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« Risposta #60 inserito:: Luglio 28, 2009, 11:23:46 pm » |
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I PARTITI E LA CONTESA TRA NORD E SUD
La debole unità di un Paese
Dobbiamo davvero preoccuparci per l’unità futura del Paese? Di che cosa è sintomo la sciatteria fin qui dimostrata, e denunciata da Ernesto Galli della Loggia, nella preparazione delle celebrazioni per i centocinquanta anni dell’unità d’Italia? E, ancora, che cosa indicano le voci intorno alla possibile nascita di una «lega sud» che potrebbe domani contrapporsi frontalmente al «partito del nord»? Davvero la Lega Nord ha ormai «vinto», quanto meno sul piano culturale, come ha scritto Alessandro Campi sul Riformista , talché l’unità morale del Paese sarebbe già irrimediabilmente svanita?
I processi storici sono il frutto delle azioni degli uomini e delle organizzazioni a cui gli uomini danno vita. E’ ormai dalla fine della Seconda guerra mondiale che l’unità del Paese dipende dalla capacità integrativa, o federativa, svolta da alcuni partiti politici. In quella che, convenzionalmente, viene chiamata Prima Repubblica, l’unità del Paese dipendeva dal ruolo federatore svolto dalla Democrazia Cristiana. Fu la Dc il partito che tenne insieme l’Italia impedendo alle sue storiche fratture (Nord/Sud, Stato/Chiesa) di acutizzarsi dispiegando tutta la loro potenziale capacità disgregativa. Nel suo ruolo di partito di maggioranza relativa la Dc legava fra loro il Veneto e la Sicilia, la Lombardia e la Calabria, il Friuli e la Campania, il Trentino e il Lazio.
Nella «Repubblica dei partiti», la Democrazia Cristiana, per oltre un quarantennio, garantì il mantenimento del legame fra le diverse parti del Paese. Era quello, e non altro, il mastice in una fase storica, seguita alla dittatura e alla sconfitta bellica, in cui l’eredità risorgimentale era stata seriamente lesionata e logorata sul piano politico-simbolico. La Lega Nord, a mio avviso, non è stata la causa di nulla. La sua comparsa, nei primi anni Novanta, fu, semmai, un effetto. L’effetto di un lungo periodo dominato da una (sciagurata) pedagogia negativa sul Risorgimento e l’Unità d’Italia: per rinfrescarsi la memoria converrebbe riprendere in mano qualcuno fra i tanti manuali di storia patria circolanti nella scuola pubblica, soprattutto a partire dagli anni Settanta.
Dunque, piaccia o meno, è ai partiti politici che bisogna guardare per capire quale sorte sia riservata all’unità del Paese. Se ci si pone da questo punto di vista, effettivamente, l’estrema precarietà della situazione che viviamo salta agli occhi. Alla Dc è sì succeduto un altro partito federatore ma si tratta di un federatore fragilissimo. Si osservi la mappa elettorale del Paese. Il partito federatore, subentrato alla Democrazia Cristiana, è il Popolo della Libertà, primo partito sia al Nord che al Sud. E’ la conseguenza di quanto accadde negli anni Novanta. Spazzati via i partiti della Prima Repubblica fu allora Silvio Berlusconi, insieme ai suoi alleati, a colmare il vuoto lasciato dalla Democrazia Cristiana.
Ma il Popolo della Libertà ha due evidenti punti di debolezza. Il primo è che si tratta di un contenitore mal amalgamato, nato dalla recentissima fusione di Forza Italia e An. Un contenitore che si è formato solo per mantenere competitivo il centrodestra nel momento in cui è stato creato il Partito democratico.
Dovesse quest’ultimo dividersi (e la possibilità sicuramente esiste), il Popolo della Libertà subirebbe dopo poco la stessa sorte. Il secondo, e più importante, elemento di debolezza consiste nel fatto, naturalmente, che si tratta di un partito carismatico, il cui destino è strettamente legato alla sorte politica di Berlusconi.
Che succederà al Popolo della Libertà quando Berlusconi lascerà la scena politica? Si frantumerà, come è probabile, seguendo la sorte di tanti altri partiti carismatici? Oppure sperimenterà quel raro fenomeno che viene detto «istituzionalizzazione del carisma», sopravvivendo politicamente al suo fondatore? Nessuno è oggi in grado di rispondere. Il problema, però, è che la chiave per comprendere quale sarà il futuro del Paese (della sua unità) è contenuta proprio nelle risposte a queste domande.
Immaginiamo il caso peggiore, il caso in cui, uscito di scena Berlusconi, il Pdl si frantumasse in due tronconi, uno di centro- nord e uno meridionale. In fondo, le manovre in corso in Sicilia e l’agitazione dei deputati e dei ministri meridionali possono essere lette anche come un’anticipazione di quella eventualità. La nascita di un blocco politico meridionale «indipendente » esaspererebbe le spinte centrifughe. Venuto a mancare il «mastice partitico», Nord e Sud entrerebbero politicamente in rotta di collisione. La débâcle, finanziaria e di prestazioni, della Sanità meridionale, oggi sotto i riflettori, è solo un aspetto, ancorché gravissimo, delle tensioni che si vanno accumulando e che mettono in sofferenza l’unità del Paese. Cosa accadrebbe ove venisse meno il federatore?
L’eventualità, nel dopo-Berlusconi, di una divisione del centrodestra in due tronconi territorialmente contrapposti, si capisce, non dispiacerebbe all’attuale gruppo dirigente del maggior partito di opposizione, il Partito democratico. Sulla base del principio che fra i due litiganti, eccetera. Ma il Partito democratico versa in una crisi di identità difficile da risolvere e che può facilmente ridurlo alle dimensioni di un partito regionale (emiliano-toscano e poco più). Difficile che trovi la forza e la spinta per trasformarsi nel nuovo federatore del Paese.
È ormai un luogo comune storiografico che in Italia, data la debolezza dello Stato, i partiti abbiano svolto un ruolo di supplenza diventando gli (involontari) garanti della coesione sociale e politica.
Se quella tesi è vera, è alla evoluzione dei partiti che dobbiamo guardare per capire cosa ne sarà in futuro dell’unità d’Italia. Le idee, le visioni, le tradizioni (e le divisioni) culturali contano tantissimo. Ma è ciò che gli uomini scelgono di farne, per calcoli contingenti, a decidere le sorti politiche dei Paesi.
Angelo Panebianco 26 luglio 2009 da corriere.it
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« Risposta #61 inserito:: Agosto 03, 2009, 03:19:50 pm » |
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IL PD E LE INCHIESTE GIUDIZIARIE
Dal moralismo al riformismo
Analizzando la situazione creatasi in Puglia a seguito delle inchieste sulla sanità che vedono coinvolti i partiti di centrosinistra, Antonio Macaluso ( Corriere , 31 luglio) si è chiesto maliziosamente «… se i pesanti attacchi di tutto il fronte dell’opposizione nei confronti del presidente del Consiglio e dei suoi comportamenti — sicuramente discutibili — non abbiano talvolta voluto coprire i timori per quello che l’inchiesta avrebbe potuto portare alla luce». È probabile che sia così. Ma la vicenda pugliese, se non fosse usata come mezzo per regolamenti di conti interni, potrebbe diventare la dimostrazione del fatto che non tutto il male viene per nuocere. A patto che ci sia un leader abbastanza coraggioso per prendere di petto il vero problema che attanaglia il Partito democratico, la tara che impedisce a quel partito di darsi una credibile identità riformista. Mi riferisco al fatto che esso non è mai stato in grado di impostare in modo sano e corretto, di fronte a se stesso e all’opinione pubblica, la questione del rapporto fra morale e politica.
Detto così, lo riconosco, suona tutto un po’ astratto e accademico ma, in realtà, mi riferisco a due concretissimi problemi di cui, non casualmente, nessuno parla nel confuso dibattito precongressuale del Pd. Il primo riguarda il fatto che la debolezza politico- culturale del Pd lo condanna a essere un partito «eterodiretto», un partito che, nelle scelte che davvero contano, subisce il pesante condizionamento di alcuni «giornali di riferimento ». Il secondo riguarda l’incapacità di sbarazzarsi dell'alleanza con Di Pietro: come potrebbe sbarazzarsene, tenuto conto che il Pd non dispone al momento delle armi culturali necessarie per combattere quello che è ormai il suo più insidioso competitore? Le domande che il congresso del Pd dovrebbe porsi sono le seguenti: quale futuro politico può avere un partito che si presenta come riformista ma la cui componente identitaria principale, quella che trasmette soprattutto di sé, è il moralismo? E, ancora: è il moralismo una risposta giusta o sbagliata ai delicati problemi di etica pubblica che la democrazia deve quotidianamente fronteggiare?
All'origine della grande tara, della scelta del moralismo come elemento ideologico dominante della identità della sinistra italiana, ci sono probabilmente gli eventi del quinquennio 1989-1994, il periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino all'ingresso in politica dell’Uomo Nero, Silvio Berlusconi, passando per Mani Pulite. Orfana del comunismo, la sinistra non seppe far altro, anche aggrappandosi agli aspetti peggiori dell’eredità di Berlinguer (la diversità antropologica, l’austerità), che mettersi a gridare «al ladro ». In parte, per blandire le procure impegnate nelle inchieste sulla corruzione, offrendo loro una alleanza politica di fatto (e sperando così di limitare i danni) e in parte perché non aveva altra identità a cui aggrapparsi.
Oltre a tutto, il passaggio dal comunismo al moralismo, dalla rivoluzione comunista alla «rivoluzione dei Santi», favorì il matrimonio dell’ex Pci con la sinistra democristiana, anch’essa allo sbando dopo la fine della Dc. La ciliegia sulla torta fu l’arrivo di Berlusconi: di fronte all’Orco, simbolo di tutti i vizi e le turpitudini del Paese, occorreva che i buoni, i santi, gli incorrotti, facessero blocco insieme: per lo meno, questa è stata la favola raccontata per quindici anni agli elettori del centrosinistra. Ma le favole funzionano solo se le si riconosce come tali. Se le si scambia per descrizioni della realtà portano alla rovina.
