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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160641 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Marzo 21, 2011, 11:32:57 am »

OPERAZIONE «ALBA DELL'ODISSEA»

In questa guerra gli italiani rischiano di più


Abbiamo fatto la cosa giusta, l'unica possibile, aderendo alla «coalizione di volenterosi» impegnati, dietro mandato Onu, a bloccare l'azione di Gheddafi contro i ribelli di Bengasi. E sicuramente faremo bene a partecipare con tutti i nostri mezzi a questa azione internazionale. Non potevamo di certo tirarci indietro. Impedire a Gheddafi di fare un bagno di sangue in Cirenaica è sacrosanto.
Ciò premesso, qualche chiarimento in più lo dobbiamo a noi stessi, al Paese. Perché le guerre, come osservava giustamente Alberto Negri sul Sole 24 Ore di ieri, si sa come cominciano e non si sa come finiscono. E se anche l'opinione pubblica, forse, non lo ha ancora pienamente realizzato, siamo in guerra. In una guerra, per giunta, di cui non sono chiare le finalità e gli sbocchi possibili.

Poiché è noto che i soli bombardamenti sono di rado risolutivi per vincere una guerra, e manca al momento qualsiasi copertura legale internazionale per una azione di terra contro le forze di Gheddafi, sembra evidente che l'impegno occidentale in corso ha un obiettivo di minima e uno di massima: quello di minima è impedire a Gheddafi di sopraffare l'intera Cirenaica. Una azione occidentale «di successo» potrebbe allora sancire la definitiva divisione della Libia in due tronconi. Non possiamo non chiederci se a noi italiani converrebbe un simile esito. L'obiettivo di massima, a quanto si capisce, è infliggere così tanti danni alle forze militari di Gheddafi da spingere le tribù che lo sostengono a «scaricarlo», consentendo così la riunificazione del Paese. Sarebbe un risultato eccellente (un vero, pieno successo della coalizione occidentale) ma è difficile negare che se quello è l'obiettivo, allora si tratta di una scommessa ad altissimo rischio. Cosa faranno in realtà i gruppi che sostengono Gheddafi nessuno oggi può saperlo.

Si tenga poi conto del difficilissimo contesto internazionale: la Russia, dopo essersi astenuta sulla risoluzione 1973, ha ora assunto una posizione duramente ostile all'intervento occidentale. Anche la Cina è ostile ma più cauta. La Lega araba, il cui assenso aveva consentito agli Stati Uniti di rompere infine gli indugi e di passare all'azione, ora critica i bombardamenti ritenendoli al di là degli obiettivi della costituzione di una no-fly zone. Il che riflette il fatto che il mondo arabo è spaccato, diviso fra i nemici di Gheddafi e quelli che, come la Siria, l'Algeria e il Sudan, lo appoggiano.

Il modo in cui il mondo occidentale si è mosso fin dall'inizio in questa vicenda solleva molte perplessità. Obama ha rivelato, con le sue oscillazioni nelle settimane che hanno preceduto l'intervento, una irresolutezza strategica imbarazzante: il leader del mondo occidentale non dovrebbe permetterselo.

L'Europa ha fatto come al solito nei momenti di crisi: è andata in pezzi. La Germania non è il Lussemburgo e il fatto che si sia tirata fuori chiarisce definitivamente che l'Europa non dispone di una leadership all'altezza della gravità delle sfide. Anzi, non dispone di una leadership, punto. La Francia ha fatto il suo gioco: la Grandeur ha sempre un certo fascino per i francesi e Sarkozy aveva bisogno di riprendersi un po' della popolarità perduta. Ieri in Francia si sono tenute delle importanti elezioni cantonali (quando si dice le coincidenze), un test cruciale in attesa delle prossime presidenziali. Fare la guerra per spingere i concittadini a stringersi around the flag (intorno alla bandiera) è uno stratagemma classico della più classica realpolitik. La causa è nobile (salvare uomini dallo sterminio) e inoltre, il che non guasta, in Libia c'è la prospettiva di un grosso «bottino»: chi farà i migliori affari con gli insorti a guerra conclusa? Per la Francia, come per la Gran Bretagna, i rischi di guerra sono più che compensati dai possibili guadagni. L'Italia, invece, è in tutt'altra situazione. Noi siamo quelli che rischiano di più. Non solo economicamente ma anche fisicamente. Siamo il Paese più vicino e il più esposto alle ritorsioni. Per carità di patria sorvoliamo sulle contorsioni fatte in questi giorni dal nostro governo (e speriamo anche che rientri il dissenso, che non conviene a nessuno, della Lega). Limitiamoci a riconoscere che noi avevamo, e abbiamo, obiettivamente, fra gli occidentali, la posizione in assoluto più difficile. Il calcolo costi/benefici è diverso per l'Italia e per la Francia. Il che obbliga anche chi, come chi scrive, è favorevole alla nostra presenza nel conflitto, a guardare comunque con rispetto alle perplessità, tutt'altro che campate in aria, di alcuni esponenti politici (come quelle espresse dal sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano sul Corriere di ieri).

Noi italiani non siamo abituati a pensare alla politica internazionale in termini realistici. Non è passato in fondo troppo tempo da quando più di metà degli italiani stava sempre con gli americani a prescindere e i restanti italiani con i sovietici, sempre a prescindere. Siamo impreparati a un gioco in cui dobbiamo bilanciare solidarietà con gli alleati, perseguimento, quando è possibile, di «buone cause» e attenzione ai nostri interessi. Lo fanno gli altri, dobbiamo farlo anche noi. È una caratteristica di tutte le coalizioni di guerra: gli alleati hanno una causa comune ma anche interessi non coincidenti. Mentre a francesi e inglesi importa ridimensionare la nostra presenza in Libia noi abbiamo l'interesse opposto.

Dovremmo, in primo luogo, impegnarci fin da subito, a guerra ancora in corso, in un piano di ricostruzione della Libia. Su questo terreno, grazie ai nostri storici rapporti con quel Paese, abbiamo un possibile vantaggio rispetto agli alleati e dovremmo sfruttarlo al massimo. Abbiamo bisogno di riprendere l'iniziativa e siamo certamente in grado di farlo più nell'ambito economico-civile che in quello strettamente militare (ove il nostro apporto non potrà essere determinante).

Dovremmo, in secondo luogo, dimostrare al nostro Paese che la classe dirigente, di governo e di opposizione, è all'altezza della sfida che abbiamo di fronte. L'importanza della vicenda libica è tale che si rende necessario un dibattito parlamentare in cui maggioranza e opposizione spieghino agli italiani i tanti risvolti (sul piano militare, sul piano economico, su quello delle minacce terroristiche, su quello relativo agli sbarchi dei profughi) che ha per noi la guerra libica e mostrino, per una volta, la più ampia concordia di intenti possibile di fronte a una così grave crisi.

Abbiamo appena festeggiato i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia. Dimostriamo che non era solo retorica, che non siamo sempre divisi, come per lo più diamo l'impressione di essere, in tante «patrie» (non solo la Padania ma anche la destra, la sinistra, eccetera) che hanno in comune solo il livore reciproco, che siamo capaci, in un gravissimo frangente, di convergere intorno ai nostri più vitali interessi nazionali. Se non ora, quando?

Angelo Panebianco

21 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #121 inserito:: Aprile 03, 2011, 10:44:30 am »

MAI COSI' DIVISI IN GUERRA

Il commento

Nazionalismi di ritorno

La guerra libica ha messo a nudo la grave crisi in cui versa il mondo occidentale, la comunità euro-atlantica. Come già accadde nel 2003, all'epoca dell'invasione dell'Iraq, le due forze che hanno sempre dato coesione al mondo occidentale, ossia la credibilità della leadership americana e la solidarietà infra-europea, vacillano paurosamente. Ma oggi la situazione è persino più grave del 2003 perché, per gli effetti prodotti dalla crisi economica, l'America è molto più debole di allora e perché nel frattempo i rapporti fra gli Stati europei (dalla bocciatura del trattato costituzionale del 2005 alle disavventure dell'euro) si sono progressivamente deteriorati. E ora è sopraggiunta la crisi libica ad incattivire ulteriormente gli animi. È sperabile che a crisi conclusa si possano ristabilire in Europa le relazioni di un tempo. Ma non sarà facile.

C'è stata un'epoca in cui alcuni, di orientamento antiamericano, coltivavano l'illusione di un'Unione Europea capace di sbarazzarsi, grazie ai progressi dell'integrazione, del rapporto con gli Stati Uniti, di cominciare a muoversi sulla scena internazionale in modo indipendente e anche, eventualmente, in opposizione all'America. Era un'illusione. La comunità euro-atlantica (lo storico legame fra Europa e America) e l'integrazione europea, direbbe un giurista, simul stabunt vel simul cadent, sono legati a corda doppia, staranno o cadranno insieme. È grazie ai legami con l'America che l'integrazione europea è nata e si è sviluppata. Sembra plausibile che un indebolimento o una disarticolazione di quei legami non preluda a chissà quali traguardi dell'integrazione dell'Europa ma al suo declino.
La comunità euro-atlantica vacilla perché vacilla la leadership americana. Come hanno mostrato le oscillazioni dell'Amministrazione Obama, la sua incapacità di darsi un riconoscibile disegno strategico, a fronte delle rivoluzioni arabe. E come si è visto nella crisi libica. Le stesse tensioni fra i Paesi europei sono favorite, o esasperate, dal deficit di leadership americana. Ciò non dipende solo dalle personali indecisioni di Barack Obama. Esse ci sono ma non fanno altro che aggravare una crisi di credibilità dell'America che ha l'origine nel suo indebolimento politico complessivo. Poiché era il vigore di quella leadership il collante del blocco euro-occidentale, il suo appannamento ha riflessi destabilizzanti che acuiscono i problemi legati ai contenziosi infra-europei.

