di un sistema di governo. Semplice buon senso. In questi ragionamenti, però, c’è sempre stato anche qualcosa di poco convincente. Non è chiaro se chi invoca l’integrazione politica si renda pienamente conto delle implicazioni. Si ha l’impressione che molti la immaginino come una specie di assemblea di quartiere «in grande», nella quale si formano disciplinate maggioranze che decidono sulle proposte della giunta di quartiere su come ripartire oneri e vantaggi. Non c’è mai stato niente di più «spoliticizzato» della concezione della politica prevalente in quei commenti. Per ragioni che attengono alla storia dell’integrazione europea, l’idea di politica che vi è stata appiccicata sopra è quella che poteva inventarsi (con l’interessata complicità dei governi) un club di tecnocrati convinti che le decisioni che contano dovessero essere prese all’interno del club medesimo: gente educata e preparata che pacatamente discute del bene comune. Il popolo, poi, null’altro avrebbe dovuto fare che avallare le lungimiranti decisioni.
Niente di più lontano da ciò che la politica è: conflitti di potere in cui si consumano ambizioni personali e di gruppo, e scontri frontali, e spesso feroci, fra contrapposte visioni di ciò che è collettivamente bene o male. L a politica, quella vera, si fonda sul principio dell’inclusione e dell’esclusione sulla base di criteri predefiniti (tu sei dentro e tu sei fuori) e ha un rapporto intimo, e inesorabile, con l’uso della forza. C’è una spiegazione del perché la concezione della politica prevalente sia stata quella del suddetto club di tecnocrati. Era l’idea di politica propria di un’Europa che non contava politicamente più nulla.
Quando l’integrazione europea mosse i primi passi, negli anni Cinquanta, e ancora nei decenni successivi, l’Europa era divisa fra sfere di influenza, dipendeva dalle superpotenze. È parte della retorica europeista la bugia secondo cui gli europei decisero di mettersi insieme perché non volevano più farsi la guerra come era avvenuto per secoli. Invece, gli europei si misero insieme perché non potevano più farsi la guerra: non erano più il centro del mondo, ora dipendevano dagli americani e dai russi. Poiché la politica (in quel suo aspetto fondamentale che riguarda le decisioni su guerra e pace e sull’uso della coercizione) era competenza delle superpotenze, poiché l’Europa era ormai solo spettatrice delle gare di potenza, ne derivò una concezione irrealistica, distorta, di ciò che avrebbe significato, nei decenni a venire, unificarla politicamente.
Ora le illusioni dovrebbero essere cadute. Se era comprensibile fino a qualche anno fa che si pensasse all’integrazione nei termini sopra descritti, adesso che la politica, quella vera, è venuta a cercarci, diventa colpevole insistere.
Altro che Grecia. Che fare con la Russia o con le popolazioni in movimento dall’Africa e dal Medio Oriente, o con lo tsunami dell’estremismo islamico? Che fare insomma con i grandi nodi geopolitici?
Sulla Russia, ad esempio, gli europei hanno adottato una posizione comune (le sanzioni) ma una parte di loro la subisce, si è dovuta inchinare di malavoglia a ciò che resta della leadership americana. Ma quella parte d’Europa è anche pronta, se potrà, ad accordarsi con lo zar delle Russie. Ma una cosa è dire che della collaborazione dei russi abbiamo bisogno (per esempio, in Medio Oriente), una cosa diversa è aspettare l’occasione per normalizzare i rapporti con loro fingendo che, dall’occupazione della Crimea in poi, nulla sia successo. Che razza d’Europa hanno in mente coloro che, ragionando solo di esportazioni e importazioni, pensano sia possibile una rinnovata partnership con Putin alle condizioni di quest’ultimo? È il solito vuoto, il solito «nulla politico», di cui in Europa esistono fior di cultori e specialisti.
Sull’immigrazione si è scatenata una competizione di stampo nazionalista fra i Paesi europei. Renzi, nell’intervista di ieri al “Corriere”, ha sostenuto con ragione che dobbiamo battere i pugni in Europa e che lo stiamo facendo. Ma è un fatto che i vari governi europei, pronti a lasciare l’Italia nelle peste, non sono «cattivi», sono pressati da opinioni pubbliche che pretendono argini contro i flussi migratori. E in democrazia, ciò che vogliono le opinioni pubbliche è «legge» per i governi. Nulla meglio dell’incapacità di elaborare una politica comune dell’immigrazione illustra quanto ingenue siano sempre state le idee prevalenti sulla «integrazione politica».
C’è qualcosa che si può fare? Sì, ma occorre tempo. Si elimini per sempre, quando si parla di Europa, qualunque riferimento alla parola «Stato» o simili: non ci sarà mai nessuno Stato europeo e genera crisi di rigetto il solo accennarvi. Come la Lega anseatica, la confederazione di città mercantili tedesche del tardo Medio Evo, abbiamo bisogno di mettere in comune poche cose e dobbiamo spiegarlo bene agli europei: niente superstato, niente scavalcamento (se non per il poco che è indispensabile) delle democrazie nazionali, solo un ristretto insieme di decisioni comuni per fronteggiare le più insidiose sfide esterne.
Abbiamo effettivamente bisogno di politica. Ma anche di sapere di che cosa stiamo parlando.

15 giugno 2015 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_15/politica-che-manca-all-europa-2babcfa4-131f-11e5-8f7b-8677cfd62f52.shtml
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« Risposta #271 inserito:: Luglio 05, 2015, 09:41:48 am »

La forza degli elettori
Perché la paura sta diventando cattiva consigliera dell’Europa

Di Angelo Panebianco

In questo drammatico finale di partita è forte e fondato il timore che i greci possano fare scuola, essere imitati da altri in giro per l’Europa. Più in generale, è giusto essere preoccupati constatando quanto siano ormai diffusi i sentimenti antieuropei. È anche lecito spaventarsi di fronte alla disinvoltura con cui i vari movimenti anti-Europa diffondono slogan sulla necessità di «uscire dall’euro», invocano virili «recuperi della sovranità nazionale», eccetera. Come se quella fosse la strada che può condurci verso un radioso futuro. M a una volta denunciata la superficialità di molti argomenti degli antieuropeisti, sarà anche il caso di domandarsi - vicenda greca a parte - se i comportamenti dell’Unione non abbiano qualcosa a che fare con i loro successi. Antonio Polito sul Corriere (30 giugno) ha giustamente osservato che se i capi dell’Unione non cambiano, non capiscono che esiste ormai una «sfera pubblica» europea e che bisogna coinvolgere i cittadini, sarà la rovina. Ma quei capi saranno capaci di cambiare?

I precedenti non sono incoraggianti. Dieci anni fa, un trattato che doveva mettere un po’ d’ordine nelle normative europee venne dapprima battezzato, con una formula ambigua, «trattato costituzionale» dagli europeisti più ortodossi. Non contenti, subito dopo, costoro rilanciarono decidendo che il suddetto trattato dovesse essere considerato, a tutti gli effetti, una «costituzione». Si decise insomma di raccontare agli europei che essi stavano per avere una nuova costituzione. Si aggiunse anche che la suddetta carta, tranne in alcuni casi (come la Francia), sarebbe stata ratificata dai Parlamenti nazionali. In deferente osservanza - così dissero - delle regole della democrazia. Alcuni, compreso chi scrive, si permisero di osservare che se il suddetto trattato era solo un trattato, allora andava benissimo farlo ratificare dai Parlamenti, ma se si trattava - come si stava millantando - di una costituzione, allora bisognava obbligatoriamente lasciare la parola agli elettori, magari in un referendum da indire nello stesso giorno in tutti i Paesi dell’Unione. Poiché non si può dare una costituzione a un popolo (ammesso che quello europeo fosse tale) senza chiedere il suo permesso, senza mettere nelle sue mani il potere costituente. Chi di noi lo disse venne trattato da dottrinario pedante o da rompiscatole euroscettico. Sappiamo come andò a finire. Correva l’anno 2005. Nei pochi casi (Francia, Paesi Bassi) in cui agli elettori fu consentito di dire la loro, l’esito fu uno sberleffo, un clamoroso «no». Quel «no» fu anche causato dal modo maldestro, arrogante, e impolitico, con cui si pretese di travestire un trattato da costituzione. Ma la lezione non è mai stata appresa. Arroganza e impoliticità continuano a tenere banco.

C’è poco da meravigliarsi, allora, se i movimenti antieuropei dilagano. Le liti a cui abbiamo assistito e gli accordi ambigui e tortuosi sull’immigrazione ne sono, al tempo stesso, un effetto e una causa (rafforzano la convinzione di molti che l’Europa sia diventata inutile). E, sempre a proposito di impoliticità, ricordiamo che al summit della settimana scorsa fra i 28 capi di Stato è stato presentato un documento - il cui principale autore è il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker - sui passi da intraprendere per rafforzare l’Unione nei suoi aspetti economici, finanziari e di bilancio. Il testo è interessante ma c’è anche un «ma». Non avendo imparato nulla dagli errori passati, le autorità europee continuano a comportarsi come se dal parere degli elettori si possa prescindere, come se le battaglie politiche, anche quelle a favore dell’integrazione europea, non si debbano combattere davanti, e in mezzo, agli elettori, coinvolgendoli e convincendoli.

Il documento suddetto propone una serie di passi per rendere sempre più stringente l’Unione, propone di completare l’integrazione economico-finanziaria, il che ha come inevitabile corollario un’ulteriore compressione dei margini di manovra dei governi nazionali. Senza entrare nel merito della proposta (che comunque vuole rafforzare, anziché allentare, nodi e vincoli e che, per questo, ad esempio, plausibilmente, non verrà accolta con favore dalla Gran Bretagna) va detto che le autorità dell’Unione hanno il diritto di formularla. Non hanno diritto però di continuare ad ignorare l’Abc della politica democratica. Non si può venire a raccontare che un complesso processo teso a rafforzare l’integrazione incidendo significativamente sulla «costituzione materiale» dei vari Paesi dell’Unione, rispetterebbe le regole democratiche solo che venisse sostenuto e approvato dal Parlamento europeo e da quelli nazionali.

La composizione dei Parlamenti riflette le divisioni sui temi che agitavano l’agenda politica al momento delle elezioni. Non si può pensare di farli deliberare in modo tale da incidere profondamente su poteri decisionali e assetti socio-economici senza che le opinioni pubbliche siano chiamate in causa. O meglio: lo si può fare ma solo offrendo nuovi argomenti di propaganda ai movimenti antieuropei.