Ancora una volta, quel genio della comunicazione che è Berlusconi, pur in grave difficoltà a causa della sua disordinata e sconsiderata vita privata, li ha battuti usando quattro paroline magiche: «non sono un santo». Tutti sanno infatti che di santi, su questa terra, ne circolano davvero pochi, e nemmeno i moralisti lo sono (anche se fingono, per convenienza politica, di esserlo). Sposando il moralismo, quali che siano i vantaggi politici a breve, ci si scotta sempre. In primo luogo, non si possono affrontare correttamente le questioni di etica pubblica. In termini di etica pubblica, il problema non è mai «combattere i corrotti » (l’accertamento dei reati di corruzione spetta alla magistratura penale). Il problema è invece incidere sulle condizioni, sulle circostanze, che accrescono o diminuiscono la propensione alla corruzione. Persino Madre Teresa di Calcutta, santa donna (uno dei pochi santi in circolazione nel XX secolo), avrebbe probabilmente avuto problemi con la giustizia se le avessero affidato un assessorato regionale alla Sanità in certe zone del Mezzogiorno.
In secondo luogo, sposando il moralismo, riducendo la politica a una questione di santi e di reprobi, ci si imbatte sempre, prima o poi, in qualcuno che si dichiara più santo di te. La principale ragione per cui il Pd subisce da mesi e mesi, senza reagire, l’offensiva di Di Pietro, è che, dopo quindici anni di confusione fra moralismo e etica pubblica, esso si ritrova con buona parte dei suoi elettori e militanti in sintonia ideologica con il dipietrismo.
Eppure, prendere di petto queste questioni è vitale per il Pd. L’occasione per fare un salto dal moralismo al riformismo, per affrontare a muso duro il «partito moralista », potrebbe consistere nell'accoglimento della richiesta del presidente della Repubblica di un accordo bipartisan sulle intercettazioni. La politica moralista è sempre stata intrecciata con le questioni di giustizia. Imboccando la strada di un accordo con il centrodestra sulle intercettazioni, il Pd potrebbe cominciare a sciogliere quell’intreccio. Scegliendo di porre fine a una ventennale, opportunista, politica di fiancheggiamento della Associazione Nazionale Magistrati, scegliendo di non chiudere più gli occhi di fronte agli eccessi dell'attivismo giudiziario, il Pd comincerebbe a regolare i suoi conti anche con il dipietrismo e le sue finte virtù. In nome e per conto di una identità riformista finalmente in cantiere.
In un mondo di peccatori, quel poco di etica pubblica che è possibile salvaguardare richiede lucido e pragmatico riformismo. Lasciando alla Chiesa il compito di proclamare i santi.
Angelo Panebianco 03 agosto 2009 da corriere.it
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« Risposta #62 inserito:: Agosto 26, 2009, 04:38:13 pm » |
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IL DIBATTITO SU MORALISMO E RIFORMISMO
La politica non è lotta tra bene e male
E' possibile liberare dalla gabbia mentale in cui sono imprigionati coloro che confondono politica e morale, che credono che moralità e moralismo siano sinonimi, che pensano che la politica sia una guerra fra l'armata della luce e quella delle tenebre? In un editoriale del 3 luglio ho sostenuto che il Partito democratico dovrebbe scrollarsi di dosso l'ipocrita impalcatura moralista che si è costruito. Che nel Pd ci sia una divisione fra riformisti e moralisti è dimostrato dalle reazioni a quell'articolo.
Linda Lanzillotta, prendendo lo spunto dalle inchieste pugliesi, ha fatto un ineccepibile intervento (Corriere del 4 agosto) sulla necessità di una riforma del sistema della sanità che separi politica e amministrazione: un esempio cristallino di ciò che intendevo, nell’editoriale citato, per approccio riformista ai problemi di etica pubblica. Però, sempre sul Corriere del 4 luglio, si poteva anche leggere la sdegnata replica al mio articolo di Franco Monaco, democratico doc come la Lanzillotta, ma di altra pasta. Quello di Monaco sembrava un comunicato dell’ufficio stampa dell’Italia dei Valori. È la presenza di tanti Monaco a spiegare l’impossibilità per il Pd di scindere le proprie sorti da quelle di Di Pietro, di fare il salto dal moralismo al riformismo.
Anche se è difficile oggi separare la questione del moralismo da quella della presenza in politica di Silvio Berlusconi proverò a farlo. Perché ci sono anche, mi ha ricordato Mario Pirani ( La Repubblica , 7 agosto), ottime ragioni politiche per criticare Berlusconi. L’intervento di Pirani, uno dei pochi editorialisti di Repubblica da cui non mi senta culturalmente agli antipodi, mi ha richiamato alla mente certi rituali del Pci, dove il reprobo veniva attaccato da uno che egli non riteneva troppo diverso da sé. Pirani elenca i tratti di Berlusconi (il conflitto di interessi, gli attacchi alla magistratura, eccetera) che richiedono di essere combattuti. Bene, ma faccio notare a Pirani che la sua ricostruzione è troppo squilibrata. Berlusconi, dice Pirani, è un unicum nel panorama conservatore: non è Sarkozy, la Merkel o Cameron. Sì, ma uno sguardo storico aiuta a capire. Noi non abbiamo avuto de Gaulle. Né la secolare alternanza fra conservatori e laburisti. Noi avevamo un sistema bloccato dominato da democristiani e comunisti. Berlusconi è un unicum ma è il prodotto di un altro unicum: la rivoluzione giudiziaria che spazzò via i partiti moderati e che, anch’essa, non ha confronti con quanto accaduto in altre parti d’Europa. Inoltre, come Pirani sa, i conflitti di interesse sono, per le democrazie, difficili da gestire (vedi il caso Bloomberg a New York).
Da noi, certo, il problema è reso ancor più acuto a causa delle televisioni. Ma imporre all’imprenditore che assume certi ruoli di vendere le aziende significa ignorare le regole del mercato: poiché vendere per legge è uguale a svendere tanto vale stabilire che agli imprenditori sia interdetta la politica. È fattibile? In altri termini, Pirani ha ragione ma fino a un certo punto: dimentica le cause che hanno «prodotto» Berlusconi e sottovaluta la complessità, e la difficile trattabilità, dei problemi che la presenza in politica di figure come la sua comportano. Mi meraviglio poi che Pirani adotti un atteggiamento così acritico sulla questione del rapporto fra Berlusconi e la magistratura. Ricordo che nei primi anni Novanta io e Pirani, consapevoli dei guasti di un sistema giudiziario fondato sull’onnipotenza del pm, eravamo fra i pochi a invocare la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Possibile che Pirani abbia cambiato idea al punto di vedere nello scontro fra Berlusconi e certi settori della magistratura solo la lotta fra un impunito e i suoi irreprensibili accusatori? Se così fosse, sarebbe Pirani, e non io, come egli mi accusa, a sfogliare le favole dei fratelli Grimm.
È infine strano che un fine analista sembri non comprendere il vero segreto del successo di Berlusconi dal ’94 in poi: il fatto che in un Paese iperstatalista, dominato fino a quel momento dai grandi «collettivi» (il Partito, il Sindacato, la Corporazione) abbia fatto irruzione un imprenditore che si è appellato allo spirito individualista, che ha proposto una «via individualista alla felicità». Si può deprecare il fatto ma non sottovalutarlo. Personalmente, ciò che soprattutto non sopporto di Berlusconi è la distanza, per me intollerabile, fra le promesse e le realizzazioni (di liberazione degli individui da «lacci e lacciuoli», nelle sue esperienze di governo, se n’è vista poca) ma, di sicuro, non sono fra quelli che deprecano l’appello al ruolo dell’individualità.
Torno sulla questione del moralismo. A forza di campagne moralistiche, nel corso dei decenni, si è messa larga parte delle nuove generazioni nell’impossibilità di capire alcunché di politica. Le si è addestrate a pensare la politica nei termini infantili e menzogneri della lotta fra il bene e il male, le si è condannate a non vedere la complessità del mondo e la sua ineliminabile ambiguità, anche morale. Non molti, ormai, riescono a distinguere fra la moralità (che investe una dimensione personale: riguarda il rapporto fra me, i miei atti e la mia coscienza e, per chi ci crede, Dio) e il moralismo, che è una tecnica di combattimento politico. I moralisti sono di due tipi: quelli che ci credono e quelli che si fingono. Quelli che ci credono pensano che invocare di continuo la moralità sia un modo di testimoniare la propria appartenenza alla schiera dei buoni. Sarebbero inoffensivi se la loro ingenuità non venisse sfruttata da altri, i veri utilizzatori del moralismo come tecnica politica. Da coloro, cioè, che in un mondo di esseri imperfetti e peccatori, si attribuiscono virtù che non hanno e si ergono a giustizieri morali. Sono i responsabili della propagazione di una immagine farsesca della politica, come luogo del confronto fra luce e tenebre.
La loro presenza rende difficile affrontare i temi di etica pubblica. Questi ultimi riguardano, per lo più, problemi di convenienza collettiva: ad esempio, conviene abbassare il tasso di corruzione, per generare condizioni di fiducia sociale e incentivi allo sviluppo, per migliorare le condizioni di vita. Ma parlare di queste cose con i moralisti è fiato sprecato.
Angelo Panebianco 14 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 31, 2009, 03:31:24 pm » |
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I PARTITI E LA RIDUZIONE DELLE TASSE
Una battaglia dimenticata
Diceva Adam Smith, padre dell’economia moderna, che perché in un Paese si dia «opulenza» occorrono tre condizioni: la pace, una «leggera tassazione» e una buona amministrazione della giustizia. Sostituiamo «opulenza» con «crescita economica sostenuta» e guardiamo, usando quelle lenti, al caso italiano degli ultimi decenni. La pace fortunatamente c’era ma il livello troppo alto di tassazione e il cattivo funzionamento della giustizia (si pensi alla giustizia civile, quella che più incide sugli affari) bastano a spiegare — se crediamo ad Adam Smith — perché l’Italia abbia avuto per così tanti anni, prima che esplodesse la crisi mondiale, tassi di crescita bassissimi. La domanda che oggi tanti si pongono è: quando la crisi finirà, quando l'economia mondiale tornerà a crescere, l’Italia ricomincerà ad arrancare, come ha fatto nei decenni scorsi, dietro ai nostri partner europei e occidentali più importanti? Ciò è assai plausibile se non verranno rimosse le cause della bassa crescita del passato. Qualche buona notizia forse c’è. Ad esempio, se la riforma del processo civile, voluta dal ministro Alfano, riuscisse davvero, come il ministro promette, a rendere più rapidi i procedimenti giudiziari, verrebbe meno un tradizionale impedimento al buon funzionamento della nostra economia.
