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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160128 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Agosto 28, 2011, 05:11:45 pm »

CAMPAGNA ELETTORALE IMPROPRIA

Chi dimentica l'emergenza

Due settimane fa eravamo sull'orlo dell'abisso. La drammaticità della situazione spinse il governo a varare una manovra «lacrime e sangue» tesa a rassicurare i mercati. In cambio, la Banca centrale europea accettò di trattenerci per i capelli investendo enormi cifre nell'acquisto dei nostri titoli pubblici.

Sono passate solo due settimane e il senso dell'emergenza e dell'estrema fragilità della nostra situazione sembra svanito dall'orizzonte dei politici. A leggere le cronache e ad ascoltare ciò che dicono i politici che contano sembra che si sia trattato solo di un brutto scherzo. Le pensioni non si toccano e anche i tagli ai Comuni andranno, pare, in cavalleria. Come pure, a quanto sembra, la privatizzazione dei servizi pubblici locali (sempre per il veto della Lega). E si ha anche l'impressione che tutti o quasi gli interessi che si sono mobilitati in queste due settimane per evitare di essere colpiti otterranno in Parlamento una qualche soddisfazione o compensazione.

Con queste premesse, la manovra potrebbe alla fine risolversi, quasi esclusivamente, in un aggravio di tasse. Si dice che la scelta della Cgil di proclamare uno sciopero generale sia irresponsabile ed è vero. Ma non è meno irresponsabile una maggioranza che, fingendo che l'emergenza sia ormai alle nostre spalle, sceglie la linea del galleggiamento, del tirare a campare. Come se non fossimo sotto osservazione permanente, come se non avessimo la gola scoperta, pronta per essere azzannata se le misure che il Parlamento varerà non saranno tali da convincere i mercati che questa volta facciamo sul serio, siamo davvero impegnati in un'opera di risanamento.

Per la verità, la sensazione di non fare troppo sul serio l'avevano già data il giorno stesso in cui venne varata la manovra. La scelta di non blindarla con un voto di fiducia, lasciando al Parlamento l'eventuale compito di «migliorarla», non preannunciava nulla di buono. Poiché la regola generale è che i Parlamenti normalmente peggiorano, e non migliorano, i provvedimenti sottoposti loro dai governi. Soprattutto, quando si tratta di provvedimenti complessi sui quali i singoli deputati e senatori hanno, legittimamente, idee diverse, e che attivano la reazione di tutti gli interessi colpiti, grandi o piccoli che siano.

Né basta dire, come ha fatto Berlusconi (e lo ribadisce un comunicato di Palazzo Chigi che annuncia l'incontro di domani fra il premier e Bossi), che l'importante è che le cifre complessive della manovra restino invariate. La qualità è altrettanto importante della quantità. I numeri potrebbero non cambiare ma il provvedimento potrebbe ugualmente peggiorare o migliorare. A seconda della natura dei correttivi introdotti. È possibile immaginare, a cifre complessive invariate, ad esempio, una manovra tutta giocata su nuove tasse, con probabili effetti depressivi per l'economia o, all'opposto, più spostata sul fronte dei tagli, delle privatizzazioni e delle dismissioni, e quindi, almeno potenzialmente, generatrice di crescita.

Il difetto più grave del provvedimento così come era stato concepito dal governo (Francesco Giavazzi, Corriere , 15 agosto) consisteva nella debolezza e nella timidezza degli stimoli allo sviluppo. Compito dell'esecutivo, in questi giorni, dovrebbe essere quindi quello di guidare il Parlamento verso una revisione, davvero capace di rassicurare i mercati, in direzione pro-crescita. A giudicare da ciò che il dibattito politico ha fin qui prodotto è lecito essere scettici sull'esito finale.

Angelo Panebianco

28 agosto 2011 10:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_28/chi-dimentica-l-emergenza-angelo-panebianco_fd7fa2c6-d147-11e0-b62d-1ebafd8b4f13.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Settembre 09, 2011, 06:00:41 pm »

IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E TREMONTI

Due letture per una crisi

Tutti noi italiani, compresi quelli che danno l’impressione di volere il contrario, abbiamo un vitale interesse a che la manovra finanziaria ora all’esame delle Camere sia tale da rassicurare i mercati. Sperando che alla fine il provvedimento licenziato dal Parlamento risulti credibile, si tratterà anche di capire se il caos a cui la politica italiana ha dato vita nelle ultime settimane, e che ha sconcertato i tanti che ci scrutano e che ci giudicano, potrà essere messo da parte e dimenticato.

Ma che cosa è davvero successo in queste settimane? Possiamo leggere il suddetto caos in due modi. Se ci limitiamo a guardare la superficie, ciò che vediamo è un groviglio di campagne elettorali incrociate. Intorno alla manovra si è scatenata una danza macabra in cui vari esponenti del governo e della maggioranza hanno cercato di «posizionarsi » nel miglior modo possibile pensando al dopo Berlusconi (e qualcuno anche al dopo Bossi): i veti e i contro-veti, e i continui cambiamenti del provvedimento a cui abbiamo fin qui assistito sembravano rispondere, in tutto o in parte, a questa logica. Qualcuno dirà: è la politica, bellezza. Ma no: è la miopia politica, è quella particolare forma di stupidità a cui vanno soggetti i troppo furbi. Se la reazione dei mercati sarà violenta, non verrà spazzato via solo Berlusconi, verranno travolti anche tutti coloro che hanno fatto in queste settimane i loro giochi personali.

Ma è possibile anche un’altra lettura, non necessariamente in conflitto con la prima, ma che scava più in profondità e che riguarda il vero vizio d’origine di questo governo. Esso consiste nella incapacità dimostrata da Berlusconi, in questa esperienza di governo, come, del resto, nella precedente (quella del 2001/2006), di imporre una propria egemonia, culturale prima ancora che politica, sulla compagine governativa nel suo complesso e, di riflesso, sulla maggioranza. Per capirlo consideriamo due aspetti della manovra: il cosiddetto «contributo di solidarietà», oggi parzialmente ridimensionato, e la prima versione della nuova «caccia all’evasore» con incorporato invito alla delazione generalizzata. Non considero qui la sostanza di tali provvedimenti: ad esempio, per quanto riguarda le misure anti- evasione nella formulazione originaria, sulla loro inefficacia da un lato e sulla loro illiberalità dall’altro, hanno ben scritto, rispettivamente, Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole 24 Ore e Antonio Polito e Piero Ostellino su questo giornale.

Ma qui ci interessa un’altra circostanza: cosa c’entrano quelle cose con Berlusconi, con ciò che lui è, e con l’elettorato che lo ha fin qui seguito? La risposta è facile: nulla, assolutamente nulla. Eppure, è stato proprio il governo Berlusconi a proporle. Come spiegare questo mistero? Credo si spieghi così: Berlusconi ha sottovalutato, fin dall’inizio della sua esperienza, il fatto che avrebbe dovuto costruire «anticorpi» in grado di assicurargli una autentica egemonia sul governo a dispetto della grande eterogeneità politica che caratterizzava e caratterizza sia l’esecutivo che la maggioranza.

Facciamo l’esempio più importante: il rapporto fra Berlusconi e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Si dice (ma nessuno è in grado di distinguere fra pettegolezzo e realtà) che fra i due sia ormai venuta meno la fiducia anche sul piano personale. Ma il vero mistero è come mai ciò non sia avvenuto già molto tempo fa. Oggi è diventato facile prendersela con Tremonti. Non è più forte come era un tempo e anche quelli che, per convenienza, fingevano di rispettarlo, ora cercano di colpirlo. Ma non va dimenticato che senza la sua durezza e il suo piglio saremmo già stati travolti nel 2008. Nella sua azione c’erano sì dei limiti, ma quei limiti non possono oscurarne i meriti.

Il punto qui in discussione è però un altro. Riguarda il fatto che Berlusconi abbia appaltato fin dall’inizio a un intellettuale-politico di spessore, ma le cui idee di fondo non coincidevano affatto con le sue, la politica economica del governo. Eppure, fin dai tempi della campagna elettorale del 2008, era facile individuare le loro potenziali divergenze. Bastava aver letto La paura e la speranza, il libro che Tremonti pubblicò prima delle elezioni o avere ascoltato i suoi discorsi. Bastava considerare le sue posizioni su globalizzazione, fiscalità e ruolo dello Stato, o la sua polemica contro il «mercatismo», per capire che quelle tesi avevano ben poco a che fare con Berlusconi. Ma Berlusconi non se ne curò. Anziché fare del ministro dell’Economia, come di solito avviene, un proprio collaboratore in materia economica, egli accettò che Tremonti ne diventasse il dominus. La convenienza, certo, stava nel fatto che Tremonti, in questo modo, garantiva anche la fedeltà della Lega alla coalizione. Ma ogni scelta ha un prezzo. E il prezzo, per Berlusconi, è stato assai elevato: una politica economica interamente guidata, nel bene o nel male, da un altro, con il quale, per giunta, egli non poteva essere in vera sintonia. Berlusconi non si è neppure preoccupato di mettere in piedi a Palazzo Chigi una propria squadra di tecnici autorevoli che rispondesse soltanto a lui, e che, per lo meno, lo aiutasse a contrattare con Tremonti i contenuti dei provvedimenti.

Arrivati al dunque, alla necessità di varare una manovra d’emergenza, Berlusconi si è ritrovato nell’impossibilità di prendere in mano la situazione, scavalcando o mettendo da parte i vari ministri, di impedire che la manovra prendesse strade a lui sgradite, e di assicurarne, pur in presenza della necessità di negoziare con i partner della coalizione, una certa coerenza. È stato il suo più grande limite. Ma questo limite, evidenziato dalle vicende di queste settimane, è a sua volta l’effetto finale di una catena di errori.