Sarebbe stato meglio indirlo diversi mesi fa il referendum che si terrà domani in Grecia (il quesito, di fatto, è: restare o togliere il disturbo?). Forse fuori tempo massimo, e nonostante tutto, i cittadini greci - chissà? - potrebbero dimostrarsi più saggi di quanto non siano stati fin qui i loro governanti e scegliere l’Europa con tutti gli oneri connessi. Se faranno la scelta opposta, saranno comunque - come è giusto - gli artefici del proprio destino. O almeno così sarà se il governo greco e gli altri governi prenderanno sul serio i risultati del referendum.

Gli europeisti possono perdere soprattutto perché, a differenza degli antieuropeisti, hanno paura degli elettori, hanno paura della democrazia.

Continuate così e sfascerete tutto. Non conviene.

4 luglio 2015 | 18:16
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_04/grecia-perche-paura-sta-diventando-cattiva-consigliera-dell-europa-00352efa-2266-11e5-a8a7-86b884c5fff2.shtml
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« Risposta #272 inserito:: Luglio 19, 2015, 06:11:47 pm »

Il Jobs act non basta
Un’agenda per crescere davvero

Di Angelo Panebianco

La cosiddetta «austerità», quell’ordine teutonico che secondo i critici più accesi la Germania avrebbe imposto a tutta l’Europa, è fin qui andata incontro a due diverse obiezioni. La prima è quella di tipo greco (almeno fino all’attuale, apparente, rinsavimento di Tsipras) e si sostanzia nella rivendicazione del diritto di espandere ad libitum la spesa pubblica. È il senso, l’unico possibile, delle polemiche contro l’austerità dei vari ammiratori europei (italiani inclusi) dell’attuale governo greco. La seconda obiezione è quella di chi chiede più margini allo scopo di fare politiche pro sviluppo (che significa, prima di tutto, tagliare le tasse là dove sia vigente un regime di tasse alte). È sperabile che sia questo, e non altro, ciò che intende il primo ministro italiano quando, come ha ripetutamente fatto in queste settimane, dichiara la sua insoddisfazione per la politica di austerità.

In realtà, non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiedere una revisione delle politiche europee per innestare la marcia dello sviluppo se si avesse la forza per ridurre significativamente la spesa pubblica, al fine di ricavarne le risorse necessarie per diminuire la pressione fiscale. Ma poiché quella forza il governo italiano non la possiede (abbiamo visto che fine ha fatto la spending review) non resta che cercare a Bruxelles l’allentamento dei vincoli che è necessario per tagliare le tasse. Renzi è in difficoltà. I segnali di ripresa economica ci sono ma sono ancora troppo timidi. Egli rischia, tra pochi mesi, di concludere il suo secondo anno come capo di governo senza che ci sia stato un serio rilancio economico. Il Jobs act è stato un ottimo provvedimento ma da solo non basta. Possiamo immaginare una specie di «triangolo delle Bermude»: i Paesi che si trovano al suo interno, che non riescono a uscirne, non hanno possibilità di sperimentare un forte sviluppo. Il primo lato del triangolo è costituito da un regime di tasse alte; il secondo lato, da una estesissima area di intermediazione pubblica; il terzo lato, infine, da una cultura anti-impresa che permea l’amministrazione e la giurisdizione. Se così è, agire soltanto sul primo lato del triangolo (abbassare le tasse), ancorché necessario, non è sufficiente per rimettere in moto lo sviluppo. Bisogna anche agire sugli altri due lati, e qui le resistenze, sia politiche che culturali, possono essere fortissime: così forti da far considerare, al confronto, le proteste sindacali per la riforma della scuola come una timida, composta, e solo accennata, manifestazione di dissenso.

Ridurre l’area dell’intermediazione pubblica, abnormemente cresciuta nell’ultimo trentennio, è difficilissimo (e difatti, fino ad ora, non si sono visti segnali significativi che vadano in quella direzione). Ridurre la «presa» dello Stato centrale, nonché dei poteri locali, sull’economia non è soltanto una questione di contrazione della spesa. Implica anche un cambiamento nei meccanismi di regolazione pubblica, significa mettere le mani su un sistema normativo soffocante i cui controlli sulle attività dei cittadini, non soltanto economiche in senso stretto, hanno portato zero vantaggi in termini di lotta alla devianza (ogni giorno nascono nuove inchieste giudiziarie, come e più di prima) ma anche costi economici, palesi e occulti, assai alti. Si noti che se non si agisce su questo versante, se non si riduce la presenza dello Stato nella vita economica e sociale, allora anche ogni eventuale contrazione del peso fiscale non potrà che essere temporanea: presto o tardi, le necessità di finanziamento di un vorace sistema pubblico, centrale e locale, torneranno a imporsi esigendo, di nuovo, più tasse.

Il terzo lato del triangolo riguarda la cultura anti-impresa prevalente nell’amministrazione e nella giurisdizione. Qui le cose sono ancora più difficili: una mentalità anti-impresa e, al fondo, anticapitalistica, si è incistata nel corso degli anni in gangli vitali degli apparati dello Stato ed è difficile contrastarla anche perché essa può contare sul sostegno di parti importanti dell’opinione pubblica. Prendendo lo spunto dal sequestro giudiziario degli impianti di Fincantieri a Monfalcone e ricordando il grande pasticcio dell’Ilva di Taranto, Dario Di Vico ( Corriere , 1° luglio) ha innescato un salutare dibattito, che fortunatamente continua, sui rapporti fra magistratura e impresa. Di Vico ricordava che nei casi di sequestro si manifesta sempre un «asse culturale» tra la magistratura e le anime più radicali del sindacalismo. Per fortuna, il dibattito ha mostrato che ci sono magistrati consapevoli dei danni colossali per l’economia nazionale che certe azioni delle procure (ma anche, possiamo aggiungere, certe sentenze dei Tar) possono comportare. E tuttavia non è facile rimediare.

Non è facile fare in modo che i rischi di impresa siano in Italia uguali a quelli che si corrono negli altri Paesi occidentali. Non è facile impedire che, dalla sera alla mattina, azioni di sequestro mandino a gambe all’aria imprese che, senza quell’intervento, continuerebbero a competere con successo nel mercato. Difficile far nascere imprese, e anche attrarre investitori, dove la burocrazia esercita le sue consuete, tradizionali, angherie e dove, soprattutto, la libertà di impresa non è affatto garantita, dove un improvviso provvedimento di sequestro (per via giudiziaria come per via amministrativa) può condurre facilmente al fallimento.

Siamo al centro del triangolo ed è per questo che non possiamo crescere più di tanto. Chiunque riuscisse a trascinarci fuori di lì meriterebbe eterna gratitudine.

12 luglio 2015 | 09:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_12/ripresa-economica-troppo-timida-jobs-act-non-basta-da7a7844-285c-11e5-8e27-9292b85fb2a2.shtml
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« Risposta #273 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:45:45 am »

L’interesse nazionale dimezzato

Di Angelo Panebianco

Quando l’ambiente internazionale diventa minaccioso, la classe dirigente di un Paese dovrebbe creare un fronte unito per orientare l’opinione pubblica. Ma ciò può accadere solo in un mondo ideale, lontano da quello reale. Alcuni Paesi, con una tradizione di coesione nazionale, si sono in passato avvicinati un po’ all’ideale. Altri ne sono sempre rimasti distanti. Per decenni, guardando alle nostre esasperate divisioni, certi osservatori si sono chiesti se sia mai esistito un «interesse nazionale italiano», un insieme di stabili obiettivi in relazione al mondo esterno che la classe dirigente condividesse a prescindere dai suoi conflitti.

Se la domanda è posta in questi termini la risposta deve essere affermativa: sì, esiste un interesse nazionale italiano e c’è un corpo diplomatico di buona qualità che si sforza di tutelare con continuità quell’interesse chiunque sia di volta in volta al governo. Ciò che ci ha insegnato il ventennio e passa seguito alla fine della Guerra fredda, e nel quale abbiamo sperimentato la frequente alternanza al governo di sinistra e destra, è che, a ogni cambio di maggioranza, mutano gli stili comunicativi, qualche alleanza internazionale diventa più stretta, qualche altra si allenta, ma il «cuore» della politica estera non cambia radicalmente.

Tutto bene dunque? Non proprio. Ci sono due limiti.
Il primo è che le nostre convergenze interne sulla politica estera sono spesso occulte. La classe politica disorienta l’opinione pubblica fingendo divisioni dove non ci sono, occultando le convergenze, e in definitiva vergognandosene. Facciamo tre esempi. Senza voler formulare giudizi di merito appare chiaro che Renzi, Berlusconi e Salvini (ma probabilmente anche Vendola, la Boldrini, eccetera) la pensano più o meno allo stesso modo su Putin. Ma non lo ammetterebbero nemmeno sotto tortura. Cosa pensano? Pensano che con la Russia bisogna venire a patti, punto. Alla faccia di quei prepotenti degli americani. Se l’Ucraina non ne esce stritolata, meglio. Altrimenti, pazienza. L’Italia ha pagato un prezzo troppo alto, in termini di mancate esportazioni, per le sanzioni alla Russia. E ciò dovrà finire. Chi è all’opposizione è più libero di fare sfoggio della propria russofilia. Chi è al governo deve fare anche i conti con Obama, la Merkel, eccetera. Ma è chiaro che, in materia di Russia, esiste una definizione condivisa di cosa sia l’interesse italiano.

Secondo esempio. Gli italiani sono entusiasti dell’accordo nucleare sull’Iran. Gli affari sono affari e l’accordo schiude anche per gli italiani verdi pascoli, dorate praterie. Del resto, tutti i governi italiani sono sempre stati attenti alle esigenze iraniane.

Terzo esempio. Gheddafi. Al tempo della guerra occidentale contro il dittatore libico alcuni iper-faziosi qui da noi salutarono con favore quell’intervento militare perché lo ritenevano (scioccamente) un colpo contro Berlusconi. Si trattava di distruggere l’amico di Berlusconi, quello a cui l’odiato Cavaliere aveva baciato l’anello. Ma Gheddafi non era un «famiglio» di Berlusconi, era un famiglio dell’Italia. Con lui, sia la destra che la sinistra avevano sempre cooperato. Anche in relazione alla Libia, è sempre esistito un (occultamente) condiviso interesse nazionale.

Se il primo limite è che laddove c’è comune riconoscimento dell’interesse nazionale manca la volontà di ammetterlo, il secondo è dato dalla sottovalutazione dei problemi della sicurezza. Accomuna destra e sinistra. La destra pare preoccuparsene solo in relazione all’immigrazione, il che è assai riduttivo.