È inutile negarlo. Un'Italia lasciata fin qui sola dall'Europa a vedersela con gli sbarchi e, in più, con il sospetto che il vero scopo dell'impresa sia accrescere l'influenza anglo-francese in Libia a scapito dell'Italia, può lasciare strascichi pesanti, può influenzare l'opinione pubblica italiana rendendo in futuro meno europeista il Paese che, storicamente, lo è stato più di altri. L'intervista rilasciata ieri dal primo ministro francese François Fillon al Corriere è un prezioso passo distensivo. Ma occorrerà molta buona volontà da entrambe le parti per riportare alla normalità i rapporti fra Italia e Francia. Il tutto mentre la Germania, con la sua scelta di tirarsi fuori (e di cercare altrove, nel rapporto con le potenze emergenti, Cina, Russia, Brasile, nuove sponde politiche), chiarisce che l'Europa è politicamente acefala, senza un vero leader disponibile a fare la sua parte.

Ma, si potrebbe obiettare, questa è solo una faccia della medaglia. L'altra faccia è che una compattezza europea, e anche una leadership tedesca, ci sono e si manifestano su un diverso terreno, quello della governance economica dell'Europa. L'intesa raggiunta dal Consiglio europeo del 24-25 marzo, la riscrittura delle regole del «Patto di stabilità e di crescita» non segnano forse un salto di qualità proprio sul piano cruciale della governance e non annunciano progressi in tema di integrazione dei mercati? A parte il fatto che le sconfitte elettorali subite dal partito di Angela Merkel, e il suo oggettivo indebolimento, gettano ombre sulle reali possibilità di attuazione dell'intesa, le due cose possono benissimo, almeno per un certo periodo, andare insieme: si puntella l'euro, si impongono controlli più stringenti sulle finanze dei Paesi europei, si accresce il coordinamento politico-economico, mentre, su altri versanti, dove sono in gioco altre questioni (rifornimenti energetici e non solo), i rapporti politici si deteriorano, avvelenati dai sospetti e dalle polemiche. Alla lunga, le due tendenze finirebbero per entrare in rotta di collisione ma nel breve periodo possono anche coesistere.
Il ritorno del nazionalismo, un processo che era già in atto da tempo, che spinge alla competizione i Paesi europei, non è ovviamente una buona notizia in generale ed è pessima per l'Italia. Tenuto conto del fatto che l'Italia, alle prese con i suoi soliti problemi interni, è incapace di darsi compattezza a sostegno dei propri interessi nazionali. Il modo in cui ci siamo divisi sulla vicenda libica ne è solo (ma in un contesto particolarmente grave) l'ennesima conferma.

Riassumendo, la perdita di credibilità della leadership americana indebolisce la comunità euro-atlantica ed esaspera le divisioni fra i Paesi europei. L'indebolimento della solidarietà entro l'Unione, a sua volta, spinge gli Stati europei - alcuni (Francia, Gran Bretagna) con una baldanza che viene dalle loro tradizioni storiche, altri di malavoglia - a ripercorrere le antiche strade delle «politiche nazionali». Si tratta, nell'età ormai dominata da mega-potenze globali, solo di un'illusione, di un vicolo cieco? Nel medio-lungo termine, certamente. Nel breve periodo, è la strada che gli europei meglio conoscono (grazie al proprio passato), la sola che sanno percorrere quando cadono, una dopo l'altra, tutte le altre illusioni.

Una conclusione rapida e positiva della vicenda libica (con l'uscita di scena di Gheddafi), benché difficile da ottenere, migliorerebbe forse il clima europeo. In ogni caso, è da augurarsi che americani ed europei, magari spinti a ciò proprio dalle rivoluzioni arabe, si siedano prima o poi intorno a un tavolo per capire se sia possibile ridare slancio a una sfibrata comunità euro-atlantica. Senza la quale, nemmeno l'integrazione europea sembra destinata a un grande futuro.

Angelo Panebianco

03 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #122 inserito:: Aprile 09, 2011, 10:32:09 pm »

POCHI LEADER, TROPPI NOTABILI

La politica delle tribù

Come è naturale, l'opinione pubblica è oggi colpita soprattutto dalla ferocia degli scontri fra maggioranza e opposizione, si tratti di processo breve o di sbarchi di clandestini. L'attenzione è calamitata dalla radicalizzazione del conflitto politico, dalla sua acuta intensificazione, anche emotiva. Si perde di vista il fatto che c'è anche un altro processo assai rilevante in corso. È più silenzioso, meno spettacolare ma, forse, persino più preoccupante. Riguarda la decomposizione delle forze politiche esistenti.

Era già da tempo frantumato lo schieramento di sinistra e non ci sono lì prospettive di ricomposizione. La novità è la disarticolazione in corso nel Pdl, la formazione dominante del centrodestra. Lo strappo di Gianfranco Fini è stato solo l'inizio. Oggi, se si guarda al Pdl, si vede che è tutto un fiorire di raggruppamenti autonomi (da Scajola a Micciché ad altri) di variabile e mutevole consistenza. Il processo centrifugo non risparmia il livello locale: in vista delle elezioni amministrative, in molte situazioni, proliferano i candidati-sindaci di centrodestra in lotta fra loro. La crisi investe il centro come la periferia.

La classe politica, a destra e a sinistra, sembra disintegrarsi in una miriade di piccoli potentati autonomi. Questo sfarinamento pone ipoteche pesanti, forse più pesanti della stessa radicalizzazione, sul futuro della democrazia italiana, ne compromette, nel medio termine, la governabilità.

La frammentazione ha una spiegazione relativamente semplice anche se, purtroppo, non ci sono, per contrastarla, rimedi altrettanto semplici.
Bisogna, per capire, risalire all'epoca della distruzione dei partiti «storici», ai tempi delle inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta. Si dissolsero allora formazioni politiche che avevano una lunghissima storia alle spalle e un antico radicamento nel Paese. Era la premessa di una permanente frammentazione del sistema partitico. In sintesi: se non ci sono i partiti, sostituiti da fragili contenitori elettorali, si torna, con gli aggiornamenti del caso, alla politica dei notabili dell'Italia pre-fascista o della Terza Repubblica francese.
Ad attutire e a mascherare il fenomeno intervennero allora la legge elettorale maggioritaria e, soprattutto, l'ingresso in politica di Silvio Berlusconi nel 1994. Spaccando in due il Paese, e creando una grande formazione (un grande contenitore elettorale) di centrodestra, Berlusconi impedì che la fine del vecchio sistema partitico dispiegasse tutti i suoi effetti. Era la sua forte leadership, la sua fama di invincibile macchina da guerra elettorale, a garantire la tenuta e la relativa coesione del contenitore. Adesso che quella leadership vacilla e che molti, a torto o a ragione, pensano che essa sia entrata nella fase declinante, la perdita di coesione non può più essere fermata. Il notabilato che Berlusconi aveva raccolto intorno a sé è costretto a rimettersi in gioco, deve andare alla ricerca delle vie migliori per assicurarsi la sopravvivenza politica.

Senza attribuire virtù taumaturgiche alle sole leggi elettorali, va detto che il sistema oggi in vigore, per come è congegnato, non serve per disincentivare lo sfarinamento politico. Non si sfugge al circolo vizioso: un accordo fra le principali forze politiche per interventi anti-frammentazione (come una nuova legge elettorale) sarebbe necessario, ma quelle forze politiche sono ormai troppo frammentate per poterlo stipulare.

Angelo Panebianco

09 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_09/
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« Risposta #123 inserito:: Aprile 17, 2011, 05:05:01 pm »

PERCHE' SIAMO COSI' DIVISI


Le Ragioni degli Altri

Ha ragione Michele Salvati quando osserva, sul Corriere di ieri, che berlusconiani e antiberlusconiani sono come nazioni nemiche e ferocemente ostili. Ma, forse, la malattia è assai più diffusa di quanto lui non pensi. Non riguarda solo i rapporti fra i politici.
Temo coinvolga, da una parte e dall'altra, una grande quantità di italiani. Per questo, a differenza di Salvati, non penso che possa essere efficace quella riscrittura delle regole che Walter Veltroni e Giuseppe Pisanu (Corriere, 15 aprile) vorrebbero affidare a un improbabile governo di emergenza. Il problema italiano sta al di là (o al di qua) delle regole. Consiste in un livello di inimicizia fra le fazioni superiore a quello che si riscontra normalmente nelle democrazie. Qualcosa che non si cura con nuove regole.

Credo si illudano quelli che pensano che quando uscirà di scena Berlusconi il livello di inimicizia che corrode la nostra vita pubblica crollerà. Non crollerà, resterà intatto l'antagonismo di fondo che coinvolge una parte cospicua degli italiani. Che cosa pensano gli elettori di sinistra di quelli di destra? Ascoltatene le conversazioni: pensano, per lo più, che gli elettori di destra siano degli stupidi (rincretiniti dalle reti Mediaset) oppure dei corrotti. Gli elettori di destra, a loro volta, ritengono che quelli di sinistra appartengano essenzialmente a due categorie, entrambe spregevoli: o sono in evidente malafede o sono dei sempliciotti aizzati da demagoghi senza scrupoli. Nessuna delle due parti è disposta ad ammettere che «gli altri», forse, hanno, oltre che interessi, anche valori diversi dai propri. Ciascuna contrappone i propri valori ai «disvalori» altrui. Il disprezzo è reciproco.

Anche se non ci sono ricerche che lo comprovino sospetto fortemente che gli italiani di destra e quelli di sinistra tendano a frequentarsi assai poco fra loro. Un indizio sta nel fatto che i matrimoni misti (fra esponenti della destra e della sinistra) «fanno notizia». Ciascuno sta rinserrato nella sua parrocchia, parla quasi esclusivamente con quelli della sua parte politica. Il livello di inimicizia, e di disistima reciproca, spinge alla non frequentazione e la non frequentazione, a sua volta, rafforza pregiudizi e ostilità.

