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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160662 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 15, 2008, 12:05:46 pm »

BRUNETTA, GELMINI E IL PD

I due ministri più osteggiati

di Angelo Panebianco


Campagne di stampa contro Renato Brunetta, continue manifestazioni contro Mariastella Gelmini. Domandarsi perché Brunetta e Gelmini siano osteggiati dalla sinistra italiana più di qualunque altro membro del governo (ministri leghisti inclusi) significa interrogarsi sulla natura della suddetta sinistra, sul suo insediamento sociale, sulle domande dei ceti che ad essa fanno riferimento.

E significa chiedersi quali residue chance siano rimaste a quel progetto di «forza politica riformista » da cui nacque il Partito democratico.
I due ministri, fra mille difficoltà, stanno tentando di incidere due bubboni malati (pubblica amministrazione, istruzione) della nostra vita pubblica. Sono ambiti disastrati, soffocati da una ragnatela di rendite, piccoli privilegi, cattive abitudini, sprechi, inefficienze. E' più facile fallire che avere successo se si tenta di intervenire in questi settori ed è probabile che anche i tentativi di Brunetta e Gelmini alla fine falliscano. I due ministri, come chiunque altro, possono anche commettere errori ma stanno per lo meno tentando di fare qualcosa. Poiché fare l'opposizione a un governo non significa affatto picchiare duro su qualunque ministro, anche su quelli che un po' di «riformismo» tentano di praticarlo, non dovrebbe un'opposizione riformista cercare, proprio con quei due ministri, punti di incontro? Così formulata, la domanda è naturalmente ingenua.

La ragione per cui Brunetta e Gelmini sono oggi le bestie nere della sinistra è che essi stanno operando nel suo «territorio di caccia», nel cuore stesso della sua constituency elettorale: impiego pubblico e scuola. I dati sulla geografia sociale del voto sono inequivocabili: insieme ai pensionati, i dipendenti pubblici (in generale) e gli insegnanti rappresentano una parte preponderante del bacino elettorale della sinistra, del Partito democratico in primo luogo. Purtroppo per il Partito democratico e le sue aspirazioni riformiste, molti appartenenti a questi ceti (anche se non tutti) non chiedono riforme modernizzatrici ma una difesa dello status quo. Ad esempio, dietro alla radicalizzazione della Cgil ci sono di certo molte cause. Ma penso che l'attivismo dei ministri Brunetta e Gelmini abbia qualcosa a che fare con quel processo.

Stando così le cose, il Partito democratico è oggi in trappola. Da un lato, come qualunque altro partito, deve tener conto delle domande dei propri elettori. Tanto più che anche su pubblica amministrazione e scuola subisce il lavorio ai fianchi di Di Pietro e di una sinistra massimalista che spera di rientrare in gara nelle elezioni europee. Dall'altro lato, se si appiattisce su quelle domande, finisce per togliere ogni residua credibilità alla piattaforma modernizzatrice con cui si presentò alle elezioni. In queste situazioni solo la leadership può fare la differenza, smarcandosi dal fronte conservatore, proponendo nuove mete, mettendo in campo— anche su pubblica amministrazione, scuola, università — progetti seri, al di là degli slogan e della propaganda. Con il fine, in prospettiva, di conquistare nuovi territori di caccia, di agganciare elettori interessati alla modernizzazione del Paese.
Nel caso di Veltroni, in fondo, si tratterebbe di rileggere i propri discorsi dal Lingotto in poi e di proporre al Partito democratico di agire di conseguenza. Anche a costo di ridisegnare le proprie alleanze sindacali.

15 novembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Novembre 22, 2008, 12:21:57 pm »

CRISI E OLTRE

La politica e la libertà


di Angelo Panebianco


Ciò che più sgomenta della battaglia delle idee che la crisi sta alimentando è la voluttà con cui tanti si impegnano ad archiviare, attribuendola alla follia umana, quella rivoluzione liberale che prese l’avvio con le vittorie di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1980) e i cui effetti si manifestarono ovunque. Dimenticando che quella rivoluzione fu una reazione alla crisi, economica e morale, degli anni Settanta.
E cancellando, con un tratto di penna, i benefici che ne derivarono: una trentennale crescita economica mondiale e una spettacolare accelerazione della globalizzazione, certo nutrita di squilibri e disuguaglianze, ma anche capace di diffondere benessere e libertà in tanti luoghi che queste cose non conoscevano. Oggi si torna a rivendicare il «primato della politica» e ci si fa beffe degli stolti che confidano nella libertà, anche in quella «economica».

Conviene ricordare a chi irride il «liberismo » qualche insegnamento della storia. Anche dopo il ’29 il primato della politica venne riaffermato con forza (il New Deal, il socialismo scandinavo, l’Iri, i piani quinquennali sovietici, il riarmo hitleriano) in variante democratica o totalitaria. E anche allora l’intellighenzia occidentale si buttò con entusiasmo ad inseguire i miti del momento, sostenendo che il «liberalismo» (giudicato un residuo ottocentesco) era finalmente al tramonto, che stava per nascere la luminosa era della «pianificazione ». Sappiamo come finì. Il primato della politica sfociò nel protezionismo selvaggio e tutto si concluse (dieci anni dopo l’inizio della grande crisi) con una guerra mondiale. Il rapporto fra la politica e il mercato è uno degli aspetti più complessi (e oscuri, difficili da mettere a fuoco) delle società contemporanee. Lo dimostra, per un verso, la tradizionale difficoltà del pensiero liberale (e della scienza economica di ispirazione liberale) di fare i conti con il ruolo della politica. Spesso, all’acuta, intelligente, analisi delle situazioni economiche, quel pensiero affianca una critica solo moralistica della politica (per la sua propensione a farsi influenzare dagli interessi delle lobbies e a sacrificare la razionalità economica alle esigenze del consenso). Ma la difficoltà di fare i conti con la complessità del rapporto fra politica e mercato è dimostrata anche dalla disinvoltura dei fautori del primato della politica, i quali ne esaltano la capacità di occuparsi del «bene comune » (redistribuzione, protezione dei più deboli) ma sembrano ignari degli «effetti collaterali», pesantemente negativi, che quel primato porta con sé.