Resterebbe comunque l’altro handicap, un livello di tassazione troppo elevato. Francesco Giavazzi, su questo giornale (26 agosto), ha chiesto al premier Berlusconi di tornare alle sue (non attuate) proposte «rivoluzionarie » dell’esordio, del 1994 e del 2001, in materia di fiscalità: si riducano drasticamente le tasse, dice Giavazzi, puntando sulla crescita per alleviare la pressione del debito pubblico. Altri economisti non concordano: avendo noi sulle spalle il terzo debito pubblico del mondo, dobbiamo muoverci, essi dicono, con la massima prudenza e gradualità. Lasciando ai tecnici dell’economia la discussione sul fatto se sia meglio procedere con una terapia d’urto in fatto di riforme (Giavazzi, ma anche Giacomo Vaciago sul Sole 24 ore ), con uno shock, oppure con lentezza e gradualità (la «corrente continua» di cui ha parlato il ministro dell’Economia Giulio Tremonti), bisogna anche ricordare che la questione ha importanti implicazioni politiche, tocca problemi di consenso e di coesione delle coalizioni elettorali che sostengono le diverse forze politiche.
Le circostanze forgiano e alimentano gli interessi. In un regime di basse tasse gli interessi contrari a innalzamenti della pressione fiscale sono potenti e rappresentano un forte deterrente per i governi. In un regime di tasse alte, come quello italiano, vale l’opposto: è il «partito delle tasse» a rappresentare la costellazione di interessi più potente, quella che ha i mezzi per opporsi con forza a modificazioni dello status quo fiscale.
In Paesi occidentali con una storia diversa dalla nostra, il partito delle tasse è normalmente rappresentato dalla sinistra (mentre a destra sono più forti gli interessi alla riduzione della pressione fiscale). Nel nostro Paese non è così: il partito delle tasse taglia trasversalmente destra e sinistra, è ben rappresentato in tutti e due gli schieramenti.
Se ci limitiamo alle forze di governo sembra plausibile sostenere che il Pdl sia diviso fra una parte che vorrebbe rispondere positivamente alla domanda di riduzione della pressione fiscale che viene da settori consistenti dell’elettorato di quel partito e la parte che, vivendo di intermediazione pubblica, teme che una riduzione delle tasse porti con sé una contrazione dell’ammontare delle risorse a disposizione. Le molteplici lobby della spesa pubblica sono, e sono sempre state, le componenti più forti e aggressive del partito delle tasse.
Del tutto speciale è poi il caso della Lega. La Lega ha sempre impostato la sua polemica politica sui «soldi» ma ne ha fatto, in coerenza con un’ispirazione territorial-comunitaria, più una questione di rapporto fra Roma e il Nord («Ci teniamo noi i nostri soldi») che una questione di minor pressione fiscale sui cittadini. Per inciso, credo che questa sia anche la ragione principale per la quale la Lega, pur in crescita, non potrà non incontrare un limite nella sua espansione elettorale al Nord.
La crisi e il debito ci opprimono e non ha torto Tremonti quando dice che governare significa prendere decisioni qui e ora per affrontare i problemi che incombono. Però, se siamo tutti d’accordo che senza forti riduzioni della pressione fiscale non c’è crescita seria (e pare difficile che questa tesi, a sostegno della quale abbondano le osservazioni storiche, possa essere smentita da qualcuno), allora bisognerebbe, quanto meno, indicare una prospettiva, un percorso, che ci porti, con tutte le cautele e le gradualità del caso, verso un regime di fiscalità meno esosa, per le imprese e per i cittadini. Tremonti lascia intendere che sarà il federalismo fiscale, «la madre di tutte le riforme », come egli la chiama, a sciogliere molti nodi. Può essere che sia così ma può anche essere che il fortissimo partito delle tasse riesca a piegare il federalismo fiscale alle sue esigenze. È successo tante volte, in tanti Paesi, non solo in Italia, che riforme istituzionali concepite per raggiungere certi scopi siano state piegate dagli interessi costituiti al servizio di scopi differenti. Dubito che il federalismo fiscale, se non accompagnato da misure incentivanti la riduzione delle tasse, possa essere, da questo punto di vista, una panacea.
Checché ne dicano i suoi nemici la crescita economica è un valore, perché porta con sé più benessere, più libertà e anche la possibilità, se lo si vuole, di politiche volte ad assicurare una maggiore equità (la crescita non garantisce di per sé equità ma la sua assenza comporta sempre iniquità). Per ottenerla non si conosce strumento migliore della «leggera tassazione» di cui parlava Adam Smith.
Angelo Panebianco 31 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #64 inserito:: Settembre 06, 2009, 12:11:29 pm » |
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I COSTI DI UNA FRATTURA IMPREVISTA
Le scelte politiche dei cattolici
Singoli eventi non possono modificare le relazioni fra istituzioni ma possono accelerare tendenze in atto. Il caso Boffo, pur nella sua gravità, non causerà il riposizionamento della Chiesa nei confronti del sistema politico italiano. Può però accelerarlo.
Ricapitoliamo il percorso compiuto. Tramontata l’epoca dell’unità politica dei cattolici, scomparsa la Dc, la Chiesa (italiana) si adattò al nuovo mondo bipolare. Il bipolarismo presentava per essa un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio era che, non essendo la Chiesa monolitica, le sue componenti, in ragione dei loro differenti orientamenti, potevano trovare interlocutori, a beneficio dell’istituzione, in entrambi gli schieramenti. Lo svantaggio era che il feroce bipolarismo italiano rischiava di trasferire i suoi veleni nella Chiesa accrescendo, oltre il limite di guardia, la conflittualità interna. La fortuna della Chiesa, per un lungo periodo, fu di contare, alla testa della Conferenza episcopale, su un uomo come il Cardinale Camillo Ruini, capace, con energia e finezza politica, di garantire una navigazione sicura in acque insidiose.
Dal ’94 ad oggi, dire «bipolarismo » significa dire Berlusconi: nel senso che è stata la presenza di Berlusconi (più delle leggi elettorali) ad assicurare, grazie ai consensi e agli odi che ha suscitato, la divisione del Paese, il bipolarismo politico. Nei governi Berlusconi la Chiesa italiana trovò più di un interlocutore ben disposto: il centrodestra assunse in toto , creando frustrazione nelle sue frange laiche, la rappresentanza delle istanze della Chiesa (fecondazione assistita, opposizione ai Dico, testamento biologico, ecc…). Il prezzo, per la Chiesa, fu di scontentare quella parte di sé e del più generale mondo cattolico ostili a Berlusconi. Ma era un prezzo che poteva essere pagato fin quando il centrodestra fosse rimasto un interlocutore affidabile.
Oggi le cose sono in movimento. La Chiesa, come tutti, deve prendere atto che il ciclo politico di Berlusconi è comunque nella fase discendente. Al massimo, entro qualche anno, dovrà concludersi. E, come tutti, la Chiesa deve anche chiedersi se il bipolarismo sopravvivrà all’uscita di scena di Berlusconi. In più, le vicende personali del premier e ora il caso Boffo, sembrano avere innalzato il livello di conflitto all’interno dell’istituzione. Garantire l’unità, trovare una sintesi, impedire conflitti laceranti, è adesso, per i vertici della Chiesa italiana, difficile.
E’ evidente che la Chiesa, confusamente, si interroga sulle opzioni disponibili: mantenere un rapporto privilegiato con il centrodestra tenendo a freno gli avversari interni? Puntare su un «partito cattolico » di centro (una mini- Dc) che tuteli i suoi interessi quali che ne siano le alleanze? Cercare nella sinistra un nuovo interlocutore? La prima opzione è resa complessa dalle vicissitudini del premier e dai loro contraccolpi. La seconda rischia di risultare velleitaria. La terza deve fare i conti con l’egemonia esercitata sulla sinistra da moralisti che si ammantano di «virtù repubblicane » e che incarnano un nuovo partito ghibellino. Alla fine, i nodi verranno sciolti dalla politica. A decidere, anche delle scelte della Chiesa, sarà la sorte del bipolarismo: in sostanza, la capacità o meno del centrodestra di superare la crisi di successione senza disgregarsi.
Angelo Panebianco 06 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #65 inserito:: Settembre 10, 2009, 11:02:43 am » |
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IL PROFILO POLITICO DEL PD
Un'offerta inesistente
Il Partito democratico si avvia verso il congresso. La lotta precongressuale è stata aspra ma ciò non è servito a guarire la malattia di quel partito: la scarsa credibilità della sua «offerta politica» complessiva, l'assenza di un insieme di idee e di proposte potenzialmente in grado di convincere una parte rilevante di quegli elettori che, fin qui, si sono tenuti alla larga dal Partito democratico. Di più: mi pare che ci sia, in settori significativi del Pd, la sfiducia nella possibilità stessa che una forte offerta politica possa essere confezionata. Come altro si può interpretare il fatto che il gruppo dirigente oggi non speri, per vincere di nuovo, nelle virtù e nelle capacità proprie ma unicamente negli incidenti di percorso altrui? Non è forse vero che, per tornare al governo, il Pd si affida solo alla speranza di una uscita di scena di Berlusconi e della disgregazione del centrodestra? Non è forse vero che esso ripone le proprie chances, anziché nella capacità di attrarre elettori, in quella di attrarre alleati? Puntare tutte le proprie carte, piuttosto che sulle possibilità di sfondamento nell'arena elettorale, sulle manovre nell'arena parlamentare, significa sostituire la tattica alla strategia, sperare che il tatticismo e le capacità manovriere possano sopperire ai ritardi culturali e alle inadeguatezze politiche.