Il fatto che solo in extremis, sfruttando le pressioni della Banca centrale europea e le sollecitazioni del presidente della Repubblica, Berlusconi sia riuscito a recuperare un certo personale controllo sulla manovra, non cancella il problema di fondo. C’è da sperare che ora non ne paghi il conto il Paese.

Angelo Panebianco

09 settembre 2011 07:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_09/panebianco-due-letture-per-una-crisi_3d90c0ea-daa1-11e0-9c9b-7f60b377ee16.shtml
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« Risposta #137 inserito:: Settembre 20, 2011, 05:24:35 pm »

IL REFERENDUM, IL PD E IL PDL

Un’altra legge elettorale

La crisi, che è politica e finanziaria insieme, ci schiaccia sul presente, ci impedisce di ampliare il nostro orizzonte temporale. Ma, quale che sia la sorte a breve termine del governo Berlusconi, l’Italia ci sarà anche domani e con essa resteranno i suoi problemi. Pensare al futuro è necessario.

Comunque la si giudichi, è rivolta al futuro l’iniziativa referendaria in corso tesa all’abrogazione della attuale legge elettorale. Imposta da Arturo Parisi a un Partito democratico che, nella sua dirigenza, era inizialmente contrario (e molti, nel Pd, lo sono tuttora), si propone di ripristinare quel sistema prevalentemente maggioritario con il quale abbiamo votato in tre elezioni consecutive: 1994, 1996, 2001. Non è un sistema perfetto (a causa della presenza di una quota proporzionale), ma è sicuramente migliore di quello oggi in vigore. L’iniziativa sta avendo un notevole successo ed è probabile che le cinquecentomila firme necessarie vengano raccolte. Al momento, fatta eccezione per alcuni sostenitori storici del maggioritario, primo fra tutti Mario Segni, si è mobilitata soltanto la sinistra. Il centrodestra è assente. Come mai? Come mai sono altrove gli esponenti del Pdl? Non è forse vero che l’iniziativa in corso punta a ripristinare quel sistema elettorale maggioritario, con collegi uninominali, grazie al quale Forza Italia (di cui il Pdl è l’erede) poté costituirsi e poi vincere due elezioni nazionali?

Quando Angelino Alfano venne scelto da Berlusconi come segretario del Pdl scrissi (Corriere del 4 luglio) che, a mio parere, proprio sul tema della legge elettorale egli avrebbe dovuto giocare le sue carte più importanti. Perché al Pdl, tanto più ora che è sul punto di fronteggiare una crisi di successione, serve, per garantirsi la sopravvivenza, che il bipolarismo venga messo in sicurezza. E solo una legge maggioritaria può farlo. Perché dunque il Pdl è fermo, perché non ha colto l’occasione del referendum Parisi per battere un colpo, per fare una sua proposta di riforma maggioritaria?

Nessuno, nel centrodestra, ha ancora l’ardire di difendere l’attuale legge elettorale. È difficile trovare buoni argomenti per difenderla. È soprattutto impossibile sostenere che il meccanismo delle liste bloccate abbia incontrato il favore dell’opinione pubblica o contribuito a rinsaldare il rapporto fra rappresentati e rappresentanti. Tutti sanno che lo status quo non potrà reggere ancora a lungo. Ci sono allora due sole possibilità: o un ritorno alla proporzionale, comunque camuffata (ci sono molti modi per camuffarla), o una nuova legge autenticamente maggioritaria. Nel primo caso, il Pdl andrebbe incontro a sicura disgregazione. Nel secondo caso, avrebbe maggiori chance di superare la crisi di successione, potrebbe continuare a essere la «casa comune» dei moderati italiani anche dopo l’uscita di scena di Berlusconi.

Viene da pensare che il gruppo dirigente del Pdl si sia già rassegnato alla disgregazione, che, in particolare, sia pronto a concedere all’Udc di Casini—un partito coerentemente (e legittimamente) proporzionalista — il ritorno alla proporzionale, in cambio di una qualche forma di appoggio politico nell’ultima fase della legislatura. Sarebbe una scelta legittima. Ma si deve sapere che, in tal caso, alle prossime elezioni tanti partitini rissosi si contenderebbero le spoglie di quello che fu il grande partito del centrodestra. Forse — chissà? — a singoli esponenti del Pdl ciò potrebbe convenire. All’Italia sicuramente no.

Angelo Panebianco

20 settembre 2011 10:33© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_20/panebianco-un-altra-legge-elettorale_21e74380-e345-11e0-91c7-497ab41fbb63.shtml
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« Risposta #138 inserito:: Settembre 28, 2011, 09:56:19 am »

POLITICA E RUOLO DEI GIUDICI

Una questione sotto traccia

Se Berlusconi, prendendo atto che il suo ciclo si è esaurito, che la sua posizione è ormai diventata insostenibile anche per l'immagine internazionale del Paese, lasciasse la guida del governo (ma senza favorire ribaltoni, i quali fanno male alla democrazia) si aprirebbe una possibilità: si potrebbe ricominciare a discutere - non dico serenamente ma, almeno, seriamente - del ruolo della magistratura in questo Paese. Al momento, con Berlusconi premier, ciò non si può fare: gli animi sono troppo incattiviti, le passioni troppo viscerali, le partigianerie troppo smaccate e cieche. Solo se Berlusconi lascia, si potrà forse ricominciare a discutere nel merito di cose come l'uso politico delle intercettazioni e la fine che hanno fatto, grazie al famoso circo mediatico-giudiziario, la tutela della privacy , la presunzione di non colpevolezza, eccetera eccetera.

Chi pensa che, andato via Berlusconi, il rapporto fra la politica e la magistratura tornerà facilmente, e spontaneamente, alla normalità, simile a quello che si dà nelle altre democrazie occidentali, non conosce l'evoluzione di quei rapporti. Quando gli storici del futuro indagheranno sull'argomento sceglieranno probabilmente come data emblematica dell'inizio del «grande scontro» fra magistratura e classe politica, il 3 dicembre del 1985: l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga inviò al Consiglio superiore della magistratura una lettera in cui vietava al Consiglio stesso di mettere ai voti una censura nei confronti del presidente del Consiglio Bettino Craxi. Cossiga, Costituzione alla mano, negò che il Csm fosse dotato di un tale potere di censura. I settori più militanti della magistratura, spalleggiati dall'allora partito comunista, se la legarono al dito. Alcuni anni dopo, Cossiga diventò oggetto di un attacco concentrico della magistratura militante e del partito comunista. Come mai al Csm era passato per la testa di avere il potere di censurare un primo ministro? Perché negli anni precedenti, per varie ragioni (alcune leggi che avevano notevolmente rafforzato sia il ruolo del Csm sia i poteri delle Procure, il prestigio accumulato dalla magistratura durante la lotta al terrorismo), la magistratura, intesa come «corpo», si era notevolmente irrobustita. Al punto che i suoi settori più politicizzati ritenevano di essere ormai così forti da poter andare allo scontro aperto con la politica.

L'occasione arrivò, grazie alla fine della guerra fredda, con le inchieste sulla corruzione, con Mani Pulite. La corruzione c'era ed era tanta (ma era «di sistema» e per questo avrebbe richiesto una soluzione politica, non penale: lo scrissi allora e non ho mai cambiato idea). Demolendo (ma selettivamente: il Pci si salvò) la vecchia classe politica, la magistratura inquirente aprì quel vuoto di potere da cui sarebbe nata la cosiddetta Seconda Repubblica. Il resto è semplicemente la storia d'Italia dal 1994 (anno dell'ingresso in politica di Berlusconi, nonché dell'avviso di garanzia, rivelato da uno scoop del Corriere , che lo raggiunse a Napoli nel mezzo di una conferenza internazionale) ad oggi.
Poiché la presunzione di non colpevolezza dovrebbe valere per chiunque (anche, guarda un po', per Berlusconi) vedremo in futuro cosa diranno le sentenze (se sentenze ci saranno) in relazione alle inchieste più recenti. Ma il punto politico è che, solo se Berlusconi se ne va, le tante anomalie del rapporto fra magistratura e politica, il grave squilibrio che si è ormai da molto tempo determinato fra democrazia rappresentativa e potere giudiziario, potranno essere discussi senza che tutto venga subito ricondotto al conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani.

Gli amici di Berlusconi ribatteranno: ma in questo modo la si darà vinta proprio ai quei settori della magistratura che dell'attacco al potere politico-rappresentativo hanno fatto la ragione stessa del proprio agire giudiziario. Non credo. La magistratura oggi non dispone più del prestigio di cui godeva all'epoca di Mani Pulite. La sua reputazione, stando ai sondaggi, non è cattiva come quella della classe politica ma ci va ormai molto vicino. Persino il più ottuso dei cittadini capisce che centomila intercettazioni per una inchiesta sono cose da pazzi (e il Csm zitto), persino il più fiducioso rimane disorientato vedendo Procure che si sbranano e inchieste che rimbalzano come palline da ping pong fra Napoli, Roma e Bari. La magistratura è ormai altrettanto logorata della classe politica. I magistrati dotati di più buon senso lo capiscono benissimo. Per questo non dovrebbe essere molto lontano il momento in cui diventerà possibile ristabilire alcune regole (per esempio, quella che vieta di intercettare, anche in modo indiretto, chi occupa cariche istituzionali) da tempo saltate. Serve alla magistratura, serve alla classe politica. E serve al Paese che, tra l'altro, ha il non piccolo problema di convincere gli investitori a fidarsi di nuovo di gente come noi.