Eppure, persino nel caso italiano, così frastagliato e frammentato, sarebbe possibile riconoscere, per chi fosse disposto a osservare le cose con un minimo di obiettività, le stesse divisioni valoriali che sono presenti in tante altre democrazie. Se destra e sinistra significano qualcosa, infatti, esse indicano posizioni diverse su due problemi: le libertà economiche e i diritti civili. Quanto al tema economico, la destra predilige normalmente la libertà rispetto alla eguaglianza e la sinistra l'eguaglianza rispetto alla libertà: la destra è, in materia economica, più «liberale» e la sinistra più «socialista». In tema di diritti civili, invece, le parti si invertono: la sinistra è più «libertaria» (si tratti di matrimoni fra omosessuali o di concessioni di diritti agli immigrati) e la destra è più «tradizionalista». Questa divisione fra una destra liberale e tradizionalista e una sinistra socialista e libertaria la si ritrova ovunque nel mondo occidentale. Variamente declinata a seconda delle specificità storiche di ciascun Paese.

Nel caso italiano non c'è dubbio che il grosso degli elettori di Berlusconi si sia riconosciuto in lui proprio perché lo ha percepito come il campione di quella configurazione valoriale convenzionalmente definita «destra». Così come gran parte degli elettori della sinistra vota in quel modo perché si riconosce in una diversa, e opposta, configurazione valoriale. Ma se le cose stanno così, perché allora la (naturale, normale) ostilità per i leader dello schieramento avverso non si accompagna mai al riconoscimento che gli elettori dell'altra parte non sono sciocchi o, peggio, esseri spregevoli ma persone con valori diversi dai propri? Le ragioni affondano nel nostro passato e spetta agli storici ricostruirle. Il feroce conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani è solo un episodio di una lunghissima storia di «non riconoscimento» reciproco, di negazione all'altro di ciò che si riconosce a se stessi (essere cioè portatori di valori opinabili ma legittimi) e, probabilmente, non sarà l'ultimo.

Se traduciamo tutto ciò sul piano delle «regole», arriviamo alla triste conclusione che non esistano regole che possano guarire la malattia. Il bipolarismo funziona male a causa di un eccesso di inimicizia. Ma se abbandoniamo il bipolarismo e torniamo ai vecchi metodi della proporzionale e dei governi «centristi», non miglioreremo le cose: la democrazia sarà ancora una volta inefficiente per l'immobilismo, per l'assenza di alternanza, e per il fatto di relegare le estreme nel ghetto antisistema. Una democrazia nella quale nessuno è disposto a riconoscere le ragioni dell'altro è condannata comunque all'instabilità e all'inefficienza. Su questo bisognerebbe lavorare prima di pensare alle regole.

Angelo Panebianco

17 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #124 inserito:: Aprile 23, 2011, 06:22:27 pm »

L'ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE

L'omaggio alla libertà


Una costituzione è fatta di principi e di regole che devono dare corpo ai quei principi. La dimensione simbolica di una carta costituzionale non è meno importante delle sue regole operative.

La questione dell'articolo 1 della Costituzione è tornata ora alla ribalta per l'iniziativa di un deputato del Pdl, Remigio Ceroni, che ne ha proposto una radicale revisione. L'iniziativa è figlia della situazione di conflitto politico feroce che stiamo oggi vivendo e seguirà, presumibilmente, la sorte di altre prese di posizione legate al clima del momento: finirà fortunatamente nel dimenticatoio.

Resterà però, al di là delle vicende contingenti, il problema rappresentato dalla formulazione del primo comma dell'articolo 1 il quale, come è noto, recita: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». All'Assemblea costituente due esponenti della cultura politica liberale, Ugo La Malfa e Gaetano Martino, avevano proposto una diversa versione che richiamava i «diritti di libertà» come primo fondamento della Repubblica. Ma la maggioranza (democristiani, socialisti e comunisti) scelse diversamente. Come ha ricordato Michele Ainis nel suo editoriale di ieri sul Corriere, la proposta di sostituire la parola «lavoro» con la parola «libertà» ritorna periodicamente. È stata avanzata formalmente qualche anno fa dai radicali e spesso rilanciata da altri uomini di cultura liberale, come Mario Segni o Renato Brunetta.

Ainis afferma che sarebbe superfluo un simile intervento dal momento che la libertà, secondo lui, già albergherebbe, «come noce nel mallo», nella democrazia evocata nello stesso articolo 1. Dissento da Ainis e spiego perché. La libertà degli individui (e non, come scrive Ainis, del «popolo» che è soltanto una astrazione) non è affatto già contenuta nella parola democrazia. Questa assimilazione non funziona né dal punto di vista concettuale né da quello storico ed empirico. Sul piano concettuale, democrazia e libertà sono cose diverse (hanno anche una origine storica diversa). Tanto è vero che quando usiamo, per brevità, la parola «democrazia» siamo quasi sempre costretti a precisare che ci stiamo riferendo a una sua particolare versione, quella liberale appunto, la liberaldemocrazia, la versione che combina democrazia e libertà e non ad altre forme di democrazia (popolare, consigliare, eccetera). Né l'assimilazione regge sul piano empirico. Non solo è perfettamente concepibile una democrazia illiberale ma, per giunta, ne esistono in giro molti esemplari: l'attuale Federazione Russa è un esempio.

Ecco perché non si dà alcuna ridondanza se la Repubblica democratica viene fondata sulla libertà anziché sul lavoro. Ma non sono quisquilie, dirà qualcuno? Non abbiamo problemi più seri di cui occuparci? Se la dimensione simbolica di una costituzione è importante, allora quisquilie non sono. I liberali di questo Paese hanno sempre vissuto con grande disagio e come prova del proprio stato di esigua minoranza, il fatto che la nostra carta d'identità collettiva, anziché con un omaggio alla libertà, si aprisse con una formulazione che rivelava la lontananza di tanti membri della Assemblea costituente dai principi della tradizione liberale.

Viste le numerose conversioni (verbali) al liberalismo a cui abbiamo assistito dopo la caduta del comunismo forse sarà il caso, quando se ne troverà il tempo, di porre termine a quel disagio.

Angelo Panebianco

22 aprile 2011(ultima modifica: 23 aprile 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #125 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:49:44 am »

DOPO LE AMMINISTRATIVE

Distanti e divisi, i nodi del centrodestra

Difficilmente Bossi romperà l'alleanza col premier

Vorrà ricontrattarla e Berlusconi ha poco tempo


Cosa prefigurano per il futuro politico del Paese il terremoto milanese e, più in generale, i risultati di questa tornata amministrativa? L'unica cosa che possiamo prevedere con un discreto grado di sicurezza è quale sarà, per effetto di questi risultati, la configurazione del centrosinistra alle prossime elezioni politiche. Invece, è buio pesto per quanto riguarda l'altro versante dello schieramento: il centrodestra. Possiamo dire che a sinistra c'è stato un chiarimento, le incertezze strategiche che hanno condizionato l'azione del Partito democratico negli ultimi mesi si sono dissolte, sono state spazzate via dai «fatti», ossia dai numeri.

Queste elezioni amministrative hanno archiviato il progetto - da sempre attribuito a Massimo D'Alema - che prevedeva una alleanza fra Partito democratico e il cosiddetto Terzo polo di Pier Ferdinando Casini e l'emarginazione delle Estreme (Di Pietro e forse anche Vendola). I successi dei candidati delle Estreme (ma anche del movimento di Grillo) e la mancata affermazione elettorale del cosiddetto Terzo polo chiudono la partita.

Il centrosinistra si presenterà alle prossime elezioni con una coalizione in cui le Estreme esigeranno, e otterranno, un ruolo di comprimari, una coalizione il cui asse sarà nettamente spostato a sinistra. Professionisti di lungo corso quali sono quelli del Pd sanno, naturalmente, che una coalizione del genere correrà grossi rischi, sanno che un tale profilo sarà comunque poco congruente con gli orientamenti di fondo del Paese, sanno che potrebbe ripetersi lo scenario dei primi Anni Novanta (vittoria nelle amministrative del '93, sconfitta nelle politiche del '94). Ma sanno anche che c'è, rispetto ad allora, una fondamentale differenza: è data dal fatto che per Berlusconi si avvicina, verosimilmente, il momento della conclusione della sua avventura politica, e ciò può gettare nel marasma il centrodestra.

Una coalizione «di sinistra», anziché di centrosinistra, non vincerebbe mai contro un centrodestra forte ma potrebbe vincere (e persino con una certa facilità) contro un centrodestra demoralizzato, privo di un leader trainante, e dilaniato dalle divisioni.

Nella sconfitta del centrodestra (che diventerebbe disfatta totale se la Moratti, come a questo punto è possibile, perdesse al secondo turno) c'è qualcosa persino di più grave del referendum su se stesso platealmente perduto da Berlusconi proprio a casa sua: c'è una perdita di contatto con la realtà, con gli umori e con le vere aspettative dell'elettorato. In genere, è proprio ciò che accade ai leader e alle classi dirigenti in declino. Giuliano Ferrara ha ragione quando dice che la campagna elettorale del centrodestra è stata un colossale errore dall'inizio alla fine. E nulla lo illustra meglio del caso di Milano. È normale che l'opposizione cerchi di politicizzare il voto comunale ma non è normale che lo facciano le forze che hanno governato la città: a queste ultime serve invece, per lo più, enfatizzare la dimensione amministrativa, valorizzare i risultati che l'amministrazione comunale ritiene di avere raggiunto: anche perché, tolta una fascia di votanti «ideologici» (che votano a destra o a sinistra a prescindere), ci sono poi sempre molti elettori che non dimenticano la posta in gioco, ossia la qualità della «loro» vita nella «loro» città.

Avendo perso il contatto con la realtà, Berlusconi ha imposto una politicizzazione del voto milanese che non ha giovato al sindaco uscente. Adesso ha poche alternative: se tenta solo di sopravvivere navigando a vista non sopravviverà. Né sopravviverà il centrodestra. Egli deve, in accordo con Tremonti, fare ciò che è lecito aspettarsi da un governo di centrodestra: dare una vera sferzata pro-crescita all'economia, liberare gli ingessati «spiriti animali» del capitalismo italiano, venire incontro alle domande dei ceti medi indipendenti, affrontare, con misure straordinarie, il nodo e il blocco dell'economia meridionale. E deve inoltre decidersi a preparare seriamente e con cura la propria successione. Si ritiene, in genere, che una formazione politica non possa sopravvivere all'uscita di scena del capo carismatico che l'ha creata. È vero spesso ma non sempre. Spetta a Berlusconi operare perché la dissoluzione del centrodestra, altrimenti inevitabile, non si compia nel giro di pochi anni o pochi mesi.