Gli assertori del primato della politica hanno un grande vantaggio rispetto ai liberali. Consiste nel fatto che dalla politica tutti si aspettano la soluzione ai loro problemi e le attribuiscono ogni colpa delle mancate o cattive soluzioni. La politica è il deus ex machina che tutti invocano. È interessante il fatto che non solo la gente comune ma anche gran parte delle élites fatichino ad accettare l’idea che non tutto ciò che accade sia il prodotto di decisioni politiche. Essi mostrano di non riconoscere che molti accadimenti sono semplicemente il frutto del reciproco adattamento «spontaneo» fra i comportamenti di milioni e, a volte, miliardi di persone, l’esito aggregato, per lo più imprevisto e imprevedibile, di un gran numero di azioni ispirate da altrettante menti singole. Nonostante la secolarizzazione, gente comune e élites continuano a credere che tutto si debba alla volontà degli Dei. La differenza è che questa idea di onnipotenza è stata trasferita, proiettata, su uomini in carne ed ossa, i cosiddetti potenti della Terra. I più, misconoscendo il ruolo fondamentale degli aggiustamenti spontanei, credono nella sola esistenza delle «mani visibili». Siano esse di Roosevelt, di Clinton, di Bush. Ma anche di Sarkozy, Berlusconi, eccetera.

L’attesa salvifica che oggi circonda Obama è un esempio estremo di questo persistente atteggiamento. A me pare che in questo atteggiamento si annidino due errori. In primo luogo, l’errore di non riconoscere che l’onnipotenza della politica è solo un mito. Un mito lugubre, per di più. Con quanto più accanimento è stato perseguito tante più catastrofi si sono prodotte. Il grande lascito culturale (che oggi la crisi va disperdendo) delle rivoluzioni liberali di trenta anni fa —a loro volta, ispirate al liberalismo classico, sette-ottocentesco— stava nel rifiuto dell’onnipotenza della politica, nel riconoscimento che solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società, che compito del governo non è darci la «felicità» ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità. Il secondo errore consiste nel non vedere i costi del primato della politica, non saper contrapporre ai vantaggi di breve termine i costi dì medio-lungo termine. Nel breve termine la politica è sicuramente in grado di assicurare vantaggi. Per esempio, in una situazione di crisi, salvando il credito, tamponando gli effetti della disoccupazione, eccetera.

Ma il punto è che ciò che la politica ci dà con una mano oggi se lo riprenderà domani con gli interessi (in termini di controllo sulle nostre vite). Certamente, dobbiamo oggi affidarci a decisioni politiche per fronteggiare la crisi. E dobbiamo purtroppo accettare una più forte presenza dello Stato. Ma se non lo facciamo a malincuore, se ci mettiamo dentro un immotivato entusiasmo, se non ci rendiamo conto che si può accettare un temporaneo ampliamento del ruolo dello Stato in condizioni di emergenza solo pretendendo che lo Stato si impegni a ritirare di nuovo i suoi tentacoli quando l’emergenza sarà finita, contribuiamo a preparare un futuro persino peggiore del presente. È una questione di atteggiamenti culturali. In America esistono potenti anticorpi che impediranno degenerazioni permanenti del tipo «socialismo di Stato». In Europa continentale gli anticorpi sono più deboli (in Italia, poi, sono debolissimi). Il rischio, qui da noi, non è il «ritorno dello Stato» della cui invadenza, in realtà, nonostante tanti sforzi, non ci siamo mai liberati. Il rischio è che quell’invadenza torni a godere di piena legittimazione culturale. Il rischio è dimenticare che quanto più la politica si impiccia, quanto più pretende di dispensarci la felicità, tanto più si riduce, col tempo, la libertà di ciascuno di noi.

22 novembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Novembre 30, 2008, 11:05:02 pm »

TERRORE JIHADISTA

Ae non indigna la caccia agli ebrei


di Angelo Panebianco


Mentre sono ancora frammentarie e confuse le notizie sui protagonisti, così come gli indizi sui mandanti, dell'attacco jihadista a Mumbai, gli analisti già ricominciano a dividersi, seguendo un canovaccio che è sempre lo stesso quando si tratta di terrorismo islamico. La divisione è fra chi ritiene che ogni singolo episodio terroristico, quale che sia la sua gravità, sia interamente spiegato dall'esistenza di conflitti locali (si tratti, di volta in volta, del Kashmir, della Palestina, del conflitto fra casa regnante ed estremisti in Arabia Saudita, dell'Afghanistan, dell'Iraq, eccetera) senza bisogno di prendere troppo sul serio le rivendicazioni dei jihadisti sul carattere «globale » della loro guerra contro apostati e infedeli, e chi invece ritiene che i conflitti locali siano fonti di alimentazione del jihad globale.

Non è una disputa accademica. Perché l'interpretazione che si adotta suggerisce linee di azione differenti. Se vale la prima interpretazione si tratterà, per l'Occidente, di agire pragmaticamente caso per caso, accettando il fatto di trovarsi per lo più di fronte a forme di irredentismo (Kashmir, Palestina), che usano strumentalmente la coperta dell'estremismo islamico, o di guerre civili che hanno per posta il potere all'interno di questo o quello Stato musulmano. Se vale la seconda interpretazione si tratterà di non perdere di vista il quadro di insieme e, per esso, il fatto che nel mondo islamico è da tempo in corso una lotta nella quale tanti gruppi estremisti (collegati tramite il web e le reti di solidarietà e finanziamento presenti in tutte le comunità islamiche, anche quelle europee) cercano di spostare a vantaggio delle proprie idee gli equilibri di potere all'interno della umma, della comunità musulmana nel suo insieme. In uno scontro di civiltà che usa la religione per distinguere musulmani buoni e cattivi e per identificare i nemici: i cristiani, gli ebrei, gli indù, eccetera.

