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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160443 volte)
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« Risposta #240 inserito:: Ottobre 23, 2014, 11:37:14 am »

Gli interessi e la sicurezza
L’Italia si scopre troppo filorussa


Di Angelo Panebianco

L’Italia di Matteo Renzi, come si è visto a Milano al vertice dell’Asem, sta facendo di tutto per ricucire i rapporti fra la Russia e l’Unione Europea. È la posizione dell’attuale premier ma è anche quella di Silvio Berlusconi, grande amico di Putin, convinto fautore della cooperazione con la Russia e, fin dall’inizio della crisi, contrario ad atteggiamenti troppo punitivi verso i russi per la questione ucraina. Questa convergenza di fatto non è il frutto del patto del Nazareno. È piuttosto l’effetto della consapevolezza, comune a quasi tutti i protagonisti della politica italiana, della fragilità della nostra posizione internazionale, e della convinzione che - si tratti di energia o di relazioni commerciali - l’Italia ha un disperato bisogno di vedere normalizzati al più presto i rapporti fra Russia e Unione. In tema di Russia, insomma, c’è, in Italia, una certa convergenza di vedute su dove stia l’interesse nazionale.

Ciò sembra in controtendenza rispetto alla tradizionale assenza di bipartisanship sulla politica estera che ai tempi della Guerra fredda e ancora, per ragioni diverse, al tempo dei governi Berlusconi, tanti osservatori attribuivano all’Italia. In realtà, al di sotto dei clamori e delle retoriche della politica politicante, una qualche convergenza, imposta per lo più da vincoli geografici ed economici, c’è quasi sempre stata, almeno su alcuni temi: la Russia è uno, la Libia è un altro. Non è un mistero, ad esempio, che all’epoca del governo Berlusconi, l’Italia subì di malagrazia le pressioni franco-britanniche e americane a favore dell’intervento contro Gheddafi. È vero che in quel momento molti in Italia abbracciarono con entusiasmo quella causa nell’errata convinzione che avesse da perderci solo Berlusconi e non anche l’Italia. Ma è anche vero che quello della Libia è un altro caso in cui, per lo più, c’è sempre stata una certa convergenza nella definizione dell’interesse nazionale. Come dimostra la continuità dei rapporti con Gheddafi mantenuta per decenni dai diversi governi, di destra e di sinistra, che si succedettero in Italia.

Possiamo rallegrarci per il fatto che, sulle cose che più contano, prevalga, nel nostro Paese, una interpretazione condivisa? Sì e no. Perché, in realtà, si tratta di una concezione, condivisa sì ma anche monca, dell’interesse nazionale: ciò che per lo più manca, e questa mancanza ci ha spesso fatto sbandare, è una generale consapevolezza delle interdipendenze, e delle interferenze, fra le esigenze economiche e quelle della sicurezza. Tolte le burocrazie specializzate (diplomazia, servizi di informazione) che dell’esistenza di quelle interdipendenze sono ovviamente consapevoli, la classe politica e l’opinione pubblica ne sembrano all’oscuro. Tradotto, significa che gli italiani hanno l’aria, in molte circostanze, di essere più preoccupati delle conseguenze economiche delle crisi che delle loro implicazioni geopolitiche e di sicurezza. A meno che, si tratti di Stato islamico o dell’attuale situazione libica, la questione della sicurezza non sia ormai deflagrata. Solo allora ci si avvede del problema.

Da dove viene questa scarsa consapevolezza? Perché, ad esempio (ma è solo un esempio), della crisi ucraina tendiamo a vedere soprattutto i danni economici che ci provoca? Probabilmente, la ragione sta nell’assenza di una adeguata «cultura della difesa» (consapevolezza e conoscenza dei suoi problemi) e questa carenza, a sua volta, tende a svalutare, nelle classi dirigenti e nell’opinione pubblica, l’importanza della sicurezza e della sua connessione con le altre questioni. Fra le cause ci sono sicuramente i postumi, che continuano a pesare dopo più di sessanta anni, della sconfitta nella Seconda guerra mondiale nonché l’influenza sulle culture politiche nazionali - anche (o soprattutto?) su quelle non cattoliche - di un pacifismo cristiano mal digerito, spesso frainteso.

A difesa dell’Italia bisogna però dire che essa è sottoposta a pressioni contrapposte, a logoranti ricatti incrociati.

A causa dei suoi problemi interni, ad esempio, è costretta a subire i diktat tedeschi su varie questioni nella speranza di poter strappare alla Merkel qualche aiuto o concessione. Ancora, a causa del suo bisogno del gas russo - che continuerà a pesare tanto finché non sarà possibile, se sarà possibile, una maggiore diversificazione delle fonti energetiche - l’Italia è costretta a trascurare certe dimensioni, pur vitali, del rapporto con la Russia, attinenti alla sicurezza europea o alla politica russa in Medio Oriente.

Anche perché non adusa a ragionare con continuità e lucidità sulle questioni della difesa e della sicurezza l’Italia, inoltre, sembra incapace di rendersi conto di quanto pesi oggi negativamente sulla sua politica estera l’assenza di una leadership americana (o la svogliatezza con cui Obama la esercita). Né quanto ciò contribuisca a compromettere la sicurezza europea. Sarebbe interessante ascoltare gli argomenti (raramente se ne sono sentiti di plausibili) che gli antiamericani europei, e italiani in particolare, hanno da opporre alla seguente affermazione: essendo manifestamente escluso che l’Europa sia in grado di difendersi da sola (non ne ha le risorse morali prima ancora che materiali), per esempio dalle minacce connesse alla situazione mediorientale, solo una stretta cooperazione fra europei e americani - si tratti di Stato islamico o di Libia - può assicurarle un po’ di sicurezza. L’Italia dovrebbe discuterne apertamente, smetterla di nascondere il problema sotto il tappeto. Per conferire alla politica estera più chiarezza e coerenza. E per dare alle classi dirigenti e all’opinione pubblica una visione più articolata e completa dei nostri (complicati) interessi nazionali.

21 ottobre 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_ottobre_21/italia-si-scopre-troppo-filorussa-dc39531e-58e4-11e4-aac9-759f094570d5.shtml
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« Risposta #241 inserito:: Ottobre 28, 2014, 12:00:26 pm »

Parigi, Londra e i nostri interessi
Gli alleati improbabili

Di Angelo Panebianco

Matteo Renzi ha fatto la voce grossa con Bruxelles e, salvo sorprese, ha vinto. La Commissione - la nuova, quella di Juncker, che sta per insediarsi - accetterà nella sostanza le correzioni italiane alla nostra legge di Stabilità. Se Renzi ha vinto lo deve non solo alla qualità della manovra ma anche al fatto che aveva l’esplicito sostegno del presidente della Repubblica e del governatore della Banca d’Italia e quello implicito della Banca centrale europea. E al fatto che l’Unione ha accumulato troppe criticità per potersi permettere un conflitto con un Paese-membro dell’importanza dell’Italia. Il socio di maggioranza, la Merkel, lo ha compreso.

Bene per l’Italia, possiamo dire, ma possiamo anche aggiungere che ciò migliora lo stato di salute dell’Unione? Non sembra. Soprattutto perché questa vicenda conferma ciò che si sapeva, ossia che è possibile una correzione al margine, politicamente contrattata, ma non lo è una svolta significativa nella politica dell’Unione. Il che rende difficile riassorbire quel malessere così diffuso in Europa che da tempo ne sta corrodendo le istituzioni.

Una svolta richiederebbe nuove alleanze, soprattutto quell’intesa stretta fra Francia e Italia in grado, sulla carta, di funzionare da contrappeso rispetto alla forza tedesca: un’alleanza che Renzi ha inseguito fin dal suo arrivo a Palazzo Chigi. Come abbiamo constatato, quell’alleanza non si è realizzata e forse non si realizzerà mai. Per l’indisponibilità della Francia. Essa preferisce trattare sottobanco con la Germania piuttosto che capitanare un’alleanza volta a riequilibrare il peso tedesco. Possiamo anche ritenere che la scelta del presidente Hollande non sia lungimirante: che cos’altro potrebbe bloccare il dilagante nazionalismo antieuropeo di Marine Le Pen se non un’inedita capacità francese, di intesa con l’Italia e altri, di imporre cambiamenti nella politica dell’Unione? Resta che quella scelta non è stata fatta dalla Francia e il governo italiano è costretto a prenderne atto.

Se non una intesa, per lo meno una convergenza occasionale l’Italia l’ha comunque realizzata ma con la Gran Bretagna: per la comune opposizione alla richiesta di Bruxelles di maggiori contributi al bilancio comunitario. Si tratta però di un’intesa fragile, soprattutto perché la Gran Bretagna ha un piede ancora nell’Unione e un altro già fuori. Il partito indipendentista (antieuropeo) è in crescita di consensi, l’antieuropeismo è ormai molto diffuso. Se ci sarà nel 2017 il referendum promesso da Cameron, pochi scommetteranno sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione. Per inciso, checché ne pensino coloro che sarebbero contenti di vederla andare via, la defezione britannica darebbe forse il colpo di grazia all’Unione: nessuno vedrebbe più ostacoli che possano impedire il definitivo compimento di un’Europa a misura della Germania, e ci sarebbe probabilmente una crisi di rigetto, una reazione antitedesca ancora più forte di quella oggi in atto in una parte rilevante dell’elettorato europeo.

Il successo europeo di Renzi e la crisi dell’Europa sono connessi. Si vedono luci e ombre nell’azione del presidente del Consiglio. Le luci: Renzi ha rimodulato il discorso italiano sull’Europa, ha imposto un cambiamento di atteggiamenti e di linguaggio. In Europa chiede rispetto, dichiara di non accettare lezioni, cerca di suscitare l’orgoglio italiano. Non ha l’atteggiamento un po’ remissivo e complessato di certi governanti italiani del passato. Anche se, va ricordato, quegli atteggiamenti remissivi erano il frutto della cattiva coscienza italiana, segno della nostra incapacità di rimediare alle storture del Paese: un Paese che, dopo la nascita dell’eurozona, aveva fatto il furbo, aveva pensato che fosse possibile ottenere vantaggi dalla moneta unica senza pagare il prezzo di un serio risanamento interno.