Quando Massimo D'Alema dice che un partito del 27-30 per cento può andare al governo solo costruendo alleanze, rivela la sua sfiducia nelle possibilità di crescita autonoma del partito. Una sfiducia della quale è peraltro facile identificare l'origine: va cercata in una pagina di storia ormai chiusa, quella del partito comunista. Non critico D'Alema per questo: tutti noi siamo condizionati dalle nostre esperienze passate. Ma è un fatto che pensare che un partito del 30 per cento sia condannato a rimanere tale è un portato di quella esperienza. All'epoca del bipolarismo Usa/Urss il Partito comunista non aveva possibilità di espansione al di là di una certa soglia elettorale. Poteva accrescere la propria influenza politica e, eventualmente, entrare nell'area di governo, solo grazie alla sua capacità di costruire alleanze. È quello schema che, consapevolmente o meno, D'Alema oggi ripropone. Ma nel mondo attuale, senza più conventio ad excludendum, guerra fredda e partiti comunisti, quello schema dovrebbe essere buttato via. Perché, nelle nuove condizioni, un partito del 27/30 per cento (alle precedenti elezioni) può benissimo, se azzecca la proposta politica, se intercetta la domanda del Paese, sfiorare la maggioranza dei consensi (e magari, se poi governa male, tornare al 27 per cento o anche meno alle elezioni successive). Capisco il fatto che, in politica, le proposte degli avversari siano sbagliate per principio. Ma la verità è che l'idea del «partito a vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni non era affatto sbagliata. Nasceva dalla presa d'atto che, nel dopo guerra fredda, un partito di sinistra (non comunista), se centra la proposta politica, può benissimo giocarsela «alla pari» con la destra. L'idea era eccellente ma venne realizzata male. La proposta politica non fu abbastanza innovativa e ci fu l'errore dell’alleanza con Di Pietro.
Certo, poi ci vogliono anche le alleanze. Ma le alleanze vengono dopo la proposta politica. È nella proposta politica la vera debolezza del Pd. Ne deriva un circolo vizioso: la debolezza dell'offerta politica genera problemi di identità che alimentano la sfiducia, la quale a sua volta impedisce di agire creativamente per modificare l'offerta politica. Faccio solo l’esempio di un problema nel quale la debolezza, di visione e di proposte, del Pd è evidente: la questione dell'immigrazione. Si tratta di una questione decisiva. Nel XXI secolo è uno dei due o tre temi su cui ci si gioca, in Europa, il destino politico. I punti di criticità sono due: il problema dell'immigrazione clandestina e quello dell'immigrazione islamica. Sull'immigrazione clandestina il Pd balbetta. Affiorano qui i cascami di ammuffiti terzomondismi di origine comunista e cattolica. La sola cosa che il Pd sa fare è accusare di razzismo il governo. Ma davvero la politica detta dei respingimenti (in presenza di una colpevole latitanza dell'Unione Europea nel contrasto all'immigrazione clandestina) può essere così liquidata? Zapatero, il premier spagnolo, non risulta iscritto alla Lega Nord. Ma tratta con la massima durezza l'immigrazione clandestina. Non è forse nell'interesse dei Paesi europei mandare messaggi chiari alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani? E, ancora, davvero il reato di clandestinità (che esiste in tante democrazie) è una infamia? Che lo descriva così qualche vescovo poco interessato al fatto che l'Italia possieda dei confini (il reato di clandestinità è proprio questo: la dichiarazione secondo cui i confini dello Stato non sono una finzione o una barzelletta) è comprensibile, ma se lo fa un partito di opposizione esso si condanna a non diventare forza di governo. C'è poi la questione dell'immigrazione islamica. Bisognerebbe smetterla di gridare all'islamofobia tutte le volte che qualcuno ricorda che l'immigrazione islamica è quella che comporta le maggiori difficoltà di integrazione e, in prospettiva, i rischi più seri. Come dovrebbero insegnarci le imprudenti politiche della Gran Bretagna e dell'Olanda, «dialogo» e «accoglienza» non risolvono il problema. Perché non ci siano penosi risvegli fra qualche anno, occorre dettare condizioni chiare. Ma quelli del Pd, quando discutono di immigrazione, sembrano disinteressati al tema. Era solo un esempio, anche se rilevante. Costruire una offerta politica adeguata ai tempi può essere, per il Pd, una impresa faticosa, destinata anche a suscitare forti conflitti interni.
Ma, almeno, sarebbero conflitti da cui potrebbero nascere serie elaborazioni culturali e sforzi di immaginazione politica. Molto meglio che stare seduti sul greto del fiume, ripetendo fino alla noia vecchi slogan, e aspettando, inerti, di vedere passare sull'acqua il cadavere del nemico.
di ANGELO PANEBIANCO
10 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #66 inserito:: Settembre 21, 2009, 04:06:48 pm » |
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LE RAGIONI DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN
Un impegno sul terrorismo
Oggi, nel giorno dei funerali dei sei paracadutisti caduti a Kabul, l’Italia ufficiale si stringerà, con compostezza e rispetto, intorno ai nostri soldati. Come è certamente nei sentimenti di tutti e come l’opinione pubblica esige. Oggi non si sentiranno le «stecche» che si sono udite nel giorno dell’attentato. E’ importante che quelle stecche non si sentano più. Le questioni di guerra hanno questo di diverso rispetto alle normali lotte fra i partiti per, poniamo, l’accaparramento di cariche di presidenti di Regione: ci va di mezzo la vita dei soldati. Come ha osservato Emma Bonino ( Il Riformista , 19 settembre) il nemico ascolta, eccome: ci ascoltava quando, all’epoca del governo Prodi, la sinistra estrema minacciava sfracelli se non ce ne fossimo andati presto dall’Afghanistan e oggi ascolta le dichiarazioni (poi rettificate) di Umberto Bossi. Per questo, tali questioni non possono essere trattate dai partiti come se fossero faccende interne. Ciò non significa che non si debba partecipare, insieme agli alleati, a una riflessione collettiva su come fronteggiare le nuove, sempre più difficili, condizioni del conflitto in Afghanistan. Al di là di eventuali revisioni di strategia militare o politica, c’è un dirimente punto politico, come ha notato Sergio Romano, sul Corriere del 19 settembre, e come ha riconosciuto il ministro della Difesa Ignazio La Russa ( Il Corriere , 20 settembre): si tratta di rinnovare ogni sforzo affinché al Paese torni ad essere ben chiara la posta in gioco. Non è solo un problema italiano. E’ un problema europeo. Oltre che in Italia anche in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna, nelle opinioni pubbliche tende oggi a prevalere la richiesta di ritiro. Negli anni immediatamente successivi all’ 11 settembre 2001 era ancora chiaro agli europei il perché della presenza militare in Afghanistan. In seguito, man mano che andava sbiadendo la memoria dell’11 settembre e i talebani, ricostituite le forze, ricominciavano a combattere con crescente efficacia, le classi dirigenti europee non seppero rimotivare le opinioni pubbliche. E’ il senso della presenza europea in quel teatro che è andato perduto. Va urgentemente (ri) spiegato alle opinioni pubbliche che una vittoria talebana a Kabul destabilizzerebbe il Pakistan, e il fondamentalismo islamico tornerebbe a galvanizzarsi ovunque (anche in Europa). E’ per evitare che i kamikaze si mettano all’opera qui da noi che siamo in Afghanistan.
Poiché la guerra va ora male per gli occidentali, si è diffusa la tesi (consolatoria) secondo cui ciò che là accade avrebbe poco a che fare con il terrorismo islamico. Dipenderebbe dalle lotte fra i pashtun e le altre etnie, dai riflessi della rivalità indo-pachistana, eccetera. Questi elementi esistono. Ma sarebbe cecità non vedere che il conflitto ha due facce: la prima legata alle specificità locali e la seconda alle sorti del terrorismo internazionale. Ma come la mettiamo, qui da noi in Italia, si sente ripetere, con l’articolo 11 della Costituzione? L’articolo 11 venne scritto perché i costituenti avevano in mente le guerre di aggressione del fascismo. Sono quelle guerre che la Costituzione vieta. Significa far torto alla intelligenza e al patriottismo dei costituenti sostenere che essa ci impedisce di partecipare, con gli alleati, ad azioni militari tese a contrastare (oggi in Afghanistan, domani forse in Somalia e in altri luoghi) la diffusione del terrorismo.
Angelo Panebianco 21 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #67 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:04:17 am » |
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TESTAMENTO BIOLOGICO, LA SOLUZIONE POSSIBILE
La zona grigia tra vita e morte
Approvato nel marzo scorso dal Senato, il disegno di legge sul fine vita dovrebbe approdare alla Camera entro qualche settimana. Il testo varato dal Senato risente pesantemente dei violenti scontri ideologici esplosi a febbraio, in occasione della tragica conclusione della vicenda di Eluana Englaro. La scelta di interrompere, in ottemperanza a una sentenza di tribunale, l’alimentazione artificiale alla Englaro spaccò il Paese in due, diede luogo a una contrapposizione feroce fra due visioni (su questo punto è già intervenuto sul Corriere della Sera Giovanni Sartori), due concezioni della vita e della morte, e del diritto di ciascuno (rivendicato dagli uni, negato dagli altri) a decidere della propria morte.
Oggi, a distanza di mesi, placate (ma fino a quando?) le passioni ideologiche, sembra essersi aperto uno spazio di manovra per uscire dal cul de sac in cui la vicenda Englaro aveva sospinto il Paese. Un certo numero di deputati del Popolo della Libertà (molti dei quali vicini al presidente della Camera Gianfranco Fini) ha mandato una lettera aperta al presidente del Consiglio, pubblicata dal Foglio (23 settembre), proponendo una revisione del testo approvato dal Senato.
Si chiede che la legge si limiti a fissare dei paletti, ad affermare principi generali (il rifiuto sia della eutanasia che dell’accanimento terapeutico) abbandonando però «l’iper-regolamentazione giuridica» che caratterizza l’attuale testo. Si tratta, dice la lettera, di fare una legge ispirata alla «persuasione che il rapporto con la malattia, con le cure e con la morte (…) appartenga a uno spazio personale di cui la legge può prudentemente fissare i confini 'esterni' ma non i contenuti 'interni', che sono interamente affidati alle relazioni morali e professionali che legano il malato al suo medico e ai suoi congiunti». Questa lettera, portando alla luce il disagio di alcune componenti della maggioranza, ha riaperto una discussione che sembrava ormai chiusa.