Se si evitano le scelte ideologiche preconcette occorre riconoscere che tutte e due le interpretazioni contengono elementi di verità. Lo dimostra il caso di Mumbai. Hanno ragione quegli analisti che inquadrano la vicenda all'interno del conflitto indo-pakistano e delle sue connessioni con la guerra in Afghanistan. È plausibile che i burattinai stiano all'interno delle forze armate pakistane e che vogliano impedire la normalizzazione, sponsorizzata dagli Stati Uniti, dei rapporti fra Pakistan e India, sperando in una reazione indù antimusulmana: più sale la tensione, più essi possono segnare punti a proprio vantaggio all'interno del Pakistan nonché a favore dei propri alleati-clienti nella galassia talebana in Afghanistan. Ma ciò non spiega tutto. Fra gli ospiti degli hotel aggrediti erano gli americani e gli inglesi i più presi di mira. È dipeso solo dal ruolo degli angloamericani in Afghanistan? O non era anche un modo per lanciare agli islamisti sparsi per il mondo il messaggio secondo cui l'azione in corso era comunque parte di una più ampia lotta in cui il Grande Satana resta il nemico più importante? E, soprattutto, come si spiega l'attacco (anch'esso pianificato) al Centro ebraico, l'assassinio di un rabbino e di altri otto ebrei?

Cosa c'entrano gli ebrei con il conflitto indo-pakistano? Assolutamente nulla. Ma c'entrano moltissimo con l'ideologia jihadista e con il fanatismo antisemita che la caratterizza. Il richiamo più immediato è al caso di Daniel Pearl, il giornalista ebreo-americano rapito e sgozzato in Pakistan nel 2002. Il fatto che egli fosse ebreo ebbe una parte decisiva nel suo assassinio. L'attacco al Centro ebraico è la dimostrazione del fatto che il terrorismo islamico ha due facce, trae alimento da due radici: i conflitti regionali ma anche un'ideologia jihadista che ha per posta la riorganizzazione della umma, la comunità dei credenti, in chiave antioccidentale e della quale è un tassello essenziale la «guerra ai sionisti».

Per questa ragione, pur dovendo modulare le risposte a seconda delle condizioni locali, non conviene perdere di vista il quadro di insieme. Le battaglie «locali» (soprattutto quando si colpiscono anche ebrei e americani) ottengono una eco immediata in tutti i luoghi del mondo ove l'estremismo islamico alligna e favoriscono un proselitismo i cui effetti si manifesteranno in seguito, con altre azioni terroristiche, in altre parti del globo.

Per quanto riguarda noi europei di singolare nei nostri atteggiamenti verso il terrorismo islamico c'è l'indifferenza che spesso mostriamo per un aspetto della sua ideologia che dovrebbe, a rigore, apparirci ripugnante: l'antisemitismo. È una vecchia storia. La stessa Europa che ricorda l'Olocausto e si commuove davanti al film Schindler's List non prova particolare sdegno per l'antisemitismo diffuso nel mondo arabo, e musulmano in genere, di cui la «caccia all'ebreo» da parte dei jihadisti (anche a Mumbai) è una diretta conseguenza. Non casualmente, qui da noi trovò fertile terreno, dopo l'11 settembre, la favola secondo cui il jihadismo sarebbe colpa di Israele, un frutto delle persecuzioni israeliane nei confronti dei palestinesi. E vanno anche ricordati i sondaggi che registrano l'ostilità di tanti europei per Israele. Al fondo, sembra esserci una strategia inconsapevole e politicamente suicida. C'è l'idea che solo se neghiamo l'evidenza, ossia i veri caratteri dell'ideologia jihadista, solo se spieghiamo le sue manifestazioni violente come il frutto esclusivo di circostanze specifiche in luoghi lontani da noi, possiamo sperare di essere lasciati in pace.


30 novembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 07, 2008, 11:19:00 am »

GIUDICI E PD

Quando cambia il bersaglio


di Angelo Panebianco


Non siamo forse alla fine della stagione iniziata con la vicenda di Mani Pulite dei primi anni Novanta. Ci sono però due fatti nuovi.
Il primo è l'indebolimento di quegli elementari meccanismi di autodifesa che la magistratura usava per tutelare il proprio prestigio sociale e non offrire la gola scoperta a possibili interventi disciplinatori della politica. La furibonda guerra fra le Procure di Salerno e di Catanzaro ha mostrato all'opinione pubblica quanto sia malato il sistema giudiziario. Il rapido intervento del Csm, con drastiche sanzioni a entrambi i contendenti, è un tentativo di impedire un più ampio smottamento.

Anche se spettacolare questa guerra è però solo l'ultimo di una serie di episodi che hanno eroso il consenso di cui la magistratura godeva presso l'opinione pubblica. Fu grazie a quel consenso che alcune Procure assunsero, a partire dagli anni Novanta, il ruolo (informalmente politico) proprio delle «burocrazie guardiane». Cercarono, cioè, di mettere sotto tutela la classe politica, una cosa che è qualitativamente diversa dal normale controllo di legalità che i singoli magistrati svolgono nei Paesi democratici. La cosiddetta Seconda Repubblica ne fu condizionata. Né poteva essere diversamente. Poiché era stata la «rivoluzione dei giudici», come venne definita in gergo giornalistico, a dare il colpo mortale alla Prima Repubblica, era inevitabile che le Procure si trovassero a svolgere un ruolo politicamente sovraesposto nella Seconda. Un' amministrazione sapiente e accorta del rapporto con l'opinione pubblica era però la condizione indispensabile per lo svolgimento di quel ruolo. Venute meno sapienza e accortezza quel rapporto si è spezzato. La seconda circostanza è data dal parziale cambiamento dei «bersagli politici ».