Poi ci sono i riflessi sul rapporto fra Pdl e Lega. Se le incertezze strategiche del Pd sono state spazzate via dai risultati del voto, quegli stessi risultati aprono una fase di incertezza strategica per Bossi. Difficilmente egli romperà l'alleanza con Berlusconi: dove potrebbe andare? Ma è certo che vorrà ricontrattarla. Berlusconi ha di fronte a sé poco tempo e moltissime cose da fare.

Angelo Panebianco

18 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_18/
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« Risposta #126 inserito:: Maggio 28, 2011, 11:07:36 am »

UNA LEADERSHIP IN DIFFICOLTA'

Il commento

Anatomia di un declino

C'è una parte del suo tradizionale elettorato che non crede più in Berlusconi. Non è che si sia spostato a sinistra. Non lo ha fatto. Nemmeno si è spostato sulla Lega. Ha semplicemente smesso di votare Berlusconi. Perché? I guai giudiziari del premier ne hanno certamente logorato l'immagine ma non credo sia questa la ragione principale del distacco. Non si trovano spiegazioni plausibili se ci si limita a cercarle in superficie, nelle contrapposte propagande: «di qua la libertà, di là il comunismo» come dice la destra; «di qua la vera democrazia, di là la destra eversiva e populista» come replica la sinistra. Sono argomenti buoni per comizi e articoli di editorialisti-militanti un po' esagitati, e utili per soddisfare pubblici «propaganda-dipendenti». Ma non spiegano nulla. La vera ragione sta nel fatto che quella parte di elettorato che aveva votato Berlusconi contro la «società corporativa», sperando che egli la smantellasse (o, quanto meno, la indebolisse fortemente) ha constatato che ciò non è avvenuto e ora si è stancata, non crede più alle sue promesse.

Sfruttando il vuoto di potere che si era creato nei primi anni Novanta e le nuove regole del gioco (maggioritarie) Berlusconi mise in piedi, fin dal suo ingresso in politica nel 1994, una coalizione sociale fortemente eterogenea (più eterogenea di quella della sinistra). Usò il linguaggio «liberale» dell'appello al mercato, della riduzione del peso della politica, della de-regolamentazione, per attirare a sé quella parte di elettorato, prevalentemente (ma non solo) del Nord, interessato alla competitività, alla riduzione del peso della politica nella vita associata, allo smantellamento dei mercati chiusi, protetti e iper-regolati da uno Stato inefficiente, costoso e sprecone. Ma, per vincere, Berlusconi dovette anche inglobare ampie porzioni di elettorato più interessato alla difesa dell'esistente che a radicali cambiamenti. I suoi successi, da allora in poi, sono dipesi dalla capacità di stare in equilibrio fra due mondi contrapposti, portatori di domande incompatibili. È stato un eccezionale esercizio di leadership tenere insieme per tanto tempo una coalizione siffatta. Ma non poteva durare in eterno.

Non che non ci siano state anche cose buone (dal punto di vista della modernizzazione del Paese) fatte dai governi Berlusconi. Per esempio, se non fosse per la faziosità che acceca tanti professori, essi dovrebbero riconoscere che la riforma universitaria Gelmini, pur con i compromessi che sono stati necessari per vararla, è decisamente migliore delle pessime riforme fatte in passato dalla sinistra. Stante che il miglioramento del capitale umano è essenziale allo sviluppo, si capisce anche perché è meglio, in genere, che scuola e università siano in mano alla destra (sempre che essa sia capace, come è stato questo il caso, di scegliere un buon ministro) piuttosto che alla sinistra: a differenza della sinistra, la destra non è «ostaggio» delle corporazioni che dominano il settore dell'istruzione (capaci solo di protestare per i «tagli» mettendo la sordina sulle proprie inefficienze), è più libera di agire. È probabilmente la stessa ragione per cui Roberto Maroni, esponente di un partito privo di legami clientelari con il Sud, è risultato un ministro degli Interni più efficiente di altri nella lotta contro la criminalità organizzata.

Ma ammesso che alcune cose buone sono state fatte (anche in altri campi, come quello del mercato del lavoro), resta che non sono state rimosse le fondamentali cause del declino. La società corporativa è ancora viva e vegeta, continuano ad esistere inespugnabili mercati protetti, fonti di tanti sprechi e inefficienze, i piccoli e medi produttori continuano a subire vessazioni burocratiche, il peso dell'intermediazione politica non è stato minimamente scalfito.

Certo, c'è stata la crisi e nessuno può togliere a Giulio Tremonti il grandissimo merito di avere impedito all'Italia di fare la fine della Grecia. E, certo, la riduzione drastica delle tasse da sempre promessa da Berlusconi non poteva esserci con questi chiari di luna. Ma l'elettore che si sta staccando dal premier constata che molte altre cose potevano essere fatte e non lo sono state. Privatizzare e liberalizzare sarebbero state cose possibili in questi anni senza intaccare la giusta linea tremontiana del rigore. Oggi la società sarebbe molto più «libera» e le energie liberate sarebbero una preziosa e potente risorsa per rilanciare la crescita. Sfortunatamente una politica siffatta, stante l'eterogeneità della coalizione sociale del centrodestra, sarebbe venuta incontro alle domande di una parte dell'elettorato ma ne avrebbe anche antagonizzata un'altra parte. Quando il ministro Renato Brunetta (sul Foglio di ieri) espone un complesso progetto - che egli dice già approvato dal Pdl - teso a rimettere in moto lo sviluppo, è impossibile non domandarsi perché quelle cose non siano già state fatte da tempo (e non basta riferirsi alla scissione finiana per spiegarlo). Non è ormai un po' tardi per annunci e promesse?

Gli antiberlusconiani per principio pensano che gli elettori delusi da Berlusconi avessero sbagliato a sceglierlo fin dall'inizio. Ma cos'altro avrebbero potuto fare? Rivolgersi alla sinistra? Ma quegli elettori sanno che la base sociale prevalente della sinistra è data dalle corporazioni del pubblico impiego, un mondo incompatibile con le loro aspirazioni.

Per inciso, è in questa prospettiva che si comprende anche perché la Lega non riesca a sfondare nelle grandi città del Nord a spese del Pdl e anzi mostri segni di arretramento. La Lega esprime un attaccamento al ruolo della intermediazione politica altrettanto forte di quello della sinistra. Non può intercettare i delusi da Berlusconi.

La verità è che se il problema italiano si riduce alla gestione della società corporativa allora la sinistra è più adatta allo scopo rispetto alla destra (alla destra berlusconiana per lo meno). Può farlo con più sapienza. Il premier si era presentato come l'uomo «del fare». Paga il prezzo di ciò che non ha fatto.

Angelo Panebianco

28 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #127 inserito:: Giugno 06, 2011, 10:47:11 am »

Se tramonta il bipolarismo

L'opinione generale secondo cui gli equilibri del sistema politico italiano stiano per cambiare radicalmente sembra fondata. L'incognita è se ciò avverrà nel giro di qualche mese oppure di un paio d'anni: quanti ne mancano alla conclusione naturale della legislatura. Gli equilibri della cosiddetta Seconda Repubblica si sono retti sulla presenza di Silvio Berlusconi.

Il bipolarismo italiano era, ed è tuttora, un bipolarismo personalizzato, fondato sulla contrapposizione fra i sostenitori e i nemici di Berlusconi. Quando l'attuale premier uscirà di scena quegli equilibri salteranno. Ci sono due possibilità. La prima consiste nel passaggio dal bipolarismo personalizzato a un bipolarismo «impersonale» o istituzionalizzato: la contrapposizione non sarebbe più fra amici e nemici di Berlusconi ma fra una destra post berlusconiana e la sinistra. Naturalmente, emergerebbero, a destra come a sinistra, nuovi leader e entrambe le coalizioni dovrebbero rinnovare profondamente la propria «ragione sociale». Ma non ci sarebbe più «un uomo solo al comando»: alla leadership carismatica subentrerebbero leadership più oligarchiche, più collegiali. Non solo a sinistra, dove è sempre stato così, ma anche a destra.

La seconda possibilità è la fine del bipolarismo: partiti che ottengono mandati in bianco alle elezioni, governi che si formano e si disfano in Parlamento senza alcun bisogno di chiedere il permesso agli elettori. Per alcuni questo sarebbe un ritorno ai veri e sani principi della democrazia parlamentare, per altri (compreso chi scrive) sarebbe invece la riproposizione di antichi riti trasformisti.

Non credo che esista la terza possibilità auspicata in questi giorni da Giuliano Ferrara: un Berlusconi di colpo ringiovanito che riprenda con nuova verve le idee e i progetti del 1994, rivitalizzando così la propria leadership e la propria organizzazione politica.
Il tempo è impietoso con tutti. Si tratta di vedere «come» Berlusconi deciderà di lasciare la scena politica. Lo farà preparando sul serio la successione oppure dovremo fra poco constatare che le mosse recenti, da Alfano segretario alle ventilate primarie, sono state fatte solo per guadagnare tempo? Se, come credo, l'alternativa che ci aspetta è fra un bipolarismo istituzionalizzato e il trasformismo parlamentare, allora Berlusconi preparerà davvero la propria successione salvando anche il Popolo della Libertà (senza il quale non è nemmeno concepibile il centrodestra) se, e solo se, lavorerà per consolidare il bipolarismo.

Nei momenti di passaggio da un equilibrio all'altro, secondo tradizione, viene organizzata dalla politica una grande festa da ballo «a tema»: il tema è sempre la legge elettorale. Qualcuno ne parla già apertamente e altri no ma tutti coloro che fanno professionalmente politica sanno che la riforma della legge elettorale è tornata di attualità. Se guardiamo alle dinamiche in atto e alle forze in campo, dobbiamo concludere che l'esito più probabile sia un ritorno alla proporzionale: basta eliminare il premio di maggioranza e il gioco è fatto. Poiché ciò a cui guardano gli attori politici è il proprio interesse di brevissimo termine (la politica è un'attività molto incerta, non consente di ampliare troppo l'orizzonte temporale, di fare calcoli che vadano al di là del breve periodo), il ritorno alla proporzionale, in questo momento, sembra convenire a (quasi) tutti. Quella scelta spalancherebbe le porte al secondo scenario qui ipotizzato: la fine del bipolarismo, la rinascita del trasformismo parlamentare.