Angelo Panebianco

28 settembre 2011 07:37© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_28/panebianco-questione-sotto-traccia_0d89cb72-e991-11e0-ac11-802520ded4a5.shtml
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« Risposta #139 inserito:: Ottobre 09, 2011, 06:08:44 pm »

QUALE LEGGE ELETTORALE

La soluzione del doppio voto

Il successo della raccolta delle firme per il referendum abrogativo ha riaperto i giochi intorno alla legge elettorale. Nessuna decisione, naturalmente, verrà presa prima del gennaio prossimo, prima della sentenza della Corte costituzionale sull'ammissibilità del referendum. Se la sentenza sarà a favore dell'ammissibilità resteranno alla classe politica poche settimane per decidere il da farsi: andare al referendum, chiedere al presidente della Repubblica le elezioni anticipate o varare una nuova legge elettorale. Anche se la decisione, quale che sia, maturerà solo allora, conviene discuterne fin da adesso. Perché i termini del problema siano chiari a tutti.

Sappiamo che al governo non conviene il referendum: l'insofferenza per l'attuale sistema elettorale è talmente diffusa nel Paese che la vittoria del «sì» sarebbe molto probabile. E sarebbe un'altra sberla (forse definitiva) per il governo e la maggioranza, arroccati nella difesa dell'indifendibile. Dunque, la vera scelta sarà fra elezioni anticipate (ammesso che il presidente della Repubblica le conceda) e una nuova legge elettorale. Poniamo che, ritenendo probabile una sconfitta, la maggioranza scarti l'opzione delle elezioni anticipate. Verso quale legge elettorale dovrebbe allora orientarsi?

Il segretario del Pdl Alfano ha tentato, proprio sulla riforma elettorale, ma fin qui senza successo, di «agganciare» l'Udc di Casini. Anche in vista di una alleanza politica che il Pdl giudica vitale per le proprie sorti future. Solo che arrivare a un accordo fra Pdl e Udc è come quadrare il cerchio. Il Pdl deve salvare il bipolarismo, l'Udc deve farlo saltare. Come superare l'ostacolo? È sufficiente reintrodurre le preferenze? No, non scongiurerebbe il referendum e inoltre (come ha osservato Roberto D'Alimonte, Il Sole 24 Ore del 4 ottobre) non soddisferebbe Casini che ha bisogno, per mettere in soffitta il bipolarismo, di eliminare il premio di maggioranza. Men che mai ha senso proporre il «sistema spagnolo» (proporzionale con collegi piccoli che penalizzano le forze intermedie) perché anche questa soluzione è inaccettabile per Casini (e per la Lega).

Come uscirne? Consiglierei ad Alfano e a Casini di leggere con attenzione la proposta di legge presentata il 30 luglio del 2010 dal senatore Stefano Ceccanti (del Pd). Ho avuto già occasione di parlarne ai lettori del Corriere (il 12 ottobre del 2010). Quella proposta prefigura una variante del sistema elettorale australiano: è un sistema maggioritario, con collegi uninominali, e si vota in un solo turno. Come in Gran Bretagna. Ma c'è una decisiva differenza: l'elettore ha a sua disposizione due voti, una prima scelta e una seconda scelta. In altri termini l'elettore, dopo avere votato per il candidato del partito con cui si identifica, può spendere un secondo voto per il candidato di un altro partito. Combina aspetti del maggioritario a un turno (britannico) e del doppio turno (francese). Salvaguarda il bipolarismo perché incentiva le alleanze prima del voto: solo se il partito A si allea col partito B può sperare di ottenere, sommandole, le prime scelte dei propri elettori e le seconde scelte (di una parte almeno) degli elettori del partito B. Al tempo stesso, proprio come nel sistema francese, è un meccanismo che non penalizza i partiti di medie dimensioni. Non li stritola come invece tende a fare il sistema britannico. Possiamo chiamarlo maggioritario con doppio voto.

Per convergere su tale proposta sia il Pdl che l'Udc dovrebbero rinunciare a qualcosa: il Pdl dovrebbe mettere da parte la sua ostilità per i collegi uninominali (che verrebbero comunque reintrodotti in caso di vittoria dei «sì» al referendum). Casini, a sua volta, dovrebbe rinunciare alla proporzionale e al connesso sogno di ereditare i consensi in uscita da un Pdl rassegnato alla disgregazione dopo il ritiro di Berlusconi. Il sogno di Casini potrebbe avere senso solo se i tacchini risultassero felici per l'avvicinarsi del Natale, solo se il Pdl mostrasse una gran voglia di suicidarsi. Ma se così non fosse, allora Casini dovrebbe rivedere le sue posizioni e cercare una soluzione comunque buona per lui. Il sistema qui indicato non dovrebbe affatto sfavorirlo.

Anche la Lega di Bossi non dovrebbe avere obiezioni. Il maggioritario con doppio voto incentiva le alleanze competitive: al Nord continuerebbe quindi ad esserci l'alleanza competitiva del passato fra Pdl e Lega. Infine, il Partito democratico: perché dovrebbe opporsi a una soluzione che gli garantisce la centralità a sinistra?

Qualcuno ha avanzato l'obiezione secondo cui il sistema elettorale qui prospettato sarebbe «astruso». È un'obiezione ridicola. Che cosa c'è di più astruso dell'attuale legge elettorale? E non è forse astruso il cosiddetto «sistema ungherese» proposto da Bersani? Anche il maggioritario con quota proporzionale che verrebbe reintrodotto se vincessero i «sì» al referendum (e che è comunque, secondo me, di gran lunga preferibile all'attuale legge), quanto ad astruserie non scherzava: qualcuno ricorda il famigerato «scorporo», la formula inventata per annacquare in senso proporzionale gli effetti del maggioritario? Nessun adulto che non abbia una preparazione specifica può capire davvero come funzionano i suddetti sistemi elettorali. Ma può comprendere subito il funzionamento di un maggioritario che lascia all'elettore la facoltà di dare due voti.

In omaggio a un'antica tradizione che negli ultimi tempi si va un po' appannando, e che consiste nel pensare prima di parlare, sarebbe utile se i protagonisti della politica ci ragionassero sopra un po' prima di negare che questo sistema possa servire al Paese. E forse anche a loro.

Angelo Panebianco

09 ottobre 2011 10:24© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_09/la-soluzione-del-doppi-voto-angelo-panebianco_07049694-f24a-11e0-9a3e-cd32c10dad62.shtml
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« Risposta #140 inserito:: Ottobre 24, 2011, 05:16:39 pm »

ALLEANZE E PROGRAMMI DIVERGENTI

L'OPPOSIZIONE SENZA RISPOSTE

Angela Merkel, nel suo colloquio con Giorgio Napolitano, ha chiesto, fra l'altro, chiarimenti sulle prospettive dell'Italia in caso di caduta del governo Berlusconi. Se andasse al governo, quali provvedimenti prenderebbe l'attuale opposizione? La domanda è sicuramente pertinente tenuto conto del grave stato di salute della maggioranza. Ma è destinata a rimanere priva di risposta.

Per capire come mai occorre fare un passo indietro, occorre ricostruire le ragioni di quella che è forse la più deleteria delle tradizioni italiane: il politicismo , la tendenza a costruire alleanze e aggregazioni prescindendo da accordi chiari sulle policies , sulle politiche di governo.

Il politicismo è una malattia tanto delle forze di governo che di quelle di opposizione. L'attuale maggioranza in difficoltà ha ripetutamente ricercato l'alleanza dell'Udc di Casini senza però mai chiarire che cosa tale nuova alleanza di governo avrebbe dovuto fare: per esempio, come potessero conciliarsi il federalismo di Bossi e l'antifederalismo di Casini.

Il maggior partito d'opposizione, il Partito democratico, per parte sua, fa esattamente la stessa cosa. Bersani decide una alleanza con Vendola e Di Pietro i cui contenuti (quali politiche farebbe una tale variopinta compagnia?) possiamo certamente immaginare, conoscendo i protagonisti, ma che non vengono comunque esplicitati. E Massimo D'Alema, nella sua intervista al Corriere (Dario Di Vico, 16 ottobre), non ha forse invitato Casini a una alleanza di cui farebbe parte anche Vendola dimenticandosi però di spiegare su che cosa Vendola e Casini, una volta messi insieme in un governo, potrebbero convergere o concordare?

È falso ciò che dicono i nemici del bipolarismo, ossia che queste forme di deteriore politicismo siano il frutto di un sistema bipolare mal funzionante. Il politicismo, infatti, è una tradizione che risale alla Prima Repubblica. All'epoca, in virtù della Guerra fredda, c'era un sistema politico bloccato. Il Pci, condannato all'opposizione perenne, si era specializzato nell'abbaiare alla luna e nel promettere agli elettori il paradiso in terra: tanto, non ci sarebbe mai stata alcuna verifica sulla sua capacità di mantenere le promesse. A loro volta, i partiti anticomunisti erano condannati a governare insieme. Non c'era bisogno di reali convergenze programmatiche, era sufficiente il possesso della tessera di appartenenza al «club occidentale». Era allora del tutto normale mettere insieme al governo il Diavolo e l'Acqua Santa, per esempio (e scusate l'ironia) Bettino Craxi e la sinistra democristiana.

Lungi dal peggiorare le cose, semmai, il bipolarismo le ha migliorate: quanto meno, ha reso molto più difficile sostenere nel tempo il bluff politicista. Certo, oggi come nella Prima Repubblica, con il politicismo si possono vincere le elezioni. Ma c'è una fondamentale differenza rispetto ad allora: il bipolarismo è spietato con chi, una volta al governo, non mantiene le promesse. Alle elezioni successive gli elettori lo cacceranno a pedate.