Ma sulla sicurezza intesa in senso lato, tolti coloro che se ne devono occupare per ruolo (ministri degli Esteri e della Difesa, diplomatici, apparati della forza), la disattenzione è massima a tutte le latitudini politiche. Nei convergenti atteggiamenti italiani sulla Russia, ad esempio, le considerazioni sulla sicurezza (che fare con una Russia la cui nuova dottrina strategica indica nell’Occidente il principale nemico?) hanno un ruolo secondario.

Anche nel caso dei rapporti con l’Iran la sicurezza non pare in cima alle preoccupazioni italiane. Nonostante le dichiarazioni in senso contrario: l’Iran, si dice, aiuterà a colpire lo Stato islamico. Forse, ma perché non chiedersi anche quale sarà l’effetto sul mondo sunnita dell’alleanza fra i crociati e gli eretici sciiti contro il Califfo, sunnita pure lui? In questo clima è merito di Renzi essere volato in Israele, proprio dove la nuova libertà di manovra che l’accordo regala all’Iran può generare i più gravi rischi esistenziali.

Solo nel caso della Libia, possiamo forse dire, le preoccupazioni per l’interesse economico e per la sicurezza sono sempre stati appaiate, anziché divergenti (ai tempi di Gheddafi come oggi). E si capisce, data la vicinanza geografica e i legami storici, e il rischio che la dissoluzione dello Stato libico fa correre all’Italia.

Gli eccezionali settant’anni di pace che l’Europa ha alle spalle hanno fatto perdere di vista a tanti europei il fatto che la pace è un bene precario che richiede di essere coltivato investendo di continuo in politiche della sicurezza.

Questa consapevolezza è ancora minore in Italia dove a lungo si è creduto che l’interesse italiano fosse una cosa e la sicurezza un’altra, dato che di quest’ultima (fino ad oggi appaltata agli americani via Nato) si sarebbe occupata un giorno l’Europa. Ma la rinazionalizzazione degli interessi dei Paesi europei impone anche all’Italia meno opacità e meno amnesie. Possibile che né a destra né a sinistra si trovi oggi il modo di discutere della Nato e del ruolo italiano in essa? Non siamo speciali: anche per noi, come per tutti, difendere l’interesse nazionale significa conciliare affari e sicurezza.

3 agosto 2015 (modifica il 3 agosto 2015 | 07:14)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_03/sicurezza-trascurata-interesse-nzionale-dimezzato-b3b89d4c-399d-11e5-b49b-ae37d5ff3efe.shtml
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« Risposta #274 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:18:46 pm »

Cattolici e politica
L’equilibrio che cerca la Chiesa
Il rapporto conflittuale tra il segretario della Cei Galantino e la classe politica italiana segnala la possibilità di un presa di distanza

L a violenta polemica che ha opposto monsignor Nunzio Galantino, il segretario della Conferenza episcopale italiana, alla classe politica, sia di governo che di opposizione, potrebbe restare negli annali come un fatto eccezionale. Ma potrebbe anche indicare che rapporti molto più conflittuali rispetto al passato andranno a stabilirsi in permanenza fra la Chiesa e i principali leader della democrazia italiana. Se questo fosse il caso e se, per effetto di tali conflitti, alla lunga, una parte significativa del mondo cattolico prendesse le distanze, anche sul piano elettorale (per esempio, optando massicciamente, e permanentemente, per l’astensione) da quella stessa classe politica, allora la nostra fragile democrazia si troverebbe a fronteggiare una sfida assai severa. Al tempo del non expedit, quando dopo l’unificazione italiana, il conflitto fra il nuovo Stato e la Chiesa tenne per tanti decenni i cattolici fuori dallo Stato, le conseguenze politiche di lungo periodo furono gravi. È vero che allora i cattolici praticanti erano la schiacciante maggioranza nel Paese e oggi, nell’Italia secolarizzata, non lo sono più. Ma una nuova forma di alienazione politica, o di ritiro della delega alla politica rappresentativa, da parte di settori rilevanti del mondo cattolico potrebbe avere di nuovo conseguenze gravi.

Ha certamente ragione Mauro Magatti (sul Corriere di ieri) quando osserva che si tratta di trovare, a partire dal riconoscimento che la Chiesa e la politica secolare hanno compiti e vocazioni diversi, un luogo d’incontro. U n terreno nel quale, come talora è accaduto in passato, la dialettica, e anche le eventuali tensioni, fra religione e politica non abbiano esiti distruttivi ma vadano a beneficio di entrambi.

Nella prospettiva qui prescelta si tratta soprattutto di capire se è possibile che il nuovo impulso dato da papa Francesco all’azione globale della Chiesa, nonché la nuova «agenda» adottata da questo pontificato, possano trovare una soddisfacente articolazione, e un efficace momento di mediazione, in una comunità cattolica nazionale in grado di conciliare il messaggio universalistico con le esigenze del Paese di appartenenza. Né più né meno, peraltro, di ciò che la Chiesa ha sempre fatto, nei suoi momenti più felici, in tantissime, fra loro differenti, realtà nazionali.

Il Papa che viene dall’altra parte del mondo segnala, come è stato detto tante volte, un radicale riallineamento «geopolitico» della Chiesa. Implica la presa d’atto che l’Europa non è più il centro del cristianesimo e che il suo futuro si giocherà soprattutto in America Latina, in Africa, e in certe zone dell’Asia. Papa Francesco è, con il suo carisma e il suo attivismo, l’espressione di questo cambiamento. Proprio per questa ragione, però, è anche inevitabile che un momento di mediazione fra il messaggio papale e le esigenze delle varie comunità nazionali europee si affermi. In Italia specialmente, essendo qui la sede del Papato.

È inevitabile - ciascuno di noi è figlio della propria storia - che questo Papa, come tutti quelli che l’hanno preceduto, si porti dietro, oltre alla sua fede e alla sua lettura del Vangelo, anche esperienze, idee e sentimenti che sono parte della tradizione della sua terra. Tradizione che non coincide necessariamente con la nostra. È plausibile che in un Paese di capitalismo maturo quale è, nonostante tutto, l’Italia, non siano pochi, anche fra i cattolici, quelli che dissentono da Bergoglio in materia di lavoro e di profitto o che, per fare un altro esempio, non credono che le guerre contemporanee siano solo il frutto del desiderio di guadagno di avidi capitalisti. Ed è anche plausibile che molti si rendano conto che le concezioni economiche del Papa derivano da una certa interpretazione delle Scritture ma, forse, derivano anche da una tradizione, fortemente anticapitalista, radicata nel Paese da cui proviene.

In Italia abbiamo ottimi studiosi dell’America Latina in generale e dell’Argentina e della sua storia in particolare. Forse è il caso che comincino a occuparsi dei legami culturali fra questo Papa e quella tradizione.

Tutto ciò per dire che un filtro e una mediazione sono necessari. I cattolici italiani sono, per l’appunto, sia cattolici che italiani. In quanto cattolici, non possono che aderire al messaggio universalistico della loro Chiesa e del loro Papa. In quanto italiani, però, hanno esigenze, sia interessi che valori, che condividono con altri italiani, credenti e non - ad esempio, esigenze relative a questioni come la sostenibilità del sistema di welfare, i livelli di tassazione, eccetera - e che rispondono a una differente logica. E hanno anche un interesse alla stabilità del loro (nostro) sistema democratico.

Come si è potuto apprezzare benissimo in questi giorni, ci sono certamente vescovi italiani consapevoli del problema e, quindi, dell’indispensabilità di una mediazione. Questa è un’ottima cosa. Se i cattolici si dividessero fra una parte dialogante e una parte alienata e ostile nei confronti della politica rappresentativa (nelle parole di monsignor Galantino «un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi») e se, inoltre, in certe persone, le due identità di cattolico e di italiano entrassero in conflitto, questo sarebbe, immaginiamo, un grave problema per la Chiesa. Ma lo sarebbe, di sicuro, anche per la democrazia italiana.

di Angelo Panebianco

21 agosto 2015 (modifica il 21 agosto 2015 | 08:18)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_21/equilibrio-che-cerca-chiesa-70798cf0-47c4-11e5-9031-22dbf5f9fa34.shtml
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« Risposta #275 inserito:: Agosto 28, 2015, 11:30:42 pm »

I riflessi condizionati sulle tasse

Di Angelo Panebianco

Sono le tasse dunque il terreno politico ed elettorale che Renzi ha scelto per affrontare i suoi avversari. Se riuscirà ad abbassarle sensibilmente consoliderà la sua leadership alla testa di una sinistra radicalmente rinnovata, forse capace anche di attrarre ampie porzioni di quelle classi medie indipendenti (imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani) tradizionalmente ostili alla sinistra.

Sulle spalle del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, soprattutto, ricadrà l’arduo compito di reperire le risorse necessarie. Ma sbaglia chi crede che in gioco ci sia solo una questione di risorse.

Più delle riforme istituzionali, forse anche più della scuola, le tasse toccano il cuore identitario della sinistra per come l’abbiamo conosciuta. La promessa di abbassarle coincide con la più grave minaccia a quella identità. Apparentemente, ciò accade solo per la nota ragione secondo cui, finito il comunismo, azzerati i grandi ideali, morta l’utopia, la sinistra si era ridotta, sotto il profilo identitario, a due cose: l’ideologia liberal (i vari temi del «politicamente corretto» - gender e così via - interpretati come diritti civili) e l’imperativo del «tassa e spendi» rivendicato come garanzia di ridistribuzione del reddito e di equità sociale. Renzi, sulle orme di Tony Blair, e pur con tutti gli adattamenti a un caso assai diverso da quello britannico, promette di preservare, e di cavalcare, l’ideologia liberal ma anche di mettere fuori gioco l’imperativo del tassa e spendi, il piatto forte, il cuore identitario. Può essere tutto meno che un’operazione indolore. Anche perché al di sotto del principio del tassa e spendi c’è una visione del mondo, così radicata e incistata che molti non ne sembrano nemmeno consapevoli. Quando il segretario della Cgil Susanna Camusso (sul Corriere del 24 agosto) propone di abbassare l’età pensionabile, mandare prima le persone in pensione per lasciare i loro posti ai giovani, sta precisamente parlando a coloro che condividono una particolare visione del mondo, una visione che apprezza le società statiche, per non dire immobili, che teme il dinamismo e l’innovazione più di ogni altra cosa. Chi attribuisce valore al dinamismo sociale, chi pensa che la continua innovazione caratterizzi le società davvero vitali, punta ad ampliare, attraverso la crescita economica (a sua volta effetto della libertà di innovare e della presenza di diffuse capacità imprenditoriali), oltre alla ricchezza, anche la base occupazionale disponibile.