Quella scelta avrebbe due controindicazioni. La prima riguarda il futuro della democrazia italiana. Per le ragioni dette, ciò può preoccupare più noi cittadini che i politici. Non esistendo più i forti e radicati partiti della Prima Repubblica, con la proporzionale si assisterebbe al trionfo di un notabilato politico impegnato a fare e disfare alleanze parlamentari: instabilità e ingovernabilità diventerebbero endemiche. La seconda controindicazione riguarda il Popolo della Libertà. La fine del bipolarismo e il ritorno alla proporzionale ne decreterebbero la dissoluzione.

Si illudono coloro che in quel partito pensano che con la proporzionale potrebbero comunque godere di un bella rendita elettorale.
Non esistono partiti per tutte le stagioni. Ricordate come finì la Dc di Mino Martinazzoli?
Si illuse di poter sopravvivere al passaggio dalla proporzionale al maggioritario. Una volta effettuato il passaggio, il partito si dissolse. Il Pdl è nato con il bipolarismo e ne ha bisogno per continuare a esistere. Il suo interesse è che il sistema bipolare sopravviva. Per questo serve al Pdl una riforma elettorale maggioritaria, non proporzionale. In quella direzione dovrebbe muoversi Silvio Berlusconi se volesse davvero assicurare un futuro alla propria creatura politica.

Poi, certo, ci sono i contenuti della politica. La legge elettorale può solo influenzare la conformazione del campo di gioco, dettare alcune regole della competizione, e decretare la sopravvivenza o la dissoluzione delle forze esistenti.

Vincere le elezioni è tutta un'altra storia. Conterà cosa farà o non farà il governo nei due anni restanti e, forse ancor di più, conteranno i profili e le scelte dei leader che, a destra e a sinistra, emergeranno al tramonto dell'era berlusconiana.

Angelo Panebianco

06 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #128 inserito:: Giugno 15, 2011, 06:50:00 pm »

IL CENTRODESTRA ALLO SPECCHIOIl

Dai Referendum una Lezione che Brucia


Quelli che si sono svolti, come tante altre volte è accaduto nella nostra storia, erano referendum contro il governo (e, nel caso specifico, contro Berlusconi) e la sconfitta del governo è stata netta e bruciante. Come tutti gli osservatori hanno concordemente rilevato. Con l'aggravante che il centrodestra, non pago della lezione delle amministrative, ha continuato, anche in questa campagna referendaria, ad accumulare errori. Mentre le opposizioni facevano propaganda per il «sì» e mobilitavano il Paese, il governo non è stato neppure capace di tentare una contro-mobilitazione a favore del «no», in difesa di quelle che erano comunque le «sue» leggi. E le estemporanee dichiarazioni di Berlusconi sul fatto che sarebbe stato meglio «non andare a votare» o le risibili parole d'ordine sulla «inutilità» dei referendum, hanno aggiunto, per la maggioranza e per il governo, danno al danno.

È meglio perdere in modo aperto, in uno scontro frontale, o cercare di nascondersi in qualche angolo buio nell'illusione di schivare le conseguenze della sconfitta? È politicamente più grave perdere un referendum salvando almeno la faccia o perdere entrambi? Il centrodestra ha confermato, con i suoi comportamenti opportunisti, di essere un esercito allo sbando. È vero, naturalmente, che in questa vicenda l'opportunismo non ha riguardato solo il centrodestra. Anche il Pd di Bersani, sposando il doppio «sì» sulla questione dell'acqua, ha fatto il suo bravo salto della quaglia. Ma in politica contano i risultati: l'opportunismo di chi vince è oscurato dalla vittoria, quello di chi perde è messo in risalto dalla sconfitta.

Se l'aspetto politico dei risultati della consultazione è chiaro, più complicato diventa valutare, nelle implicazioni e ramificazioni, le conseguenze per il Paese della vittoria dei «sì». Mi riferisco ai due soli quesiti che non avevano una valenza esclusivamente simbolica ma anche pratica: i quesiti sull'acqua. Non a quello sul legittimo impedimento, già svuotato dalla sentenza della Corte Costituzionale né a quello sul nucleare. A proposito del quale è meglio dirsi la verità: anche senza la tragedia giapponese l'Italia non sarebbe riuscita lo stesso ad entrare nel club nucleare. Quello era comunque un autobus definitivamente perduto tanto tempo fa: in un Paese dove non si riesce a fare la Tav o a mettere in funzione un termovalorizzatore, come sarebbe stato possibile localizzare da qualche parte una centrale nucleare senza scatenare feroci e invincibili resistenze locali?

Nei due referendum sull'acqua, invece, all'inevitabile aspetto simbolico, si uniscono gli effetti pratici. Gli effetti pratici riguardano sia il caso dell'acqua (che la legge abrogata non privatizzava affatto), rendendo molto più difficoltoso reperire le risorse necessarie per rimediare alle attuali, paurose, inefficienze del sistema, sia quello di molti altri servizi pubblici. Continueranno a farla da padrone le società controllate dagli enti pubblici, che in Italia poi significa i partiti e i loro clienti. Diventerà ancora più difficile ottemperare alle direttive europee che impongono di introdurre il principio di concorrenzialità nei servizi pubblici.

Qui si apre un grosso problema. Per uno dei vincitori, innanzitutto, e cioè il Pd di Bersani. E, naturalmente, per il centrodestra. Comprensibilmente, quando si vince si è contenti e basta ma il problema di Bersani, nei prossimi mesi, passata l'euforia, sarà quello di trovare un equilibrio che gli consenta di smarcarsi dalla trappola massimalista in cui, proprio sulla questione dell'acqua, lo hanno spinto Vendola e Di Pietro. Il suo problema sarà quello di recuperare un profilo riformista che, oltre tutto, è più coerente con la sua storia personale. È certo che il Paese ha bisogno di privatizzazioni e anche di capitali privati nei servizi pubblici. E che l'alternativa, ossia un accrescimento della già altissima pressione fiscale, non è una soluzione gestibile. Se vorrà costruire una piattaforma di governo in grado di intercettare quella quota di elettori necessaria per vincere le elezioni politiche (che, ricordo, sono tutt'altra cosa rispetto alle amministrative o ai referendum) dovrà spegnere molti dei bollori statalisti che abbiamo visto esplodere incontrollati in questa campagna referendaria. Dovrà dimostrare che Vendola si sbaglia quando dice che con questi referendum è stata sconfitta la «cultura delle privatizzazioni». Perché se avesse ragione Vendola, se quella fosse la conclusione da trarre dalla vittoria dei «sì», allora vorrebbe dire che a sbagliarsi è stato Mario Draghi quando, nel suo recente discorso di commiato in Bankitalia, ha sostenuto che questo Paese non è necessariamente condannato al declino economico.

A condannarlo al declino sarebbe la cultura politica prevalente. Nell'esito dei referendum sull'acqua c'è anche, oltre che una sconfitta, una lezione per il centrodestra. Come ha scritto Franco Debenedetti (Il Sole 24 ore, 14 giugno), logoramento personale di Berlusconi a parte, la delusione degli elettori del centrodestra è dipesa dal divario fra le parole e i fatti. Le parole a favore della drastica riduzione dell'invadenza dello Stato sono rimaste tali. I fatti sono andati, con poche eccezioni (la legge sull'acqua era appunto una di queste), in un'altra direzione. Non si sa chi, all'incombente tramonto dell'era berlusconiana, erediterà il centrodestra. Chiunque sia, è certo che se vorrà avere chance di vittoria dovrà dimostrare a quegli elettori delusi di avere imparato la lezione, di essere capace di ridurre la distanza fra il dire e il fare. E dovrà anche dimostrare, come non ha fatto il centrodestra in questa campagna referendaria, di essere pronto a difendere con risolutezza le cose in cui dice di credere.

Angelo Panebianco

15 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #129 inserito:: Giugno 26, 2011, 10:54:57 pm »

I PENTITI DEL LIBERALISMO

La coperta dello Stato padrone

Come sempre accade nelle fasi in cui si attendono grandi cambiamenti, c'è tanta confusione nei commenti che si leggono sul caso italiano. Il probabile tramonto della leadership di Silvio Berlusconi si carica di eccessive speranze di palingenesi (fra gli antiberlusconiani) e di eccessivi timori di catastrofi (fra i berlusconiani) e in entrambi i casi ciò non aiuta la lucidità delle analisi. Ma, spesso, nemmeno i commenti dei più pacati, quelli che trovano (giustamente) ridicole le attese palingenetiche o catastrofiche, riescono a fare sufficiente chiarezza sulle cause che stanno dietro all'attuale erosione dei consensi per l'uomo che dal 1994 è al centro della politica italiana.

Ovviamente, tutti concordano (chi potrebbe non concordare?) sul fatto che l'immagine di Berlusconi sia stata logorata dalle inchieste giudiziarie e dai connessi scandali. Ma nessuno, in realtà, si accontenta solo di questa spiegazione. Ed è qui che comincia la confusione. Perché del declino di Berlusconi, logoramento di immagine a parte, vengono poi date due interpretazioni fra loro contraddittorie (qualche volta persino dallo stesso commentatore). Dobbiamo spiegare quel declino come il frutto di un fondamentale «riallineamento» politico-culturale che investirebbe non solo l'Italia ma l'intero mondo occidentale, un effetto della fine della cosiddetta «era liberista», quella nella quale si chiedevano meno Stato, più mercato, più privatizzazioni, più libertà economiche individuali? In questa prospettiva, il tramonto di Berlusconi si legherebbe a un cambiamento permanente, innescato dalla crisi economica mondiale, degli orientamenti dell'opinione pubblica, oggi più interessata alla protezione degli individui da parte dello Stato (come dimostrerebbe anche la domanda «statalista» che si è affermata nei recenti referendum sull'acqua) che non all'ampliamento delle libertà economiche a scapito dello Stato.