È questa, secondo me, la vera ragione per la quale tanti politici odiano il bipolarismo e guardano con nostalgia ai bei tempi in cui non c'era bisogno di render conto delle promesse fatte. È la combinazione fra bipolarismo e politicismo che spiega perché, dalle prime elezioni «bipolari» del 1994 fino ad oggi, chi vince le elezioni perde regolarmente le elezioni successive. Non c'è dunque speranza? Si continuerà anche in futuro con il vecchio andazzo: costruire alleanze fra i contrari, mettere insieme, per vincere, coalizioni ultra-eterogenee, sperando, una volta al governo, di sopravvivere il più possibile navigando a vista? Non è sicuro. Perché oggi le circostanze esterne sono diverse. A causa della crisi internazionale c'è ora sull'Italia, e promette di durare a lungo, una pressione internazionale fortissima. Le coalizioni eterogenee, condannate all'immobilismo a causa dei veti e contro-veti interni, diventano sempre più ingestibili. Ne sa qualcosa il governo Berlusconi che continua a rinviare il decreto sullo sviluppo a causa delle sue divisioni interne, e che proprio per questo rischia sempre più, ogni giorno che passa, il suicidio. La pressione esterna cambia le condizioni del gioco: il politicismo, anziché un atout , una opportunità, può diventare un rischio. È davvero molto interessante, da questo punto di vista, quanto sta accadendo dentro il Partito democratico: esso si sta dilaniando fra posizioni, queste sì finalmente programmatiche, fra loro incompatibili: accettare o respingere le condizioni poste dalla Bce all'Italia in materia di privatizzazioni, liberalizzazione del mercato del lavoro, eccetera. Non sono quisquiglie. Coloro che, contro il responsabile economico del partito Stefano Fassina (e quindi anche contro il segretario Bersani), sostengono che il Pd dovrebbe sottoscrivere le tesi della Bce sanno benissimo che, ove accettata come linea ufficiale, la loro posizione renderebbe impossibile l'alleanza con la sinistra estrema di Vendola. Forse, alla fine, tutto si risolverà col solito politicismo, con un segretario che si colloca «al centro» pronto a dare un colpo al cerchio e uno alla botte (dando ragione a quelli che sostengono le tesi della Bce «ma anche» a quelli che le contrastano, agli amici della Cgil «ma anche» ai suoi nemici, eccetera). Ma si tratterebbe di un equilibrismo sempre più difficile da praticare: come spiegarlo alla Merkel e soprattutto ai mercati? Forse, proprio la gravità della crisi e la pressione internazionale potrebbero contribuire a rendere un po' più maturo il nostro bipolarismo. Maturità che arriverebbe se, anziché dare vita a grandi coalizioni politicamente eterogenee, i partiti che contano si orientassero verso «coalizioni minime vincenti»: sufficientemente grandi per vincere le elezioni e sufficientemente piccole per assicurare una certa coerenza programmatica. Ridotta all'osso questa mi sembra la vera posta in gioco nello scontro (anche generazionale) interno al Partito democratico. Si tratta della scelta fra una grande coalizione elettorale purchessia e una coalizione minima vincente.

Angelo Panebianco

23 ottobre 2011 10:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_23/panebianco_opposizione-senza_048d3fa0-fd45-11e0-aa26-262e70cd401e.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Ottobre 31, 2011, 05:21:26 pm »

CONDIZIONI PER STARE IN EUROPA

Furbi e ipocriti, troppi paraocchi

Eurolandia, l'Europa monetaria, è due cose contemporaneamente. È, prima di tutto, un tassello di quella costruzione europea che fu il frutto di una intuizione, oggi più valida che mai, dei padri fondatori: nell'epoca del gigantismo delle potenze, quelle già emerse e quelle emergenti (Stati Uniti, Cina, India, Brasile, Russia e domani altre ancora), i vecchi Stati nazionali europei, singolarmente presi, non hanno più né taglia né risorse economicamente e politicamente sostenibili. Solo il futuro ci dirà se fu saggio o no dare vita all'euro prima di aver messo in piedi un governo europeo dell'economia. Ma una cosa è sicura: se crollasse l'euro il contraccolpo manderebbe in pezzi l'Unione Europea, azzererebbe sessant'anni di integrazione. Mario Monti, sul Corriere di ieri, ha ricordato a Berlusconi quanto sia essenziale anche per noi che quella impresa collettiva non fallisca.

Se l'euro è un bene pubblico, che va a vantaggio di tutti gli europei, Eurolandia è però anche un ring. Su quel ring i lottatori meno preparati e allenati, e con il fisico in disordine a causa degli stravizi, sono destinati a prendere tante botte. Negli anni passati, in Italia sono circolate idee sbagliate su Eurolandia: si è pensato che l'euro fosse una cintura di sicurezza che ci avrebbe permesso di tenerci tutti i nostri vizi, che fosse un modo comodo per condividere, per «socializzare», i costi delle nostre inefficienze. Non era così, come i greci hanno già sperimentato. L'euro è un'altra cosa: è un modo per impedire ai peggiori di ricorrere a forme di concorrenza sleale (come le svalutazioni competitive) al fine di non pagare il costo dei propri vizi.

È verissimo che, nel ring di Eurolandia, i più forti cercano di scaricare sui più deboli anche le loro difficoltà. Sarkozy ha interesse a mascherare i suoi gravi problemi prendendosela con l'Italia, e anche la Germania, il Paese leader, nonostante il suo cipiglio moralista, non ha poi tutte le carte in regola: i suoi governanti, mentre puntano (giustamente) il dito contro le nostre inadempienze, omettono di ricordare quanto i loro iniziali errori di fronte al focolaio greco siano stati determinanti nel favorire la propagazione dell'incendio.

Però, è anche vero che quello del capro espiatorio non è un ruolo che venga assegnato a caso. Bisogna, per così dire, meritarselo. Occorrono ragioni oggettive. Noi non possiamo proprio lamentarci, tenuto conto che nel decennio trascorso dal varo della moneta unica non abbiamo fatto molto per venire a capo delle nostre debolezze. Serviva una cura d'urto e l'abbiamo sempre rinviata. Ora ci troviamo in una condizione di stallo, in una specie di trappola per topi. Come succede quando il futuro dipende in gran parte da decisioni politiche che vanno prese e si scopre di non potersi fidare né del governo né dell'opposizione.

Non possiamo fidarci del governo perché è troppo debole e diviso per attuare davvero gli impegni che ha preso con l'Europa. Come hanno osservato Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere del 29 ottobre, la lettera d'intenti del governo Berlusconi assomiglia più a un programma elettorale che a un progetto operativo (nonostante Berlusconi si affanni a sostenere il contrario). Elenca cose che andavano fatte negli anni scorsi, quando il governo era molto più solido di oggi, quando Berlusconi godeva di alti consensi nel Paese, quando la Lega non era ancora con un piede dentro e uno fuori, quando il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia si parlavano. Dato lo stato della maggioranza, è purtroppo poco probabile (anche se la speranza è l'ultima a morire) che quelle cose vengano attuate.

Se il governo non riuscisse a fare ciò che va fatto, sarebbe allora l'opposizione a raccogliere il testimone? Non pare proprio. Con l'eccezione dell'Udc di Casini, che fa storia a sé, gli altri oppositori, Partito democratico in testa, non rappresentano al momento una credibile alternativa di governo: se per «credibile alternativa di governo», nelle condizioni d'oggi, si intende il portatore di un progetto di riforme capaci di rilanciare lo sviluppo e di renderci meno deboli in Europa. La novità, anzi, è che, dopo avere per anni rivendicato la superiorità del proprio pedigree europeista rispetto a quello della destra, il Partito democratico mostra una crescente dissonanza fra gli interessi del nucleo duro (Cgil in testa) della propria base elettorale e i vincoli europei. Dalla reazione negativa agli impegni chiesti all'Italia nella lettera della Bce fino alla attuale mobilitazione (che fa tanto anni Settanta) contro una cosiddetta «libertà di licenziare» che, in quella forma, non è nei piani di nessuno, l'opposizione di sinistra non appare, al momento, un possibile interlocutore dell'Europa. Che sia anche per questo che il governo Berlusconi è sempre lì lì per cadere e non cade mai?

Tra il «vorrei ma non posso» del governo e il «potrei ma non voglio» dell'opposizione, non si vedono spiragli. Sarebbe già tanto se, almeno, imparassimo tutti un paio di lezioni. La prima è che in una condizione di stretta interdipendenza europea e internazionale nessuno può fare a lungo il furbo. O rispetti le regole con cui ti sei impegnato a giocare o ne pagherai le conseguenze. Qualcuno dovrebbe spiegarlo bene alla Lega sul tema pensioni o ai sindacati sul tema flessibilità del lavoro.

La seconda lezione è che l'ipocrisia è dannosa. Che senso ha ostentare il massimo rispetto per ciò che dice il presidente della Repubblica e poi fare l'esatto contrario di ciò che egli auspica? Non è forse questa una situazione di emergenza nella quale, isolando gli agitatori di piazza, maggioranza e opposizione dovrebbero cercare, come Napolitano ha tante volte chiesto, la massima convergenza possibile sulle cose da fare? La sola cosa buona delle situazioni di emergenza è che offrono un'occasione di rinsavimento, spingono a mettere da parte i paraocchi. Speriamo che non venga sprecata.