Dunque Renzi non ha solo cambiato stile, ha anche mostrato di essere pronto al confronto duro: l’episodio della pubblicazione della lettera riservata della Commissione è emblematico. Da giocatore abile quale è si è ancora una volta mostrato pronto a correre rischi calcolati.

Ma ci sono anche le ombre. L’azione di Renzi, nei termini in cui si è sviluppata, sarebbe stata impossibile solo pochi anni fa, quando le istituzioni europee erano assai più forti, autorevoli, legittimate. È perché l’Unione è in crisi, perché nelle opinioni pubbliche circola molta insofferenza verso le sue istituzioni, i suoi uomini e i suoi riti, che oggi è più facile fare la voce grossa e spuntarla. È un segno del cattivo stato di salute dell’Unione. Anche quando la nostra squadra vince resta il sospetto di avere contribuito a segare ancora un po’ il ramo su cui noi europei siamo tutti seduti.

26 ottobre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_26/gli-alleati-improbabili-033d3580-5ce0-11e4-abb7-a57e9a83d7e3.shtml
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« Risposta #242 inserito:: Novembre 11, 2014, 05:49:35 pm »

Usa, l’anatra zoppa forse ci stupirà

Di Angelo Panebianco

È un luogo comune che gli americani votino per lo più disinteressandosi della politica estera del proprio Paese (tranne quando stanno pagando il conto di qualche guerra in corso) mentre ai non-americani interessano soltanto le conseguenze internazionali di quel voto.

Chiediamoci allora quali effetti avranno sulla politica mondiale e, per conseguenza, anche su noi europei, le elezioni americane di midterm e il completo controllo del Congresso che quelle elezioni hanno consegnato ai repubblicani. Nei prossimi due anni, quanti ne mancano per le Presidenziali, con un presidente ormai debolissimo, la politica estera degli Stati Uniti è destinata ad essere ancora più oscillante e priva di credibilità di quanto sia stata negli ultimi anni? Molti lo pensano, ma non è detto che sia così. Ci sono almeno tre ambiti in cui l’obbligo, per il presidente democratico e per il Congresso repubblicano, di trovare un terreno comune di compromesso e di cooperazione, può avere ricadute positive: i possibili accordi commerciali internazionali, la trattativa sul nucleare con l’Iran, la questione della guerra allo Stato islamico.

Il predominio repubblicano sul Congresso è, innanzitutto, un buon viatico per le trattative a cui Obama (giustamente) tiene tanto relative al Tpp (Trans-Pacific Partnership), l’accordo del libero scambio per l’area del Pacifico, e al Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo con l’Europa. I repubblicani sono meno sensibili dei democratici alle sirene del protezionismo economico, sono più favorevoli, per cultura e tradizione, ad accordi di libero scambio. Nello specifico, hanno anche qualche ragione geopolitica da far valere: l’accordo del Pacifico, soprattutto, è anche un modo, dal punto di vista repubblicano, per accerchiare e «contenere» la Cina.

Anche noi europei potremmo essere avvantaggiati: grazie a una maggioranza «nemica» Obama potrebbe ottenere, in materia di accordi commerciali, anche in quello con l’Europa, più sostegno dal Congresso di quanto avrebbe ottenuto senza quella maggioranza.

E veniamo al Medio Oriente, ove la politica di Obama ha mostrato fin qui le maggiori crepe. Si consideri la trattativa sul nucleare con l’Iran. I casi sono due: o fallirà anche perché i repubblicani riterranno insoddisfacenti le concessioni iraniane oppure verrà siglato un eccellente accordo, con serie garanzie dell’Iran sulla sua rinuncia al nucleare militare. Si noti il paradosso (che è poi il paradosso presente in ogni negoziato internazionale): il fatto che il presidente abbia ormai margini di manovra assai ristretti (i repubblicani non gli permetterebbero un accordo qualsivoglia) e il fatto che gli iraniani lo sappiano obbliga questi ultimi, se davvero sono interessati al successo della trattativa, a fare concessioni che forse non avrebbero dovuto fare se Obama non si fosse così indebolito sul piano interno. Di positivo c’è che, con la vittoria congressuale repubblicana, si è ridotto drasticamente lo spazio per bluff e furbizie varie (da una parte e dall’altra) nel negoziato in corso.



La questione del nucleare iraniano si intreccia, naturalmente, con la vicenda della guerra allo Stato islamico. La lettera segreta che Obama ha inviato alla guida suprema iraniana Khamenei, e di cui in questi giorni è stato rivelato il contenuto, nella quale si propone di fatto uno scambio fra accordo sul nucleare e lotta comune contro lo Stato islamico, è una lettera maldestra che riflette la confusione strategica in cui versa da tempo la politica mediorientale di Obama: una alleanza esplicita con l’Iran (e col siriano Assad) contro lo Stato islamico farebbe crescere ancor di più, in tutto il mondo, i simpatizzanti sunniti di quest’ultimo. Solo che quella lettera precede le elezioni americane e oggi non ha più molto valore. Difficilmente, infatti, quella posizione potrebbe essere accettata (almeno ufficialmente) dai repubblicani.

Tuttavia, Obama ha ora l’occasione di assumere una postura molto più decisa e dura nel grande pasticcio mediorientale. E non è forse un caso che subito dopo le elezioni egli abbia deciso di inviare nell’area altri 1.500 soldati, sia pure con compiti solo «di addestramento delle truppe» (per ora). Se scegliesse di alzare ancora di più il tiro contro lo Stato islamico, ma chiarendo anche che ciò non implicherebbe alcuna alleanza di fatto con il dittatore siriano Assad, difficilmente i repubblicani potrebbero contestarlo. Si aggiunga che la probabile candidata democratica alle prossime Presidenziali, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton, già critica nei confronti della politica estera di Obama, è sicuramente pronta ad avanzare nuove dure obiezioni, e il presidente ha interesse a prevenirla con azioni internazionali decise. Potrebbe persino accadere che gli europei (e anche gli alleati mediorientali) scoprano fra poco di poter contare di nuovo, in quella partita, sulla leadership degli Stati Uniti.

Il presidenzialismo americano, il cosiddetto «governo diviso», è soggetto a dinamiche più complesse di quelle che gli europei di solito immaginano. Non è detto che un presidente «anatra zoppa», come è oggi Obama, sia necessariamente destinato a un mesto declino senza più storia e gloria. Può anche essere che la bruciante sconfitta delle elezioni di midterm si riveli per il presidente, paradossalmente, una fortuna, rendendolo di fatto più libero di agire sulla scena internazionale (come osservava sul Corriere del 7 novembre Massimo Gaggi). Certamente non tutto, ma molto dipende comunque da lui. Si tratta di capire se Obama ha ancora voglia oppure no di chiudere con qualche successo la storia della sua amministrazione. Se così fosse, le nuove condizioni potrebbero agevolarlo. Una fortuna per lui e forse anche per tutti coloro, europei per primi, la cui sicurezza migliora quando l’America ha successo.

9 novembre 2014 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_09/anatra-zoppa-forse-ci-stupira-a518bf60-67de-11e4-b22b-88ac3d1bfff6.shtml
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« Risposta #243 inserito:: Novembre 17, 2014, 11:54:57 am »

La crisi che sottovalutiamo
Il Califfo a Roma? Non è uno scherzo


Di Angelo Panebianco

Sembra che una gran parte, forse la parte maggioritaria, dell’Italia pubblica soffra di un blocco cognitivo. Pare incapace di prendere atto dei radicali, irreversibili, cambiamenti intervenuti in Europa e in Medio Oriente, ha l’aria di non rendersi conto che violenza e crescenti rischi di violenza si diffondono intorno a noi, sembra non capire che di fronte alla violenza non si può altro che assumere una posizione intransigente o anche, se la situazione lo esige, fare uso della forza. Un tempo si credeva che la propensione italiana a pensare alla politica internazionale in termini irenici, come a un luogo in cui tutto possa essere risolto con il «dialogo», fosse solo una conseguenza della Seconda guerra mondiale. Le potenze sconfitte, Germania, Giappone, Italia - si disse - sostituirono nel dopoguerra il «commercio» alla «spada», cominciarono a pensare alla politica internazionale molto più in termini di affari che di deterrenza e di minacce armate. E il «dialogo», sicuramente, aiuta gli affari più della deterrenza. Pur facendo parte di alleanze militari quei tre Paesi furono ben lieti di delegare ai soli Stati Uniti il compito di agitare periodicamente il bastone.

Ma forse, nel caso italiano c’è di più. A causa della sua cultura politica sembra che l’Italia, pur con qualche meritoria eccezione, non riesca proprio a fare a meno di agire nell’arena internazionale ispirandosi a una sorta di wishful thinking , un’irresistibile tendenza a scambiare i propri sogni per realtà.

Prendiamo due delle più gravi crisi in atto. In Ucraina, con l’annessione russa della Crimea e l’azione tuttora in corso dei militari russi a sostegno dei secessionisti delle regioni orientali, i rapporti fra Russia e Occidente sono irreversibilmente (e sottolineo: irreversibilmente) cambiati. Sono cambiati perché non un piccolo Stato (una Serbia o una Croazia) ma una grande potenza, la Russia, ha violato la regola su cui si fonda la pace in Europa: nessun mutamento territoriale può avvenire se non in modo consensuale. Chi dice che la Crimea era russa, e che dunque non c’è nulla di male nel fatto che la Russia se la sia ripresa, non coglie il punto. Tra Prima e Seconda guerra mondiale tantissimi Stati europei (Italia compresa) hanno perduto territori che erano appartenuti, magari anche per secoli, a quegli Stati. La pace in Europa c’è perché chi ha perso territori non se li va a riprendere con la forza. La Russia, una grande potenza che avrebbe dovuto contribuire, insieme alle altre grandi potenze, a mantenere la pace e l’ordine, ha violato quella regola. Pensare che questo non muti irreversibilmente i rapporti in Europa è segno di cecità politica. E difatti le relazioni fra mondo occidentale e Russia sono sempre più conflittuali, come si è dimostrato anche in occasione del G20 appena concluso. Ma l’Italia fa eccezione, ha scelto di mantenere aperto in ogni modo il «dialogo» con Putin, dando l’impressione di ignorare il cambiamento avvenuto (come hanno ben documentato Massimo Gaggi e Marco Galluzzo sul Corriere di ieri), di ignorare soprattutto il riposizionamento strategico della Russia per la quale, ora, gli occidentali sono di nuovo potenziali nemici. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, nella sua intervista al Corriere , dice che occorre garantire sia l’autonomia ucraina che il ruolo della Russia.