Invece, chi ha fatto proprio l’ideale di una società statica pensa sia alla ricchezza che al lavoro come a giochi a somma zero: si deve togliere più soldi all’uno (il più ricco) per darli all’altro (il più povero), si deve mandare in pensione Tizio (il più anziano) per lasciare il posto a Caio (il più giovane). Non si tratta mai di ampliare la torta ma di mantenerla inalterata tagliando diversamente le fette. È questa mentalità, propria di tanti, una parte dei quali nemmeno è consapevole di averla, che sta dietro all’imperativo del tassa e spendi e, quindi, all’identità di una parte rilevante della sinistra. È questa mentalità che alimenta l’ideale di una società composta prevalentemente da impiegati pubblici, e nella quale il mercato sia tenuto a bada, al suo posto, in condizioni di non nuocere, di non dare libero sfogo ai suoi impulsi più «eversivi» e aggressivi: poiché è proprio del mercato di essere la principale fonte dell’innovazione e del dinamismo sociale.

Esattamente ciò che da sempre la sinistra esorcizza bollandolo come «liberismo selvaggio». Si capisce perché gli antirenziani di sinistra odino tanto Renzi: sta aggredendo, e forse distruggendo, un pezzo alla volta, il loro universo simbolico, il loro piccolo mondo statico. Forse ha anche capito meglio di loro che cosa è successo negli stessi strati sociali che sono stati per decenni il tradizionale serbatoio elettorale della sinistra: lì, ad esempio, ci sono persone di estrazione popolare (con la casa di proprietà) sempre meno disponibili a prendere per buona l’ideologia del tassa e spendi e ciò che essa sottintende. Se queste persone risulteranno essere molte la scommessa di Renzi verrà forse vinta.

Per completezza di discorso, bisogna aggiungere che l’ideale di una società statica non è proprio soltanto della sinistra. C’è in Italia, da sempre, anche una destra antimercato e corporativa che ha ugualmente paura del dinamismo sociale: a differenza della sinistra, tuttavia, questa destra, per lo più, non ha fatto delle tasse alte una bandiera identitaria. Se ciò che qui è stato detto è corretto allora Renzi, per abbassare le tasse, non dovrà solo procurarsi le risorse. Dovrà combattere, e sconfiggere, una radicata e diffusa mentalità. L’impresa, a occhio, si presenta più difficile e complicata di quella in cui è impegnato, poniamo, chi vuole soltanto riformare una Costituzione.

28 agosto 2015 (modifica il 28 agosto 2015 | 07:27)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_28/fisco-tasse-riflessi-condizionati-editoriale-panebianco-b66ee798-4d44-11e5-816c-ead72dc4bf5c.shtml
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« Risposta #276 inserito:: Settembre 08, 2015, 04:37:49 pm »

Il premier e la sinistra
La rottura che serve sulle tasse

Di Angelo Panebianco

La disputa sulle tasse è uno dei due temi (l’altro è l’immigrazione) al centro dell’agenda politica. Renzi vi si giocherà il proprio futuro politico oltre che quello del Paese.
La «battaglia delle tasse» si preannuncia come un conflitto epocale. Non solo interessi ma anche incompatibili visioni del mondo si affronteranno in una lotta senza esclusione di colpi. Volendo aggredire l’ideologia del «tassa e spendi», Renzi sembra deciso a una definitiva resa dei conti con quella parte della sinistra che lo odia e vorrebbe sbarazzarsi di lui. Si tratta appunto di una resa dei conti perché, più che sulle riforme costituzionali, più che sulla scuola, sulle tasse si combatte una battaglia per l’identità della sinistra. Non si scherza con le identità: una volta che siano entrate in gioco, nessuno è più disposto a fare prigionieri.

Fondamentalmente, lo scontro è fra chi propone di abbassare la pressione fiscale allo scopo di rilanciare la crescita economica (e quindi allargare la torta della ricchezza nazionale) e chi, invece, non è interessato alla crescita ma alla sola ridistribuzione del reddito (che verrebbe garantita, secondo tale ideologia, da tasse alte e da alta spesa pubblica) pur in presenza di una torta che va riducendosi, di una ricchezza nazionale in declino. È il conflitto fra una visione che apprezza il dinamismo sociale e una visione che preferisce le società statiche, a bassa crescita, ove i conflitti sono a somma zero (togliere a Tizio per dare a Caio anziché fare in modo che - ampliando la torta - ottengano di più entrambi). Commentando un mio editoriale su questo tema (Corriere, 28 agosto), Eugenio Scalfari (La Repubblica, 30 agosto), ha osservato che Renzi avrebbe mostrato molta più coerenza a suo tempo se, anziché impegnare risorse nella distribuzione degli ottanta euro a certe fasce di lavoratori dipendenti, avesse puntato a una seria riduzione del cuneo fiscale. Concordo con Scalfari. La misura degli ottanta euro (presentata come una riduzione delle tasse ma, in realtà, un classico caso di ridistribuzione del reddito), come mostrato anche dallo studio - di cui ha dato conto due giorni fa il Corriere -, diretto e coordinato da Luigi Guiso, ha avuto effetti ambigui: gli ottanta euro sono stati per lo più impegnati in consumi da coloro che ne hanno beneficiato, il che ha aiutato, in un momento di grave difficoltà, la domanda interna. Però, all’effetto positivo si è sommato un effetto negativo dovuto al varo di diverse misure, ivi compresi aumenti delle tasse, necessario per reperire le risorse.

In realtà, quella degli ottanta euro fu una mossa spiegabile soprattutto in termini politici: servì, nelle consultazioni europee di due anni fa, per mantenere ancorato al Pd un elettorato che, senza quella misura, forse, lo avrebbe abbandonato (per l’astensione o per i Cinque Stelle).

Non mi pare però che questo cambi sostanzialmente il quadro. Se Renzi si impegnerà sul serio nella battaglia delle tasse, sarà coinvolto in uno scontro durissimo. Peraltro, con non molte probabilità di farcela: è possibile che in un Paese che invecchia coloro che scommettono sul futuro, che puntano su dinamismo e innovazione, risultino in minoranza. In ogni caso, egli dovrà consumare definitivamente quella «rottura sentimentale», di cui ha parlato Massimo D’Alema, con la tradizione post-comunista.

7 settembre 2015 (modifica il 7 settembre 2015 | 06:59)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_07/rottura-che-serve-tasse-c008f80e-551c-11e5-b550-2d0dfde7eae0.shtml
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« Risposta #277 inserito:: Settembre 14, 2015, 10:41:40 am »

Noi e le guerre
Rimettere i piedi per terra

Di Angelo Panebianco

Si può forse dire che non è ancora apparso all’orizzonte un nuovo Winston Churchill in grado di dare la sveglia agli europei. Le benemerenze della Merkel (mettere in riga i dissipatori di risorse altrui senza scassare l’unione monetaria, usare il bastone del comando per tentare di governare il flusso dei profughi) sono indubbie ma anche circoscritte. C’è sproporzione fra quanto l’Europa fa o si propone di fare e l’intensità del terremoto mediorientale in atto (la guerra civile siriana, il caos libico, l’avanzata dello Stato islamico). Di fronte a così radicali sconvolgimenti governi e opinioni pubbliche dovrebbero interrogarsi su come impedire che la guerra arrivi prima o poi, sotto forma di devastanti azioni terroristiche, nelle stesse città europee.

È difficile non concordare sul fatto che gli europei abbiano un interesse vitale alla sconfitta dello Stato islamico (condizione necessaria, oltre a tutto, perché si trovi una soluzione di compromesso in Siria). C’è chi pensa che occorrerà aspettare la nuova Amministrazione americana e un radicale cambiamento della strategia statunitense in Medio Oriente. Ma se gli europei, per lo meno, si chiarissero le idee fra loro, potrebbero poi parlare agli alleati americani, quale che sia il presidente in carica, con una voce sola. Ci sono eccellenti ragioni morali (fermare lo sterminio di esseri umani, nonché la distruzione di un patrimonio culturale che appartiene a tutti) per voler mettere alle corde lo Stato Islamico. Ma c’è anche il nostro interesse a non diventare i suoi prossimi bersagli. C’ è qualcosa, anzi molto, che non va nel modo in cui noi europei invochiamo abitualmente «soluzioni diplomatiche», e ci muoviamo di conseguenza, per fermare l’azione di coloro che noi stessi definiamo «nemici». Sembra quasi che la nostra ricetta diplomatica consista nel tentare di sfinire il nemico a chiacchiere nella speranza che, alla fine, per disperazione, si suicidi. Sembriamo ignorare che, nelle zone di guerra, non può avere successo alcuna azione diplomatica che non sia sorretta dalla forza militare e dalla disponibilità a farne uso.

Federica Mogherini, l’alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, dell’Europa fa propria anche la fragilità, quando immagina, ad esempio, che la guerra in Siria possa essere semplicemente risolta facendo sedere le parti intorno a un «tavolo» (Corriere della Sera, 6 settembre). Come se, in guerra, non siano gli esiti dei conflitti armati a decidere se e quando, e con quali carte negoziali in mano, le parti combattenti si renderanno disponibili a trattare.
Sfruttando l’inerzia occidentale, gli «scarponi sul terreno» li sta mettendo Putin. Forse, come pensano certi analisti militari, le forze che egli è in grado di schierare possono servire solo a puntellare il regime di Assad, non a infliggere, in alleanza con gli iraniani, duri colpi allo Stato islamico. Forse è davvero così. Ma, di sicuro, più il tempo passa senza che gli occidentali siano capaci di scuotersi e di dotarsi di una strategia plausibile, più il loro spazio di manovra andrà a ridursi. Proprio in un’area così vitale per la sicurezza europea.

In un certo senso, possiamo dire che noi europei (soprattutto noi europei occidentali) siamo vittime del nostro successo. Abbiamo alle spalle il più lungo periodo di pace della storia d’Europa. È umano che ciò abbia creato in tanti, forse nella schiacciante maggioranza, la falsa convinzione che la pace di cui godiamo appartenga all’ordine naturale delle cose, che essa non sia - come invece è - il frutto di equilibri che possono in qualunque momento spezzarsi. Gli europei (con la parziale eccezione di francesi e inglesi) sembrano ormai largamente inconsapevoli del fatto che la pace, per durare, debba essere tutelata dalla forza e dalla volontà di usarla contro le minacce.

Non c’è nessun «ordine naturale», in quanto tale pacifico: la pace di cui abbiamo goduto è stata garantita, durante la Guerra fredda, dalle armi americane e poi, a Guerra fredda finita, dal fatto che lo «scongelamento», in Medio Oriente e altrove, degli equilibri affermatesi dopo la Seconda guerra mondiale, non si è verificato immediatamente ma ha richiesto un certo lasso di tempo. A conclusione di un’epoca (davvero d’oro) in cui gli europei hanno potuto illudersi di vivere in un mondo post-politico, senza più le grandi contese mortali fra visioni del mondo contrapposte, essi, purtroppo, devono oggi rimettere i piedi per terra, devono fare la fatica di ricominciare a pensare politicamente.