Oggi la novità, suscettibile di modificare i rapporti fra politica e magistratura, è costituita dalla pluralità di inchieste su giunte di centrosinistra. L'azione delle Procure, da Mani Pulite in poi, ha sempre contato sul sostegno della sinistra nelle sue varie incarnazioni. Anche l'alleanza del Partito democratico con Di Pietro ha indirettamente ribadito questa tradizionale posizione. Ma in passato quel sostegno dipendeva dalla constatazione che a «farsi male» erano soprattutto gli avversari della sinistra. Adesso che a farsi male è anche il Partito democratico, è possibile che intervengano (non immediatamente, ma in futuro) cambiamenti di rotta. Le risposte della classe politica sono, al momento, insoddisfacenti. Il Guardasigilli dice, anche con riferimento alla guerra Salerno- Catanzaro, che tutto andrà a posto con le «riforme ».

Ma ammesso, e non concesso, che venga fatta una buona riforma dell'ordinamento giudiziario, solo un pregiudizio legalistico può far credere che cambiare le norme faccia anche cambiare d'incanto atteggiamenti e comportamenti. Gli effetti delle buone riforme si vedono, se si vedono, solo a distanza di anni. Al momento, sarebbe già tanto se passasse la legge sulle intercettazioni telefoniche. La sua assenza spiega perché non sia cessata quella forma di abuso che è la «pesca a strascico» (come l'ha argutamente definita Il Riformista), le intercettazioni diffuse, senza freni né regole. Se pretendiamo di essere una società liberale, la pesca a strascico, per lo meno, dovremmo vietarla.

07 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Dicembre 17, 2008, 09:45:53 am »

IL PD DOPO LA SCONFITTA ABRUZZESE

L’identità e gli apparati

di Angelo Panebianco


Dopo la catastrofica sconfitta in Abruzzo il Partito democratico è costretto a rifare i conti. Come ha scritto Massimo Franco sul Corriere di ieri, il problema del Pd non è la cannibalizzazione da parte dell’Italia dei Valori: il successo di Di Pietro, così come la scelta dell’astensione da parte di tanti elettori abruzzesi in precedenza di centrosinistra, sono i sintomi, non le cause.

Sono i sintomi di una malattia che se non verrà subito curata porterà il Pd all’autodistruzione. La malattia è presto detta: il Pd, al momento, non è né carne né pesce. È un partito senza identità. E se sei privo di identità perché mai gli elettori dovrebbero votarti? Troppo forte è risultato il divario fra i proclami sul nuovo riformismo e la realtà quotidiana. Da che cosa è fatta l’identità di un nuovo partito che, per giunta, si pretende riformista? Che cosa consente di definirlo nuovo? Che cosa consente di definirlo riformista? La novità dipende dal tasso di rinnovamento della classe dirigente. Il riformismo dipende dalla qualità delle policies, delle politiche che si adottano. La ragione per cui il Pd, fin dai suoi primi passi, è stato giudicato da tutti come la sommatoria dei Ds (gli ex Pci) e della Margherita (l’ex sinistra Dc) dipende dal fatto che la sua nascita non ha coinciso, né al centro né alla periferia, con un forte rinnovamento dei gruppi dirigenti.

Fin quando il grosso della maggioranza di quei gruppi continuerà ad essere composta da persone già dirigenti del Pci e della Dc non ci sarà alcun nuovo partito. Dal momento che quel vecchio personale non può che riproporre atteggiamenti e comportamenti adottati in un’altra epoca, ai tempi della sua socializzazione e delle sue esperienze nei vecchi partiti. Ma i rinnovamenti delle classi dirigenti non avvengono spontaneamente. Devono essere i leader a imporli. Per quanto riguarda poi il riformismo, tutto dipende dalle politiche che si adottano. Insieme alla qualità e alla novità degli uomini e delle donne che assumono ruoli dirigenziali, sono le politiche scelte a dare identità ai partiti.

Si badi: ho detto politiche, non proclami. Anche sotto il profilo delle politiche il Pd è risultato né carne né pesce. Messi da parte i buoni propositi della campagna elettorale, non è riuscito fin qui a svolgere un ruolo di partito di opposizione con solide e riconoscibili posizioni riformiste. Ha oscillato paurosamente. Incapace di chiarimenti interni definitivi fra le sue diverse anime, ha finito per apparire indeciso a tutto. Su scuola e università, a un certo punto, ha dato un calcio al suo preteso riformismo cercando persino di cavalcare la cosiddetta Onda. Sulle questioni economiche è apparso diviso fra la tentazione di seguire il radicalismo della Cgil e quella di assumere una linea più realistica. Sulla giustizia, non è riuscito a scegliere fra il giustizialismo di Di Pietro e la posizione riformista maturata negli ultimi tempi da Luciano Violante.

Forse, proprio la giustizia potrebbe diventare, per il Pd, il banco di prova di una identità riformista fin qui più proclamata che praticata. Affidi a Violante il compito di guidare i colloqui con la maggioranza sulla riforma della giustizia. Prenderebbe due piccioni con una fava. Si distanzierebbe da Di Pietro e darebbe al Paese un messaggio riformista. È anche così che si costruiscono le identità politiche.

17 dicembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #35 inserito:: Dicembre 28, 2008, 11:34:31 pm »

IL PD E LA QUESTIONE GIUSTIZIA

Il garantismo degli amici


di Angelo Panebianco


In una intervista al Riformista l'ex presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco, a proposito dei suoi ex compagni del Partito democratico, ha dichiarato: «Quelli del Pd sono garantisti a corrente alternata. Un garantista vero solidarizza innanzitutto con i nemici. Difendere gli amici è un'altra cosa: si chiama complicità ». Il commento di Del Turco stigmatizza le evidenti contraddizioni dei vertici del Partito democratico di fronte agli sviluppi delle inchieste giudiziarie che riguardano propri esponenti. La scarcerazione del sindaco di Pescara Luciano D'Alfonso ha spinto Walter Veltroni, per la prima volta da quando è segretario di quel partito, a prendere duramente le distanze dall'azione dei magistrati («fatti gravissimi», ha detto a proposito dell'inchiesta di Pescara) e ha anche obbligato il ministro- ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia ad accorgersi del fatto che «polizia e magistratura devono riscoprire una cultura delle indagini che si è troppo appiattita sulle intercettazioni» (verrebbe da dire: ben arrivato tra noi, onorevole).