Gentiloni è un politico solido e competente (e pensiamo sia un bene che guidi la Farnesina in un momento così delicato) ma nel caso ucraino la sua ricetta, sfortunatamente, appare un po’ astratta e fuori tempo massimo.

Più in generale, sembra che in questa crisi la classe politica italiana (Renzi e il suo governo, Berlusconi) sia in Europa la più restia di tutte a prendere atto del fatto che, in politica internazionale, non contano solo gli affari.

E veniamo al caso per noi più inquietante di tutti, quello dello Stato islamico. Ormai continuamente il Califfo ripete che prima o poi arriverà a conquistare Roma, e il fotomontaggio di una Roma in cui sventolano le bandiere nere dello Stato islamico circola da mesi in Rete. Chi fa spallucce, chi pensa che si tratti solo di una sbruffonata, ha capito ben poco. Mai come in questo caso è lecito dire che l’ignoranza uccide. Già, perché il Califfo non sta facendo una sbruffonata a caso: sta citando, nientemeno, il Profeta, sta citando il detto attribuito a Maometto secondo cui arriverà un giorno in cui Roma, il centro della cristianità occidentale, cadrà in mani islamiche. Tanti musulmani, di tendenze pacifiche, hanno sempre pensato a quella profezia proiettandola in un futuro lontano e indefinito. Invece, lo Stato islamico sta dicendo ai musulmani di tutto il mondo che il momento di prendere Roma si avvicina e che questo verrà fatto con le armi. Diciamo che fischiettare o fare spallucce di fronte a una dichiarazione di guerra non sono gesti appropriati.

L’Italia pubblica è per lo più in preda al wishful thinking ma ci sono, fortunatamente, delle eccezioni. A cominciare dal presidente della Repubblica. Il suo discorso del 4 novembre sui pericoli che stiamo correndo richiedeva una discussione meditata, non solo applausi di circostanza.

E ha ragione il ministro della Difesa Roberta Pinotti quando, proprio appellandosi alle cose dette da Napolitano, invita la classe politica a non trattare le forze armate come se fossero un qualunque settore di spesa pubblica improduttiva: da sottoporre a tagli anche a costo di indebolirne le capacità operative. Le nuove minacce, dallo Stato islamico al caos libico (minacce, peraltro, strettamente connesse) richiedono che non si facciano scelte miopi e autolesioniste in un così delicato settore.

C’è uno scollamento preoccupante fra la realtà e le «narrazioni» pubbliche su di essa. Ridurre il divario fra il mondo come è e la nostra rappresentazione del mondo è essenziale per la nostra sicurezza.

17 novembre 2014 | 06:58
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_17/califfo-roma-non-scherzo-272412bc-6e1e-11e4-8e96-e05d8d48a732.shtml
« Ultima modifica: Novembre 17, 2014, 05:23:26 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #244 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:32:56 pm »

Segnali a Pd e FI
Il voto di chi non vota

Di Angelo Panebianco

Come era prevedibile, colpisce il picco raggiunto dall’astensionismo nelle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Date le caratteristiche politiche e culturali che le vengono da sempre attribuite, una affluenza del 37,7 per cento (contro il 68 delle precedenti Regionali) fa effetto. Anche se, bisogna dire, quella valanga di astenuti non ha sorpreso chi vive in quella regione e, nelle settimane precedenti al voto, ha avuto modo di fiutare il vento.

Emilia tu quoque? Persino l’Emilia-Romagna si è laicizzata fino a questo punto? Persino nella terra in cui più tenacemente resisteva il voto di appartenenza («giusto o sbagliato è il mio partito» e lo voterò sempre e comunque), tanti cittadini si sono improvvisamente svegliati da un lungo sonno pensando: «Io sono solo mio. Non ti appartengo più, voto solo se mi pare e quando mi pare»?

Le cose sono più complicate di quanto appaiano a un primo sguardo. Una parte ancora rilevante di voto di appartenenza, resiste, nonostante tutto, in Emilia-Romagna e ha giocato, questa volta, sia a favore sia contro il voto. Sono andati a votare, e a votare democratico, per pura disciplina di partito, anche tanti che forse non apprezzavano troppo Stefano Bonaccini, il candidato (vittorioso) del Partito democratico alla presidenza della Regione. Ma, per contro, non sono andati a votare, plausibilmente, molti che, pur continuando ad «appartenere», hanno accolto l’appello della Cgil contro il premier Renzi e la sua politica del lavoro. Al netto di tutto ciò bisogna dire che un processo di laicizzazione c’è comunque stato. Se si fanno brutte campagne elettorali, se si schierano candidati che, a torto o a ragione, i cittadini non giudicano adeguati, se non si riesce a scrollarsi di dosso, almeno in parte, il peso delle inchieste giudiziarie per il cattivo uso dei fondi pubblici (e c’è un solo modo per riuscirci: gettare nella campagna elettorale candidati brillanti, idee nuove e progetti originali), allora anche in Emilia-Romagna se ne paga il prezzo. È ciò che qui si intende per «laicizzazione». Ciò significa che, di volta in volta, è la natura contingente dell’offerta politica ad attirare o a respingere gli elettori. E nulla può essere più dato per scontato.

Questo voto influenzerà la politica nazionale? Sì, entro certi limiti. È plausibile che la parte del partito che osteggia Renzi e che ha forti ramificazioni in Emilia-Romagna, non si sia affatto mobilitata per portare al voto gli elettori e, semmai, abbia attivamente favorito l’astensione nel tradizionale elettorato di sinistra. La sinistra pd, antirenziana, ha già cominciato a usare contro Renzi l’astensionismo regionale, a citarlo come prova dei guasti che la politica del premier starebbe provocando nel rapporto fra il Pd e i suoi elettori tradizionali.

Anche a destra questo voto regionale avrà conseguenze, forse ancor più forti che a sinistra. Il successo della Lega di Salvini in Emilia-Romagna (il 19 per cento dei voti) e l’umiliazione di Forza Italia (diventata quasi irrilevante: quarto partito in Regione, con solo l’otto per cento) avranno alcune conseguenze. Accentueranno ulteriormente le divisioni interne indebolendo ancor di più la capacità di Berlusconi di controllare il partito.

Non si possono però oscurare le altre - e forse più importanti - ragioni del voto e del non-voto. Non si può dimenticare, in primo luogo, che fra gli elettori (ma di tutta Italia) è ormai cresciuta moltissimo l’insofferenza per l’istituto regionale: se la sorte delle Regioni venisse affidata a un referendum, è probabile che la maggioranza ne proporrebbe l’abolizione. È inevitabile che ciò favorisca l’astensione.

Ci sono poi state, a gonfiare il non-voto, le tante ragioni locali: l’insoddisfazione per i profili di molti candidati e per l’assenza di idee nuove. E le diffuse valutazioni negative sulle performance delle amministrazioni locali.

Più che la massiccia (e prevista) astensione, dovrebbe soprattutto sorprendere un’altra cosa: la tenuta, nonostante tutto, del Partito democratico emiliano-romagnolo. Magari è sbagliata ma è una convinzione largamente diffusa che, complessivamente, la sua classe dirigente, per qualità, sia oggi l’ombra della classe dirigente di un tempo. A meno che il Pd non riesca a porci un serio rimedio, prima o poi quella diffusa convinzione potrebbe metterne a rischio il tradizionale primato regionale.

25 novembre 2014 | 07:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_25/voto-chi-non-vota-318fcbae-746a-11e4-ab92-90fe0200e999.shtml
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« Risposta #245 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:51:49 pm »

Le incognite del dopo Napolitano
Scelta casuale di un presidente

di Angelo Panebianco

Con l’intervista di Silvio Berlusconi a Francesco Verderami apparsa ieri sul Corriere, l’agenda politica italiana è cambiata: si è aperta ufficialmente la campagna per il Quirinale. C’è la possibilità che le riforme (legge elettorale, riforma del Senato) vengano congelate in attesa che quella vicenda si concluda. Non sappiamo come reagirà il presidente Napolitano alla mossa di Berlusconi né se ciò influenzerà, e come, le sue decisioni. Sappiamo però che, per certi versi, è un bene che la campagna per il Quirinale sia di colpo diventata aperta e ufficiale. Per troppo tempo, troppi mesi, la politica romana se ne è occupata di continuo ma in modo nascosto, clandestino.

Il Paese, in questa partita, corre gravi rischi. C’è la possibilità che, intorno a quella che è di gran lunga la scelta più importante per il futuro a breve e medio termine della Repubblica, si scatenino gli umori peggiori che circolano entro la classe politica, i tanti rancori e i tanti desideri di rivincita, gli istinti più bassi. Tutti quelli che hanno conti da regolare cercheranno di usare questo cruciale appuntamento per consumare le proprie vendette e indebolire i propri avversari. Con il rischio che, alla fine, esca fuori un presidente selezionato dal caso, anziché scelto con ponderazione e intelligenza, un presidente privo delle qualità - che non si possono improvvisare - necessarie al ruolo. C’è la seria possibilità che si assista (ma in una partita molto più importante) alla riproposizione di quanto è accaduto in Parlamento in occasione dell’elezione dei giudici della Corte costituzionale: continue manovre volte a bruciare i candidati, con lo scopo di impallinarne gli sponsor politici, senza alcun riguardo per la posta istituzionale in gioco. Soprattutto, potrebbe andare in scena una replica, addirittura peggiorata, della brutta vicenda di due anni fa, quando, a causa dell’incapacità dei partiti di gestire quell’appuntamento, l’allora presidente uscente, Giorgio Napolitano, fu costretto dalle circostanze, e dalla richiesta dei partiti, a rimanere al Quirinale.