14 settembre 2015 (modifica il 14 settembre 2015 | 07:31)
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_14/rimettere-piedi-terra-692c08e2-5a9d-11e5-8668-49f4f9e155ef.shtml
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« Risposta #278 inserito:: Settembre 27, 2015, 11:44:24 am »

Sondaggi e voto
Il debito di Renzi con Grillo

Di Angelo Panebianco

I sondaggi sulle intenzioni di voto attribuiscono al movimento Cinque Stelle percentuali da capogiro, lo indicano come il secondo partito in Italia. La rilevazione di Pagnoncelli, pubblicata sabato scorso dal Corriere, conferma: i Cinque Stelle sono al momento scelti dal 27% degli elettori potenziali contro il 33% di preferenze per il Partito democratico. Tenuto conto dell’altissimo numero di indecisi rilevati, però, è difficile credere al momento che in elezioni politiche «vere» i Cinque Stelle possano conquistare una così elevata percentuale di votanti.

Tuttavia, gli orientamenti fotografati oggi dai sondaggi hanno l’effetto di tenere sotto pressione la classe politica. E dovrebbero anche ricordare a Matteo Renzi quanto grande sia il debito di gratitudine che egli ha contratto con Beppe Grillo. Per due ragioni.

La prima è che senza il clamoroso successo elettorale dei Cinque Stelle nelle elezioni del 2013 e la conseguente sconfitta (perché di una sconfitta si trattò) di Pier Luigi Bersani e del partito da lui guidato, Matteo Renzi non avrebbe potuto vincere le successive primarie, non sarebbe diventato segretario del Pd, non sarebbe al governo. Furono la crisi e lo sbandamento indotti fra i militanti e gli elettori democratici da quel risultato a spianargli la strada. Tolto il caso dei true believers, dei veri credenti (quelli che credevano e credono nei Cinque Stelle e nei loro programmi), è un fatto che coloro che, in quelle elezioni, votarono Grillo con il solo scopo di scatenare una reazione all’interno della classe politica tradizionale, ottennero il risultato voluto: l’arrivo di Renzi ne fu una diretta conseguenza. M a c’è anche una seconda ragione per cui Renzi deve essere grato a Beppe Grillo. Ha precisamente a che fare con i sondaggi testé ricordati. Fin quando il movimento Cinque Stelle continuerà ad essere percepito come il più temibile competitor del Partito democratico, Renzi potrà rivendicare la propria indispensabilità: una variante aggiornata della «diga» incarnata dalla Democrazia Cristiana agli occhi degli elettori ai tempi della Guerra fredda: vade retro Partito comunista allora, vade retro Cinque Stelle oggi.

Si noti che quei sondaggi tolgono anche un po’ di credibilità ai propositi scissionisti della sinistra del Pd. Se il grosso degli elettori di sinistra che odia Renzi si indirizzerà davvero verso i Cinque Stelle, gli eventuali scissionisti potrebbero trovarsi a dare vita a un piccolo «partito dei pensionati» (magari iscritti alla Cgil) destinato all’irrilevanza.

Sembra che il Paese non riesca a sfuggire a una maledizione, non riesca a fare a meno di trovarsi di fronte a due alternative, nessuna delle quali davvero allettante. La prima è quella che abbiamo conosciuto nel periodo 1994 - 2011 (anno della caduta dell’ultimo governo Berlusconi): un bipolarismo «immoderato», fondato sulla delegittimazione reciproca fra gli schieramenti. Il vantaggio di quell’assetto era che permetteva l’alternanza al governo. Lo svantaggio era che il clima da guerra civile rendeva la democrazia assai mal funzionante.

La seconda alternativa è quella conosciuta nel cinquantennio democristiano e che, con tutti gli adattamenti del caso, potrebbe trovare una parziale replica nell’era Renzi: un partito elettoralmente grande che si colloca al centro dello schieramento, in grado di fare incetta di voti sia a destra che a sinistra, e che è anche il più credibile ostacolo al dilagare di forze anti-sistema o percepite come tali. In tale assetto, molto o poco che duri, l’alternanza al governo è di fatto impossibile.

Se Renzi supererà lo scoglio della riforma del Senato e se non sarà costretto a fare concessioni alle minoranze sulla legge elettorale, le sue probabilità di vittoria alle prossime elezioni politiche saranno assai alte. Per l’assenza di alternative plausibili. Naturalmente, devono realizzarsi due condizioni. La prima è che la ripresa economica si consolidi. La seconda è che egli abbia dall’Europa aiuti adeguati per governare (o per dare l’impressione di governare) l’immigrazione. Se queste due condizioni si realizzeranno, Renzi avrà vinto la sua scommessa. Continueranno in tanti, come hanno fatto fin qui, a dargli del «democristiano». Anche se, per la verità, sia le condizioni storiche generali che le stesse caratteristiche di Renzi, rendono improprio quell’accostamento. Tranne che per la questione della «diga».

23 settembre 2015 (modifica il 23 settembre 2015 | 07:20)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_23/debito-renzi-grillo-7435ed50-61b1-11e5-a22c-898dd609436f.shtml
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« Risposta #279 inserito:: Ottobre 05, 2015, 06:25:39 pm »

Le risorse scarse e le illusioni
Il tocco magico che l’Onu non può avere

Di Angelo Panebianco

La settantesima sessione plenaria dell’Assemblea generale dell’Onu si è aperta in una fase delicata della vita del pianeta. Si spara in molti luoghi e, in altri, rumori minacciosi preannunciano tempeste. Nel Mar della Cina la volontà egemonica dell’Impero celeste mette a rischio la pace mondiale entrando in collisione con gli interessi vitali di tanti Paesi, ivi compresi alcuni alleati degli Stati Uniti come Giappone o Filippine. In Europa la guerra, ancorché di bassa intensità, è tornata nelle regioni orientali dell’Ucraina e la Russia non chiede ma pretende che ci si dimentichi dell’annessione della Crimea rivendicando il suo ruolo nella lotta allo Stato Islamico in Medio Oriente.

L’abulia strategica degli occidentali (degli americani in primo luogo ma anche degli europei alle prese con la difficoltà di governare gli ingenti flussi migratori) lascia vuoti che altri, dai russi agli iraniani ai turchi - con i loro interessi non coincidenti con quelli occidentali - vanno riempiendo a modo loro. L’incontro che si è svolto ieri tra Obama e Putin forse porterà a una svolta (e forse no), innescherà, nelle prossime settimane, il salto di qualità che tutti attendono all’azione di contrasto allo Stato islamico (condizione indispensabile perché si possa un giorno costruire un ordine accettabile in Siria). Ma è un fatto che è Putin a guidare il gioco e i suoi interessi non sono necessariamente coincidenti con quegli degli Stati Uniti o con quelli dell’Europa.

Mentre i rumori di guerra si diffondono e a New York si danno convegno potenze coinvolte in giochi «misti» (parziale coincidenza di interessi su alcuni temi unita a una dura competizione su molti altri), l’Onu non rinuncia all’ideologia onusiana e, in suo omaggio, si impegnerà anche in questa occasione a votare a favore della distribuzione a tutti dell’elisir della felicità. Tra gli impegni che verranno solennemente presi ci saranno cose come bloccare i cambiamenti climatici in atto, assicurare a tutti la sicurezza alimentare, il disarmo, eccetera. Chi non è d’accordo?
Non si tratta solo di ipocrisia. È anche un omaggio al mito fondante dell’Onu. L’Onu fu voluta da Franklin Delano Roosevelt per rilanciare l’utopia che durante la Prima guerra mondiale aveva spinto il presidente Woodrow Wilson a concepire la Società delle Nazioni.

Quell’utopia era uno dei lasciti del pensiero liberale del secolo diciannovesimo: l’idea era che imbrigliandoli entro organizzazioni guidate da un nuovo diritto internazionale, gli Stati avrebbero cessato di farsi la guerra, direttamente o per procura, come avevano fatto per secoli. Si sarebbero assoggettati al diritto dirimendo le loro controversie pacificamente, allo stesso modo in cui i cittadini degli Stati liberali dirimono le loro. La conquistata armonia degli interessi avrebbe consentito agli Stati di cooperare lealmente per risolvere i problemi del mondo.

Non è andata così. Il compito ambizioso che era stato attribuito all’Onu si rivelò irrealizzabile non appena esplose la competizione fra Usa e Urss. Dopo la Guerra fredda, molte illusioni sul ruolo dell’Onu rinacquero ma si scontrarono quasi subito, e di nuovo, con l’impossibilità di sostituire la «armonia» alla competizione e al conflitto fra gli Stati. Così come si era dovuta adattare alla distribuzione bipolare del potere durante la Guerra fredda, l’Onu si è poi piegata (anche se con molte tensioni) all’unipolarismo americano successivo. Allo stesso modo, oggi va adattandosi al multipolarismo emergente.

Ciò non rende inutile l’Onu, essa continua a servire come vetrina e tribuna, un consesso in cui ciò che accade racconta a tutti noi quali siano il clima imperante e lo stato dei contenziosi in atto. Non si tratta di pretendere che l’Onu rinunci ai suoi miti fondanti, alla sua ideologia ufficiale e a quel tanto di ipocrisia che vi è inevitabilmente appiccicato. Si tratta solo, per chi ne ha voglia, di guardare alle cose con realismo. Non è vero che i problemi mondiali si risolverebbero tutti facilmente se solo ci fosse la «buona volontà». Chi ragiona così non vede che in un mondo di scarsità non c’è verso di sfuggire alla competizione.

Ed è proprio l’idea di scarsità, e delle conseguenze della scarsità, che manca, e non solo nell’ideologia ufficiale dell’Onu. Si pensi alla lodevole richiesta di papa Francesco di dare terra, casa, lavoro a tutti gli uomini. Anche nel suo caso c’è la sottovalutazione del vincolo della scarsità. Come nel proposito onusiano di assicurare a tutti la sicurezza alimentare, c’è in Francesco l’idea che le risorse siano tutte a disposizione e che la scarsità, anziché un vincolo obiettivo, sia piuttosto l’effetto di una congiura delle classi dominanti ai danni dei poveri del pianeta. Tanto in Francesco quanto nella visione ufficiale onusiana si sentono echi dell’ideologia ottocentesca del progresso (sia in variante liberale che socialista), l’idea secondo cui l’umanità sarebbe ormai entrata nell’era dell’abbondanza illimitata. Non è così. Non ci sono risorse illimitate che possano cadere dal cielo rinnovando il miracolo della manna. La scarsità non è venuta meno.