Per capire i termini della questione occorre fare uno sforzo di immaginazione, fingere che sulla vicenda non pesi, come invece pesa, la «politica». Per politica intendo cose come la preoccupazione del governo di garantirsi, tramite la legge sul fine vita, un solido rapporto con la Chiesa, la fronda di Gianfranco Fini all’interno del Pdl, l’interesse dell’opposizione ad allargare le divisioni nella maggioranza, i conflitti, che fanno da sfondo a tutta la vicenda, fra clericali e anticlericali, fra berlusconiani e antiberlusconiani, eccetera. Conviene mettere in parentesi tutto ciò e ragionare solo sulla questione del fine vita.
Un buon punto di partenza può essere la teoria (che ha apparentemente poco a che fare col tema) formulata dall’economista Friedrich von Hayek sul rapporto fra la conoscenza e il mercato. Per dimostrare che i sistemi di mercato sono superiori ai sistemi di pianificazione Hayek sostenne che i pianificatori falliscono sempre per difetto di conoscenza.
Il pianificatore centrale, nonostante i suoi deliri di onniscienza, difetta delle conoscenze «localizzate», relative alle specifiche situazioni «locali», sempre diversissime le une dalle altre, in cui sono quotidianamente coinvolti gli attori economici (produttori e consumatori) e che solo essi possono conoscere. Da qui la superiorità dei sistemi economici decentrati (di mercato) rispetto ai sistemi economici pianificati.
Applichiamo la teoria al tema del fine vita. Le situazioni estreme con cui si confrontano i medici sono fra loro diversissime: dal punto di vista clinico e dal punto di vista del rapporto con ciascun paziente, i suoi familiari, eccetera. L’altissima variabilità delle situazioni rende la legge (l’equivalente del pianificatore centrale di Hayek) uno strumento inadatto a regolamentare nel dettaglio i casi: una disposizione di legge che va bene per un caso non va bene per un altro. Da qui la necessità che (come, tacitamente, si faceva prima che il tema venisse politicizzato) sia lasciato spazio alla discrezionalità e al giudizio del medico, in accordo col paziente o con i suoi familiari, sul caso singolo. Perché solo la conoscenza che essi (e non la legge) hanno del caso singolo, può permettere di fare le scelte più appropriate, di muoversi nel modo migliore nel terreno accidentato che separa l’eutanasia da una parte e l’accanimento terapeutico dall’altra. A febbraio, deplorando la politicizzazione del tema che il caso Englaro aveva provocato, chi scrive si espresse sul Corriere (9 e 23 febbraio) a favore del mantenimento di una «zona grigia» da preservare contro le intrusioni dello Stato (e la violenza che sui casi singoli quella intrusione avrebbe sicuramente provocato). La si chiami zona grigia o in un altro modo, di questo si tratta. Il problema è evitare «l’iper-regolamentazione giuridica».
Come sostengono, giustamente, gli estensori della lettera sopra citata.
C’è però una possibile obiezione. L’ha formulata l’on. Alfredo Mantovano, sostenitore dell’attuale testo di legge. Dice Mantovano (sul Foglio , 25 settembre): attenzione, il caso Englaro è nato da sentenze della magistratura, ideologicamente orientate, che forzavano le leggi vigenti nella direzione dell’eutanasia. Lasciare discrezionalità e decisione ai medici e ai familiari significa, in realtà, rimettere nelle mani dei giudici le scelte ultime in tema di vita e morte. Se non vogliamo che siano i giudici a decidere, deve essere il Parlamento a farlo. La preoccupazione di Mantovano è legittima. Osservo però che egli manifesta una eccessiva sfiducia nella capacità di auto-organizzazione della società (riferita in questo caso, al rapporto fra medici e pazienti). Il ricorso al giudice ci sarebbe solo nelle situazioni in cui quella capacità di autorganizzazione venisse meno. Per ogni singolo caso che approdasse in tribunale ce ne sarebbero moltissimi altri che non ne avrebbero bisogno. Che poi ci siano settori della magistratura che spesso pretendono di legiferare sostituendosi al Parlamento è vero ma è un problema generale, che di sicuro non riguarda solo la questione del fine vita.
Visto che una legge sembra a questo punto necessaria, che almeno essa sia il più possibile «liberale». Intendendo per tale una legge che lasci alle persone spazi di autonomia «dallo Stato» e che scommetta sulla responsabilità degli informati e competenti sul caso singolo.
Accettando anche quelle possibilità di errore che, come sempre nelle umane cose, accompagnano la responsabilità e la libertà.
Angelo Panebianco
30 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:01:45 am » |
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IL PREMIER E I TIMORI DEL COMPLOTTO
La stabilità di un governo
I capigruppo del Pdl di Camera e Senato hanno lanciato l'allarme contro un presunto piano eversivo che sarebbe in atto per «fare fuori» Silvio Berlusconi, per costringerlo alle dimissioni. Sono i «fantasmi del 1994» a essere stati implicitamente evocati. Nel '94, ricordiamo, la caduta del governo Berlusconi fu propiziata dalla garanzia offerta ai «congiurati » che non ci sarebbero state immediate elezioni anticipate. Ma al Quirinale oggi siede un vero custode della Costituzione come Giorgio Napolitano e questa è la migliore garanzia che i fantasmi del '94, comunque, non si materializzeranno. I due capigruppo hanno reagito a un «clima» (soprattutto la sentenza ai danni di Fininvest sulla vicenda Mondadori, arrivata pochi giorni prima della pronuncia della Corte costituzionale sul Lodo Alfano). Ma sbagliano, fanno il gioco dei loro avversari, scegliendo la strada della drammatizzazione. Certamente, ci sono settori della sinistra politica, nonché dell'establishment economico-finanziario, che sognano la «spallata ». Come mostrano le indulgenze e le coperture che quei settori danno agli strampalati allarmi sul «fascismo alle porte» e sulle «minacce per le libertà democratiche». Ma è difficile che nuovi aspiranti congiurati possano portare a compimento i loro disegni.
Il governo Berlusconi conta su un'ampia e solida maggioranza. E continua a godere di forti consensi nel Paese (più forti, stando ai sondaggi, di quelli di qualunque governo del recente passato al secondo anno di legislatura). Non sembrano esserci le condizioni per una sua liquidazione tramite congiure di Palazzo. Neppure in caso di bocciatura del lodo Alfano. A proposito del quale è ovviamente lecito pensarla come si vuole. Chi scrive pensa che il lodo Alfano sia un ombrello utile per garantire la stabilità dei vertici istituzionali della Repubblica. Soprattutto dopo che (come ha ricordato Giuliano Ferrara sul Foglio ) tra i demagogici sviluppi della cosiddetta «rivoluzione giudiziaria» del 1993 ci fu l'eliminazione della protezione assicurata dall'articolo 68 della Costituzione. Tanto più in un Paese in cui, come tutti sanno (compresi quelli che fanno finta di non saperlo), accanto a tanti magistrati che fanno solo il loro lavoro, ce ne sono altri che perseguono disegni politici. Garantire che i risultati elettorali non vengano annullati dall'azione di chi fosse tentato di usare le risorse giudiziarie per costruirci sopra carriere politiche è una garanzia minima che la democrazia deve dare a se stessa.
Berlusconi ha tutti gli strumenti per governare. Per giunta, ha dimostrato in varie occasioni, dalla vicenda dell’immondizia in Campania al terremoto dell'Abruzzo, al G8, alla gestione della crisi economica, di saperlo fare. A lui e ai suoi conviene impegnarsi solo nell'azione di governo (facendo magari, finalmente, anche certe riforme promesse e non attuate: per fare un solo esempio, non si dovevano abolire le Province?), smettendola di seguire sul terreno della drammatizzazione coloro che, forse pensando di valere poco, disperano di essere capaci di sconfiggere Berlusconi in campo aperto, in una normale, democratica, competizione elettorale.
Angelo Panebianco 06 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:21:32 pm » |
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IL PDL, LA LEGA E LE PICCOLE IMPRESE
Quei produttori da ascoltare
Che cosa sta accadendo nei rapporti fra il governo e quel mondo di piccole imprese del Nord che, oltre a essere la vera spina dorsale del nostro sistema economico, è sempre stato anche, fin dai giorni del suo ingresso in politica nel 1994, il nucleo duro, la componente più importante, del seguito elettorale di Silvio Berlusconi? Da diversi mesi le approfondite inchieste di Dario Di Vico pubblicate dal Corriere documentano il disagio e le grandi difficoltà che vive ogni giorno questo cruciale (per le sorti del Paese) ceto sociale. La situazione deve avere raggiunto livelli davvero allarmanti se ieri perfino Il Giornale (per la penna, come sempre lucida, di Nicola Porro), commentando l'incontro nel Varesotto (a Vergiate) di una nutrita platea di piccoli imprenditori con Bossi e Tremonti, notava che in quel mondo «… l'umore è pessimo. Ancora, miracolosamente, non si è tradotto in aperta contestazione alla gestione di questo governo …. Ma la riserva di pazienza … è in via di esaurimento».
Tradizionalmente sottorappresentata nella Prima Repubblica, la classe media del Nord (piccoli e medi imprenditori, artigiani, professionisti, commercianti) vide improvvisamente cambiare il proprio rapporto con la politica nel 1994. Le elezioni di quell'anno sono ricordate soprattutto per il successo di Berlusconi e del suo partito, Forza Italia, costruito in pochi mesi. Ma il cambiamento forse più profondo riguardò gli equilibri territoriali della rappresentanza: per la prima volta nella storia repubblicana, sotto il traino di Forza Italia e della Lega, il Nord, e segnatamente la Lombardia, acquistava una centralità nelle istituzioni rappresentative che non aveva mai avuto in precedenza.
Il «vento del Nord» manifestò, da allora, i suoi effetti con la massima intensità. Si può ritenere che le formidabili resistenze che l'allora outsider Berlusconi suscitò subito nel sistema politico, ma anche nel sistema della grande impresa e nell'insieme delle corporazioni che erano state i pilastri di sostegno della Prima Repubblica, fossero anche (non solo, ma anche) alimentate da una furibonda «lotta per la rappresentanza »: la lotta fra il Nord emergente e quegli ambiti, territoriali e professionali, tradizionalmente sovrarappresentati nell'arena politica, che avevano usufruito, durante la Prima Repubblica, di canali privilegiati di accesso ai Palazzi romani.