Tre fattori, combinandosi, fanno dell’elezione del presidente della Repubblica una specie di roulette russa in cui è molto più facile bruciare, uno dopo l’altro, i candidati di prestigio piuttosto che ottenere il risultato, ossia «fare» un presidente: un’elezione a scrutinio segreto (di per sé utilizzabile, e da sempre utilizzata, per imboscate e sgambetti) va a combinarsi con una divisione «tripolare» del Parlamento - sinistra/destra/Cinquestelle - e, soprattutto, con le forti divisioni interne al Pd e a Forza Italia . Papa Francesco si inchina a Istanbul a Bartolomeo, primus inter pares tra i Patriarchi ortodossi. Dalla visita di Paolo VI nel 1967, il passaggio a Costantinopoli è quasi una parte del «rito» d’apertura del pontificato. Francesco ha però già visto Bartolomeo tre volte: tra i due (che parlano italiano tra loro) è nata una vera amicizia. È la nota con cui Bergoglio innerva i rapporti ecumenici che rischiano invece lo scivolamento nel rito diplomatico. Sarà anche amicale l’incontro con il Patriarca armeno ammalato che probabilmente il Papa farà oggi.

La visita a Istanbul viene in un momento importante per Francesco e per Bartolomeo. Quest’ultimo sta esercitando un ruolo strategico nell’Ortodossia. Nel 2016 si terrà a Istanbul il grande Concilio panortodosso, presieduto da lui e con la presenza di tutte le Chiese. È dal 1961 che lo si prepara: realizzarlo ora è un successo del Patriarca, la cui leadership si è molto rafforzata nel mondo ortodosso. La visita in Turchia segna la maturità del pontificato di Bergoglio. Resta solida, nonostante il tempo, l’alleanza con il popolo che lo segue più di come faceva con i predecessori. Sullo scenario mondiale, il Papa ha espresso un solido discorso sull’Europa tra le periferie del continente e il centro (Lampedusa, l’Albania e Strasburgo). Si qualifica ormai come un leader spirituale europeo con una proposta in un’Europa vuota di pensiero universale. Il Financial Times di ieri ha scritto che il Papa ha dato parole al malessere dei politici europei.

All’interno della Chiesa, i critici sottolineano che il Papa cerca di «piacere» troppo, dando l’impressione di un messaggio cristiano «allargabile». Un vecchio cardinale commentava: «Il nuovo Papa ha riempito le piazze e le chiese, ha svolto la sua funzione... ora ha finito». Se non prende nuove decisioni, qualcuno prevede un calo di popolarità, come per Paolo VI che, con la Humanae Vitae , deluse le attese. Ma era un’altra storia: ci fu l’impatto con il ‘68. Invece il passaggio del Sinodo sulla famiglia è stato delicato ma importante. Chi incontra il Papa lo trova sereno. Non ha convocato due Sinodi sulla famiglia per ribadire l’esistente. Ha voluto la libera discussione nei lavori sinodali (un inedito). Più si è trasparenti (con la pubblicazione della relazione finale e dei voti) e più il «popolo» vede: il popolo che ama Francesco. Anche se la relazione finale del Sinodo non ha avuto la maggioranza dei due terzi su punti importanti, un successo del Papa c’è stato: non si parlerà più come prima sulla famiglia.

Il discorso di Francesco alla fine del Sinodo è stato vibrante: nella Chiesa - ha detto - non si ragiona con la bipartizione tra progressisti e conservatori. Ha anche ricordato che lui è il Papa (lo fa raramente). Francesco è uomo di sintesi, un vescovo latino-americano della generazione che ha superato la spaccatura sulla teologia della liberazione (come il cardinale Maradiaga). La sintesi non è immobilismo, ma proiezione ad extra che mette in crisi conservatori e progressisti.

È stato eletto per uscire dal chiuso della crisi che spaventava i cardinali nel marzo 2013. È consapevole del problema di vita o di morte del Cristianesimo in tante parti del mondo. Bisogna uscire e riproporre il Vangelo.

Esiste però un gruppo di vescovi e cardinali critici sull’agire del Papa. Francesco non fa l’unanimità. Nemmeno Giovanni Paolo II la faceva (per esempio tra i vescovi italiani degli anni Ottanta). Francesco, rispettoso e non fazioso, ha cambiato poche persone in Curia: i titolari del clero e della Segnatura apostolica, oltre che il Segretario di Stato (ha nominato un solido diplomatico, Parolin, e un nunzio pastorale, Stella).

Un problema oggi è il «governo» del Papa, dove la sintonia con lui non sembra forte. È una situazione simile a quella di Giovanni XXIII, che ebbe contro il cardinale Ottaviani del Sant’Uffizio e altri. Roncalli imboccò la via del Concilio. Papa Montini tolse il partito romano dal governo. Per quattro anni, guidò una forte commissione che riformò totalmente la Curia. Riforme s’impongono anche oggi. Ma, oltre alla costituzione dell’importante Segreteria per l’economia, ci si limiterà a accorpare qualche dicastero, come si fa alla nascita del governo in Italia? I cambiamenti devono riguardare soprattutto aria nuova, meno clericale, nello stile di governo, visioni e nuovo personale. Francesco crede nel valore di avviare processi, non nel controllare gli spazi. I successi della Chiesa avvengono quando si mettono in moto processi, cioè non si sta fermi. Per lui il tempo è superiore allo spazio. Il tempo gli darà ragione?

30 novembre 2014 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_30/scelta-casuale-un-presidente-7f6e5bb8-785e-11e4-9707-4e704182e518.shtml
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« Risposta #246 inserito:: Dicembre 16, 2014, 07:00:25 am »

L’Europa e Putin
La matita rossa di Juncker

Di Angelo Panebianco

È accaduto sovente che alla vigilia di grandi svolte storiche, e anche di tragedie, la scena fosse occupata da figure incolori, inadeguate, molto al di sotto dell’altezza e dello spessore, politico, morale, culturale, che sarebbero stati necessari per affrontare la tempesta in arrivo. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sembra una di quelle figure: oggi è un grigio burocrate (già politico di lungo corso la cui attività è risultata assai eccepibile) che bacchetta e ammonisce questo o quel Paese. Apparentemente, sta solo facendo il suo mestiere di presidente della Commissione. Agisce come se vivessimo in tempi normali. Solo che i nostri tempi non sono normali, è come se l’Europa stesse oggi danzando sull’orlo di un burrone. Dietro a Juncker, naturalmente, non c’è il vuoto, c’è la dirigenza politica tedesca, uomini e donne per lo più solidi (a casa loro) ma anch’essi, apparentemente, incapaci di affrontare la crisi europea. Tra i principali protagonisti del dramma solo il presidente della Bce Mario Draghi appare consapevole della sua gravità.

Ricordiamo agli immemori quale sia la reale situazione. La Gran Bretagna ha già un piede fuori dalla casa europea e l’insorgenza dell’Ukip, il partito antieuropeista, minaccia di modificare radicalmente fra pochi mesi, nelle elezioni parlamentari, la fisionomia del sistema partitico britannico, un sistema tradizionalmente ultrastabile che affronta forti cambiamenti solo una o due volte per secolo. S e poi la Gran Bretagna, nel giro di un paio d’anni, sotto la pressione dell’Ukip, uscirà dall’Unione, l’impatto sarà fortissimo, il «rompete le righe» risuonerà in tutti i territori europei.

Ma ciò non basta. Quanto accade in Francia è ancor più grave. Con i socialisti ai minimi storici e la destra gollista incapace di intercettare l’insoddisfazione dei francesi, il pieno dei consensi, secondo tutti i sondaggi, lo farà, a meno di imprevisti, il partito ultranazionalista, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. E se fosse proprio lei, nel 2017, il prossimo presidente francese? Sarebbe la fine dell’Unione Europea come la conosciamo. I segnali indicano un maremoto in arrivo. All’Unione servirebbe oggi una leadership carismatica. Altro che Juncker. Occorrerebbero, nelle posizioni di vertice, menti creative capaci di proporre innovazioni, allo scopo di cambiare il tanto che non va e che è all’origine dell’ostilità di settori crescenti dell’opinione pubblica europea.

Se l’Unione andrà in rovina - si dice abitualmente - sarà un guaio per tutti gli europei. Nel lungo periodo, probabilmente, è vero. La consapevolezza di ciò, in teoria, dovrebbe bastare a spingere anche i vincitori del momento, i tedeschi, a rifare qualche conto. Basterebbe da parte loro un po’ di «egoismo illuminato», un egoismo che sappia guardare al di là del breve periodo, per convincerli della necessità di non assistere passivamente alla possibile rovina della casa comune. Ma sappiamo anche che l’egoismo tout court , di breve periodo, la vince di solito sull’egoismo illuminato. Né, naturalmente, si può gettare la croce solo sui tedeschi.

Nel lungo periodo, effettivamente, la crisi dell’Unione sarebbe probabilmente pagata da tutti gli europei. Nel breve termine, però, le cose andrebbero diversamente. Non ne risentirebbe più di tanto la Gran Bretagna. La Francia, forse, pagherebbe un conto economico salato, ma la Francia è anche un vero Stato-nazione, con istituzioni solide, in grado di resistere alla bufera. Anche la Germania pagherebbe un prezzo elevato, ma nemmeno le sue istituzioni correrebbero rischi immediati.

La situazione sarebbe assai diversa in altri Paesi, Italia in testa. È proprio perché l’Italia non è un vero Stato-nazione che, per decenni, ha investito simbolicamente, molto più degli altri Stati, nell’integrazione europea. Se l’integrazione verrà meno, l’Italia si troverà immediatamente ad affrontare i propri fantasmi, a fare i conti con la propria fragilità istituzionale.

Come tenere insieme i pezzi? Il problema non tocca naturalmente gli sfasciacarrozze, i vari movimenti antieuro, né in Italia né altrove. Riguarda o dovrebbe riguardare tutti gli altri. Ha creato scandalo la notizia secondo cui la Russia finanzia massicciamente il Fronte Nazionale della Le Pen, ha rapporti con i leghisti italiani (che simpatizzano con Putin) e forse anche con altri movimenti antieuro. Ma non c’è da scandalizzarsi: sono le normali regole della competizione geopolitica.