La povertà, ad esempio, non può essere eliminata con la bacchetta magica. Gli unici strumenti che l’hanno ridotta e che promettono di ridurla ulteriormente in futuro, sfortunatamente, sono proprio quelli che al Papa non piacciono e che, per giunta, non possono essere evocati esplicitamente in sede Onu, data la diversa costituzione economico-sociale di numerosi membri dell’Assemblea: il mercato e il capitalismo di mercato.

In un mondo di scarsità ove, per giunta, non sono affatto superate le sovranità territoriali, la competizione fra gli Stati, in barba alla mission dell’Onu, resta endemica e ineliminabile. Si possono anche mandare soldati per infoltire i caschi blu come ha fatto Renzi in omaggio a quell’ideologia onusiana che qui in Italia conta tanti adepti. A patto però di non dimenticare che esistono poi interessi (nostri e dell’Europa), in competizione con gli interessi di altri, e che l’Onu, di sicuro, non può tutelare.

29 settembre 2015 (modifica il 29 settembre 2015 | 07:18)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_29/tocco-magico-che-onu-non-puo-avere-panebianco-529b6aec-6668-11e5-ba5a-ab3e662cdc07.shtml
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« Risposta #280 inserito:: Ottobre 14, 2015, 02:54:54 pm »

Noi tra Libia e Siria
Per Renzi in politica estera verità senza eufemismi
Il dovere della verità sull’Isis
Il premier deve spiegare agli italiani il ruolo dell’Italia nella crisi internazionale


Di Angelo Panebianco

Se qualcuno vorrà scommettere sulla capacità di Matteo Renzi di continuare a sconfiggere i suoi nemici, vincere le prossime elezioni e governare a lungo, dovrà essere consapevole del fatto che si tratterà di una scommessa al buio. A occhio, le probabilità sono Fifth Fifth, cinquanta per cento a favore di Renzi e cinquanta contro.

A suo favore giocano diversi fattori. Innanzitutto, la sua personalità: il suo fortissimo istinto per il potere unito a una non comune disponibilità al rischio. Nell’avventura di Renzi sembra trovare molte conferme il detto secondo cui la fortuna arride agli audaci. In secondo luogo, il fatto che, per un concorso di circostanze, egli non sia sostenuto solo da coloro che lo apprezzano. Gode anche dell’appoggio di molti a cui non piace ma che pensano di lui ciò che Winston Churchill pensava della democrazia: la peggiore soluzione escluse tutte le altre.

Poi c’è il fatto che, come ormai è accertato, Renzi riuscirà a portare a casa la riforma costituzionale. Liquidare il bicameralismo simmetrico non è fare una «riformetta»: significa cambiare la «costituzione materiale» del Paese, ristrutturare le regole del gioco. Anche se non è garantito, colui che riesce a farlo, di solito, si trova in vantaggio nella competizione politica successiva. Da ultimo, c’è la ripresa economica in atto. Se la tendenza si confermerà Renzi se ne prenderà tutto il merito.

Ciò gli darà un fortissimo vantaggio rispetto agli avversari. Fin qui le probabilità a suo favore. Le probabilità contro dipendono dal fatto che la politica nostrana non è un compartimento stagno, isolabile dal resto del mondo. Sono le conseguenze dell’irruzione del mondo esterno nelle nostre vicende interne che possono, politicamente parlando, tagliare le gambe a Renzi. In parte a causa della visione del mondo che impregna segmenti rilevanti della coalizione sociopolitica che sostiene il suo governo e, in parte, forse, anche a causa dell’incapacità di Renzi di emanciparsi del tutto dal suo passato «scoutistico» (e lapiriano).

In tempi di grandi emergenze occorrono leader capaci di dire la verità all’opinione pubblica e di trascinarsela dietro. È precisamente per questo - non certo per la battuta sopra citata sulla democrazia - che Churchill è passato alla storia come uno dei grandi statisti del XX secolo.

Il modo in cui Renzi ha deciso di trattare le questioni siriana e libica non convince. Da un lato, abbiamo scelto di non contribuire con azioni di fuoco ai bombardamenti della coalizione anti Stato Islamico (lo faremo, e stiamo decidendo come e quando, solo in Iraq). Non partecipando a tali azioni di fuoco della coalizione in Siria ne restiamo membri di serie B. Corriamo rischi (i nostri aerei svolgono attività di intelligence) ma non partecipiamo a pieno titolo, col diritto di dire la nostra, all’attività decisionale della coalizione. Dall’altro lato, ci siamo dichiarati disponibili a guidare una rischiosissima missione militare (eufemisticamente descritta come Peace enforcing) contro i gruppi armati che alimentano il caos libico. Come mai? Eppure è chiaro che le due cose sono interdipendenti, è chiaro che se non si riesce a indebolire lo Stato Islamico non sarà neppure possibile pacificare la Libia. E, inoltre, come mai, rinunciando a bombardare lo Stato Islamico, rinunciamo anche alla forza negoziale che quella partecipazione ci conferirebbe, per esempio, ai tavoli ove si decide come fronteggiare il flusso di profughi in fuga dalla Siria?

La risposta è semplice. Partecipare ai bombardamenti contro lo Stato Islamico significa partecipare a una guerra che non può essere camuffata da altro. Guidare la missione in Libia significa ugualmente partecipare a una guerra ma con la possibilità - almeno nella prima fase - di camuffarla da Peace enforcing. È per questo che si insiste tanto su argomenti che dovrebbero essere resi irrilevanti dallo stato di necessità in cui ci troviamo: come l’argomento secondo cui l’articolo 11 della Costituzione ci autorizzerebbe ad agire in Libia (sotto l’egida delle Nazioni Unite) ma non in Siria. Per inciso, i costituenti vollero l’articolo 11 per bollare le guerre di aggressione condotte dal fascismo. Non potevano immaginare quali manipolazioni ideologiche ne sarebbero seguite.

Naturalmente, quando si scoprirà che la suddetta guerra, camuffata da Peace enforcing, come tutte le guerre, lascerà sul terreno sia combattenti che vittime civili, la finzione non potrà più reggere e il governo dovrà fronteggiare la mobilitazione «pacifista» contro l’intervento in Libia. Tipici pasticci in cui va a infilarsi un’Italia pubblica che ha ribattezzato «operatori di pace» i propri soldati e che di eufemismi sembra anche disposta a morire. Niente di quanto accade nel grande incendio mediorientale, dal crollo di interi Stati all’impennata del flusso dei profughi verso l’Europa, fino alla destabilizzazione in atto della Turchia, sembra in grado di scuotere questa Italia facendole comprendere che il mondo sicuro e pacifico in cui vivevamo fino a poco tempo fa è finito. Una incapacità che, a quanto pare, condividiamo con i tedeschi.

Chi crede che le ripetute minacce del Califfo contro Roma o che le immagini di San Pietro su cui sventolano le bandiere dello Stato Islamico, siano scherzi, boutade, non ha capito nulla. Spetterebbe a Renzi spiegare all’opinione pubblica come stiano davvero le cose. Il fatto che uno di solito così loquace non abbia trovato ancora le parole giuste per spiegare la verità agli italiani, non è di buon auspicio. Per noi, prima di tutto. Ma anche per la sua futura carriera politica.

13 ottobre 2015 (modifica il 13 ottobre 2015 | 07:30)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_13/per-renzi-politica-estera-verita-senza-eufemismi-dovere-verita-sull-isis-03b2fa5c-7168-11e5-b015-f1d3b8f071aa.shtml
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« Risposta #281 inserito:: Ottobre 26, 2015, 11:50:59 am »

Troppa fiducia nell’Onu
Abbiamo bisogno di adottare un più alto profilo nel Mediterraneo rispetto al passato.
Se vogliamo provvedere alla nostra sicurezza nelle nuove condizioni abbiamo bisogno di svolgervi un ruolo sempre più attivo

Di Angelo Panebianco

È stato un successo italiano, la settimana scorsa, l’accoglimento da parte dell’Unesco della nostra proposta di istituire un corpo di «caschi blu della cultura» a protezione dei patrimoni culturali messi a rischio dalla furia umana e dalle catastrofi naturali. L’Italia avrà inoltre un ruolo centrale nella creazione di questa task force specializzata. C’è da rallegrarsene. Arte e cultura sono, per il mondo, ciò che meglio definisce l’identità italiana ed è giusto che al nostro Paese sia riconosciuto un ruolo di leadership. Nulla da eccepire. Tranne forse il nostro solito eccesso di fiducia nelle capacità operative dell’Onu e delle sue affiliate. I caschi blu (anche quelli più tradizionali, con compiti militari) godono di grande popolarità dalle parti del governo Renzi. È solo di qualche settimana fa la decisione del premier di aumentare il nostro contributo in uomini ai contingenti delle Nazioni Unite. Ma vale la pena di sfoggiare tanto ossequio?

Da un bel film del 2001, No Man’s Land (del regista bosniaco Danis Tanovic), il grande pubblico apprese quale nomignolo i miliziani (serbi, croati, musulmani) delle guerre jugoslave avessero appiccicato ai caschi blu delle Nazioni Unite. Li chiamavano «i puffi» (per via del blu che li accomunava ai celebri personaggi dei cartoni) considerandoli al tempo stesso costosi e del tutto inutili.

È urgente che l’Italia assuma un atteggiamento più disincantato, meno genuflesso, nei confronti delle Nazioni Unite.

La destabilizzazione in atto del Mediterraneo ci obbliga, al fine di tutelare la nostra sicurezza, ad adottare un approccio non ideologico, realista, di fronte alle crisi attuali. Quando in gioco c’è la tua pelle, non puoi stare lì ad aspettare che la tua azione difensiva venga preventivamente approvata dall’Onu. Continuando così a indulgere nella finzione secondo cui solo il marchio delle Nazioni Unite sia in grado di conferire a qualunque azione internazionale «legalità» e «legittimità» (due parole che molti, erroneamente, considerano sinonimi).

Può anche essere giusta, può anche rispondere ad ineccepibili valutazioni tecnico-operative, la decisione italiana di non partecipare ai bombardamenti dello Stato islamico in Siria. Basta che non si tirino fuori le cosiddette «ragioni giuridiche» (l’assenza del marchio delle Nazioni Unite). Poiché di fronte a una minaccia come lo Stato islamico tali ragioni giuridiche contano zero.