Nel 1994 Berlusconi conquistò i ceti medi del Nord innalzando la bandiera della liberazione fiscale e della rivolta contro l'eccesso di burocrazia statale. Il suo successo fu tale che l'altro attore che aspirava a rappresentare quei ceti e che preesisteva a Forza Italia, la Lega di Bossi, si trovò relegato in un ruolo comunque importante ma secondario. Perché oggi le cose sono in movimento? Per tre ragioni, fondamentalmente. La prima è che Forza Italia, essendo confluita nel Popolo della Libertà, ha inevitabilmente acquisito un profilo meno «settentrionale» di un tempo. La sua capacità di ascolto è diminuita: deve tener conto anche degli interessi e delle aspirazioni di altre zone del Paese. La seconda è che la Lega ha affinato al massimo la sua capacità di azione sul territorio e si pone come l'interlocutore più presente e affidabile nel dialogo con i ceti medi del Lombardo- Veneto. Aspira, e i più recenti risultati elettorali la confortano, a sostituire il Pdl come rappresentante unico di quegli interessi.
Agevolata anche da una struttura partitica che per livello di organizzazione e coesione ricorda un po' il Pci emiliano o toscano di qualche decennio fa. Il Pdl, poco coeso, diviso al suo interno in una pluralità di sottogruppi in competizione e senza presenza capillare sul territorio, perde progressivamente terreno a favore della Lega. La terza ragione ha a che fare con l'azione del governo. Ammainate le antiche bandiere della liberazione fiscale, delle liberalizzazioni e della de-burocratizzazione della vita economica, il governo Berlusconi non dispone, al momento, di una proposta forte, di alto profilo, con cui arginare la concorrenza della Lega.
Assai più esposti ai colpi del mercato, per nulla protetti, a differenza della grande impresa, i piccoli imprenditori vedono sommarsi, ai mali antichi, le conseguenze della crisi. Il governo garantisce ascolto e provvedimenti ma la questione della rappresentanza, per questi ceti, resta apertissima. E' evidente che una parte di essi è già passata o si appresta a passare sotto le ali protettive della Lega, ma è altrettanto evidente che un'altra, forse più numerosa parte preferirebbe farne a meno.
La Lega infatti, con la sua ideologia comunitario- territoriale, e una prassi coerente con quella ideologia, suscita anche diffidenze, promette protezione ma non sempre innovazione, rappresentanza sindacale di interessi territoriali ma non necessariamente dinamismo sociale. Prefigura una società relativamente chiusa, ancorché efficacemente difesa nei suoi interessi quotidiani, più che una società dinamica e aperta. Anche se va riconosciuto che la Lega è riuscita nel tempo a creare una classe di amministratori locali spesso competenti e con autentica capacità di ascolto nei confronti dei ceti produttivi.
L'abbandono da parte del governo dell'antica proposta «liberista» che fu della Forza Italia delle origini è certo dovuta anche alla esigenza di fronteggiare la crisi, di attutirne gli effetti, senza destabilizzare i conti pubblici (che è quanto il ministro Tremonti, e l'esecutivo nel suo insieme, sono fin qui riusciti a fare con successo). Però è anche indubbio che in questo modo il Pdl si è trovato sprovvisto delle sue armi più efficaci nella sfida con la Lega per la rappresentanza dei ceti medi del Nord.
In Germania il partito liberale ha riscosso un grande successo con la sua battaglia antitasse. Anche nel Nord d'Italia quello sembra essere il miglior terreno su cui chi ne avesse voglia e capacità potrebbe sviluppare un'azione efficacemente competitiva nei confronti della Lega e della sua utopia comunitaria.
Angelo Panebianco
11 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #70 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:56:48 pm » |
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CATEGORIE DI UNA (BRUTTA) STAGIONE
L’estremista, il fazioso e il pluralista
Viviamo in una fase, simile ad altre della nostra storia, di incanaglimento della lotta politica, siamo immersi in un clima di guerra civile virtuale. Siamo, pur con i nostri difetti, una democrazia ma rispettabili pensatori di altri Paesi, aizzati da demagoghi nostrani, vengono a spiegarci che viviamo sotto una dittatura. Abbiamo un dibattito pubblico apertissimo ma c’è chi racconta che la libertà di stampa è minacciata. Alcuni parlano dell’Italia come se si trattasse dell’Iran o della Birmania. Abbiamo libere e regolari elezioni ma una parte non esigua degli elettori dello schieramento sconfitto non riconosce la legittimità del governo in carica (ma la stessa cosa facevano certi elettori dell’attuale maggioranza quando governavano i loro avversari).
E’ in questi momenti che conviene tornare ai «fondamentali»: che cosa permette a una democrazia di sopravvivere? Di quali virtù o qualità deve essere dotata la cittadinanza democratica? La democrazia è un regime moderato. Ha bisogno che a guidare i governi siano sempre forze moderate, di destra o di sinistra, e che le componenti estremiste siano tenute a bada. Ma perché ciò accada occorre che, fra i cittadini, prevalgano certi atteggiamenti anziché altri. Nelle democrazie, in tutte, la maggioranza dei cittadini ha interesse nullo, scarso o sporadico per la politica. E’ sempre una minoranza, magari consistente ma pur sempre minoranza, a seguire con continuità le vicende politiche. Sono gli atteggiamenti prevalenti in questa minoranza a dettare tono e qualità della democrazia.
Sono tre i tipi umani che più frequentemente si incontrano in tale minoranza: l’estremista, il fazioso, il pluralista. Li indico nell’ordine che va dal meno al più compatibile con la democrazia. Gli estremisti veri e propri, così come qui li intendo, sono (fortunatamente) sempre pochi, anche se rumorosi e, spesso, pericolosi. La loro presenza dipende da certe caratteristiche della politica, dal fatto che la politica, più di qualunque altra attività umana, si presta ad essere il luogo in cui si possono scaricare le frustrazioni personali. Per l’estremista la politica è una grande discarica nella quale egli getta la parte peggiore di sé. L’estremista è uno che odia. Odia se stesso in realtà ma trasforma l’odio per se stesso in odio per il «nemico politico». La politica, data la sua natura competitiva e conflittuale, si presta bene per questa operazione. Lo sventurato giovane che su Facebook si è chiesto perché nessuno abbia ancora ficcato una pallottola in testa a Berlusconi è una vittima del clima che gli estremisti alimentano (per inciso, quel brutto incidente potrebbe essere la sua fortuna: se non è uno stupido rifletterà, capirà che un uomo è tale solo se pensa con la sua testa, se non si fa comandare o suggestionare dal clima dominante negli ambienti che frequenta).
Poi c’è il fazioso. A differenza dell’estremista il fazioso, come qui lo intendo, non è un caso psichiatrico. Però è spaventato dalle opinioni in contrasto con la sua. Nei mezzi di comunicazione cerca più conferme ai suoi pregiudizi che informazioni o dibattiti di idee. È rassicurato dall’idea che esista, in materia di politica, la «verità», unica, chiara, indiscutibile, e che egli, essendo onesto e intelligente, la conosca. Per lui, quelli che non vogliono accettare la verità in cui egli crede sono disonesti o stupidi.
Il fazioso teme lo stress che gli procurerebbe il riconoscimento che il mondo è davvero complesso e ambiguo. Ha bisogno di contare su un quadro di certezze: di qua il bene, di là il male. Un grande economista, Joseph Schumpeter, diceva che spesso eccellenti persone, brave nel loro mestiere, sono in grado di parlare con competenza e maturità dei problemi della loro professione ma regrediscono all’infanzia appena cominciano a parlare di politica: il Bene, il Male, le fate e gli orchi, gli sceriffi col cappello bianco e i banditi col cappello nero. Il fazioso, essendo spesso tutt’altro che stupido, vive con patimento la sua contraddizione: la coesistenza, in lui, dell’orrore per le opinioni diverse dalla sua e del riconoscimento della necessità del pluralismo delle opinioni in una democrazia.
C’è infine il pluralista. Accetta il fatto che il mondo sia complesso e, dunque, che non ci sia, sui fatti contingenti della politica, una Verità acquisita per sempre. Accetta che il problema sia, ogni giorno, quello (faticoso) di impadronirsi, confrontando le opinioni e riflettendo sui fatti, di quel poco di precarissima «verità» che si riesce ad afferrare. Senza abdicare alle proprie convinzioni più profonde non teme di ascoltare pareri diversi. Pensa che, se sono ben argomentati e presentati con garbo, possano anche arricchirlo.
Quanto più nella minoranza che si interessa con continuità di politica prevale il tipo pluralista, tanto più la democrazia è salda e sicura. Non è questione di destra o sinistra o, attualmente, di berlusconiani e antiberlusconiani. Ci sono faziosi e pluralisti di ogni tendenza. Ad esempio, la differenza fra un fazioso antiberlusconiano e un pluralista antiberlusconiano è che per il primo Berlusconi è il nemico mentre per il secondo è solo un avversario.
C’è poi la questione dell’uovo e della gallina. Ci sono fasi in cui, entro la minoranza che segue la politica, i pluralisti si trovano in difficoltà e sembrano quasi soccombere di fronte alla prepotenza dei faziosi (sempre seguiti da un imbarazzante codazzo di estremisti). È difficile stabilire se in quei momenti i faziosi prevalgono perché aizzati dalle urla di furbi demagoghi o se, invece, i furbi demagoghi hanno successo a causa dell’esistenza di una folta pattuglia di faziosi.
Angelo Panebianco
19 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #71 inserito:: Ottobre 22, 2009, 11:20:04 pm » |
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IL SUD TRAVOLTO DALLE INCHIESTE
L'emergenza meridionale
L’inchiesta che coinvolge l’ex ministro della giustizia Clemente Mastella, alcuni suoi familiari ed esponenti dell’Udeur è l’ultimo tassello che si aggiunge alle affollatissime cronache politico- giudiziarie campane. Ha scioccato tutti il caso di Castellammare di Stabia: il camorrista con tessera del Pd che ha ammazzato un consigliere comunale del suo stesso partito. Poi c’è stata la sconsolata intervista ( Corriere , 20 ottobre), di fatto una dichiarazione di impotenza, di Enrico Morando, commissario straordinario del Partito democratico in Campania. Mentre, a pochi giorni ormai dalle primarie del Pd, si discute se sospenderle o no in Campania, date le condizioni in cui versa il partito (come dimostrano i tesseramenti gonfiati dalle lotte di corrente). Una débâcle per il Pd in una regione nella quale la sinistra è dominante da decenni. Si aggiunga, per completare il quadro campano, che anche a destra, nelle fila dell’opposizione, non se la passano bene. Come mostra il conflitto, interno al Pdl, sulla candidatura alle regionali di Nicola Cosentino, a sua volta coinvolto in un’indagine per presunte relazioni con la camorra.