Ne è conseguita, e anche questa è una novità, una presa di posizione polemica dell'Associazione Nazionale Magistrati nei confronti della leadership del Partito democratico. Che cosa significa tutto ciò? Che stiamo per assistere a uno spettacolare cambiamento di rotta del Partito democratico, alla fine del suo abbraccio (mortale) con Di Pietro, a una disponibilità a rompere finalmente con il «partito giustizialista» e a sedersi a un tavolo con la maggioranza per discutere seriamente di riforma della giustizia? È improbabile. Per due ragioni. La prima è che settori rilevanti del partito giustizialista si trovano all'interno del Partito democratico e occupano posizioni dirigenziali di rilievo. È falso che il giustizialismo sia appannaggio del solo partito di Di Pietro. L'alleanza elettorale con Di Pietro è stata fatta anche perché esistevano forti affinità ideologicoculturali fra i due partiti in materia di giustizia. È probabile che in questo momento, nelle stanze chiuse del Partito democratico, siano in corso scontri duri fra dirigenti di diverso orientamento. La seconda e più importante ragione ha a che fare con le caratteristiche di porzioni rilevanti di iscritti e anche dell'elettorato del Partito democratico. Un paio di settimane fa un'associazione di area composta da giovani sotto i trenta anni ha incalzato il Partito democratico sulla cosiddetta «questione morale».

Era solo il sintomo di un problema ben più ampio. C'è un'intera generazione di giovani politicamente attivi la cui «socializzazione primaria» alla politica è avvenuta a seguito degli eventi provocati dalla vicenda di Mani pulite. Questa generazione, nata dopo il crollo delle antiche ideologie, è cresciuta credendo fermamente in tre dogmi. Per il primo dogma, l'Italia sarebbe il Paese più corrotto della Terra o giù di lì. Per il secondo, l'etica è il solo metro di giudizio della politica e i «valori» (etici) vanno contrapposti agli «interessi » (sempre sordidi, per definizione). Ciò basta a spiegare perché tanti di questi giovani risultino poi sprovvisti degli strumenti necessari per pensare politicamente.

Per il terzo dogma, infine, i magistrati (mi correggo: i pubblici ministeri) sarebbero cavalieri senza macchia, angeli vendicatori che combattono eroicamente il Male della corruzione. Si aggiunga il fatto che tanti di questi giovani sono privi, causa il cattivo funzionamento di molte scuole, di buone conoscenze storiche, e il quadro è completo. Il successo che riscuotono i libri ispirati almoralismo giustizialista è perfettamente spiegabile. Occorrerebbero, da parte dei vertici della politica, grande capacità pedagogica, solide risorse culturali e disponibilità a un lavoro di lunga lena per dare a questi giovani strumenti di orientamento politico meno labili, meno inconsistenti. Ecco perché è improbabile attendersi dal Partito democratico svolte in materia di giustizia. Anche a costo di negare l’evidenza. L’evidenza è rappresentata da uno squilibrio dei poteri così forte da intaccare , come ha scritto Peppino Caldarola (sempre sul Riformista) la sovranità popolare. Il sindaco di Pescara, come, prima di lui, il presidente della Regione Del Turco, si è dovuto dimettere, non a seguito di una condanna da parte di un giudice al termine di un regolare processo, ma a causa dell’inchiesta di un procuratore. Con tanti saluti alla presunzione di non colpevolezza, e anche alla democrazia rappresentativa.

28 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 05, 2009, 02:55:57 pm »

PREGIUDIZI CONTRO ISRAELE

Gli infortuni dell'Onu


di Angelo Panebianco


C’è una differenza fra la guerra del Libano del 2006 e l’attuale conflitto a Gaza. Questa volta, sono molti di più i governi disposti a riconoscere le ragioni di Tel Aviv. Per conseguenza, anche l’opinione pubblica internazionale, e occidentale in particolare, non si è compattamente e pregiudizialmente schierata contro Israele. I regimi arabi moderati, che temono più di ogni altra cosa le aspirazioni egemoniche dell’Iran (alleato e protettore di Hamas) mantengono, nonostante l’opposizione delle piazze, un atteggiamento prudente. La fazione palestinese moderata di Abu Mazen (sanguinosamente cacciata da Gaza, nel 2007, dai miliziani di Hamas) considera Hamas l’unica responsabile dell’attacco israeliano. Anche in Europa il vento è in parte cambiato.

I governi tedesco, italiano e dei Paesi dell’Europa orientale hanno preso chiare posizioni a favore del diritto di Israele a difendersi dai missili di Hamas. E i l Presidente Sarkozy, nonostante la tradizione francese (poco sensibile alle ragioni di Israele), sarà obbligato, nel suo prossimo tentativo di mediazione, a tenerne conto. Comincia a farsi strada la consapevolezza che fra le molte asimmetrie del conflitto c’è anche quella rappresentata dal diverso valore attribuito dai contendenti alla vita umana. Per gli uomini di Hamas, come per Hezbollah in Libano, la vita (anche quella degli appartenenti al proprio popolo) vale talmente poco che essi non hanno alcun problema a usare i civili, compresi i bambini e le donne, come scudi umani. Per gli israeliani, le cose stanno differentemente. Cercano di limitare il più possibile le ingiurie alla popolazione civile anche se, naturalmente, la natura del conflitto esclude che essa non sia coinvolta. L’attacco dell’esercito, appena iniziato, volto a bloccare definitivamente Hamas, è stato a lungo ritardato. Tra le ragioni del ritardo c’era anche il timore per l’alto costo in vite di civili che l’attacco potrebbe comportare.