Angelo Panebianco

31 ottobre 2011 08:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_31/panebianco-furbi-ipocriti-troppi-paraocchi_35c845bc-0388-11e1-af48-d19489409c54.shtml
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« Risposta #142 inserito:: Novembre 07, 2011, 05:35:27 pm »

TRE STRADE POSSIBILI NELL’INCERTEZZA

Tutte le spine dell’emergenza

Come è inevitabile in un Paese che era e resta (e resterà) profondamente diviso, le interpretazioni sul come e il perché siamo piombati nella più grave crisi della nostra storia recente variano a seconda dei punti di vista e delle preferenze politiche. C’è chi punta il dito soprattutto sulla inadeguatezza e la perdita di credibilità del governo Berlusconi e chi, all’opposto, imputa la responsabilità della crisi alla volontà dei partner europei più forti di scaricare sull’Italia le loro difficoltà e inadempienze. Non solo entrambe le interpretazioni sono vere ma si completano a vicenda. Nel più rigoroso rispetto del copione: se ti indebolisci troppo, se perdi credibilità, gli altri addosseranno a te tutte le responsabilità, anche quelle che non hai. Il passaggio decisivo si è verificato quando Berlusconi, non riuscendo a piegare le resistenze interne al governo, ha rinunciato a varare il tanto promesso decreto sullo sviluppo. Ciò ha chiarito definitivamente al Paese e al resto del mondo che la sua leadership era esausta, ha segnalato quanto fosse ormai ai minimi termini la sua capacità di mantenere gli impegni presi. E il resto del mondo, durante la riunione del G20, ha presentato all’Italia il conto. Come, secondo le indiscrezioni raccolte dal Corriere, Gianni Letta avrebbe detto a Berlusconi, con il G20 tutto è definitivamente cambiato. Sia questione di ore, giorni o settimane, il governo Berlusconi non può più reggere.

Come e con cosa sostituirlo? C’è una strada che, idealmente, dovrebbe essere percorsa al fine di mettere in sicurezza il Paese. E poi c’è la strada che la politica imboccherà realmente. È da sperare che lo scarto, il divario, fra la strada ideale (quella che occorrerebbe percorrere) e la strada reale (quella che la politica effettivamente sceglierà) non risulti alla fine troppo grande. Ciò che bisognerebbe fare è (ma solo a parole) semplice. Occorrerebbe un governo capace di attuare in breve tempo le riforme pro crescita che l’Europa (con la famosa lettera della Bce) ci ha chiesto di fare, un governo capace di allentare la pressione dei mercati, di portarci fuori dalla attuale condizione di emergenza, di mettere in sicurezza i conti e rilanciare lo sviluppo. Un governo fatto da chi? E con quale sostegno parlamentare? Un governo fatto da chi ci sta, da chi è disposto a impegnarsi nella politica impopolare (molto impopolare: si pensi al tema pensioni) necessaria per superare l’emergenza. Un governo siffatto, per essere credibile, dovrebbe godere di ampio sostegno parlamentare. Le forze politiche dovrebbero riconoscere che in una situazione di emergenza l’unica cosa che conta è venirne fuori prima possibile. Ciascun partito rilevante dovrebbe rinunciare a qualcosa: per esempio, sia la Lega di Bossi sia il Pd di Bersani dovrebbero rinunciare alla difesa di posizioni che sono molto sentite e strenuamente difese da segmenti importanti delle loro basi elettorali (il Pdl e l’Udc, almeno a parole, sono assai più aperti verso le richieste della Bce).

Un governo siffatto dovrebbe essere a termine, attuare solo i provvedimenti richiesti dall’Europa, e tenersi invece alla larga da tanti altri temi su cui il conflitto sarebbe inevitabile (come la questione della legge elettorale). È possibile oggi un tale governo? Possibile lo è (tutto è possibile). Ma, temo, non è molto probabile. Perché? Perché quel governo potrebbe nascere solo se le forze politiche fossero disposte a mettere da parte le ragioni, tutt’altro che effimere o superficiali, delle loro profonde divisioni e reciproche avversioni, se fossero disposte a vivere, per qualche mese, in una sorta di limbo, a mettere fra parentesi la politica.

Sapete perché, anche se quasi tutti capiscono che si tratta di una contraddizione in termini, il mito del «governo dei tecnici » è così duro a morire? Perché, quando ci si trova in situazioni gravi, ci si illude sempre di poter ricorrere a una soluzione che metta fuori gioco la politica: giusto il tempo necessario per superare l’emergenza. La cosa funziona, per lo più, solo nel mezzo delle guerre (e, a volte, nemmeno allora).

Se quella indicata è la strada ideale, qual è l’ostacolo che, plausibilmente, ne devierà il cammino? L’ostacolo sta nel fatto che la competizione politica non può essere fermata. Neppure in condizione di emergenza. Come la nostra odierna situazione conferma. Le tre opzioni in campo, di cui si parla in queste ore (un governo di solidarietà nazionale, un governo di centrodestra allargato all’Udc, le elezioni anticipate), avrebbero, presumibilmente, effetti fra loro molto diversi sulle sorti dell’una o dell’altra forza politica. E nessuno può rinunciare a fare i propri calcoli. Difficilmente ad esempio, si può abdicare alla difesa degli interessi della propria base elettorale se si pensa che, comunque vada, le elezioni non siano troppo lontane nel tempo.

Non ho prima citato a caso la questione della legge elettorale. Si ricordi che incombe un referendum. Se la Corte costituzionale darà il via libera voteremo a primavera per il ritorno del sistema maggioritario. Poiché viviamo nel mondo reale e non in un mondo ideale, nessuno riuscirebbe a disinnescare questa mina. Non casualmente, un governo di solidarietà nazionale interessa soprattutto a chi vuole far leva sull’emergenza per far saltare l’assetto bipolare, neutralizzare il referendum pendente, e ritornare alla proporzionale, facendo così, in prospettiva, le fortune politiche degli uni e le sfortune degli altri. Un governo di centrodestra allargato all’Udc avrebbe probabilmente altre conseguenze. E altre ancora, forse, discenderebbero dal ricorso immediato ad elezioni anticipate.

Abbiamo una emergenza da affrontare. Potremo e dovremo affrontarla. Ma è anche realistico tener conto del fatto che la politica non va in vacanza e la lotta più o meno feroce per fare il pieno del «bottino » politico a spese dei concorrenti non cessa mai.

Angelo Panebianco

07 novembre 2011 08:04© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_07/panebianco-tutte-spine-emergenza_d8192686-0907-11e1-a272-24f31f5e1b69.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Novembre 13, 2011, 11:36:35 am »

Le dimissioni di Berlusconi

In salita, molto

La strada è accidentata e per percorrerla non si devono fare errori. Il governo Monti può nascere e vivere solo grazie a «patti chiari».
Bisogna dire tutta la verità e agire di conseguenza. Nelle situazioni di emergenza si ricorre a soluzioni di emergenza. Tale sarà, se nascerà, il governo Monti. Sarà un governo del Presidente e non un governo tecnico come assurdamente si continua a dire. I tecnici esistono, i governi tecnici no. Formalmente non c'è differenza fra un governo del Presidente e un normale governo parlamentare: anche il primo deve avere la fiducia del Parlamento salvando così le forme. La differenza è di sostanza: l'emergenza sposta, per un tempo che si intende (e si spera) limitatissimo, dal Parlamento alla presidenza della Repubblica il potere sovrano. In passato ne abbiamo già fatto esperienza. Fu il caso del governo Ciampi del 1993: il Parlamento era nel marasma per le inchieste sulla corruzione e il potere sovrano si trasferì, di fatto, nelle mani del presidente della Repubblica.

Data la sua eccezionalità la soluzione adottata deve avere un chiaro limite temporale: i pochi mesi che servono per fare le cose necessarie (gli incisivi interventi da sempre promessi e mai attuati) al fine di rimettere in sicurezza il Paese. Dopo di che, il governo si dimette e la parola passa agli elettori.

Il secondo errore da evitare è quello delle mezze misure: si fa un governo del Presidente ma, contemporaneamente, se ne contratta la composizione con i partiti. Il «toto-ministri» e l'emergenza non sono compatibili. Il presidente della Repubblica e Monti devono stabilire loro, autonomamente, la lista dei ministri scegliendoli fuori dai partiti, avendo cura di scartare quelle personalità che per la loro caratura politica potrebbero dare un segno, «di destra» o «di sinistra», al governo mettendo così qualche forza parlamentare in difficoltà. Ai partiti si deve chiedere un temporaneo sostegno esterno e nient'altro.

Un altro errore da evitare (è il problema più delicato) riguarda la navigazione dell'esecutivo. Con i suoi provvedimenti, il governo Monti non dovrà dare l'impressione di penalizzare sistematicamente gli elettori di una parte rispetto a quelli dell'altra, mettendo così in una situazione insostenibile qualcuna delle forze che lo appoggiano. Qui conterà soprattutto la grande esperienza politica di Napolitano.

Né si potrà permettere che il governo diventi la copertura di giochi che hanno finalità diverse da quelle di fronteggiare l'emergenza: se diventasse l'alibi che alcuni cercano per togliere definitivamente di mezzo il bipolarismo, le forze che il bipolarismo difendono avrebbero il diritto, e forse il dovere, di far saltare il banco.

Da ultimo, occorrerà molto rispetto per i travagli dei partiti poiché essi sono chiamati in questa fase ad accettare lo scomodo ruolo dei comprimari. È insopportabile l'ipocrisia di chi parla con deferenza della democrazia ma poi mostra disprezzo per i politici alle prese con la questione del consenso. È il mestiere dei politici preoccuparsene.

I governi del Presidente sono forzature del sistema costituzionale giustificate da situazioni eccezionali. Come quella che stiamo vivendo. Poi però la parentesi va chiusa e si deve tornare a quelle rispettabilissime e difficilissime attività che consistono nell'organizzazione del consenso e nella «caccia ai voti»: la democrazia, appunto.

Angelo Panebianco

13 novembre 2011 10:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_13/editoriale-panebianco_2b7576d8-0dcf-11e1-a3df-26025bf830b6.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Novembre 21, 2011, 05:30:58 pm »

LO SCUDO DEL GOVERNO TECNICO

IL RIMONTAGGIO DEI PARTITI


Sembra di capire che al governo Monti siano affidate due fondamentali «funzioni», una manifesta e una latente. La funzione manifesta è quella enunciata dal neo presidente del Consiglio: affrontare l'emergenza con quei provvedimenti d'urto che la politica partitica, vincolata al consenso elettorale, non è stata fin qui in grado di prendere.