C’è un rapporto inversamente proporzionale fra l’arroganza militare della Russia e la sua fragilità socio-economica. Gigante dai piedi d’argilla, la Russia ha bisogno che i suoi interlocutori in Europa siano ancor più deboli di lei. Per questo soffia sul fuoco, dà una mano ai movimenti antieuropei. In fondo, avrebbe solo da guadagnare da una irreversibile crisi dell’Unione. Un’Europa ulteriormente indebolita e divisa sarebbe, per i russi, un interlocutore malleabile. Del resto, già oggi circolano, nei vari Paesi europei, forti correnti di simpatia per Putin. In un’Europa a pezzi diventerebbero ancora più forti le voci di coloro che chiedono rapporti sempre più stretti con la Russia.

Basta guardare una carta geografica e constatare la sproporzione territoriale fra la Russia e il resto degli Stati europei (a favore della prima) per comprendere quale, fra le rispettive tradizioni, finirebbe per prevalere sul Continente. Difficilmente, nel lungo periodo, la tradizione liberale dell’Europa occidentale potrebbe cavarsela di fronte alla concorrenza dell’autoritarismo russo.

15 dicembre 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_15/matita-rossa-juncker-4d069c68-8424-11e4-b9cc-80d61e8956c5.shtml
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« Risposta #247 inserito:: Dicembre 22, 2014, 06:10:33 pm »

L’EDITORIALE
Segare il ramo che ci sostiene
Perché facciamo poca ricerca

Di Angelo Panebianco

I l futuro non abita più qui? L’Accademia europea per la scienza, che raggruppa una parte ampia degli scienziati europei, ha inviato qualche settimana fa una lettera aperta al Parlamento e alla Commissione europea. Gli scienziati protestano contro il piano Juncker di investimenti: al fine di recuperare il denaro necessario, sono stati decisi tagli ingentissimi (di oltre un miliardo di euro) a Orizzonte 2020, il fondo europeo per la scienza. In una situazione, per giunta, in cui la spesa europea per la ricerca scientifica è già oggi di quasi un punto in percentuale al di sotto di quella degli Stati Uniti. La solita protesta corporativa contro i tagli? Non proprio, se si considera che mentre si colpisce la ricerca scientifica non si tocca la Pac, il baraccone protezionista della politica agricola europea. La protesta dell’Accademia contro i tagli Ue alla ricerca segue di poco, peraltro, l’allarme lanciato da diversi scienziati europei contro le prevalenti politiche nazionali: politiche che ormai penalizzano gravemente la ricerca di base (la vera fonte delle nuove conoscenze) a vantaggio della ricerca applicata, la quale sola è passibile di impieghi economici immediati.

Molti forse pensano che questi problemi riguardino solo gli addetti ai lavori e che, per giunta, in un’epoca di recessione economica, non ci si possa permettere il lusso di dedicare fondi rilevanti alla ricerca scientifica. Ma le cose sono più complicate. Perché i tagli alla ricerca, diventando strutturali, e quindi permanenti, finiscono per favorire la decadenza economica di un Paese, o anche di un Continente. Si rischia di non accorgersene a causa dell’inevitabile sfasatura temporale: recuperare soldi dalla ricerca per contrastare la recessione economica qui e ora è una tentazione irresistibile dal momento che gli effetti negativi di quei tagli si potranno sentire solo nel lungo termine (quando, per giunta, gli autori dei tagli non saranno più lì, nelle posizioni che oggi occupano, per risponderne politicamente).

La «ricchezza delle nazioni», il benessere collettivo, dipende da una pluralità di circostanze favorevoli, ma le due in assoluto più importanti sono sicuramente l’esistenza di condizioni di libertà personale e, appunto, lo sviluppo scientifico. Eliminate l’una o l’altra condizione e, alla fine, il benessere svanirà.

Si aggiunga che la frenata europea alla ricerca si somma a trasformazioni culturali che stanno anch’esse, da tempo, ispirando politiche sfavorevoli allo sviluppo e che sono influenzate da teorie di assai dubbia qualità: dai forti tagli alle emissioni di anidride carbonica (criticati recentemente dal Nobel Carlo Rubbia) all’eccesso di vincoli in materia di Ogm. Come ha osservato l’ Economist , in Europa stiamo pagando le conseguenze del pervertimento del cosiddetto «principio di precauzione»: da invito a esigere seri controlli e sperimentazioni si è trasformato in un puro e semplice divieto di qualunque innovazione. In sostanza, ci sono abbondanti segnali secondo cui l’Europa ha ridotto la sua disponibilità ad investire sul proprio futuro. Se non vogliamo limitarci a una invettiva moralistica dobbiamo chiederci perché questo accada.

Una spiegazione purtroppo c’è. Investire nella scienza e scommettere sull’innovazione implicano la disponibilità e la volontà di pensare il futuro. Ma a pensare il futuro sono, per lo più, le società giovani, demograficamente vitali, non quelle invecchiate e stagnanti. Il declino della ricerca va associato al declino demografico dell’Europa. Il suo Paese leader, la Germania, ha un indice di natalità fra i più bassi. Va peggio della Spagna e dell’Italia. Se la cavano meglio Francia, Olanda, Svezia, Gran Bretagna, Irlanda. Ma non al punto da compensare il declino demografico degli altri Paesi. E la gran parte delle nascite è oggi dovuta all’immigrazione. Le società che invecchiano, naturalmente, vogliono che i soldi pubblici vadano in previdenza e assistenza, non in istruzione e ricerca. In tutto ciò non c’è nulla di strano: la bassa natalità dell’Europa è figlia di un benessere che è qui con noi da molto tempo. È la trappola in cui rischia di cadere chi ha avuto a lungo successo. Un alto sviluppo economico può portare al declino demografico, all’invecchiamento e a trasformazioni sociali e culturali (in primis il rifiuto dell’innovazione) che alla lunga favoriscono il declino economico. Detto in altri termini: seghiamo il ramo su cui siamo seduti.

Non c’è però nulla di predeterminato in questi processi. Benché anche in America le conseguenze del benessere si siano riflesse sui tassi di natalità (ma la situazione non è altrettanto grave che in Europa o in Giappone), ciò non ha ridotto la spinta ad investire in scienza, ricerca, innovazione. L’America è oggi appannata, dà talora l’impressione di essere un pugile suonato, ma forse il suo tanto discusso declino è solo un fatto congiunturale: essa conserva, pressoché intatte, le risorse culturali e morali che potranno garantirne ancora a lungo ricchezza e potenza. È dubbio che ciò si possa dire dell’Europa.

21 dicembre 2014 | 09:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_21/segare-ramo-che-ci-sostiene-16c0efde-88e1-11e4-87e1-ec26c60de2cb.shtml
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« Risposta #248 inserito:: Gennaio 01, 2015, 10:20:13 am »

Noi e Putin
Il ritorno a giochi antichi

Di Angelo Panebianco

Putin ha varato la nuova dottrina militare della Federazione russa in sostituzione della precedente, del 2010. Già allora veniva contestata l’architettura della sicurezza globale in polemica con gli Stati Uniti. Ora, con la crisi ucraina, ciò che era implicito o più sfumato è diventato esplicito. La Nato è il nemico. E gli Stati Uniti sono una minaccia incombente grazie al Prompt Global Strike, il programma americano di difesa che prevede contrattacchi fulminei, e allo scudo antimissili in Europa. Putin fa sul serio. Si è ricostituita una permanente rivalità politico-militare.

La nuova dottrina rispecchia i sentimenti russi: senso di accerchiamento, orgoglio nazionalista, volontà egemonica. Chi spera di tornare ai tempi del vertice di Pratica di Mare (anno 2002), ai rapporti di amicizia fra russi, americani ed europei, sbaglia.

L’imperialismo russo torna ad essere una minaccia per le Cancellerie occidentali proprio come lo fu, nell’Ottocento, dopo il logoramento del Concerto europeo (l’intesa fra le grandi potenze che seguì alla sconfitta di Napoleone). In Ucraina la guerra continua. È detta di «bassa intensità» e ha già fatto migliaia di morti. Quando il sangue scorre nulla può tornare come prima. È nel giusto chi dice che sull’Ucraina bisogna arrivare a un compromesso (che, tuttavia, non farebbe venir meno il gelo russo-occidentale). Le ragioni sono tre. La prima è che in Ucraina l’Occidente non può vincere. La seconda è che non si può lasciare aperta una ferita sanguinante che minaccia di sfuggire al controllo.

Quando Putin dice che potrebbe prendersi Kiev in due settimane dice il vero. Ma non dice che in tal modo ci porterebbe sulla soglia di una guerra nucleare. La terza ragione è che, con la ferita ucraina sempre aperta, la Russia è spinta fra le braccia della Cina e offrire un tale vantaggio ai cinesi non è saggio.

Serve un compromesso che dia garanzie di autonomia ai russofili dell’Ucraina dell’Est, ma anche garanzie di legami con l’Occidente alla maggioranza ucraina. Nessun compromesso può reggere se calpesta le aspirazioni delle persone. Perché ci si arrivi occorre che gli occidentali sappiano usare fermezza. Senza di che, Putin può pensare di ottenere comunque ciò che vuole.

Ma gli europei sono divisi. Da un lato, c’è la Gran Bretagna, con gli scandinavi, i baltici e gli altri Paesi ex comunisti che invocano la linea dura. È vero che la Gran Bretagna è allineata agli Stati Uniti, ma sta anche giocando un ruolo che le è congeniale e che ha svolto per secoli: di contrasto alle minacce egemoniche continentali. Ci sono poi, allineati agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, quelli che stavano sotto il tallone sovietico e che odiano e temono i russi. Chi può dar loro torto?

Al polo opposto, rispetto al partito della fermezza, troviamo l’Italia, la più morbida con Putin. Non sarà l’antico «Franza o Spagna» ma un po’ vi somiglia: le sanzioni ci danneggiano, dobbiamo accordarci ad ogni costo, e tanti saluti alla Crimea e al resto. In mezzo, con diverse sfumature, stanno i restanti Paesi europei. Ma se si vuole un buon compromesso sull’Ucraina, la compattezza è d’obbligo. In una prospettiva più ampia, non dovrebbe sfuggire che siamo ora tutti impegnati in un antico gioco, che ha per posta l’egemonia sull’Europa. Gli europei non si unificheranno politicamente molto presto (se mai lo faranno). Il che significa che anche in futuro avranno bisogno, per la loro sicurezza, di un Lord protettore.