A rovescio, il ragionamento vale anche, almeno in parte, per la Libia. Che si debba andare oppure no in Libia per combattere quella particolare guerra detta di Peace enforcing, di imposizione della pace mediante le armi, può essere una decisione saggia oppure no. Ma pur riconoscendo l’indubbia utilità del fatto che una simile spedizione goda della copertura Onu e quindi, implicitamente, dell’assenso di governi arabi (per renderla accettabile agli occhi di una parte dei libici), non è l’Onu che può stabilirne il grado di saggezza. Questo possono farlo solo i governi degli Stati, Italia in testa, la cui sicurezza è oggi a rischio a causa del caos libico. Senza contare che gli sforzi dell’Onu di trovare una soluzione politica nel caso libico sono fin qui tutti falliti. Da ultimo è già fallito il tentativo di piegare a un accordo i governi nemici di Tobruk e di Tripoli.

Bisognerebbe sbarazzarsi di quell’ideologia onusiana qui da noi diffusa in ambiti piuttosto ristretti (volontariato cattolico, militanti di sinistra) e tuttavia influenti sugli atteggiamenti del governo. L’Onu non è l’embrione di un «governo mondiale» come si tende a pensare in quegli ambienti. Non vi somiglia neanche un po’.

Ed è pure una fortuna, tenuto conto della natura dei regimi di alcune grandi potenze che siedono nel Consiglio di Sicurezza (Cina, Russia), nonché di tanti Paesi rappresentati nell’Assemblea Generale. Dio ci scampi da un governo mondiale (ancorché embrionale) così impestato di autoritarismo. L’Onu è soltanto un utile luogo di discussione che consente all’opinione pubblica mondiale di comprendere quale sia il clima, soprattutto nei rapporti fra le grandi potenze. E a questo c’è ben poco da aggiungere.

Prima assumiamo un atteggiamento disincantato verso le Nazioni Unite e meglio è. Soprattutto oggi che abbiamo bisogno di adottare un più alto profilo nel Mediterraneo rispetto al passato. Se vogliamo provvedere alla nostra sicurezza nelle nuove condizioni abbiamo bisogno di svolgervi un ruolo sempre più attivo. Occorre investire non solo tempo ma anche risorse per potenziare la nostra capacità di intervento militare e di influenza diplomatica. Senza farsi inutili illusioni sull’Onu. Muovendoci piuttosto, se è possibile, in accordo con la Nato (l’esercitazione Nato in corso nel Mediterraneo segnala, se non la fine di una inerzia durata a lungo, per lo meno una volontà di risveglio).

Sapendo però anche che dire Nato significa dire Stati Uniti e che, senza un nuovo attivismo dell’amministrazione americana nell’area, dovremo arrangiarci, diventare punto di raccordo fra i Paesi della regione con interessi di sicurezza simili ai nostri.

Un atteggiamento più «laico» nei confronti delle Nazioni Unite appare tuttavia di difficile adozione da parte del governo Renzi. Per il quale, evidentemente, una politica economica che dà così tanti dispiaceri alla sinistra tradizionale deve essere bilanciata da concessioni su altri versanti, si tratti di unioni civili o di omaggi all’ideologia onusiana. Solo che quando è in ballo la sicurezza diventa rischioso continuare a giocare con l’ideologia.

23 ottobre 2015 (modifica il 23 ottobre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_23/italia-crisi-troppa-fiducia-nell-onu-c180f9b2-7942-11e5-a624-46f9df231ebf.shtml
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« Risposta #282 inserito:: Novembre 04, 2015, 05:36:32 pm »

Un errore cambiare
L’Italicum e la paura di Grillo

Di Angelo Panebianco

In politica non si può dare nulla per scontato ma, al momento, sembra che Renzi e il Pd debbano rassegnarsi: Roma, per loro, è perduta. È verosimile che fra qualche mese, quando si andrà a votare, a giocarsi la partita saranno i grillini e, ma solo se troverà un leader all’altezza (Alfio Marchini?), il centrodestra.

Tenuto conto della débâcle di Marino, nonché del clima generale alimentato dai gravi episodi di malaffare e corruzione (ma la mafia non c’entra), ci sono buone probabilità che a conquistare la Capitale siano proprio i Cinque Stelle. Se questo accadrà l’intera Italia pubblica finirà «sull’orlo di una crisi di nervi». Circoleranno inverosimili sondaggi che attribuiranno ai Cinque Stelle il ruolo di primo partito nelle intenzioni di voto (ma rivelando, contestualmente, percentuali ancora più alte di indecisi), e tanti commentatori cominceranno a «riposizionarsi» (un termine asettico ed elegante che indica i movimenti trasformistici) preparandosi a una futura presa del Palazzo d’Inverno da parte di Grillo e soci. Il nervosismo andrà alle stelle. Mentre i corrispondenti esteri correranno a intervistare i vari capi grillini i quali parleranno come se fossero già al governo, come se avessero già in tasca il Paese.

L’unica certezza è che, per lo meno, Renzi non si farà troppo impressionare, forse sarà l’unico, in quella situazione, a non perdere la Trebisonda. Ma dovrà anche resistere a fortissime pressioni tese ad ottenere un cambiamento della legge elettorale. L’argomento è già stato usato ma, se i grillini sfonderanno a Roma, diventerà dominante.

Il ragionamento è il seguente: essendo il sistema politico nazionale ormai tripolare, in caso di ballottaggio fra Renzi e i grillini il centrodestra sposterà i suoi voti su questi ultimi dando così a Grillo la vittoria. A riprova c’è il fatto che, in tempi recenti, in alcune amministrazioni locali, il ballottaggio fra il Pd e i Cinque Stelle si è risolto a favore di questi ultimi. Si può ribattere che è sempre rischioso pensare alle elezioni nazionali come se fossero una replica di quelle locali. Ciò che accade localmente dipende soprattutto da fattori locali (ad esempio, chi erano i candidati sindaci del Pd battuti dai Cinque Stelle?). Inoltre, siamo sicuri che i voti serviti al grillino locale per battere i democratici arrivassero dal centrodestra? È noto che, nelle elezioni locali, gli elettori del centrodestra hanno una forte propensione all’astensione al secondo turno, persino quando al ballottaggio va un loro rappresentante. Questa propensione dovrebbe essere ancora più accentuata quando lo spareggio è fra candidati entrambi estranei al centrodestra. Infine, anche ammesso che, in certi casi, elettori del centrodestra abbiano premiato, nel ballottaggio locale, un Cinque Stelle, questo non autorizza a pensare che rifarebbero la stessa scelta in un ballottaggio nazionale. Conviene non dimenticare certe specificità delle elezioni locali. Le stesse che, ad esempio, ai tempi della Guerra fredda, spingevano elettori anticomunisti a diciotto carati a votare, in certe città emiliane, per il sindaco comunista, considerato da loro un buon amministratore.

Nelle elezioni nazionali, tolti i giovanissimi che studiano e vivono a casa dei genitori, le persone votano soprattutto con il portafoglio, badando al proprio interesse. Davvero i leader del centrodestra potrebbero, a cuor leggero, chiedere agli elettori di votare un Cinque Stelle in odio a Renzi? E se anche ciò avvenisse, sarebbero molti gli elettori disposti a seguire una tale indicazione? Non è verosimile. Difficilmente quegli elettori - molti dei quali, sicuramente, avrebbero tanto da perdere - correrebbero un rischio simile. Un grillino a Palazzo Chigi scatenerebbe il panico su tutte le piazze internazionali: un fuggi fuggi generale. Più o meno ciò che accadde ad Atene alle prime elezioni in cui vinse Syriza. L’Italia non è la Grecia ma, presumibilmente, gli effetti (almeno quelli immediati) non sarebbero diversi. È difficile che gli elettori di centrodestra non lo intuiscano. Per queste ragioni Renzi farà bene a resistere ai tentativi di imporgli un cambiamento della legge elettorale che, a quel punto, verrà proposto con la scusa di voler fermare i grillini ma che (col voto alla coalizione anziché al partito e altri trucchi proporzionalistici) comprometterebbe la futura governabilità. Dal momento che resta assai probabile che, in caso di ballottaggio, il grosso degli elettori del centrodestra vada in soccorso di Renzi anziché di un Cinque Stelle, quale che sia l’indicazione dei loro leader.

Tuttavia, è dura a morire l’idea che così non sarebbe. Per due motivi. Il primo è che si tende a pensare agli elettori come se fossero «pacchi»: i leader li pigliano e li mettono dove vogliono. Ma gli elettori non sono pacchi, sono persone che pensano (chi più e chi meno lucidamente) con la propria testa.

Il secondo motivo ha a che fare con una sopravalutazione delle possibilità dei grillini di sfondare sul piano nazionale quali che siano i loro successi locali. Qualunque cosa raccontino i sondaggi (ma sempre occhio alla percentuale di indecisi), è improbabile che il partito di Grillo ottenga, alle prossime elezioni politiche, gli stessi voti del 2013. Allora i grillini vennero scelti anche da tanti che non li conoscevano e volevano fare uno sberleffo al potere costituito. È difficile che costoro li votino di nuovo. I grillini otterranno plausibilmente molti meno voti del 2013 . Ci saranno allora commentatori che prenderanno un’altra cantonata, che parleranno di «clamorosa sconfitta» e di «inizio della fine» del movimento grillino. Sarà invece l’inizio del suo consolidamento. Plausibilmente, esso andrà a rappresentare stabilmente quella quota di elettorato «anti-sistema», ampia ma non maggioritaria, la cui presenza è una costante nella storia d’Italia.