Insomma, di fronte alla complessità del problema e alla diffusa consapevolezza che non si può negare a uno Stato il diritto di difendersi da un’organizzazione di fanatici votati alla distruzione di quello stesso Stato, c’è questa volta, in giro, meno voglia di dare addosso pregiudizialmente a Israele. Ma con un’eccezione di assoluto rilievo: le Nazioni Unite. Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Le sue tesi «sull’aggressione israeliana » a Gaza sono esattamente le stesse di Hamas. Il caso di Richard Falk è interessante perché ci aiuta a capire come vengano trattati i «diritti umani» alle Nazioni Unite. Ebreo americano, già professore di diritto internazionale a Princeton, Falk è quello che in America si definisce un radical. E dei più accesi. Fra le sue molte imprese si possono ricordare il suo giudizio entusiasta sull’Iran di Khomeini (un «modello per i Paesi in via di sviluppo», lo definì arditamente nel 1979) e i suoi dubbi, alla Michael Moore, sulla «verità ufficiale» americana sull’11 settembre. Nel 2007 paragonò la politica israeliana verso i palestinesi a quella della Germania nazista nei confronti degli ebrei. È persona non grata in Israele.

La nomina di Falk (con il voto contrario degli Stati Uniti), nel marzo 2008, a rappresentante per i territori palestinesi del Consiglio per i diritti umani, un organismo dominato da Paesi islamici e africani, ebbe un solo scopo: quello di predisporre un corpo contundente da usare contro Israele. È un altro clamoroso infortunio dell’Onu. Dopo quello che, alcuni anni fa, portò la Libia, nella generale incredulità, alla presidenza della Commissione per i diritti umani (poi abolita). Se l’Onu si occupasse seriamente di diritti umani dovrebbe mettere sotto accusa un bel po’ dei propri Stati membri, ossia tutti gli Stati autoritari o totalitari (dalla Cina a quasi tutti i regimi del mondo musulmano). Ma non può farlo. In compenso, i diritti umani vengono spesso usati come proiettili per colpire le democrazie occidentali e Israele. Anche se creare una «Lega delle democrazie» è risultato fino ad oggi impossibile, un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede di Nazioni Unite sarebbe quanto meno auspicabile. Al fine di imporre a certi suoi organismi comportamenti più decorosi. Nonostante il credito di cui l’Onu continua a godere, è un fatto che, nelle crisi internazionali, sanno spesso muoversi con maggiore credibilità, pur con le loro magagne e imperfezioni, i governi delle democrazie. Per lo meno, devono rispondere del proprio agire alle loro opinioni pubbliche e hanno comunque (non c’è Guantanamo che tenga) carte più in regola degli altri anche in materia di diritti umani.

04 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 13, 2009, 01:04:50 am »

La crisi di gaza

Un conflitto nuovo


di Angelo Panebianco


Chiunque abbia, se non altro per ragioni anagrafiche, un passato, è portato a leggere i conflitti di oggi alla luce degli schemi mentali di ieri. Per decenni il conflitto israeliano-palestinese venne interpretato in Occidente con gli schemi della guerra fredda. A lungo, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra l'Urss e Israele, quel conflitto fu parte, pur con le sue peculiarità, del confronto politico e militare fra mondo occidentale e mondo sovietico. Per tutti coloro che in Europa occidentale simpatizzavano per l'Urss e per «la lotta dei comunisti a favore dell'emancipazione del Terzo Mondo», Israele era un avamposto dell'imperialismo americano.

Contavano anche le peculiarità del conflitto e i loro riflessi in Europa. Dopo il '73, con la crescita del prezzo del petrolio e l'uso politico dell'energia da parte dei Paesi produttori, trattare con i guanti governi e opinione pubblica arabi diventò vitale per un'Europa assetata di energia: la causa palestinese acquistò pertanto sempre maggiore popolarità fra noi mentre le ragioni di Israele di fronte al «rifiuto arabo» persero progressivamente terreno nella considerazione delle opinioni pubbliche europee (anche fra molti di coloro che erano schierati contro l'Urss su altri fronti). Se a ciò si sommano le memorie antiche, le influenze, più o meno sotterranee, del pregiudizio cristiano antigiudaico, si comprende molto degli atteggiamenti europei verso il conflitto israeliano-palestinese, per lo meno dalla fine degli anni Sessanta in poi. Il passato pesa sul presente ed è comprensibile che riflessi automatici portino ancora oggi tanti a leggere l'attuale scontro a Gaza con le categorie del passato. Ma è singolare che ciò avvenga al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un cambiamento qualitativo del conflitto israeliano- palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere.

In primo luogo, l'irruzione della religione, e più precisamente dell'islam politico, nel conflitto. Certo, il conflitto israeliano-palestinese continua ad essere anche ciò che è sempre stato: uno scontro fra due popoli per il dominio territoriale. Ma da tempo non è più soltanto questo. Il rafforzamento di movimenti come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano ha cambiato radicalmente il quadro. Come il fatto che quei movimenti siano interni a una galassia islamista che, in ogni angolo del mondo, si riconosce nelle stesse parole d'ordine e afferma la propria identità contro gli stessi nemici (i musulmani moderati, l'Occidente corrotto e materialista, l'entità sionista, gli infedeli, a qualunque credo appartengano). In queste condizioni, pensare alle soluzioni del conflitto nei modi che erano ancora plausibili ai tempi degli accordi di Oslo non è più possibile. «Pace contro territori» è un compromesso realistico (anche se, ovviamente, difficile da imporre agli estremisti delle due parti) se i principali attori in gioco hanno scopi esclusivamente politici.