Ma c'è anche, a prescindere dalla volontà del capo dell'esecutivo, una funzione latente: dare tempo al tempo, neutralizzare temporaneamente la dialettica maggioranza/opposizione al fine di offrire alla politica partitica la possibilità di scomporsi e di ricomporsi su nuove basi. Pier Ferdinando Casini, parlando all'assise del Terzo polo, non lo poteva dire meglio o più esplicitamente. È peraltro la ragione per cui in Spagna si è andati al voto e in Italia no: in Spagna la posta in palio era solo il governo, in Italia è la conformazione del sistema politico nel suo insieme.

Per quanto riguarda la funzione manifesta, ossia la «missione» del governo Monti, si può forse scommettere che, a prescindere da quanto durerà l'esecutivo, essa si esaurirà di fatto in breve tempo. Nato per fronteggiare l'emergenza, il governo Monti darà al Paese una cura d'urto che tutti ci auguriamo utile e che i partiti saranno comunque costretti a subire. Ma non è pensabile che questo stato di grazia possa durare più di qualche mese. Dopo di che, i partiti riprenderanno l'iniziativa. E si noti che non potranno non farlo dal momento che le elezioni del 2013 (o anche prima) diventeranno per loro sempre meno lontane: man mano che passerà il tempo, i calcoli sulle convenienze elettorali ne condizioneranno sempre più le scelte. Aggiungo (in Italia, date certe nostre poco commendevoli tradizioni, è opportuno dirlo) che ciò potrà scandalizzare solo coloro che pensano che la democrazia rappresentativa sia null'altro che un fastidioso impiccio. A quel punto il governo Monti, che duri o meno fino alla scadenza della legislatura, non potrà più fare molto.
Ma oltre che un mezzo per fronteggiare l'emergenza, il governo Monti è anche uno scudo al riparo del quale, presumibilmente, si andrà ristrutturando il sistema dei partiti: quel famoso Big Bang che tutti si aspettano per effetto del tramonto dell'era berlusconiana. Qualcuno, non ricordo chi, ha spiritosamente osservato che l'era berlusconiana potrebbe essere stata solo un lungo intermezzo fra la fine della Dc e la sua rinascita. La Dc, ovviamente, non rinascerà ma che un grosso rassemblement parlamentare «centrista» si formi a breve termine per effetto di processi di scomposizione/ricomposizione delle forze politiche è possibile. Ed è anche in linea con le nostre tradizioni nazionali.
D'altra parte, ancorché possibile, la formazione di un tale rassemblement non è sicura. Le fratture nella classe politica sono tali e tante che si può anche ipotizzare un diverso esito: la pura e semplice disgregazione del Pdl (e, per contraccolpo, anche del Pd) e la conseguente frantumazione dell'intero sistema dei partiti. Mentre nel primo caso (formazione di un rassemblement centrista) tutto dipenderebbe da come si decidesse di puntellarlo, e in particolare con quale legge elettorale, nel secondo caso (frantumazione) andrebbero definitivamente in cavalleria sia il bipolarismo che l'alternanza e un cupo futuro di accentuata instabilità politica ci attenderebbe anche dopo le elezioni.

Si guardi alla Spagna, appunto. Stessa emergenza. Ma la Spagna si è potuta permettere il voto e noi no. Perché? Perché la Spagna, nonostante abbia una democrazia molto più giovane della nostra, dispone, a differenza di noi, di istituzioni sane. Lì la stabilità è garantita: chi vince governa e basta. Non è solo la legge elettorale che disincentiva la frammentazione, è un intero sistema istituzionale (fondato sul cancellierato, ossia sull'indiscusso primato del governo) che assicura la compattezza del corpo politico, il fatto che in esso vengano frustrate le spinte centrifughe. Forse, sarebbe bene smetterla di fare finta, come continuano a fare i cantori del parlamentarismo all'italiana, che le nostre siano le migliori istituzioni del mondo. Forse, bisognerebbe anche riconoscere quale sia (per parafrasare il grande giornalista britannico ottocentesco Walter Bagehot) il «segreto» della Costituzione italiana: la possibilità di ricorrere, ma solo per brevissimi periodi, quando i partiti siano resi impotenti dall'emergenza, a governi del presidente. Forse bisognerebbe almeno pensarci su e chiedersi se non sia il caso, fatto trenta, di fare anche trentuno, scegliendo la strada maestra della piena responsabilizzazione politica del presidente della Repubblica mediante l'elezione diretta. Solo che non lo faremo. Poiché le scelte chiare, e le decisioni nette, non sono nel nostro stile.

Angelo Panebianco

21 novembre 2011 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_21/panebianco-partiti-rimontaggio_11d0c28c-140a-11e1-ab68-9c5b3cac959b.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Dicembre 08, 2011, 05:11:02 pm »



Il secondo tempo

Ci sono fasi in cui le esigenze della economia e quelle della politica sono in armonia e altre fasi, più frequenti, in cui sono in conflitto. Non è detto che ciò che sarebbe economicamente utile o necessario risulti anche politicamente praticabile. Il decreto Monti serve a fronteggiare l'emergenza e conferisce al governo l'autorevolezza necessaria per trattare da una posizione di relativa forza con i partner europei. Per questo i principali partiti, obtorto collo , sono costretti a sostenerlo. Ma questo momento magico non è destinato a durare: molto presto le esigenze della politica torneranno a prendere il sopravvento. E il governo Monti comincerà a navigare in acque parlamentari sempre meno tranquille. È questa circostanza, purtroppo, a rendere non del tutto plausibile la «politica dei due tempi» che l'esecutivo si è visto costretto ad adottare.

Il decreto, oltre a un sensibile accrescimento (che ha di per sé effetti depressivi) della pressione fiscale sul ceto medio, contiene una seria riforma delle pensioni e qualche buona misura a favore delle imprese. Ma il grosso degli interventi pro crescita è rinviato a un secondo tempo. Sono rinviate quasi del tutto le liberalizzazioni. E non si parla per ora di privatizzazioni. È rinviata la riforma della disciplina del lavoro. Sono rinviati gli interventi più incisivi sui costi della politica. Mancano infine provvedimenti volti a colpire la palla al piede rappresentata dalla inefficienza della macchina amministrativa.

Il governo Monti ha avuto sicuramente ottime ragioni (soprattutto, i tempi troppo stretti) per adottare questa strategia. Ma resta che tale scelta, per quanto necessitata, porta con sé due inconvenienti. Il primo riguarda il segno e la qualità del decreto Monti. Se le misure rinviate fossero state presenti nel decreto ciò avrebbe sicuramente ridotto il disagio dovuto all'accrescimento della pressione fiscale. Gli effetti depressivi sarebbero stati ampiamente compensati dalla generalizzata constatazione di una radicale svolta, di un irreversibile cambiamento. Finalmente, sarebbe stato a tutti chiaro che si stavano predisponendo le condizioni necessarie per fare riprendere al Paese il cammino dello sviluppo.

Il secondo e più grave inconveniente consiste nel fatto che in Italia la politica dei due tempi, come sappiamo per lunga esperienza, è quasi sempre destinata all'insuccesso. Il governo Monti è figlio di circostanze eccezionali. E sono le circostanze eccezionali ad averne decretato la popolarità. Ma, come lo stesso Monti ha osservato, la popolarità del governo è destinata a ridursi a causa della amara medicina che esso ci deve somministrare.

I partiti hanno subito il governo. Man mano che la sua popolarità diminuirà, rialzeranno la testa. E lo faranno perché, piaccia o meno, le regole della politica democratica lo imporranno. Sono i partiti che dovranno fronteggiare tra poco più di un anno, o anche prima, il giudizio degli elettori. Sono il Pdl e il Pd, soprattutto, che dovranno evitare di farsi cannibalizzare, rispettivamente, dalla Lega e dalla estrema sinistra. Disciplina del lavoro, liberalizzazioni, eccetera, incidono sulla carne dei partiti. Difficilmente, essi lasceranno al governo Monti, su questi temi, le briglie sciolte e la libertà che gli hanno lasciato nella prima fase. Il «secondo tempo» si svolgerà in un terreno assai più accidentato di quello in cui si è svolto il primo.

Angelo Panebianco

7 dicembre 2011 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_07/secondo_tempo_panebianco_70a2ba70-209b-11e1-80f3-2318928b83f9.shtml
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« Risposta #146 inserito:: Dicembre 18, 2011, 04:06:07 pm »

LA LENTA E OPACA MACCHINA STATALE

Costa tanto produce poco

Nel momento in cui si chiede che i conti bancari dei cittadini, e quindi le loro vite, risultino totalmente trasparenti agli occhi dello Stato, diventa lecito chiedersi se lo Stato sia poi altrettanto trasparente, nel suo operare, agli occhi dei cittadini. Basta chiederselo per capire subito che non è così: l'opacità, non la trasparenza, caratterizza la macchina amministrativa nelle sue operazioni quotidiane.

L'opacità è tale che persino i ministri ignorano tanto di quella macchina. Si vogliono fare le privatizzazioni? Si vuole tagliare in modo intelligente (ossia, selettivo) la spesa pubblica? Si vogliono eliminare i sussidi alle imprese? Per fare queste cose occorrono vitali informazioni, bisogna conoscere la «macchina» dall'interno. Ma nemmeno il governo possiede quelle informazioni. Deve, prima di tutto, procurarsele. Ed è una operazione lunga, costosa, difficile, e probabilmente destinata all'insuccesso. Come mai? Da cosa dipende quella opacità? Perché lo Stato è una giungla impenetrabile? Perché è costituito da regolamenti e pratiche così complesse e barocche che solo i vecchi squali della burocrazia, gli amministratori di lungo corso, possiedono le capacità per muoversi in un simile ambiente, così oscuro e ostile per chiunque altro?