Premesso che l’unico modo per salvaguardare un minimo di civiltà è tenersi abbarbicati alla presunzione di non colpevolezza per qualunque indagato, resta che i discorsi che si sentono fare sanno di vecchio. Si può continuare a guardare il dito anziché la luna e raccontarsi che il problema sono le «infiltrazioni » criminali nei partiti o il clientelismo dei politici. Ma significa prendersi in giro. I partiti, organizzati o no, pesanti o leggeri, sono strutture che si adattano all’ambiente. L’ambiente è il Paradiso? I partiti saranno composti da angeli. L’ambiente è l’inferno? Prevarranno i diavoli. L’ambiente chiede sostegno al mercato? E’ ciò che i partiti daranno. L’ambiente chiede spesa pubblica e clientelismo? I partiti soddisferanno la richiesta.
Non è dai partiti ma dalla società che dovrebbe partire la bonifica. Il problema (che sta mettendo a rischio l’unità stessa del Paese) della Campania, come di vaste zone del Sud, è che non c’è più da decenni un progetto plausibile per lo sviluppo nel Mezzogiorno. Non ce l’ha la destra come non ce l’ha la sinistra. A meno che non si dica che il progetto per il Mezzogiorno sia il federalismo fiscale (si può immaginare l’effetto catartico del federalismo fiscale su Castellammare di Stabia). O la banca del Sud. O i piani per una «Lega Sud» (che sarebbe anche una buona idea ma solo se il suo slogan fosse «mettiamoci a fare denaro», ossia impegnamoci per lo sviluppo, anziché «dateci i denari»).
Forse sarebbe il caso di convenire che in ampie zone del Sud (non in tutte, certo) mancano attualmente le condizioni minime che rendono praticabile la democrazia locale (comunale, provinciale, forse anche regionale) e che un commissariamento centrale si rende, per quelle zone, e per molti anni, indispensabile. In modo da coordinare interamente dal centro sia la guerra alle organizzazioni criminali sia l’imposizione (per lo più, contro le classi dirigenti locali) di progetti di sviluppo. Occorrerebbe un accordo di ferro fra maggioranza e opposizione. Siccome quell’accordo non si può fare, continueremo ad ascoltare impotenti le notizie che arrivano dalla Campania e da altre zone del Sud lamentando le solite infiltrazioni, la solita corruzione, il solito clientelismo.
Angelo Panebianco
22 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA DA CORRIERE.IT
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 03, 2009, 09:57:25 am » |
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TIMORI DI UN ESECUTIVO FORTE
Il provincialismo che frena le riforme
C’ è la tenue possibilità, come ha osservato Sergio Romano (il Corriere, 1˚novembre) che l’elezione di Pier Luigi Bersani a segretario del Partito democratico contribuisca a rendere meno irrespirabile l’aria del Paese. C’è l’interesse del governo ad evitare, per il futuro, continui scontri frontali con l’opposizione: la sponsorizzazione della candidatura di Massimo D’Alema alla carica di responsabile della politica estera della Unione europea è una mossa che va in quella direzione. Ma c’è anche un interesse di Bersani a superare il clima da guerra civile. Bersani, la cui tradizione politica di provenienza teneva in gran conto il realismo, sa bene che quel clima può favorire solo gli estremisti. Alla lunga, la «politica delle urla» danneggia le forze moderate di sinistra. Si tratta di una possibilità tenue. I «combattenti della guerra civile» non molleranno l’osso, hanno troppo da perdere. Se ci sarà, su certi temi, dialogo fra maggioranza e opposizione, si può scommettere che Bersani verrà accusato dai suddetti combattenti di essere un traditore.
Ma Bersani si gioca il futuro del Pd. Sa che deve dare del suo partito l’immagine di una «forza tranquilla », capace di occuparsi con serietà dei problemi del Paese. Solo così può sperare di attrarre, nel Nord d’Italia soprattutto, quella parte di elettorato che oggi non lo voterebbe ma che potrebbe domani cambiare idea, che potrebbe abbandonare il centrodestra se il Partito democratico fosse capace di costruirsi una reputazione di seria e dinamica forza riformista.
Per qualificare così il proprio partito Bersani deve cercare il dialogo con la maggioranza là dove più accentuato è l’attivismo riformista del governo. Lavoro, scuola- università, pubblica amministrazione sono àmbiti nei quali il governo, comunque si giudichi la sua azione, ha mostrato una forte caratura riformista. Che deve fare l’opposizione? Continuare a dire che «è tutto sbagliato, è tutto da rifare», oppure tentare di dialogare apertamente col governo cercando reali punti di incontro per poi poter rivendicare una parte del merito dei provvedimenti adottati?
Se sui temi suddetti, e anche su altri (per esempio, le questioni degli sgravi fiscali alle imprese o della potatura della spesa improduttiva) il Pd fosse capace di presentarsi con proposte costruttive verrebbe certo accusato di intelligenza col nemico dai guerrafondai ma potrebbe guadagnare credibilità agli occhi dell’elettorato più centrista.
C’è poi il capitolo delle riforme istituzionali. Qui il terreno però è decisamente minato. Capire dove sono collocate le mine è importante. Sulla riforma della giustizia, nonostante l’opera, comunque preziosa, di pontieri di prestigio come Luciano Violante, le possibilità di azione bipartisan sembrano, al momento, scarse o nulle. È improbabile che il governo presenti un progetto di riforma che possa ottenere l’avallo della Associazione nazionale magistrati. E senza quell’avallo è difficile che il Pd sia in grado di accordarsi col governo.
Probabilmente, la questione della riforma della Costituzione (tranne negli aspetti che toccano il tema della giustizia) diventerà, di nuovo, come tante altre volte in passato, un terreno di seria discussione fra maggioranza e opposizione.
Le fondazioni che fanno capo a Gianfranco Fini e a Massimo D’Alema ci lavorano su da qualche tempo. E Violante ha ricordato i punti su cui, in Parlamento, è forse possibile trovare una intesa: «Trasformare il Senato in Camera delle Regioni, lasciare a Montecitorio la legislazione ordinaria e il potere di dare e togliere la fiducia, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare i poteri del presidente del Consiglio » ( Il Foglio , 31 ottobre).
Pur auspicando che un’intesa si trovi, mi permetto di essere scettico. A meno che non cambino certe condizioni. Di riforma della Costituzione si parla dai tempi di Craxi e sono sempre falliti tutti i tentativi di farla. Le responsabilità di questi ripetuti fallimenti non sono solo della classe politica. Sono anche di quelle forze, esterne alla classe politica in senso stretto, che hanno il potere di legittimare oppure di delegittimare l’operazione di riforma. Penso, in particolare, ai professori di diritto costituzionale. Fin quando la maggioranza dei costituzionalisti, come fino ad oggi è stato, manterrà un atteggiamento conservatore, le possibilità di cambiamento consensuale della Costituzione continueranno ad essere ridotte. Immaginiamo che si trovi un accordo sui punti indicati da Violante, ivi compreso il più controverso: il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Non ci sarebbe immediatamente una straordinaria mobilitazione di costituzionalisti di prestigio contro la «deriva autoritaria », contro il «fascismo alle porte»? E quella mobilitazione, sfruttata dalle forze politiche e dai giornali contrari all’accordo, non avrebbe un potente effetto delegittimante sull’intera operazione? Così è stato in passato. Perché le cose dovrebbero oggi cambiare?
In una eccellente ricostruzione- analisi della vicenda che apparirà sul numero di novembre di Le nuove ragioni del socialismo (e la cui lettura consiglio a quei politici, di maggioranza e di opposizione, che vogliano seriamente imbarcarsi nell’impresa), Augusto Barbera mostra benissimo quanto il provincialismo, l’incapacità di confrontarsi con le esperienze costituzionali europee — britannica, spagnola, tedesca — pesi sui pregiudizi, non solo dei politici, ma anche di molti costituzionalisti. Fare le riforme costituzionali non è solo una questione affidata alle possibilità di accordo fra maggioranza e opposizione. È anche una questione di aggregazione di consenso fra coloro che sono ritenuti competenti e legittimati a dire la loro sull’argomento.
Convincere la cultura costituzionalista del Paese che la democrazia richiede governi istituzionalmente forti è un lavoraccio: troppi costituzionalisti pensano ancora il contrario. Ma è un lavoraccio necessario, se si vuole arrivare a risultati. Altrimenti, la ripresa del dialogo sulle riforme costituzionali sarà solo, come altre volte, una scusa per instaurare, per qualche mese, un clima meno avvelenato fra le forze politiche. Meglio di niente. Ma troppo poco, forse, per le esigenze del Paese.
Angelo Panebianco
03 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 09, 2009, 11:36:23 am » |
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SE VAN ROMPUY GUIDERA’ L’EUROPA
Il presidente sconosciuto
Dal trattato di Lisbona, ora che con la ratifica della Repubblica Ceca è caduto l'ultimo ostacolo formale che ne impediva la messa in opera, nessuno si aspetta miracoli. Ma ci si aspetta che arresti la crisi delle istituzioni europee iniziata con la mancata ratifica del trattato costituzionale a seguito dei referendum francese e olandese del 2005 e il contraccolpo che ne è seguito: la marcata «rinazionalizzazione » della politica europea, il passaggio a una fase in cui i governi europei, con le loro specifiche esigenze, hanno occupato tutta la scena. Dalle disposizioni del trattato ci si attende più forza per le istituzioni dell’Unione e più efficienza per i suoi processi decisionali. Ci si aspetta, più in generale, condizioni favorevoli al riavvio del processo di integrazione.