Ma diventa assai più arduo se per una delle parti in gioco (nel caso specifico, Hamas e, dietro Hamas, l'intera galassia dell'estremismo islamico mondiale) rinunciare alla distruzione di Israele significherebbe violare un tabù religioso, peccare di blasfemia. Il secondo fatto nuovo, che cambia la natura del conflitto, è dato dallo scontro per l'egemonia fra l'islam sciita guidato dall'Iran e quello sunnita. Non è un caso che, nella vicenda di Gaza, i governi arabi sunniti si siano fin qui mossi con prudenza. Nella speranza, non dichiarata, che Israele riesca a ridimensionare Hamas (gruppo sunnita ma legato all'Iran). E non è un caso, come mostra l'assenza di sommovimenti anti-israeliani in Cisgiordania, che anche Fatah, il movimento oggi guidato da Abu Mazen, speri nel ridimensionamento degli odiati «nemici-fratelli» di Hamas. Nulla di tutto ciò si spiegherebbe se i due fatti citati (l'irruzione dell'islam politico e il ruolo dell'Iran) non avessero cambiato i termini del conflitto israeliano-palestinese. Ma la rimozione incombe.

Sorprende, ad esempio, scorrere un recente intervento sul conflitto a Gaza, apparso su Repubblica, dell'ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema, uomo informato dei fatti, e constatare che né la parola Iran né la parola jihad vi trovino posto. È come se per D'Alema nulla di sostanziale fosse cambiato nel corso degli anni: quello israeliano-palestinese viene ancora interpretato come uno scontro fra uno Stato e un movimento irredentista, un conflitto, vecchio di mezzo secolo, per il dominio territoriale in Palestina. Se non che, il conflitto israeliano-palestinese è questo ma non è più soltanto questo. A causa del carattere politico-religioso di Hamas e della volontà di potenza iraniana. Segni di rimozione appaiono anche le reazioni di certi laici nonché di esponenti di spicco della Chiesa cattolica di fronte alla preghiera di massa organizzata dalla fratellanza musulmana contro il nemico sionista (al termine di raduni in cui si bruciano le bandiere di Israele), di fronte cioè a manifestazioni che vedono impegnati i sostenitori di Hamas presenti all'interno dell'islam italiano ed europeo. Se la paura del fondamentalismo islamico può spiegare le reazioni flebili e sommesse di molti di quei laici, il caso della Chiesa cattolica, come ha mostrato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri, è più complesso.

La Chiesa sembra oggi divisa fra la sua antica diffidenza (quando non si tratti di aperta ostilità: vedi le parole del Cardinal Martino su Gaza) per Israele, e la presa d'atto, ben chiara negli scritti e nei discorsi di Papa Benedetto XVI, del fatto che la violenza del fanatismo religioso sia oggi la minaccia più grave per la civile convivenza. E anche per le prospettive di pace in Palestina.

12 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:44:47 pm »

LA GUERRA A GAZA

I media come arma

di Angelo Panebianco


Le polemiche innescate dai contenuti della trasmissione televisiva «Anno Zero» sulla guerra di Gaza possono aiutarci a riflettere su un aspetto cruciale di questo conflitto (come di altri che lo hanno preceduto): il ruolo dei mass media, delle televisioni in primo luogo, non come strumenti di informazione
sulla guerra ma come armi della guerra e nella guerra.

E' qualcosa che va al di là delle tradizionali forme di propaganda, più o meno pianificata, che hanno sempre accompagnato i conflitti e li accompagnano tuttora. La prima volta che si comprese appieno il nuovo (e imprevisto) ruolo attivo giocato dalle televisioni nei conflitti asimmetrici fu all'indomani della conclusione della guerra del Vietnam: si disse allora, con qualche esagerazione ma anche con qualche elemento di verità, che gli Stati Uniti avevano perso quella guerra non nelle risaie e nelle giungle dell'Indocina ma nelle case americane dove ogni sera il piccolo schermo faceva entrare le immagini delle devastazioni prodotte dai bombardamenti statunitensi.

Da allora, nessun governo o gruppo armato impegnato in una guerra ha più dimenticato che le immagini televisive e i commenti che le accompagnano sono parte integrante, non accessoria, dei conflitti, e dei conflitti asimmetrici soprattutto: è da essi che dipende lo spostamento, a favore di uno dei belligeranti, dell'orientamento delle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali. E poiché nelle democrazie i governi devono tenere conto delle opinioni pubbliche, lo spostamento di queste ultime da una parte o dall'altra non è senza effetti internazionali: spinge o può spingere i governi delle democrazie ad esercitare pressioni diplomatiche a favore del belligerante che ha conquistato il sostegno dell'opinione pubblica.

Il caso di Gaza (una guerra che forse è ora giunta a conclusione) è da manuale. Dal punto di vista strettamente militare la disparità delle forze fra l'esercito israeliano e Hamas era massima. Hamas ha avuto quindi a disposizione, in questa guerra, soprattutto una carta e l'ha giocata fino in fondo: le vittime civili. Il calcolo era semplice: più vittime civili ci sono (e non possono non esserci vittime civili data la natura del conflitto), più i networks televisivi ne parlano, più è probabile che le opinioni pubbliche, soprattutto europee, si schierino contro Israele e che, infine, la «comunità internazionale » (leggi: le democrazie occidentali) sia costretta a tenerne conto. La contromossa israeliana (vietare l'ingresso a Gaza ai giornalisti finché durano i combattimenti) è parte della stessa logica.

Si considerino gli scopi bellici dei due contendenti. Per Israele «vincere» significava ridimensionare Hamas militarmente (mettere il gruppo in condizione di non lanciare più missili sul territorio israeliano) e politicamente (creare le condizioni per una successiva riconquista del potere a Gaza, a spese di Hamas, da parte della fazione palestinese moderata, Fatah). Per Hamas, invece, «vincere» significava sopravvivere, quali che fossero le perdite subite, essere ancora in grado di riorganizzare le forze per colpire di nuovo Israele fra qualche tempo. Come in Libano nel 2006: Hezbollah «vinse» la guerra semplicemente perché sopravvisse all'offensiva israeliana. In queste condizioni, e data questa disparità degli obiettivi dei due contendenti, usare i civili come scudi era per Hamas una necessità di guerra, il solo modo per tentare di ottenere una pressione internazionale tale da fermare Israele. Il che, dal punto di vista di Hamas, avrebbe significato vincere. Per Israele valeva la regola contraria: meno civili cadono, meno è probabile che la comunità internazionale si metta di mezzo. Per questo, la guerra è stata condotta simultaneamente in due ambiti diversi (sul terreno e sui mass media). Il contenzioso sul numero di vittime civili (ovviamente difficile da stabilire, dato che i combattenti di Hamas sono mescolati alla popolazione) diventa parte integrante della guerra. Come mostra anche il fatto che le notizie, più o meno attendibili, sui caduti civili sono, fra tutte le notizie di guerra, quelle a cui i mass media danno in assoluto più risalto.