Oppure, il declino di Berlusconi è dovuto alle sue tante promesse non onorate, al fatto che egli aveva garantito meno Stato e più libertà e non è riuscito - non ha saputo o non ha voluto - dare un effettivo seguito alle promesse? Potrebbe essere vera la prima spiegazione (fine del ciclo liberista) oppure potrebbe essere vera la seconda (mancata realizzazione della promessa liberista) ma non possono esserlo entrambe.

Chi tira in ballo la fine del ciclo liberista fa una mossa giusta (collega quanto accade in Italia a più generali cambiamenti internazionali), anche se poi ne trae conclusioni affrettate o azzardate. Non è mai possibile spiegare tendenze o mutamenti di fondo in un Paese senza connetterli a quanto accade altrove e noi italiani dovremmo saperlo bene: la democrazia bloccata della Prima Repubblica sarebbe inspiegabile senza la guerra fredda e Mani Pulite non ci sarebbe stata senza il crollo del Muro di Berlino. Secondo questa interpretazione, oggi sostenuta da molti neokeynesiani, la crisi mondiale avrebbe rilanciato la necessità di tornare a quelle forme di embedded liberalism (un liberalismo economico guidato e tutelato dallo Stato e accompagnato da un forte intervento statale di segno ridistributivo) che caratterizzarono il mondo occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale fino alle rivoluzioni reaganiana e thatcheriana.
In queste condizioni, un tardo epigono (in versione italiana) del reaganismo come Berlusconi avrebbe fatto definitivamente il suo tempo.

Ma i sostenitori di questa tesi dimenticano che dell'embedded liberalism del primo dopoguerra mancano oggi le condizioni politiche (la guerra fredda e l'indiscussa leadership americana che tenevano unito il blocco occidentale). Ovviamente, la crisi ha scatenato una domanda di Stato e di forte regolazione statuale dell'economia ma sarà ancora così quando la crisi verrà definitivamente superata? E che accadrebbe se un repubblicano, assertore di ricette economiche opposte a quelle dell'attuale presidente, tornasse a guidare gli Stati Uniti al posto di Obama? Quali ripercussioni ciò avrebbe sull'Europa? Prima di parlare di fine definitiva di un ciclo o di un'epoca bisognerebbe forse aspettare un po'.

C'è comunque un grano di verità in questa interpretazione: la crisi economica ha certamente inciso potentemente, in Italia come altrove, sugli orientamenti del pubblico. Ma, ciò nonostante, la spiegazione che fa perno sulle promesse non mantenute di Berlusconi resta ancora, a mio giudizio, la più plausibile. Si noti il paradosso: da un lato, si parla di fine del ciclo liberista ma, dall'altro, quasi tutte le ricette che vengono proposte per affrontare il caso italiano vanno nella direzione opposta. Al governo Berlusconi non si imputa un eccesso di liberalizzazioni e privatizzazioni, si imputa (giustamente) il contrario. Chi parla di «riforme» per rilanciare la crescita - da Bankitalia a Confindustria, fino alla recente relazione del presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà - fa sempre riferimento alla necessità di accrescere la competitività, e di rompere o indebolire i tanti mercati protetti. Che non è certo un modo per ampliare il peso dello Stato.
Poiché gli equilibri della politica italiana si reggono da quasi vent'anni su Berlusconi e la divisione cruciale è fra berlusconiani e antiberlusconiani, se il berlusconismo finisce ciò non può non determinare un radicale cambiamento del sistema politico. Ma questo fatto indiscutibile non va confuso con l'idea che della libertà «dallo Stato» non importi più nulla a nessuno. Detto in altri termini, è improbabile che gli elettori delusi da Berlusconi diventino in futuro sostenitori di Nichi Vendola o di Rosy Bindi.

Il conflitto fondamentale, nelle democrazie occidentali, riguarda il ruolo dello Stato. Ci sono, naturalmente, molte posizioni intermedie ma il «tono» del conflitto è dato dagli argomenti e dalle azioni di coloro che occupano gli estremi opposti di un continuum: a un estremo stanno coloro per i quali lo Stato va inteso come l'unico dispensatore autorizzato della «felicità», il demiurgo che deve assicurare benessere e sviluppo; all'altro estremo stanno coloro per i quali il compito dello Stato, più limitato ma altrettanto impegnativo, è di garantire le condizioni che consentano alle libere scelte e alla libera iniziativa dei singoli di generare benessere e sviluppo. Questo conflitto è destinato a continuare. Anche in Italia.

Angelo Panebianco

26 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #130 inserito:: Luglio 10, 2011, 05:09:59 pm »

LE PROVE CHE ATTENDONO ALFANO

I tre ostacoli che attendono Alfano

Dentro il Pdl e anche fuori


La nomina di Angelino Alfano a segretario del Popolo della libertà può essere diversamente interpretata. A seconda di ciò che si pensa sul destino dei partiti personalistici o carismatici. Se si ritiene che quei partiti siano sempre condannati a seguire la parabola dei loro leader fondatori, talché al declino politico del leader debba necessariamente seguire la disgregazione del partito, allora quella nomina può essere liquidata come una operazione-maquillage, il disperato tentativo di un vecchio capo in difficoltà di gettare un po' di fumo negli occhi dell'opinione pubblica. Se invece si pensa che quei partiti possano, qualche volta, sopravvivere al declino dei fondatori, allora il giudizio sarà diverso: si potrà ipotizzare l'inizio di una nuova fase, immaginare che sia in atto un tentativo di scongiurare la disgregazione dell'organismo politico favorendo una successione morbida, non traumatica, della leadership. Come ha scritto giustamente Stefano Folli sul Sole 24 Ore di ieri, la storia ha, in genere, più fantasia di noi, è sempre in grado di sorprenderci. L'esito non è scontato, né in un senso né nell'altro.

Alfano deve fronteggiare difficoltà di vario ordine: su alcune può esercitare un certo controllo (nel senso che la sua azione può avere conseguenze decisive), su altre no. Le difficoltà riguardano il rapporto con Berlusconi, il rapporto con i maggiorenti del partito, e, infine, il rapporto con le forze politiche esterne, alleati e potenziali alleati.

La nomina di Alfano significa che Berlusconi ha finalmente capito che solo predisponendo le condizioni per la successione potrà forse salvare la propria creatura politica. Non era scontato che lo capisse. Va a merito della sua intelligenza politica. Si tratta di vedere se saprà anche accettare che Alfano si conquisti quella, sia pure parziale, autonomia che sola può dare autorevolezza e forza al suo nuovo ruolo. Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente, ma è la principale sfida che il neosegretario ha di fronte: conquistare sul campo autonomia senza entrare in rotta di collisione con il leader-fondatore.

La seconda difficoltà riguarda il rapporto con i maggiorenti del partito. Lo hanno applaudito e acclamato ma è ovvio, e anche del tutto naturale, che cerchino di condizionarlo. Quanto più ci riusciranno, tanto meno efficace sarà la sua azione. Qui il problema di Alfano è riuscire a imporre un armistizio, la fine di quella guerra di tutti contro tutti che esplose ben prima delle recenti sconfitte (nelle amministrative e nei referendum) ma che da quelle sconfitte è stata ulteriormente esasperata. Qualcuno potrebbe sostenere che Alfano otterrà una certa autonomia (da Berlusconi) e riuscirà anche a imporsi sui maggiorenti del partito solo se riconquisterà quegli elettori che se ne sono allontanati, solo se riuscirà a dimostrare che il rapporto fra il partito e il suo elettorato non è definitivamente compromesso. Ma, in realtà, su questo aspetto, Alfano può ben poco. Che gli elettori delusi ritornino oppure no non dipende da lui, dipende da ciò che farà il governo da ora alla fine della legislatura.

Il terzo fronte riguarda il rapporto con le altre forze politiche. Alfano deve impedire che si allarghino le crepe nel rapporto con la Lega e, contemporaneamente, deve cercare il massimo possibile di convergenza con il cosiddetto terzo polo e, soprattutto, con il suo leader di maggiore peso, Pier Ferdinando Casini. Su questo terreno la maggiore insidia per lui è data dai movimenti in atto tesi a far saltare il bipolarismo. Coloro che identificano il bipolarismo con il berlusconismo pensano che al declino del secondo debba anche corrispondere la fine del primo. Ma il problema per Alfano è che se salta il bipolarismo salta anche il Pdl. Se non contrasterà le manovre volte a spazzare via l'assetto bipolare allora sì che darà ragione a chi lo vede come una specie di esecutore testamentario del partito. Difficilmente Alfano potrà quindi esimersi, nei prossimi mesi, dall'avanzare una seria proposta di riforma elettorale che sia volta a mettere in sicurezza il bipolarismo. Conciliare tale proposta con la ricerca di convergenze con i potenziali alleati sarà il (difficilissimo) compito che egli dovrà comunque assumersi. Non dimentichi il precedente gollista. Il partito gollista, un puro partito carismatico, sopravvisse all'uscita di scena del suo fondatore anche grazie alle caratteristiche delle istituzioni politiche della Quinta Repubblica. In Italia una grande riforma delle istituzioni è esclusa. Resta però la legge elettorale e sarà quello il terreno su cui il Pdl giocherà, almeno in parte, le sue future chances di sopravvivenza.

Chi spera che il possibile declino di Berlusconi porti con sé anche la disgregazione del Pdl e, per conseguenza, dell'intero centrodestra, e buona notte al secchio, non è in possesso, diciamolo, di irreprensibili credenziali democratiche. Dal momento che alla democrazia italiana servono, e serviranno anche in futuro, sia un grande partito di sinistra che un grande partito di destra. Per questo, il difficile tentativo di Alfano va seguito con interesse.