1 novembre 2015 (modifica il 1 novembre 2015 | 09:12)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_01/italicum-paura-grillo-12fead2c-8062-11e5-aac9-59b4cd97071f.shtml
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« Risposta #283 inserito:: Novembre 09, 2015, 04:50:08 pm »

Tocca anche a noi
Il terrore (e qualche risposta)

Di Angelo Panebianco

Vivere al tempo del terrorismo. Sembra quasi certo che sia stata una bomba a fare esplodere sul Sinai l’aereo russo che riportava a casa i turisti da Sharm el Sheikh. Ma se anche così non fosse (se anche, a dispetto degli indizi, fosse stato un incidente), non avrebbe più molta importanza: lo Stato islamico, l’organizzazione che al momento batte qualunque altra per capacità propagandistica, e che si è attribuito - ufficialmente per rappresaglia contro la presenza militare russa al fianco della Siria - la responsabilità dell’attentato, ha ottenuto una vittoria (contro l’Egitto). Il presidente Putin, bloccando i voli russi per quel Paese, ha fatto ad Al Sisi, il nuovo rais, una richiesta che sembra un ultimatum: rimetti sotto controllo il Sinai, riporta la sicurezza negli aeroporti e nei cieli o pagherai un conto economico salato. Se Al Sisi vuole continuare a usare il rapporto con i russi per non ritrovarsi alla mercé degli americani, dovrà darsi molto da fare. Magari anche chiedendo l’aiuto degli israeliani per tentare di riprendere il controllo del Sinai. Nonostante i tentativi egiziani di negare l’attentato, la mossa russa, che segue la cancellazione dei voli per Sharm decisa da molte compagnie europee, colpisce al cuore l’industria turistica egiziana. Rimediare non sarà facile. Il Califfato si è dunque aggiudicato il round .
Contro lo Stato islamico le chiacchiere sono tante ma i fatti degni di nota pochissimi. Più il tempo passa, più sarà arduo toglierlo di mezzo. È difficile che l’inerzia americana termini prima che ci sia un cambio della guardia alla Casa Bianca .
Per conseguenza è quindi difficile che la grande (sulla carta) coalizione contro il Califfato riesca a sconfiggerlo. Nato dalla confluenza di due Stati in cui i sunniti erano sottomessi agli sciiti da sempre (Siria) o dal momento della fine di Saddam Hussein (Iraq), lo Stato islamico, con la sua stessa esistenza, segnala l’impossibilità di tornare alla situazione precedente, quella di Stati artificiali i cui confini vennero tracciati nel ventesimo secolo dalle potenze europee. E se così è, il quesito diventa: sarà possibile che in quell’area i sunniti riescano a darsi un regime e un volto diversi da quelli dello Stato islamico, rinunciando al radicalismo e alla guerra santa? Se anche questo prima o poi accadrà, dovrà comunque passare molto tempo.

Nel frattempo, il mondo sarà costretto a convivere a lungo con una minaccia ancor più grave di quella a suo tempo rappresentata da Bin Laden e da Al Qaeda. Si tratti di giustiziare con spettacolare ferocia gli infedeli, schiavizzare migliaia di donne, distruggere patrimoni artistici, resistere sul terreno a una coalizione che se esistesse di fatto, e non solo nominalmente, dovrebbe averlo già spazzato via da un pezzo, lo Stato islamico continua a fare proseliti e a far sognare giovani musulmani insoddisfatti della propria condizione in ogni parte del mondo. Eccellenti qualità propagandistiche a parte, per il solo fatto di durare, dimostrando la sua capacità di resistere ai nemici, lo Stato islamico diventa un moltiplicatore di minacce terroriste.
Come sempre è avvenuto quando le minacce si fanno gravi è la libertà che ci va di mezzo. Non solo la libertà di movimento ma anche quella libertà - dai controlli del governo - che le democrazie liberali ben funzionanti un tempo tutelavano. Danilo Taino (sull’ultimo numero di Sette , il supplemento settimanale del Corriere ) elenca varie proposte di legge avanzate in Germania, Austria, Finlandia e altri Paesi, tese a limitare la privacy e a rendere pervasivi i controlli governativi sui cittadini in funzione antiterrorismo. Lasciamo da parte il fatto che da noi, in Italia, quelle proposte di legge non possono fare una grande impressione: la nostra infatti, retorica a parte, è una democrazia poco liberale nella quale gli abusi delle intercettazioni giudiziarie hanno da tanto tempo spazzato via il diritto alla privacy . Specificità italiana a parte, resta però vero, come scrive Taino, che le minacce spingono a rinunciare a molte libertà le quali, in seguito, quando la minaccia sarà svanita, diventerà difficile riprendersi.


L’alternativa è purtroppo chiara: o si riesce a riportare a livelli relativamente bassi la minaccia oppure sarà difficile impedire una sensibile contrazione degli spazi di libertà. Anche in un Paese apparentemente spensierato come il nostro non si potrà continuare a fingere a lungo che il problema non ci riguardi. Un campanello d’allarme deve pur suonare anche in Italia nel momento in cui fallisce la mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino León in Libia, e il León medesimo, nella costernazione (si spera almeno che siano costernati) di coloro che qui da noi tanto mitizzano l’Onu, va a farsi stipendiare dagli Emirati, una delle parti in causa nel pasticcio libico.

A partire da novembre, Roma dovrà vedersela con il Giubileo straordinario voluto da papa Francesco. Il Giubileo precedente, quello del 2000, fu gestito con successo dallo Stato italiano e dal Comune di Roma in accordo con il Vaticano. Allora però non c’erano i problemi di sicurezza di oggi. Persino un Paese spensierato dovrebbe rendersene conto.

8 novembre 2015 (modifica il 8 novembre 2015 | 08:18)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_08/terrore-qualche-risposta-3de0fcc6-85e8-11e5-af91-bb1507114fbb.shtml
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« Risposta #284 inserito:: Novembre 17, 2015, 06:56:34 pm »

EDITORIALE

Gli attentati a Parigi e l’occidente disunito
La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva

Di Angelo Panebianco

Due domande ritornano in molti commenti angosciati dopo la strage di Parigi. La prima riguarda il futuro delle libertà nell’Europa aggredita. Ci diciamo che sono proprio le nostre libertà, levatrici di un modo di vivere che dal loro punto di vista è corrotto e blasfemo, che i terroristi islamici vogliono distruggere, e anche per questo dobbiamo difenderle. È giusto ma, purtroppo, ciò che è vero in linea di principio fatica ad esserlo anche in pratica. Nessuno sa come conciliare libertà e sicurezza nel momento in cui la sicurezza subisca un vulnus così pesante. Nelle guerre convenzionali del passato anche le democrazie erano costrette a ridurre l’area delle libertà (censura, controllo degli spostamenti e della corrispondenza, coprifuoco). Solo quando la guerra finiva si poteva invertire la tendenza.

Le leggi antiterrorismo approvate in Francia e quelle in via di approvazione in molti Paesi europei, ci dicono che andiamo verso restrizioni sensibili della libertà. Dopo Parigi, è difficile che questo processo possa essere bloccato: l’Europa dell’età del terrorismo sarà purtroppo meno libera di quella che abbiamo conosciuto.
Si spera almeno che alla limitazione delle libertà imposta dai governi non si affianchino anche movimenti «spontanei» nella stessa direzione. La paura fa brutti scherzi, spinge al conformismo. Dopo il dolore e lo sgomento dei primi momenti, c’è il rischio che mass media, intellettuali, educatori, scelgano di imporre il silenzio sui temi che più scottano: il contrario di quella battaglia culturale che, giustamente, Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere di ieri) ritiene indispensabile per contrastare le menzogne dell’estremismo islamico. La Francia, d’altra parte, prima della strage, aveva già dato prove di disponibilità al conformismo (i processi per islamofobia ne sono un esempio). La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva.

La seconda domanda è collegata alla prima. Avremo la coesione necessaria per fronteggiare coloro che ci hanno dichiarato guerra? Di «guerra» ha parlato il presidente Hollande dopo la strage. Prima di allora (anche dopo l’attentato di Charlie Hebdo ) nessun leader europeo si era arrischiato a usare quella parola.
Guardiamo ai fatti. Ci si rallegra giustamente perché al vertice del G20 in Turchia, americani e russi sembrano avere trovato un accordo per contrastare lo Stato Islamico. E anche perché nei colloqui di Vienna fra le parti interessate sia iniziato un percorso - che tutti sanno comunque in salita - per trovare una soluzione diplomatica alla questione siriana.

In tempi di disperazione è giusto aggrapparsi a qualunque cosa. Ma non si possono nascondere le difficoltà. Sulla carta, la posizione di Obama è giusta: lo Stato Islamico (sunnita) deve essere sconfitto soprattutto dai sunniti. Se fossero le potenze occidentali più la Russia, più l’Iran sciita, a distruggerlo, sarebbe difficile non antagonizzare i sunniti, che sono maggioranza nel mondo islamico. In pratica, è però difficile, ad esempio, che l’Iran accetti di svolgere un ruolo secondario. Altrettanto difficile è che certi Stati sunniti (come la Turchia, nemica di quei curdi che, unici sul terreno, combattono il Califfato) si impegnino a fondo in questa guerra.

La coalizione militare è troppo ampia e troppo diversificati sono gli interessi. Forte resta anche, come sempre nelle coalizioni ampie, la tentazione dello «scaricabarile» (spostare su altri il peso della guerra). Senza contare che oggi lo Stato Islamico è, grazie a un’inerzia durata troppo a lungo, molto più forte di ieri. E la sua gramigna si è diffusa in molti luoghi.

Se la grande coalizione anti Stato Islamico resta più fragile di come la si vorrebbe, che dire poi di quel vaso di coccio che è l’Europa? Hollande, consapevole che Obama non è disposto a fare molto più di quello che sta facendo, con una mossa a sorpresa, anziché appellarsi all’articolo 5 della Nato (che impone ai membri dell’alleanza di soccorrere militarmente l’aggredito) ha richiamato per la prima volta una norma europea (l’articolo 42 del Trattato) chiedendo l’aiuto (militare) dei partner dell’Unione. È difficile pensare che ciò possa avere un seguito. Ad esempio, né la Germania né l’Italia, verosimilmente, sono pronte a un impegno di quella portata. Prima di pensare a una cosa del genere, occorrerebbe ottenere (ma è assai difficile) una maggiore coesione non solo fra gli Stati europei ma anche all’interno di ciascuno di essi.

È più probabile che l’Europa, in breve tempo, sia di nuovo pronta a dividersi fra due fronti ugualmente insensati; da un lato, il fronte di chi vuole fare di tutta l’erba un fascio, prendersela con tutti i musulmani (sarebbe un favore allo Stato Islamico, getterebbe fra le sue braccia anche gente che avrebbe fatto altro) e, dall’altro lato, il fronte di chi pretende di trattare l’estremismo terrorista come un fatto estraneo all’islam e comunque isolato. Come la prima, anche questa seconda posizione si risolve in un favore per gli estremisti: impedisce di mettere a nudo, e combattere, le affinità cultural-ideologiche fra la minoranza jihadista e settori più ampi del mondo musulmano. Se quelle affinità non ci fossero, ad esempio, non ci sarebbero stati (come osservava Giles Kepel sul Corriere di ieri), i tanti consensi registrati a suo tempo nel mondo islamico per l’azione contro Charlie Hebdo . Né certi giornali del mondo arabo avrebbero potuto permettersi in questi giorni di pubblicare vignette satiriche contro la Francia aggredita.

Dallo scontro fra due insensatezze non nasce nulla di sensato. L’Europa, se non vuole essere sconfitta, deve imparare ad essere più intelligente di così.

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 08:22)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_17/occidente-disunito-4454ffa4-8cef-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml
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