I cittadini attribuiscono di solito ogni colpa di ciò che non va, delle disfunzioni quotidiane di cui hanno personale esperienza, alla classe politica. Non sanno che la classe politica è per lo più priva di cruciali risorse (dalle informazioni alla expertise amministrativa) e che altre istituzioni sono di fatto, quando si tratta dei meccanismi quotidiani di funzionamento dello Stato, molto più potenti. Si dice: «Il Parlamento è sovrano». Ma queste sono solo parole. L'alta burocrazia, i vertici delle strutture regionali, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, contano assai più del Parlamento, e di qualunque governo, nella gestione della macchina amministrativa. Basta che scelgano di non cooperare, di fare resistenza passiva, e la classe politica viene ridotta alla impotenza.

Il politico eletto, diceva il sociologo Max Weber, è di fronte all'amministratore di professione nella condizione del dilettante. Ma qui siamo andati molto più in là. Non è più solo una questione di dilettantismo contro professionismo. È questione di una macchina statale autoreferenziale, che dispone degli strumenti (a cominciare dal monopolio sulla interpretazione delle regole amministrative) necessari ai fini della propria difesa e riproduzione.

Si badi che non sono solo in gioco interessi (l'interesse degli amministratori o delle magistrature amministrative a garantire l'incontrollabilità del proprio operare da parte di chiunque: governo, Parlamento, pubblica opinione). Pesano anche le tradizioni culturali. C'è un'intera cultura giuridico-amministrativa, cui danno un contributo essenziale tanti giuristi amministrativisti, che è quotidianamente mobilitata a difesa del mantenimento della complessità del sistema e, quindi, della sua opacità.

Se vogliamo chiederci quale sia l'ostacolo principale al rilancio della crescita dobbiamo indirizzare la nostra attenzione sul peso morto rappresentato da una macchina amministrativa incompatibile con le esigenze di un Paese moderno. Nessuno sa, ad esempio, di quanto potrebbe scendere la pressione fiscale complessiva se quella macchina diventasse meno inefficiente e dispendiosa.

La complessità e il barocchismo delle regole e delle procedure amministrative hanno potentissimi effetti negativi sulla società circostante: generano inefficienza, garantiscono tempi lunghi e anche lunghissimi agli interventi dello Stato (si pensi al settore delle infrastrutture), innalzano spaventosamente i costi economici, alimentano una condizione di incertezza giuridica che rende imprevedibili i comportamenti, impedisce la diffusione di rapporti reciproci di fiducia fra cittadini e amministrazioni, e funziona da moltiplicatore delle dispute. Gli amministratori si difendono dicendo che è comunque la politica a dettare le linee guida dei provvedimenti. Il che è vero. Ma sono loro a confezionare, e poi a interpretare, con il loro esasperato formalismo, quei provvedimenti.

Per fare un esempio, apparentemente marginale, consiglierei al neo-ministro dell'Università, Francesco Profumo, che è anche un mio collega, di leggere con attenzione le norme da poco varate che regolano certi concorsi (per esempio, i concorsi da ricercatore). Scoprirà che il loro effetto principale è di fare prosperare l'industria dei ricorsi, di dare tanto lavoro agli avvocati e ai Tar. Sono certo che se, dopo avere letto quei regolamenti iper-barocchi, il ministro ne chiedesse conto a chi li ha messi a punto nei dettagli, si sentirebbe dire che quei regolamenti rispondono alla esigenza di garantire la «legalità» e la correttezza dei concorsi. Niente di più falso. Quelle norme nulla possono pro o contro la correttezza. La loro assurda complessità garantisce solo l'incertezza del diritto, l'opacità dei procedimenti, la moltiplicazione delle dispute. Non c'è quasi nessun ambito in cui operi l'Amministrazione che non abbia queste caratteristiche.

Se la certezza del diritto è un fondamentale bene pubblico, allora è sicuro che il nostro sistema giuridico-amministrativo è congegnato in modo da garantire la perpetua indisponibilità di quel bene. Con costi altissimi per la società e benefici (in termini di opacità del loro operato) per gli addetti alla gestione quotidiana della macchina statale. Magari, quei giuristi amministrativisti che lavorano come consulenti dell'Amministrazione centrale e periferica qualche franca spiegazione sul perché ciò accade potrebbero forse darcela.
Viviamo in tempi di antiparlamentarismo trionfante e il mio potrà sembrare un auspicio controcorrente. Ma trovo che i partiti, alla disperata ricerca di un ruolo nell'epoca del governo Monti, potrebbero rendere una grande servizio al Paese. Potrebbero, e dovrebbero, promuovere una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare sull'operato dell'Amministrazione (organi della giustizia amministrativa inclusi) e di segnalarne tutte le disfunzioni. Se non altro, per consentire una discussione pubblica sulle vere cause del nostro declino.

Angelo Panebianco

18 dicembre 2011 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_18/panebianco_costa-poco-produce-tanto_e913b108-2951-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Gennaio 08, 2012, 10:22:47 pm »

Un referendum, due tesi errate


Domani la Corte costituzionale comincerà a discutere (la sentenza è attesa in settimana) sull’ammissibilità del referendum elettorale. È un referendum che ha lo scopo di abrogare l’attuale legge e di ripristinare quella precedentemente in vigore, vale a dire il sistema maggioritario, con collegi uninominali, corretto da una quota proporzionale, con cui abbiamo votato in tre elezioni generali: 1994, 1996, 2001.


In punto di diritto non sembrerebbero esserci ostacoli alla ammissibilità. Così sostiene il manifesto firmato pochi giorni fa da 111 costituzionalisti, che rappresentano la schiacciante maggioranza dei titolari di cattedra di diritto costituzionale e di diritto pubblico.

Coloro che temono il referendum, e pertanto si augurano che la Corte dichiari la non ammissibilità del quesito, hanno messo in circolazione due argomenti di cui è facile constatare la fragilità. Il primo è quello secondo cui, se la Corte si pronunciasse per l’ammissibilità e gli italiani votassero l’abrogazione della legge elettorale in vigore, ne verrebbe fuori un vuoto legislativo, ci troveremmo senza legge elettorale. È falso. Sarebbe come dire che se nel 1974 gli avversari del divorzio avessero vinto il referendum abrogativo, non avremmo più avuto un matrimonio regolato per legge, ci saremmo ritrovati nella Repubblica del libero amore. Naturalmente no (per fortuna o per sfortuna). Se fosse stata cancellata la legge istitutiva del divorzio ne sarebbe automaticamente seguito il ripristino della legge precedente. Punto e basta. E così accadrebbe anche se gli italiani scegliessero di abrogare l’attuale legge elettorale.

Il secondo argomento inconsistente riguarda la presunta destabilizzazione del quadro politico (del governo Monti) che si produrrebbe nel caso la Corte dichiarasse il referendum ammissibile: i partiti, così si dice, piuttosto che affrontare il referendum, manderebbero a gambe all’aria il governo e porterebbero subito il Paese alle elezioni anticipate. Neppure questa tesi sta in piedi e non importa se viene sostenuta da tanti: una sciocchezza non cessa di essere tale solo perché continuamente ripetuta.

La durata e la stabilità del governo Monti non hanno nulla a che fare con la questione del referendum. Si tratta di un governo del Presidente nato per fronteggiare l’emergenza euro. Durerà fin quando durerà l’emergenza: tre mesi, sei mesi, un anno, o quel che è. Difficilmente il governo Monti potrebbe arrivare alla scadenza naturale della legislatura nel caso in cui, per qualche miracolo, la crisi dei debiti sovrani fosse risolta con largo anticipo rispetto a quella data. È parimenti impossibile che esso cada con quella crisi ancora in corso.

Va anche aggiunto che se i partiti volessero abbattere il governo solo per evitare il referendum, con una emergenza-euro non ancora risolta, dovrebbero vedersela col capo dello Stato. Con ben poche chance di ottenere le elezioni anticipate. Insomma, è all’andamento delle aste dei nostri titoli di Stato, alle decisioni che prenderà o non prenderà l’Europa, e all’andamento dell’economia nazionale e internazionale nei prossimi mesi, non certo al referendum, che bisognerà guardare per capire quanto durerà il governo. Il referendum potrà incidere solo sulle regole del gioco con cui si andrà a votare, quando si andrà a votare. Se venisse ammesso, e se poi gli italiani si pronunciassero a maggioranza contro la vigente legge elettorale, voteremmo in elezioni generali con un sistema prevalentemente maggioritario. Se non venisse ammesso, i partiti troverebbero il modo di rivedere l’attuale legge in senso proporzionale.

Alla fin fine, la principale posta in gioco riguarderà il ripristino o meno dei collegi uninominali. Le dirigenze dei partiti non apprezzano il collegio uninominale. Pensano che renda i parlamentari così eletti poco docili e poco controllabili. Sarà questo il vero tema della riforma elettorale.

Angelo Panebianco

8 gennaio 2012 | 12:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_08/panebianco-referendum-due-tesi-errate_652060ea-39d1-11e1-b6d5-d3e076de4b02.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Gennaio 29, 2012, 11:44:54 pm »

I SINDACATI, IL MINISTRO E IL PD

Il passaggio più insidioso

La ragione principale per cui i governi tecnici non esistono è che la politica non va mai in vacanza. Anche il governo Monti è obbligato a contrattare le sue scelte, implicitamente o esplicitamente, con le forze parlamentari dal cui consenso dipendono le sue possibilità di durata e di azione. La condizione di sussistenza del governo sta nella sua capacità di agire, imponendo al Paese i sacrifici necessari, senza dare l'impressione che il loro costo non sia distribuito equamente fra gli elettorati di riferimento delle forze parlamentari che lo sostengono. Può essere, ad esempio, che sia stato un errore non aver varato contestualmente le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro. Perché se il governo mostrasse maggiore timidezza nella riforma del lavoro di quella mostrata nel caso delle liberalizzazioni, ne deriverebbe un effetto boomerang: forti tensioni emergerebbero entro la grande coalizione parlamentare e la turbolenza politica potrebbe diventare incontrollabile.