Angelo Panebianco

04 luglio 2011 11:28© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #131 inserito:: Luglio 14, 2011, 03:39:41 pm »

NIENTE SCONTI A CASTA E DINTORNI

Ora la dieta per la grassa politica

È sempre stato un argomento capace di suscitare l'indignazione dei cittadini. Ormai, però, è diventato anche qualcosa d'altro: un vincolo economico, una palla al piede per il Paese, una fonte di spesa improduttiva che sottrae risorse alla crescita. È il tema dei costi della politica. Una parte di questi costi è documentata e documentabile. Gian Antonio Stella, sul Corriere di ieri, ha mostrato quanto pesino sulle tasche del contribuente italiano, fra indennità, rimborsi, eccetera, i parlamentari, i consiglieri regionali e gli altri rappresentanti eletti. E il confronto con gli assai più contenuti stipendi dei rappresentanti statunitensi è risultato davvero istruttivo.

I costi documentati sono peraltro solo la punta dell'iceberg. I dati precisi non sono facilmente reperibili ma è certo che il numero di coloro che in Italia vivono «di politica» (la cui fonte di reddito, cioè, deriva, direttamente o indirettamente, dalla politica) è enormemente cresciuto negli ultimi venti anni: c'è chi pensa che sia addirittura quadruplicato o quintuplicato. Non è affatto solo una questione di auto blu e di stipendi di rappresentanti eletti (che sono le cose che maggiormente colpiscono il cittadino). C'è molto, molto di più. Là fuori c'è un vero e proprio esercito, con famiglie a carico, di quelli che potremmo definire «professionisti politici occulti», persone che campano grazie al fatto che la politica (i partiti) li ha piazzati - a livello nazionale, regionale, locale - in consigli di amministrazione, all'interno di società pubbliche, e ovunque essa potesse allungare le mani. Persone che sono in quei posti, per lo più, non per le loro competenze ma per i loro legami politici.

Scommetto che nemmeno al ministero dell'Economia sono in possesso di dati precisi sui «costi reali» della politica in Italia. Ma è certo che se questi costi potessero essere seriamente ridotti, si darebbe un bel colpo alla spesa pubblica improduttiva, si libererebbero risorse diversamente impiegabili.

Solo che ciò è molto più facile a dirsi che a farsi. Per diverse ragioni, alcune tecniche, altre istituzionali, altre politiche. Fra le ragioni tecniche c'è, prima di tutto, come si è già accennato, il fatto che nessuno sa davvero quantificare con precisione questi costi. Soprattutto a livello locale, essendo gli enti locali comprensibilmente restii a fornire dati così «politicamente sensibili». E poi c'è il problema dei diritti acquisiti: tagliare con l'accetta questi costi significa in molti casi toccare emolumenti cui tutte quelle persone pensano di avere ormai diritto. Un taglio drastico scatenerebbe probabilmente una valanga di ricorsi.

C'è anche una ragione istituzionale. La parte forse più consistente degli alti costi della politica chiama in causa la responsabilità delle classi politiche regionali e locali. Un intervento del centro (governo e Parlamento) si scontrerebbe con la difesa della propria autonomia da parte di molte strutture periferiche. Si renderebbe allora necessaria una complessa contrattazione fra centro e periferia del cui esito positivo sarebbe lecito dubitare.

Ci sono poi le difficoltà politiche. I costi della politica sono rimasti fin qui un tema tabù sia con i governi di destra che con quelli di sinistra. Per due motivi. Perché qualunque governo voglia incidere seriamente su quei costi deve essere disposto a fronteggiare rivolte all'interno dei partiti che lo sostengono e negli enti locali controllati da quei partiti. E perché cercare di incidere su quei costi significa spostare gruppi e clientele (e quindi anche voti) verso i partiti avversari. Occorrerebbe davvero un accordo bipartisan, anzi un vero e proprio patto di ferro fra i partiti nazionali, per affrontare sul serio la questione.

C'è infine un'ultima ragione che dipende dagli orientamenti dell'opinione pubblica. Bisogna dire che i cittadini hanno, sulla questione dei costi della politica, atteggiamenti contraddittori. Diciamo che quella dei cittadini italiani è, per lo meno, una indignazione «selettiva». Nulla lo prova meglio dei risultati dei recenti referendum sull'acqua, grazie ai quali è stata abrogata una delle pochissime leggi che sottraeva alle grinfie dei partiti il controllo su «posti» e prebende: nel caso specifico, le nomine in società preposte ai servizi pubblici. La questione dei costi della politica, infatti, si intreccia strettamente con quella del ruolo del potere pubblico. Quei costi (stipendi dei rappresentanti a parte) non sono sostanzialmente riducibili senza un consistente dimagrimento dello Stato e degli enti pubblici locali, senza spostare, tramite privatizzazioni, verso il mercato compiti gestionali e prerogative oggi in mano al «pubblico» (ossia, ai partiti). Ma non sempre il cittadino che si indigna è anche disposto a trarre le dovute conseguenze, a consentire con politiche di riduzione del peso dello Stato (che contribuirebbero ad abbattere quei costi).

A parole, siamo (quasi) tutti d'accordo: i costi della politica vanno drasticamente ridotti. Passare all'azione richiederebbe però maggiore consapevolezza dei problemi da affrontare.
Angelo Panebianco

Angelo Panebianco

14 luglio 2011 08:06© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #132 inserito:: Luglio 24, 2011, 09:57:01 pm »

TRA RAGIONI VERE E DEMAGOGIA

Il vento forte dell'antipolitica

Siamo, come molti pensano, alla vigilia di una nuova esplosione di antipolitica nel Paese? Un segnale forte, per la verità, c'era già stato: la trionfale elezione di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli. Anche se Napoli non è certo rappresentativa dell'Italia intera, è però indubbio che in quella occasione abbiamo visto l'antipolitica in azione: con la sua condanna sommaria e generalizzata del cosiddetto ceto politico, di maggioranza e di opposizione. Luciano Violante, sul Foglio di giovedì, ha ricordato che la nostra storia è contrassegnata da periodiche esplosioni di rivolta contro la classe politica. Con intervalli all'incirca ventennali, e pur nella diversità dei contesti e delle circostanze: il fascismo, la resistenza, il sessantotto, mani pulite. È la politica che, non riuscendo a rinnovarsi e a dare al Paese una salda guida e una direzione di marcia, commette periodicamente suicidio, suscita contro se stessa forze che la travolgono.
Aggiungo però che queste cicliche esplosioni non si spiegherebbero senza la presenza di alcune pre-condizioni culturali, senza certe costanti che sono tipiche della nostra tradizione. La più importante delle quali è la favola che si tramanda dall'Ottocento: quella di una società civile pura e incorrotta contrapposta a una società politica sede di ogni turpitudine. Non importa che quella rappresentazione sia una puerile bugia. Importa che essa determini di necessità un grado perennemente basso di legittimità della politica, e delle stesse istituzioni politiche (e che lasci il passo, nei momenti di crisi, alla loro delegittimazione aperta). Importa che sia creduta da tanti e che si trovino sempre dei nuovi demagoghi disposti a sfruttarla per i loro scopi. Importa il fatto che essa funzioni come una sorta di profezia che (periodicamente) si auto-adempie.
Sapevamo tutti che in un sistema politico i cui equilibri, da più di un quindicennio, si reggono sulla leadership di un uomo, Silvio Berlusconi, il declino politico di quell'uomo avrebbe prodotto una sorta di Big Bang. E ora abbiamo scoperto che anche la seconda gamba su cui si è retto il sistema politico, la leadership di Umberto Bossi, vacilla. Qualcuno vedrà forse all'opera una sorta di nemesi. In modi diversi, infatti, sia Berlusconi che Bossi sono emersi sull'onda di movimenti antipolitici che essi hanno però incanalato entro il sistema democratico. Il loro declino riapre tutti i giochi e crea varchi attraverso i quali l'antipolitica, non necessariamente di segno democratico, potrebbe di nuovo dilagare con grande impeto. Non sarebbe travolta solo l'attuale maggioranza ma, probabilmente, anche l'opposizione (che è anch'essa, come mostra la vicenda Penati, in gravi difficoltà).
Però la storia non è mai scritta in anticipo. Non è vero che quell'esito sia ormai ineluttabile. Occorrono certe condizioni. Se le decisioni prese dall'Europa sulla Grecia funzioneranno, se l'Unione monetaria si salverà, se l'Italia non finirà nel baratro come abbiamo temuto nei giorni scorsi, ecco che almeno una delle condizioni che agevolano l'esplosione di movimenti antipolitici non si realizzerà.
Ci sono poi i margini di azione di cui comunque i politici ancora dispongono: spetta a loro farne un uso sapiente. Ad esempio, serve ormai solo ad accrescere l'impopolarità della politica evitare di aggredire la questione dei suoi costi.
Quanto meno dal punto di vista simbolico è cruciale trasmettere al Paese l'idea che ai sacrifici che si chiedono ai cittadini corrisponda una disponibilità della politica a ridurre i propri privilegi. Sapendo, naturalmente, che (proprio perché non esiste quella società civile pura e innocente dipinta dai demagoghi dell'antipolitica), colpire i costi della politica, in certe aree del Mezzogiorno ma non solo, può significare innescare forme di ribellismo, fare inferocire clientele che dalla politica dipendono. Anche questo attiene al folklore antipolitico: «onesti cittadini» che mordono la mano da cui prendevano il cibo non appena si accorgono che le razioni si assottigliano.
E c'è poi il ruolo della presidenza della Repubblica: la sua importanza, ai fini della tenuta del sistema politico, cresce in rapporto direttamente proporzionale all'indebolimento del governo. Così va oggi interpretata l'azione del presidente Napolitano: dalla richiesta all'opposizione di non contrastare una rapida approvazione della manovra economica al fine di rassicurare i mercati internazionali, al fermo richiamo ai magistrati contro i protagonismi che fomentano lo scontro con la politica. Un richiamo assai opportuno se si considera che non le inchieste giudiziarie ma il modo in cui spesso vengono condotte contribuisce a risvegliare i più bassi istinti di una parte del pubblico, a diffondere sgradevoli richieste di giustizia sommaria. In barba alla presunzione di non colpevolezza.
C'è un'altra cosa che forse servirebbe per disinnescare certe spinte: fare una buona riforma elettorale. I sentimenti antipolitici sono oggi alimentati anche dalla polemica contro il cosiddetto «Parlamento dei nominati», ossia contro le liste bloccate. Non è meglio tornare a un sistema maggioritario (con un turno o due turni) con collegi uninominali? Il partito di maggioranza relativa, il Pdl (che avrebbe tutto da perdere se saltasse il bipolarismo) potrebbe farne oggetto di trattativa con la Lega: appoggeremo la vostra proposta di Senato federale solo a condizione che voi appoggiate una riforma elettorale così concepita. Troverebbe per strada anche il sostegno di una parte del Partito democratico.
L'anti-politica è la malattia infantile della democrazia e l'Italia, con la sua salute perennemente cagionevole, è assai portata alle ricadute. Ma c'è ancora qualche margine per lasciare i paladini dell'antipolitica a bocca asciutta.