Ci sono forti correnti di simpatia per Putin in Europa, ci sono europei che troverebbero accettabile sostituire la Russia agli Stati Uniti nel ruolo di Lord protettore. Era ciò che volevano anche i filorussi occidentali ai tempi dell’Urss. Si pensi all’ultimo grande braccio di ferro (anni Ottanta): sulla questione dei missili Cruise e Pershing che gli occidentali decisero di schierare per riequilibrare i missili sovietici. C’era il rischio di un possibile decoupling (il distacco dagli Stati Uniti) e della «finlandizzazione» dell’Europa. Ciò che appunto volevano coloro che riempivano piazze e strade europee contro gli euromissili. I filorussi di oggi non hanno le motivazioni ideologiche di un tempo (se ne trovano a destra come a sinistra) ma mantengono una forza ragguardevole. In forme mutate, decoupling e «finlandizzazione» restano sullo sfondo. Anche se la Russia è economicamente debole, la sua forza militare e le sue dimensioni, a fronte di un’Europa disunita, non lasciano dubbi su chi condizionerebbe maggiormente chi, una volta consumato il distacco fra Europa e Stati Uniti.

C’è una relazione che dovrebbe essere evidente (ma non lo è per tutti) fra il ritorno dell’autoritarismo in Russia e il ritorno dell’imperialismo russo. L’autoritarismo di Putin ha risuscitato il nazionalismo (garanzia di continuità e di durata del suo potere) e le tradizionali visioni e ossessioni geopolitiche della Russia zarista e poi sovietica. Vero che ci sono stati errori occidentali (nella vicenda ucraina e non solo), vero che il comportamento di Putin ha anche giustificazioni dovute al fatto che l’Occidente ne ha a lungo sottovalutato le esigenze. Ma, ciò riconosciuto, resta il legame fra l’autoritarismo interno e l’aggressività in Europa. Il gruppo di Gorbaciov fece la rivoluzione alla fine degli anni Ottanta perché, mirando alla democratizzazione dell’Urss, non temeva, a differenza dei predecessori, un attacco americano. Se così non fosse stato, non avrebbe mai accettato l’unificazione tedesca.

Il senso di accerchiamento e la paura di (impossibili) attacchi occidentali a freddo, sono propri delle élite autoritarie russe, non di quelle democratiche. È falso che la Russia sia oggi «fuori dalla storia».
È invece un perfetto prodotto della propria storia.

31 dicembre 2014 | 08:18
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_31/ritorno-giochi-antichi-abcb6ff4-90bc-11e4-a341-1b24c965fa88.shtml
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« Risposta #249 inserito:: Gennaio 08, 2015, 05:24:56 pm »

La scomparsa dell’opposizione
Di Angelo Panebianco

Contrariamente a quanto talvolta si dice, le leggi elettorali non «producono» direttamente gli esiti politici. È la politica a produrli. Le leggi elettorali, però, creano incentivi e disincentivi, vincoli e opportunità, che facilitano o ostacolano le diverse azioni politiche e, per conseguenza, aumentano o diminuiscono le chance di certi esiti politici. Si può dire che una buona legge elettorale debba accrescere le probabilità che ci sia un vincitore netto, inequivocabile e che, al tempo stesso, debba contribuire a ridurre la frammentazione parlamentare: se l’opposizione risultasse troppo debole e frammentata nessuno potrebbe prenderla in considerazione come possibile vincitrice delle elezioni successive. Confermando di essere il furbissimo politico che sappiamo, Matteo Renzi ha preparato un progetto di riforma (la cui discussione comincia oggi in Aula al Senato) che, se approvata così com’è, renderebbe assai probabile la prima eventualità (la possibilità di un vincitore netto) ma non la seconda (la riduzione della frammentazione e dell’impotenza dell’opposizione).

La legge prescrive una cosa ottima: crea un’autostrada che può portare, grazie al premio di maggioranza, il partito favorito, il più forte del momento, a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi e a governare da solo. La legge, però, prescrive anche una cosa pessima: uno sbarramento solo del 3 per cento per tutti i partiti. Se la legge passerà così, lo scenario più probabile dopo le prossime elezioni sarà il seguente: il Pd ottiene la maggioranza assoluta, l’opposizione risulta invece divisa e frammentata fra un gran numero di partiti piccoli e medi. Il guaio è che questo, plausibilmente, non sarebbe solo lo scenario della prossima legislatura ma di diverse legislature a venire: un governo monocolore (Pd) con di fronte a sé il nulla, ossia un’opposizione vociante e impotente senza nessuna possibilità di costituire una minaccia elettorale seria per l’esecutivo in carica. Si aggiunga che, con la riforma del Senato, quest’ultimo passerebbe sotto il controllo pressoché totale del Pd, data la sua posizione dominante negli enti locali e regionali.

Naturalmente, la politica può sempre mettersi in mezzo e mandare all’aria piani e calcoli ma è evidente che la proposta di legge è stata costruita con le finalità che ho detto. La ragione che rende apprezzabili i sistemi maggioritari con collegi uninominali è che in quei sistemi sono alte sia le probabilità di un vincitore netto che quelle di una spinta alla (ri)composizione dell’opposizione. Con l’attuale proposta, invece, la sorte dell’opposizione appare segnata: verrebbe ad essere costituita in permanenza da tante piccole e medie oligarchie in lotta fra loro, senza alcun progetto che vada al di là della sopravvivenza politica dei singoli oligarchi.

Sia chiaro: una legge va varata a tutti i costi. Altrimenti, ci ritroveremmo a votare con il pessimo sistema elettorale (proporzionale puro) che ci ha regalato, con una invasione di campo, la sentenza della Corte costituzionale. Giunti a questo punto, c’è un solo modo per rimediare, pur mantenendo l’impianto attuale della legge: alzare seriamente la soglia di sbarramento, obbligare i partiti alla riaggregazione. Va aggiunto che l’abbassamento al 3 per cento della soglia di sbarramento non è il solo frutto avvelenato della proposta di legge nella sua formulazione attuale. C’è anche il pasticcio del voto di scambio (ipocritamente denominato voto di preferenza) surrettiziamente reintrodotto, salvo per i capilista. Dato che non si vuole il collegio uninominale non c’è altra strada decente se non quella delle liste bloccate con circoscrizioni piccole. Il voto di scambio (pardon, di preferenza) è invece la soluzione peggiore. Si può fin d’ora immaginare, se davvero il voto di preferenza venisse reintrodotto, quanta agitazione e quanto fervore si registrerebbero improvvisamente in tutte le Procure d’Italia a partire dal giorno successivo alle elezioni.

È evidente che spetta soprattutto a Berlusconi (il partner del patto del Nazareno) decidere se accettare di fare i suddetti regali a Renzi, e ai clientes politici che quest’ultimo vuole accontentare. Le leggi elettorali sono, di solito, vestiti che i vincitori si cuciono addosso e non c’è da scandalizzarsi per questo. Ma, per lo più, i vincitori del momento sono costretti, mentre fanno la legge, a stipulare compromessi, a fare concessioni all’opposizione. A seconda della natura di quegli accordi si avranno leggi migliori o peggiori. I «compromessi» fin qui visti non appaiono fra i migliori.

P.S. Non sarebbe male se si usasse l’occasione della nuova legge anche per mettere un freno a certi nostri cattivi costumi. Sarebbe bene eliminare, ad esempio, il poco glorioso istituto delle «candidature plurime»: i candidati (di solito i leader) che si presentano in più circoscrizioni. Paracaduti di riserva (se il candidato perde in una circoscrizione potrà essere ripescato in un’altra) e specchietti per le allodole (il povero elettore crede di votare il leader ma in realtà sta eleggendo, a sua insaputa, uno sconosciuto), le candidature plurime ci ricordano soprattutto quanto scarso sia il rispetto della classe politica per gli elettori.

7 gennaio 2015 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_07/scomparsa-dell-opposizione-a069fbd0-9634-11e4-9ec2-c9b18eab1a93.shtml
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« Risposta #250 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:42:30 pm »

Musulmani integralisti e moderati
La guerra in casa che non capiamo


Di Angelo Panebianco

La guerra portata dall’estremismo islamico in Europa non è «asimmetrica» solo in senso militare. Lo è anche in senso culturale. A svantaggio di noi europei e a vantaggio dei jihadisti. Loro ci comprendono, se non altro, conoscono i nostri punti deboli. Noi non li comprendiamo.

Un segno di questa incomprensione è il fatto che tanti europei mostrano di condividere una falsità, ossia che chi uccide in nome di Dio non sia un «vero credente». Dimenticando che gli uomini si sono sempre ammazzati fra loro in omaggio a un Dio o a un pugno di Dei. È vero che gli europei non sono più disposti a farlo. Ma ciò dipende anche dal fatto che sono tanti gli europei che non credono più in Dio: l’Europa è infatti il più secolarizzato continente del mondo. Chi non crede in Dio fatica a capire gli assassini in nome di Dio, gli sembrano marziani, alieni. Sulla durata ed esiti di un conflitto che tutti temiamo lungo e sanguinoso (quante cellule pronte a colpire esistono già in Europa?) inciderà l’andamento delle guerre in atto fra l’estremismo islamico e i suoi nemici - musulmani e occidentali - in tanti scacchieri del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia: eventuali dure sconfitte militari dell’estremismo islamico nei diversi scacchieri potrebbero gradualmente indebolire la sfida jihadista qui in Europa mentre, per contro, i successi militari potrebbero ulteriormente aggravarla. Ma durata ed esiti del conflitto saranno anche influenzati da quanto accadrà dentro le comunità musulmane europee. Si tratta di capire se il finto unanimismo di cui quelle comunità si servono oggi come un paravento verrà messo da parte ed emergeranno le divisioni: fra quelli che potremmo definire i «contaminati» (da noi, dalle nostre libertà) da una parte e gli «incontaminati» (i puri), dall’altra. La condanna generica dei jihadisti di Parigi, il mantra secondo cui essi avrebbero danneggiato prima di tutto l’islam, le posizioni, insomma, su cui si sono ora attestati i rappresentanti delle comunità islamiche europee, nascondono anziché chiarire, tentano di occultare contiguità e continuità culturali. Così facendo, alimentano ancora una volta l’ambiguità e costringono persone accumunate dalla fede musulmana ma con atteggiamenti, presumibilmente, fra loro diversi, sotto una stessa etichetta.