Con le liberalizzazioni sono state toccate, soprattutto, categorie di lavoratori autonomi che rappresentano una componente rilevante del bacino elettorale del Pdl. La riforma del mercato del lavoro, invece, va a toccare interessi che fanno parte della constituency elettorale del Partito democratico.

Negli ultimi giorni si era diffusa l'impressione che il governo non stesse manifestando nel secondo caso la stessa grinta che, lodevolmente, aveva usato nel primo. Ad esempio, la settimana scorsa, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero, di fronte alla dura opposizione dei sindacati, sembrava sul punto di ritirare il documento che il governo aveva preparato sulla riforma del lavoro (Enrico Marro, Corriere della Sera , 27 gennaio). Ieri, però, sia il ministro Fornero sia il premier Monti hanno rilanciato con forza il tema ribadendo che si tratta di una priorità assoluta per l'esecutivo.

Abbiamo certamente bisogno della riforma incisiva (che, come dice Monti, combini flessibilità ed equità, protegga i lavoratori piuttosto che i posti di lavoro) promessa dal governo al momento del suo insediamento. Se però l'iter di riforma si arenasse il guaio sarebbe doppio. Per gli effetti economici negativi. E per le conseguenze politiche destabilizzanti. Se risultasse che al lavoro autonomo vengono imposti prezzi più alti che al lavoro dipendente, in virtù del superiore potere di interdizione di cui dispongono i sindacati, l'equilibrio politico su cui si regge il governo si spezzerebbe. Manca solo un anno alle elezioni e tutti, naturalmente, devono fare i loro calcoli.
Quella del mercato del lavoro, peraltro, non è l'unica partita politicamente scottante ancora aperta. Le liberalizzazioni hanno fin qui colpito i «piccoli» ma hanno appena sfiorato i grandi, le banche in primo luogo. Si aspetta, con una qualche impazienza, il secondo round.

E poi vale per le liberalizzazioni ciò che vale per il provvedimento di semplificazione burocratica testé varato. Non è solo il Parlamento che può vanificarne gli aspetti innovativi. In Italia sappiamo per lunga esperienza che le innovazioni possono essere neutralizzate o ammorbidite anche dopo l'approvazione parlamentare, quando si passa ai regolamenti attuativi.
E c'è poi il capitolo, ancora da scrivere, delle privatizzazioni. Delle quali si può dire che oltre al vantaggio di aprire i mercati alla concorrenza, con i benefici collettivi che ne conseguono, hanno anche quello di non poter essere facilmente annullate dall'azione dei governi successivi. E anche questa sarà una partita che farà correre qualche rischio agli equilibri politici.

Non sappiamo come verrà giudicato in futuro il governo Monti. Probabilmente, sarà considerato l'artefice di una autentica svolta nella storia del Paese oppure solo un intermezzo, a seconda che esso riesca o meno a fare in modo che i frutti della sua azione non assomiglino alla tela di Penelope, che non si possano archiviare con la stessa rapidità con cui sono nati.

Angelo Panebianco

29 gennaio 2012 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_29/il-passaggio-piu-insidioso-angelo-panebianco_04ecb588-4a49-11e1-bc89-1929970e79ce.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Febbraio 02, 2012, 10:38:36 am »

RITORNO AL SISTEMA PROPORZIONALE?

Le nostalgie fuori luogo


Adesso che la sentenza della Corte costituzionale ha aperto un’autostrada di fronte a coloro che sono interessati a chiudere la stagione maggioritaria iniziata nei primi anni Novanta e a reintrodurre la proporzionale comunque camuffata, diventa tempo di bilanci. Che cosa resta di positivo di quella stagione? Due cose. La legge sulla elezione diretta dei sindaci. E il fatto che gli italiani, sia pure per poco, hanno potuto sperimentare ciò che non avevano mai conosciuto ai tempi della Prima Repubblica e che è la regola in altre democrazie: primi ministri e governi scelti tramite un confronto elettorale aperto fra forze politiche contrapposte anziché tramite giochi parlamentari post-elettorali.

Il sistema non ha funzionato bene? Forse, ma occorre tempo (a volte, qualche generazione) perché le innovazioni vengano davvero assimilate, diventino parte della tradizione politica di un Paese e possano dare il meglio di sé. Non si è concesso alla rivoluzione maggioritaria il tempo necessario perché fosse assimilata. Soprattutto, non si è verificato ciò che i riformatori degli anni Novanta speravano: non c’è stato l’effetto- trascinamento allora auspicato. Non sono seguite (tranne nel caso dei governi locali) quelle trasformazioni istituzionali che avrebbero dovuto accompagnare il cambiamento della legge elettorale: non sono stati toccati i rapporti fra presidenza della Repubblica, governo e Parlamento, e i rispettivi poteri. Abbiamo così accoppiato—provocando gravi disfunzioni — una legge maggioritaria (che carica di una fortissima legittimazione, e di pari aspettative, i governi così eletti) a relazioni fra le suddette tre istituzioni rimaste invariate, più adatte all’epoca precedente, quando i governi, nati da accordi parlamentari, avevano legittimazione debole e precaria.

Ma, si dice, il vero difetto stava nel fatto che con il maggioritario si formavano coalizioni eterogenee e rissose, con grave danno per la governabilità. Approfondiamo questo aspetto. In tutte le democrazie difficili (come è stata e continuerà ad essere la nostra) esistono molti estremisti, persone alla perenne ricerca di una leva per «rovesciare il tavolo ». Ne consegue che nelle democrazie difficili sarà sempre molto nutrito il numero di rappresentanti parlamentari degli estremisti. Che cosa deve farci la democrazia con questi rappresentanti? Nella logica maggioritaria li include, in quella proporzionale li esclude. I proporzionalisti propongono di tornare a un sistema nel quale i rappresentanti degli estremisti siano esclusi dalle combinazioni di governo. La proporzionale, a differenza del maggioritario, lo consente.

A prima vista, sembra ragionevole. Ma c’è un problema. Poiché gli estremisti sono tanti, ne consegue che i partiti moderati non disporranno mai dei numeri necessari per alternarsi al governo, per formare coalizioni elettorali in grado di conquistare la maggioranza dei seggi. Risultato: l’esclusione permanente dei partiti estremisti determina l’impossibilità di alternanze per vie elettorali. Sbarrata quella possibilità, non resta che la formazione dei governi tramite accordi parlamentari tra partiti moderati.

In concreto, significa che qualche partito sarà al governo sempre, quali che siano i risultati delle elezioni, nonché le sue performance governative. E significa che i governi che si formano (attraverso un gioco di inclusioni ed esclusioni dell’una o l’altra frazione moderata) saranno governi a debole legittimazione, privi di quel valore aggiunto che dà a un premier e al suo governo la vittoria elettorale. Inoltre, poiché la punizione degli elettori può essere elusa, i governi avranno vita breve (non ci saranno mai governi di legislatura), continuamente destabilizzati dalle ambizioni personali di questo o quel politico, o gruppo, provvisoriamente escluso dal governo. Così è stato nella Quarta Repubblica francese (1946-1958). Così è stato in Italia (dopo i governi della ricostruzione) fino al 1993. Così è sempre nelle democrazie difficili, gravate da un eccesso di estremisti.

Oltre a una perenne debolezza e instabilità degli esecutivi, con la proporzionale c’è l’inconveniente che i partiti estremisti, sciolti dai vincoli delle coalizioni di governo, dispongono della libertà di manovra necessaria per mietere buoni raccolti elettorali.

Invece, nella logica maggioritaria applicata alle democrazie difficili, gli estremisti vengono inclusi. La ratio è: fanno meno danni se sono dentro. Nelle coalizioni che la logica maggioritaria impone, i partiti estremisti possono essere controllati e, entro certi limiti, responsabilizzati. E non dispongono di sufficiente spazio di manovra per strappare troppi consensi ai moderati. Si può anche sperare che col tempo i bollori si spengano, che molta più gente, grazie al fatto che gli estremisti non sono troppo liberi di spararle grosse, si stanchi di loro scoprendo le virtù della moderazione. Non è sicuro che accada. Ma, almeno, in regime di maggioritario, una speranza c’è. Con la proporzionale, invece, tale possibilità è esclusa. Si tratta di un perfetto brodo di coltura per estremisti liberi dalle costrizioni del governo, l’ambiente più adatto per fare crescere opposizioni irresponsabili.

Ai tempi della proporzionale, esistevano in Italia grandi partiti con un forte insediamento sociale. A differenza di altri, chi scrive non ne è mai stato un estimatore. Resta che quei partiti assicuravano una certa coesione sociale. Come si potrebbe evitare, con il ritorno alla proporzionale, un effetto marmellata, una condizione permanente di confusione e di precarietà, posto che quei partiti radicati di un tempo non sono più ricostituibili? Il futuro sarebbe scritto: instabilità, governi deboli e precari, ampi spazi per opposizioni irresponsabili. Varrà la pena di pensarci se e quando (come sembrano indicare i propositi che la politica sta manifestando) si metterà mano alla riforma elettorale.

Angelo Panebianco

19 gennaio 2012 | 11:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_19/proporzionale-nostalgie-fuori-luogo-panebianco_d1734f18-4247-11e1-9408-1d8705f8e70e.shtml
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