Angelo Panebianco

24 luglio 2011 10:11© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_24/panebianco-antipolitica-demagogia_5faf8afe-b5c5-11e0-b43a-390fb6586130.shtml
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« Risposta #133 inserito:: Agosto 01, 2011, 05:31:37 pm »

IL DIBATTITO SULL'EMERGENZA

Governi tecnici tra mito e realtà

Il copyright non è italiano ma è diventata ormai una specialità italiana. È la formula del «governo dei tecnici», sempre invocata nei momenti di difficoltà della democrazia parlamentare. Non è il semplice governo di minoranza, fondato sulla benevola astensione delle principali forze parlamentari, cui sovente fanno ricorso le democrazie. È qualcosa di più e di diverso. È il governo dei «competenti». Implica sfiducia nella democrazia rappresentativa. Il sottinteso è che i politici, i rappresentanti eletti, siano incompetenti, gente che sa fare solo disastri. Nell'ideale del governo dei tecnici si esprimono i sentimenti anti-politici delle élite. Se «mandiamoli tutti in galera» è lo slogan che meglio riassume i sentimenti anti-politici del popolo, «facciamo un governo dei tecnici» è il programma anti-politico delle élite.

La formula, che già Benedetto Croce, ai suoi tempi, aveva criticato con asprezza, torna oggi di attualità. Non poteva essere diversamente, stante le nostre tradizioni e il grave stato di salute della maggioranza berlusconiana. Possiamo identificare due categorie di sostenitori del governo dei tecnici. La prima è composta da quelli che vorrebbero sbarazzarsi di Berlusconi e sono alla ricerca di una qualunque risorsa che serva allo scopo. È stravagante che spesso gli stessi che oggi accarezzano l'idea di un governo dei tecnici si presentino, in altre fasi, come i paladini della democrazia parlamentare nella forma prescritta dalla Costituzione: è infatti difficile immaginare qualcosa di meno compatibile con la democrazia parlamentare del governo dei tecnici. Ma la loro posizione è comprensibile: lo scopo è politico (abbattere Berlusconi), i mezzi si equivalgono.

La seconda categoria è più interessante. È composta da coloro che pensano che oggi in Italia bisognerebbe fare certe cose e che i politici, proprio perché vincolati agli elettori da un rapporto di rappresentanza, non siano in grado di farle. Spesso si tratta di persone sinceramente preoccupate per il destino del Paese. Ritengono che l'Italia sia in una situazione di emergenza e che la democrazia rappresentativa non sia in grado di farvi fronte con i normali strumenti. Il governo dei tecnici è per costoro quella «breve vacanza» dalla, e della, politica, che può servire per rimettere le cose a posto. I «tecnici» hanno infatti questo vantaggio rispetto ai politici: non devono rendere conto agli elettori, non hanno il problema di essere rieletti, possono prendere decisioni in totale libertà. Il punto debole del ragionamento è che senza un accordo politico fra forze parlamentari, un tale governo non può essere insediato né, una volta insediato, può decidere alcunché. Si torna così alla casella di partenza: non importa il pedigree tecnico di chi governa, a metterci la faccia, a rischiare i voti, sono sempre le forze parlamentari.

Si tratti, che so?, di patrimoniale, o di qualunque altra misura impopolare si voglia immaginare, non c'è verso di evitare che siano i politici a rischiarci sopra le carriere.

Nelle situazioni di emergenza, ci dice l'esperienza storica, le democrazie ricorrono talvolta a soluzioni di emergenza. Questo sarebbe il nostro caso solo se l'Italia precipitasse in una crisi di tipo greco. Ma solo i più pessimisti tra gli esperti prevedono un esito simile. È possibile, e forse anche probabile, che questo governo non riesca a completare la legislatura. Ma in tal caso, c'è da scommettere, sarà ancora una normale soluzione politica quella che si troverà in Parlamento o nelle urne.

Angelo Panebianco

01 agosto 2011 11:55© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_01/panebianco-governi-mito-realta_79bbdd64-bbfe-11e0-9ecf-692ab361efb9.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Agosto 14, 2011, 11:03:08 am »

IL FERRAGOSTO NERO DELLA POLITICA

Venti di mercato, bruschi risvegli

Se la guardiamo dal lato della politica, la crisi in cui siamo oggi immersi è una manifestazione virulenta di un problema tutt'altro che nuovo: il divario, tipico della vita internazionale, fra interdipendenza e controllo, fra l'universalismo dei mercati e il particolarismo della politica. In altre parole: i mercati sono internazionali e i governi sono nazionali. C'è sempre stata molta più interdipendenza economica di quanta il comando politico (frammentato, suddiviso fra un gran numero di governi) ne potesse controllare. Va ricordato, soprattutto in tempi di crisi, che questa è sempre stata una fortuna: senza quel divario non sarebbe mai potuta nascere la società aperta occidentale, e un rapace (e forse anche feroce) comando politico unificato controllerebbe le nostre vite. Quel divario genera però continui squilibri e periodiche crisi, alcune anche gravissime.

In età contemporanea, è reso ancor più accentuato da due fenomeni: le ulteriori massicce dosi di interdipendenza economico-finanziaria e il fatto che il comando politico non sia solo frammentato (come è sempre stato in età moderna) ma anche condizionato, in Occidente almeno, dai vincoli imposti dalle regole democratiche. Questo significa che le risposte politiche alle crisi devono fare i conti con due problemi contemporaneamente: le naturali difficoltà di coordinamento fra una pluralità di governi e il fatto che ciascun governo subisce potentemente il condizionamento del suo elettorato. Una combinazione esplosiva, per giunta aggravata oggi da un drammatico ridimensionamento della leadership americana che esaspera le difficoltà di coordinamento fra i governi.

È bene non perdere mai di vista questo complesso quadro generale anche quando si discute sulle misure adottate ieri in Italia. Perché l'amara verità è che se anche fossero giuste le soluzioni scelte, i sacrifici comunque imposti ai cittadini possono sempre essere vanificati, almeno nel breve termine, da errori politici commessi da altri governi (americano, tedesco, eccetera). Nessuno, e tanto meno l'Italia, è il solo padrone del proprio destino.

In questo quadro di incertezza, l'unica cosa certa è che, almeno nel medio termine, le scelte che lasceranno maggiormente il segno, che potrebbero davvero avvantaggiarci, sono quelle tese a rimettere in moto la crescita: flessibilità del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni. Se non verranno annacquate o abbandonate in corso d'opera, a causa della resistenza degli interessi colpiti, potrebbero dare una frustata salutare, fare cambiare ritmo a un Paese assuefatto da anni a condizioni di bassa crescita. Osservo che alle misure previste dovrebbero essere aggiunte sia riforme tese a ridurre i tempi della giustizia civile (una vera e propria palla al piede per lo sviluppo come ha ricordato qualche mese fa Mario Draghi) sia interventi (ma è la cosa, in assoluto, più difficile di tutte) volti alla drastica semplificazione delle procedure adottate dalle amministrazioni pubbliche a ogni livello: oggi i vincoli burocratici in ogni ambito ingessano e soffocano il Paese.

Qui entra però in gioco la questione della democrazia: in primo luogo, i partiti che temono contraccolpi elettorali (si veda la posizione di Umberto Bossi sulle pensioni) tendono naturalmente a opporsi a misure vantaggiose per il Paese nel medio termine ma dannose per il partito nel breve. In secondo luogo, gli interessi lesi dalle misure predisposte dispongono di numerosi mezzi legali per bloccarle o distorcerle. E questo è tanto più vero in un Paese come il nostro, dove l'assetto istituzionale garantisce la permanente debolezza dell'Esecutivo e la presenza di innumerevoli canali e poteri di veto. Quei costituzionalisti che difendono il nostro assetto istituzionale così com'è dovrebbero riflettere sul fatto che l'unica ragione per cui la Francia ha fin qui mantenuto la tripla A, non è stata ancora declassata, è dovuta esclusivamente al suo particolare sistema costituzionale: un Presidente istituzionalmente fortissimo, un Parlamento debole, un numero assai ridotto di poteri di veto. Tutte cose che farebbero strillare tanti contro l'avvento di un «regime autoritario» se venissero proposte in Italia.

Il vincolo esterno, il cosiddetto commissariamento imposto dalla Banca centrale europea, può essere una opportunità per il Paese e anche un asset che Berlusconi può personalmente giocarsi. È sempre stato difficile capire, in tutti questi anni, per quali ragioni Berlusconi avesse sostanzialmente rinunciato a imporre alla sua compagine governativa e alla maggioranza di impegnarsi in politiche «liberali» pro-crescita, perché avesse rinunciato a dare ossigeno alla libera iniziativa riducendo, tramite privatizzazioni e liberalizzazioni, il peso dello Stato nella economia e nella società. La sua è stata una scelta che gli ha forse consentito di durare, di galleggiare, di tenere insieme una maggioranza eterogenea, ma, alla fine, ne ha anche logorato il rapporto con gli elettori, quelli che lo avevano votato proprio perché si aspettavano da lui cose che non ha fatto. Questa è l'ultima occasione che gli si presenta per realizzare ciò che in un tempo lontano aveva promesso.

Angelo Panebianco

13 agosto 2011 08:57© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_13/panebianco_brutti_risvegli_cc7df5fc-c575-11e0-88c8-3552ba0345da.shtml
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