Se crediamo sul serio che l’Occidente, con la separazione fra religione e politica, con i suoi diritti, con l’uguaglianza formale, con le libertà (individuali), rappresenti un modo di vita più attraente di altri per molti uomini che ne sperimentino i benefici, allora dobbiamo credere che diversi musulmani viventi da tempo in Europa abbiano trovato il modo di fare convivere pragmaticamente la loro fede con le libertà occidentali. Nonostante la loro religione non abbia mai fatto i conti con la modernità (come il presidente egiziano Al Sisi ha denunciato nel suo dirompente discorso all’Università di Al Azhar), questi sono i musulmani «contaminati» dal nostro modo di vivere ma che non per questo rinunciano a pregare nella religione dei loro padri. Ma il guaio è che essi devono fare i conti con un’altra parte, numerosa, e anche assai bene finanziata dalle petro-monarchie e da altri regimi musulmani: gli «incontaminati», i portavoce di un islam puro, iper tradizionalista, antioccidentale, nelle varianti (fra loro antagoniste) wahabita e dei Fratelli musulmani. È qui, fra gli «incontaminati», che si trovano i predicatori che alimentano atteggiamenti di rifiuto della cultura occidentale anche quando si accompagnano a un provvisorio rispetto delle nostre leggi. È qui il brodo di coltura da cui emergono anche le frange estreme jihadiste. Sono questi i musulmani che pensano che un giorno in Europa dovrà essere riconosciuto un ruolo pubblico alla sharia , alla legge islamica.

La distinzione contaminati/ incontaminati qui utilizzata non ha nulla a che fare con quella, fasulla, fra islam moderato e immoderato. Chi usa quest’ultima divisione, in realtà, cade nella trappola concettuale in cui vogliono farlo cadere i fondamentalisti. Si finisce infatti, quasi sempre, per chiamare «moderato» un wahabita o un fratello musulmano solo perché prende le distanze dall’azione sanguinaria dei jihadisti del momento. Perdendo così di vista le continuità culturali, la comune lettura iper tradizionalista dei testi sacri.

L’«islamicamente corretto» in cui continuano a indulgere tanti europei non è solo patetico. È pericoloso. Fornisce alibi quando non se ne dovrebbero più fornire. E non aiuta le comunità musulmane a fare esplodere al loro interno il confronto aperto e duro fra le diverse componenti. Se i musulmani che vogliono integrarsi in Europa riuscissero a prevalere sui tradizionalisti anti occidentali, allora, nonostante la cupezza del presente, potremmo pensare con un po’ più di fiducia e di ottimismo al futuro. Se invece continueranno a prevalere i finti unanimismi, le ambiguità, le ipocrisie, i guai potranno soltanto aumentare. E perderemo tutti.

12 gennaio 2015 | 08:31
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_12/guerra-casa-che-non-capiamo-7b6e7dcc-9a1e-11e4-806b-2b4cc98e1f17.shtml
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« Risposta #251 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:20:24 am »

Noi, l’Europa e i riscatti
Ostaggi e riscatti: non piegarsi ai tagliagole

Di Angelo Panebianco

Alle polemiche, più o meno inevitabili, è necessario, prima o poi, fare seguire la riflessione. Altrimenti, si finisce per polemizzare a vuoto. Con la certezza di ricominciare daccapo la volta successiva. Bisogna piegarsi sempre e comunque ai tagliagole e pagare i riscatti salvando così la vita dei rapiti? Oppure farlo significa sì riportare a casa quella singola persona ma anche finanziare nuove imprese criminali e, soprattutto, accrescere le probabilità che altre persone vengano successivamente rapite? Sappiamo che i governi italiani (di destra e di sinistra, senza eccezioni) hanno sempre pagato o almeno lo hanno fatto tutte le volte che hanno potuto. E sappiamo anche che molti altri governi europei fanno la stessa cosa. Solo gli anglosassoni no o, per lo meno, è quanto in genere affermano.

Fino ad oggi, le scelte sono rimaste saldamente nelle mani dei governi nazionali. È quasi inevitabile che un governo, lasciato a se stesso, paghi per salvare la vita dell’ostaggio. Il costo dell’impopolarità sarebbe troppo alto se l’ostaggio venisse ucciso a causa del rifiuto di pagare. Ma è anche un fatto che in questo modo si alimenta l’industria del sequestro, si favoriscono nuovi rapimenti. Per non parlare dei possibili usi terroristici del denaro dei riscatti. Ricordava sul Corriere di ieri Marco Demarco che l’Italia sconfisse i sequestri di malavita, un tempo assai diffusi, ricorrendo al blocco dei beni, impedendo ai familiari di pagare per la vita dei loro cari sequestrati.

Come se ne esce? C’è un solo modo possibile: bisogna usare l’Europa. Fare, per il caso dei sequestri, ciò che i governi europei hanno sempre fatto per tante altre cose. Non posso adottare una certa linea di condotta perché la mia opinione pubblica, il mio Parlamento, eccetera, me lo impedirebbero? Benissimo, faccio adottare quella linea di condotta alle istituzioni europee e ad essa mi adeguo. In seguito, di fronte alle eventuali proteste nazionali, potrò sempre dire «mi spiace, non è colpa mia. Me lo ha imposto l’Europa». È un giochetto che i governi europei hanno praticato per decenni anche in rapporto a cose assai meno importanti. È arrivato il momento di mobilitare l’Europa - che oggi riunisce il Consiglio dei ministri degli Esteri dei 28 Paesi membri - per una faccenda davvero seria. Occorre un’interpretazione creativa dei trattati che porti a uno scatto, a un salto di qualità, in materia di sicurezza. N on c’è solo da accrescere la cooperazione fra le agenzie di intelligence. C’è anche (fra l’altro) da elaborare, e imporre ai governi, una linea dura, e condivisa, in materia di sequestri: non si paga più. E occorre che il messaggio arrivi, forte e chiaro, e soprattutto credibile, agli «addetti» dell’industria del sequestro in Medio Oriente e altrove. Per stroncare finalmente il traffico.

Con gli assalti a Parigi e la minaccia che incombe su tutta Europa siamo entrati in una nuova fase della guerra jihadista iniziata, se proprio si vuole scegliere una data emblematica, l’11 settembre del 2001. Di fronte alla nuova e sempre più grave situazione (almeno per l’Europa) non è più tempo di «fai da te». Ciò non vale solo per i volontari in zone di guerra. Vale pure per i governi nazionali. Anche in materia di sequestri occorre ormai un’azione concordata.

Dopo tanto inutile bla bla sulla necessità di una «Europa politica», ecco che arriva davvero (purtroppo, data la terribile situazione in cui ci troviamo) l’occasione per far fare all’Europa un salto di qualità politico. Almeno se la politica ha a che fare (ed è proprio così) prima di tutto, e soprattutto, con la sicurezza.
Si tratti di caccia alle cellule dormienti, o ai foreign fighters di ritorno, o ai reclutatori e ai propagandisti della guerra santa, si tratti di scambio di informazioni o si tratti, infine, di una linea comune da adottare sui sequestri, è arrivato per l’Unione europea il momento di dimostrare, ai tanti che vorrebbero sbarazzarsene, che essa ci serve anche per la sicurezza. Se è rimasto ancora qualche europeista asserragliato dentro le istituzioni europee farebbe bene a cogliere la palla al balzo.

19 gennaio 2015 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_19/ostaggi-riscatti-greta-vanessa-d62793fa-9fa2-11e4-84eb-449217828c75.shtml
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« Risposta #252 inserito:: Gennaio 30, 2015, 04:59:23 pm »

La scelta
Il presidente con un doppio profilo

Di Angelo Panebianco

Secondo il sondaggio pubblicato dal Corriere domenica, gli italiani vogliono come presidente della Repubblica un politico di esperienza. Hanno ragione. Non servono proprio, Dio ce ne scampi, i dilettanti allo sbaraglio, i cosiddetti «candidati della società civile». Dove invece gli italiani hanno ragione solo a metà è quando chiedono un presidente «interventista». Ciò che invece è necessario, forse, è un capo dello Stato a soffietto: del cui settennato gli storici del futuro possano dire che esso ebbe certi caratteri nei primi anni e caratteri esattamente opposti negli ultimi. Un presidente con l’esperienza e l’elasticità necessarie per saper passare dallo stato di quiete allo stato di moto, dall’immobilismo all’attivismo. Occorre insomma un presidente disposto, con tutto il rispetto, a fare da soprammobile per il tempo (forse quattro o cinque anni) in cui Matteo Renzi sarà un forte e incontrastato premier, e che sia però anche capace di esprimere il massimo di interventismo e di leadership nella fase successiva, quella del declino del premier, che inevitabilmente arriverà prima o poi.

Oggi il nostro sistema politico è così congegnato: dispone di uno stuolo assai elevato di «poteri di veto», capaci solo di bloccare l’azione altrui, ma dispone anche di due (e solo due) posizioni di autorità corredate, in linea di principio, di autentico potere propositivo: il primo ministro e il presidente della Repubblica. Anche a prescindere da ciò che dice e non dice la Costituzione. È necessario evitare due situazioni estreme: quelle in cui entrambe le posizioni di autorità siano contemporaneamente rette da leader forti o, all’opposto, da leader deboli. Nel primo caso, i due poteri si bloccherebbero a vicenda provocando la paralisi. Nel secondo caso, la democrazia sarebbe priva di guida. Occorre che se uno dei due poteri è momentaneamente forte, l’altro sia debole. E viceversa. Chi dice che il presidente deve «bilanciare» e «frenare» il primo ministro confonde il sistema politico italiano con quello, completamente diverso, degli Stati Uniti (esso sì fondato sul meccanismo dei checks and balances, dei pesi e contrappesi).