Ma l'Unione, anche con il nuovo trattato, resta un sistema complesso nel quale elementi di sovranazionalità e potere degli Stati sono obbligati a convivere. E la loro convivenza comporta inevitabilmente difficoltà e incongruenze. Come mostrano le stesse dinamiche connesse alla «partita» delle nomine previste dal trattato di Lisbona: la nomina del presidente del Consiglio europeo e quella dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica della sicurezza. In entrambi i casi, anche se in modo diverso, si pone il problema della ricerca di un difficile equilibrio fra esigenze nazionali (dei singoli Stati) ed esigenze europee (dell'Unione nel suo complesso). La principale esigenza europea è che le cariche di presidente e di responsabile della politica estera si consolidino e acquistino col tempo crescente prestigio: in una parola, che si «istituzionalizzino ». L'inizio è decisivo. Una falsa partenza (per esempio, dovuta alla scelta di candidati di basso profilo) potrebbe compromettere l'operazione, togliere forza alle cariche previste dal trattato. Il problema è se, e fino a che punto, l'esigenza europea si concilia con le esigenze nazionali, i calcoli e le aspettative dei governi più coinvolti in questa partita. Prendiamo il caso della presidenza del Consiglio europeo. C'è (o c'era) sul tavolo un'unica candidatura di grande prestigio, quella di Tony Blair. Ma è traballante o forse già tramontata e va rafforzandosi l’ipotesi di una guida affidata all’attuale primo ministro belga Herman van Rompuy. Blair ha, o aveva, profilo e statura giusti per dare forza e slancio alla Presidenza del Consiglio. Ma poi ci sono le esigenze nazionali, non necessariamente congruenti con l'interesse europeo. A parte la convenienza dei conservatori britannici, probabili vincitori delle prossime elezioni, a non avere un avversario politico interno come Blair alla testa dell' Unione, c'è la più generale circostanza che i governi dei grandi Stati possono preferire per quella carica uomini di più bassa statura politica: qualche rispettabile figura sconosciuta ai più, troppo debole per dare lustro alla carica ma malleabile e disposta a seguire docilmente le istruzioni dei governi che più contano in Europa.
Anche nel caso della nomina del responsabile della politica estera il problema della composizione fra interessi nazionali e interesse europeo si pone. Ma in modo diverso rispetto al caso precedente: qui sono in campo solo nomi di prestigio. Noi italiani siamo direttamente coinvolti in questa partita in virtù della scelta del governo Berlusconi di appoggiare la candidatura di Massimo D’Alema. Una candidatura forte anche in Europa, per la statura del personaggio (già primo ministro e poi ministro degli Esteri nell’ultimo governo Prodi). Alla candidatura di D’Alema si contrappone, fino a ora, solo quella dell’attuale ministro degli Esteri britannico David Miliband. È evidente dove stia, nel caso della candidatura di D’Alema, l’interesse nazionale italiano così come le nostre principali forze lo interpretano: non solo si ottiene per un prestigioso politico italiano una carica così importante ma, in più, la sponsorizzazione del governo, se l’operazione andasse in porto, avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra maggioranza e opposizione.
C’è poi, anche in questo caso, l’interesse europeo. Esso può essere soddisfatto dall’alto profilo dei candidati. Ma dal punto di vista europeo, c’è un ulteriore problema: come la politica estera dell’Unione verrebbe influenzata dalla scelta dell’uno o dell’altro? L’Alto rappresentante ha infatti, almeno sulla carta, considerevoli poteri. Può incidere davvero (anche se, naturalmente, sempre coordinandosi con i governi che contano) sulle scelte dell’Unione. E i dossier su cui dovrà lavorare sono davvero delicati: rapporti con gli Stati Uniti, rapporti con la Russia, e tutte le esplosive questioni mediorientali. Sia D’Alema che Miliband sono politici di razza, non banderuole, e conosciamo i loro convincimenti. È presumibile che la politica estera della Ue risulterebbe parzialmente diversa a seconda che l’uno o l’altro divenisse «ministro degli Esteri» europeo.
Sono note, ad esempio, certe riserve che la candidatura di D’Alema suscita in Italia e fuori d’Italia, non certo per la persona (il cui valore è considerato fuori discussione) ma per un aspetto, soprattutto, della sua passata esperienza di ministro degli Esteri: la sua politica di allora per il Medio Oriente, il suo filo arabismo, e la sua posizione meno comprensiva per le ragioni di Israele che per quelle dei suoi nemici. D’altra parte anche per Miliband non mancano le riserve, se non altro data la tradizionale posizione della Gran Bretagna, critica di molti aspetti della costruzione europea. Sarebbe utile se i diversi candidati per le cariche in gioco fossero chiamati a esporre preventivamente di fronte all’opinione pubblica europea le loro intenzioni sulle più delicate questioni che ha di fronte a sé la Ue. Ciò aiuterebbe forse a trovare il giusto equilibrio fra i legittimi interessi nazionali e l’altrettanto legittima esigenza degli europei di conoscere quale politica i prescelti contribuirebbero a costruire.
Angelo Panebianco
09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #74 inserito:: Novembre 18, 2009, 04:44:46 pm » |
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PERCHE’ PREOCCUPA L’ANNUNCIO SPAGNOLO
Se l’Islam diventa partito
La politica democratica è strutturalmente vincolata a un orizzonte di breve periodo. La natura del sistema democratico spinge gli uomini politici ad occuparsi solo dei problemi che agitano il presente. Le altre grane, quelle che già si intravedono ma che ci arriveranno addosso solo domani o dopodomani non possono essere prese in considerazione. A differenza di ciò che fa la migliore medicina, la politica democratica non si occupa di prevenzione. Se così non fosse, una notizia appena giunta dalla Spagna dovrebbe provocare grandi discussioni entro le classi politiche di tutti i Paesi europei, Italia inclusa. La notizia è che, come era prima o poi inevitabile che accadesse, c’è già su piazza un partito islamico che scalda i muscoli, che è pronto a presentarsi con le sue insegne nella competizione elettorale di un Paese europeo. Si tratta del Prune, un partito fondato da un noto intellettuale marocchino, da anni residente in Spagna, Mustafá Bakkach. Ufficialmente, il suo intento programmatico è di ispirarsi all’islam per contribuire alla rigenerazione morale della Spagna. In realtà, cercherà di difendere e diffondere l’identità islamica. Avrà il suo battesimo elettorale nelle elezioni amministrative del 2011. Se otterrà un successo, come è possibile, solleverà un’onda (ce lo dicono i flussi migratori e la demografia) che attraverserà l’intera Europa. L’effetto imitativo sarà potente e partiti islamici si formeranno probabilmente in molti Paesi europei. A quel punto, la strada della auspicata «integrazione» di tanti musulmani che risiedono in Europa diventerà molto ripida e impervia. Perché? Perché la scelta del partito islamico è la scelta identitaria, la scelta della separazione, dell’auto- ghettizzazione. Si potrebbe anche dire, paradossalmente, che quando nasceranno i partiti islamici sarà possibile valutare davvero quale sia, per ciascun Paese europeo, il reale tasso di integrazione dei musulmani. Perché è evidente che il musulmano integrato (per fortuna, ce ne sono già moltissimi), quello che vive quietamente la sua fede e non ha rivendicazioni identitario-religiose da avanzare nei confronti della società europea in cui risiede e lavora, non voterà per il partito islamico. A votarlo però saranno comunque molti altri, sia per adesione spontanea (in nome di un senso di separatezza identitaria) sia a causa della pressione degli ambienti musulmani che frequentano.
Al pari del partito islamico spagnolo, si capisce, ogni futuro partito islamico europeo dichiarerà (e non ci sarà ragione di credere il contrario) di rifiutare la violenza. Non potrà infatti rischiare (pena il fallimento del progetto politico) vicinanze o contaminazioni con cellule terroriste più o meno attive o più o meno dormienti in Europa. Ma ciò non toglie che l’ideologia dei partiti islamici sarà comunque quella tradizionalista/ fondamentalista.
Sarà l’ideologia della cosiddetta Rinascita islamica, impregnata di valori antioccidentali e, alla luce del metro di giudizio europeo, illiberali. Si tratterà di forze illiberali che useranno la politica per strappare nuovi spazi, risorse e mezzi di indottrinamento e propaganda. Per questo, il loro ingresso nel mercato politico-elettorale europeo bloccherà o ritarderà a lungo l'integrazione di tanti musulmani. Che fare? La politica democratica non può facilmente difendersi da questa insidia. Però le possibilità di successo o di insuccesso dei partiti islamici nei vari Paesi europei dipenderanno da un insieme di condizioni.
Conteranno certamente anche le maggiori o minori chances che ciascun singolo musulmano avrà di ben inserirsi nel lavoro, e di poter accedere, per sé e per la propria famiglia, a condizioni di benessere (ma guai a credere che basti solo questo per annullare le spinte identitarie). Conteranno anche, e forse soprattutto, le caratteristiche istituzionali dei vari Paesi europei. Si difenderanno meglio, io credo, le democrazie dotate di sistemi elettorali maggioritari (che rendono difficile l’ingresso di nuovi partiti) rispetto a quelle che usano l’una o l’altra variante del sistema proporzionale.
La Gran Bretagna ha commesso errori colossali con la sua politica verso l’immigrazione musulmana. Il suo scriteriato «multiculturalismo» ha finito per consegnare all’Islam, e anche all’Islam più radicale, importanti porzioni del suo territorio urbano (al punto che oggi la Gran Bretagna deve persino fronteggiare il fenomeno dei numerosi cittadini britannici, di lingua inglese, che combattono in Afghanistan insieme ai loro correligionari talebani). Tuttavia, quegli errori sono forse ancora rimediabili. Il sistema maggioritario rende infatti molto difficile l’ingresso nel mercato politico britannico di un partito islamico. Diverso è il caso dei Paesi ove vige la proporzionale nell’una o nell'altra variante: l'ingresso è relativamente facile e la politica delle alleanze e delle coalizioni, tipicamente associata ai sistemi proporzionali, garantisce influenza e potere anche a piccoli partiti. Una circostanza che i futuri partiti islamici potranno sfruttare a proprio vantaggio. Da antico, e non pentito, sostenitore del sistema maggioritario penso che quella qui descritta rappresenti una ragione in più per adottarlo.
Angelo Panebianco
18 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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