Ci serve un presidente disposto a fare da spalla a Matteo Renzi per il periodo in cui costui resterà un leader forte. Ma anche dotato dell’esperienza necessaria per «subentrare», con energia e saggezza, il giorno in cui la leadership di Renzi comincerà a vacillare.

28 gennaio 2015 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_28/presidente-repubblica-doppio-profilo-4b8a903c-a6b7-11e4-93fc-9b9679dd4aa0.shtml
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« Risposta #253 inserito:: Febbraio 04, 2015, 07:45:55 am »

Centrodestra al bivio
Mattarella, lo sgarbo e il futuro del patto del Nazareno

Di Angelo Panebianco

È una domanda, a volte implicita e altre volte esplicita, presente in quasi tutti i commenti sulla brillante operazione con cui Renzi, da campione di tattica quale è, ha portato alla presidenza della Repubblica Sergio Mattarella: e se avesse vinto «troppo»? Se la sua vittoria di oggi si rivelasse un boomerang domani? Il punto, naturalmente, riguarda il futuro della collaborazione fra Renzi e Berlusconi. Certo, è assai probabile che, digerita la sconfitta, fattosi una ragione dello «sgarbo» subito (la politica è il luogo per eccellenza della sopraffazione: il più forte impone la sua volontà e il più debole subisce), Berlusconi sia di nuovo pronto, tra qualche tempo, a puntellare Renzi sulle riforme.

Come è stato osservato da tanti, egli non ha vere alternative. Ma se poi non ci riuscisse? Se, già debole per un insieme di ragioni, fosse ora diventato debolissimo a causa della botta inflittagli dal premier? Un Berlusconi troppo debole non servirebbe nemmeno a Renzi, perché non avrebbe più la capacità di trascinarsi dietro un numero di parlamentari sufficiente per sostenerne la politica. A quel punto Renzi che farebbe? Fin qui ha usato Berlusconi come un machete per colpire i suoi nemici interni di partito e per aprirsi un varco nella boscaglia (parlamentare) attraverso cui far passare le riforme: legge elettorale, Senato, Jobs act, eccetera. Se in futuro questa possibilità, a causa dell’eccessivo indebolimento politico di Berlusconi, non ci fosse più, che ne sarebbe delle sue riforme? I n quel caso, i veri vincitori della partita sulla presidenza della Repubblica risulterebbero essere non i renziani ma i nemici di Renzi, e del patto del Nazareno.
 
Non sappiamo, naturalmente, se quella inferta da Renzi a Berlusconi sia la botta definitiva ma sappiamo che il centrodestra, sulla cui condizione di sbandamento ha scritto lucidamente Pierluigi Battista sul Corriere di ieri, difficilmente potrà bloccare il processo che lo spinge verso la frammentazione, il caos, e l’insignificanza politica. Non è soltanto una questione di leadership: un capo in declino e nessun sostituto in vista. È anche questione di uno spostamento verso Renzi di rilevanti segmenti societari che in passato avevano guardato a Berlusconi. Ci sono sia ai piani alti (le élite economiche) che ai piani bassi (certi settori del ceto medio) una attenzione e una disponibilità a seguire Renzi, a prenderlo in parola, a scommettere sul suo riformismo, che automaticamente toglie spazio al centrodestra, ne riduce drasticamente il serbatoio elettorale. Lo stesso successo (relativo) di Matteo Salvini, su posizioni estremiste, è in realtà una dimostrazione che, a causa dell’affermazione della leadership di Renzi, lo stritolamento elettorale della destra, e la sua ghettizzazione, non sono al momento contrastabili.

La politica, naturalmente, è imprevedibile. Ma è forse possibile scommettere che fin quando non si sarà esaurita (come disse Enrico Berlinguer della Rivoluzione d’Ottobre) la «spinta propulsiva» di Matteo Renzi, non ci sarà spazio per una rinascita del centrodestra. Quella spinta propulsiva un giorno finirà e la parte della società italiana che, culturalmente, non ha nulla in comune con la sinistra, ma che è tuttavia oggi disposta a scommettere su Renzi, gli ritirerà improvvisamente la delega. E si metterà a cercare un nuovo cavallo su cui puntare a destra. Solo a quel punto una destra di governo, ossia una destra in grado di sconfiggere elettoralmente la sinistra, potrà forse rinascere. Verosimilmente, ciò non accadrà molto presto. La spinta propulsiva si esaurirà forse solo fra qualche anno. A meno che, tirando troppo la corda, e per eccesso di fiducia in se stesso, Renzi non si trovi, involontariamente, ad accelerare i tempi.

2 febbraio 2015 | 08:06
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_02/mattarella-sgarbo-futuro-patto-nazareno-b0577e46-aaa2-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml
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« Risposta #254 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:43:45 pm »

L’opposizione che non c’è
Il carro affollato del potere

Di Angelo Panebianco
Nelle tribù umane accade esattamente ciò che avviene nelle tribù dei nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé. Dopo che un membro del gruppo ha sconfitto i rivali al termine di una dura lotta di potere, diventando il maschio alfa, o dominante, si mette subito in moto un processo di bandwagoning: quasi tutti gli altri membri della tribù saltano sul carro del vincitore, corrono a rendergli omaggio. C’è però un’importante differenza. Fra gli umani, nel bandwagoning è sempre presente una dimensione comica. Perché gli umani sembrano obbligati a negare la vera ragione per cui saltano sul carro del vincitore, ossia il fatto che, come tutti, tengono famiglia. Sono costretti ad inventarsi i più nobili motivi, dichiararsi solennemente interessati solo al bene del Paese: non lo fo per piacer mio, eccetera.

È da quando Renzi è a capo del governo che, in parte per le circostanze e in parte per merito suo, della sua bravura, viviamo in un sistema politico praticamente senza più opposizione. Le più recenti ondate di bandwagoning, e quelle che seguiranno, rafforzano e consolidano questo nuovo carattere della politica italiana. Ciò porta con sé, oltre ad alcuni innegabili vantaggi, anche dei rischi. Rischi che riguardano sia il breve che il medio e lungo termine. I rischi di breve termine hanno a che fare con le politiche del governo. Renzi ha usato Berlusconi finché gli è convenuto per neutralizzare gli ultraconservatori della sua parte politica (la Cgil, la sinistra del Pd). Ma adesso, grazie agli smottamenti parlamentari in atto a suo favore, e a quelli che avverranno prevedibilmente nel prossimo futuro, egli ritiene di non avere più bisogno di quell’alleanza. I numeri parlamentari sembrano dargli ragione. Però non è verosimile che un così radicale mutamento degli equilibri politici non tocchi anche la sostanza dell’azione di governo. Renzi può negarlo quanto vuole ma è un fatto che, in mezzo a tante promesse e chiacchiere (una vera overdose), se qualche riforma è stata comunque fatta, ciò si deve anche all’apporto dei berlusconiani (un sostegno che, come Berlusconi ha appena ribadito, difficilmente ci sarà in futuro).

L’intelligenza di Renzi fu infatti quella di capire subito che non c’era riformismo possibile senza alleanza con la destra (di governo con Alfano, sulle riforme con Berlusconi), che l’alternativa sarebbe stata quella di diventare ostaggio della sua sinistra interna. Con la certezza di affondare nella palude e nell’immobilismo.

Ma basterà questa nuova massa eterogenea di profughi in fuga da territori (partiti) disastrati - dai 5Stelle a Scelta civica e, a breve, sicuramente, anche Forza Italia - a svolgere lo stesso ruolo che ha svolto il patto del Nazareno? C’è da dubitarne. E poiché Renzi è tutt’altro che sciocco è impossibile che non se ne renda conto anche lui. Vuole forse dire che egli accetta il fatto che avvengano cambiamenti di sostanza nella politica del governo, e che questo prezzo egli sia disposto a pagare volentieri in cambio della nuova unità del suo partito?

La fine dell’opposizione dovuta al generalizzato bandwagoning porta anche con sé rischi «sistemici». Che cosa è una democrazia senza opposizione? Precisiamo: è sbagliato lamentarsi del fatto che le riforme istituzionali in cantiere (legge elettorale, Senato) accrescano notevolmente il potere del premier. Chi teme questa concentrazione e la considera addirittura «antidemocratica», è vittima di un abbaglio: non sa che una forte concentrazione del potere nelle mani del primo ministro (Gran Bretagna, Germania, Spagna) o del presidente (Francia) è la norma nelle grandi democrazie europee. Ed è, inoltre, vittima di un pregiudizio culturale: crede che la tradizione italiana, quella della democrazia acefala, quella in cui nessuno comanda e tutti pongono, con successo, veti all’azione altrui, sia l’unica democrazia possibile o, almeno, la più bella del mondo. Non è così. Le riforme che accrescono il potere del governo dovrebbero essere accolte con favore perché possono rendere meno inefficiente il processo democratico.

Ma se una forte concentrazione del potere nell’esecutivo è la norma nelle democrazie europeo-continentali, non lo è invece l’assenza di una credibile opposizione. La mancanza di una tale opposizione finisce inevitabilmente per ingenerare nei governanti un eccesso di sicurezza e di arroganza (nel caso del governo Renzi, se ne sono già visti gli effetti, qua e là, in qualche occasione). Soprattutto, l’assenza di una credibile opposizione toglie al governo la tensione e l’attenzione che sono necessarie per schivare errori e passi falsi, come ha giustamente osservato Alessandro Giuli sul Foglio di ieri.

Da questo punto di vista, ciò che c’è di sbagliato nella legge elettorale detta Italicum non è il fatto che essa - come è giusto - dia a chi vince la possibilità di governare. C’è di sbagliato il fatto che essa non tuteli la democrazia contro il rischio di un’eccessiva frammentazione dell’opposizione. Abbiamo sperimentato per lungo tempo un bipolarismo che non funzionava, a causa della ferocia degli scontri e dell’odio etnico tra i due schieramenti. Può essere allora che il nostro destino sia quello di un «monopartitismo democratico» in grado di durare per tutto il tempo in cui dureranno la lucidità e la fortuna del suo leader. E destinato ad essere sostituito dal caos non appena lucidità e fortuna se ne andranno.

8 febbraio 2015 | 09:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_08/carro-affollato-potere-99004376-af62-11e4-bc0d-ad35c6a1f8f9.shtml
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