Per i sostenitori occidentali di Israele le vittime civili sono, in parte, una tragica conseguenza della natura di questa guerra e, in parte, il frutto dell'azione deliberata di Hamas. Per gli avversari di Israele sono invece la prova della natura criminale di quello Stato. Le televisioni svolgono un ruolo nel far pendere la bilancia dell'opinione pubblica da una parte o dall'altra. Però, va subito aggiunto, a mò di correttivo, il fatto che contano anche le più generali condizioni politiche in cui si svolge il conflitto. Se il calcolo di Hamas, come sembra ora possibile, si rivelerà alla fine sbagliato non sarà perché l'arma di guerra massmediatica sia di per sé spuntata o debole, ma perché essa è stata neutralizzata, almeno in parte, dall'atteggiamento prudente tenuto per tutta la durata del conflitto dai governi arabi (spaventati dall'alleanza fra Hamas e l'Iran) e dalla ostilità dei palestinesi di Abu Mazen per Hamas. Insieme alla compattezza della società israeliana nel sostenere l'azione del proprio esercito e all'efficacia di quella stessa azione (niente a che vedere con quanto avvenne in Libano nel 2006), questi fattori hanno giocato un ruolo importantissimo nella guerra. Hanno impedito o ritardato uno spostamento massiccio, «a slavina», delle opinioni pubbliche occidentali a favore di Hamas.



18 gennaio 2009
DA corriere.it
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 02, 2009, 11:20:54 am »

IL PD E LE CORRENTI

Logorare stanca


di Angelo Panebianco


I partiti correntizi, le cui leadership si reggono su coalizioni di correnti interne, hanno una naturale tendenza all'immobilismo. I capicorrente hanno interesse a che il leader non si rafforzi troppo e giocano a frenarne le iniziative. Nel Partito democratico si sta riproducendo lo stesso schema che abbiamo già visto in azione prima delle elezioni, un anno fa, all' epoca del dialogo (poi fallito) fra Veltroni e Berlusconi sulla riforma della legge elettorale.

Allora, i capicorrente si diedero da fare per far fallire un progetto di riforma - la proposta Vassallo/Ceccanti - che, se attuato, avrebbe rafforzato il peso parlamentare dei due grandi partiti e, per conseguenza, anche il peso politico dei rispettivi leader (di Veltroni nei confronti dei suoi capicorrente, di Berlusconi nei confronti dei suoi alleati). Oggi la storia si ripete, identica. Un accordo fra Partito democratico e Popolo della Libertà prevede uno sbarramento del quattro per cento alle elezioni europee. E' stato stipulato da Veltroni con il preventivo consenso dei capicorrente del suo partito.

Ma adesso, quegli stessi capicorrente si sono messi al lavoro per sabotarlo dando ascolto alle proteste dei piccoli partiti di estrema sinistra. Che i piccoli partiti strillino è naturale e, dal loro punto di vista, legittimo. Ma perché i capicorrente del maggior partito di opposizione si preoccupano di quegli strilli? Per due ragioni. La prima, tipica dei partiti di corrente, è il loro interesse a che il segretario resti politicamente debole in attesa del momento in cui sarà possibile sostituirlo. La seconda ragione è che tendendo una mano ai piccoli partiti essi intendono anche dare la botta finale alle velleità maggioritarie del segretario. Si tratta di seppellire definitivamente la veltroniana «vocazione maggioritaria» e tornare alle «vaste alleanze» del tempo che fu.

Lo stesso schema vale per ogni materia in cui esista la possibilità di accordi ragionevoli fra la maggioranza e il Partito democratico. Vale, ad esempio, per la giustizia. Di Pietro, da solo, non avrebbe la forza di far fallire un accordo fra Berlusconi e Veltroni ma i capicorrente del Partito democratico possiedono quella forza. Vale, come si è visto, per la riforma dei contratti di lavoro: la spaccatura fra la Cgil e gli altri sindacati si è subito tradotta in una divisione dentro il partito, con Veltroni a favore dell'accordo e D'Alema e Bersani contrari, insieme alla Cgil. Ci sono due problemi, però.

E' vero che «logorare il segretario fingendo di sostenerlo» è una tecnica antica, tipica dei partiti di corrente (nella vecchia Dc veniva usata continuamente) ma, nel caso del Partito democratico, la sua condanna all'immobilismo a causa dei poteri di veto interni, la sua conseguente incapacità di giocare un ruolo nazionale contrattando con la maggioranza accordi su materie cruciali, non si risolvono solo in un logoramento del segretario ma anche del partito nel suo complesso. E' vero, inoltre, che la posta in gioco riguarda la politica delle alleanze.

Ma se il progetto veltroniano condensato nello slogan «partito a vocazione maggioritaria» è fallito o langue, non è detto che il progetto alternativo - un'alleanza che si estenda dal «centro» di Casini ai residui frammenti della vecchia sinistra comunista - possa dimostrarsi più realistico, oltre che di superiore appeal.


02 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #40 inserito:: Febbraio 09, 2009, 11:53:39 am »

POLITICA E CASO ENGLARO

Quel silenzioso terzo partito

di Angelo Panebianco


Proviamo a riprendere fiato. Il conflitto fra i difensori del «diritto alla libertà di scelta» e i difensori della «sacralità della vita» è degenerato nel modo in cui sappiamo. La violenza dello scontro ha coinvolto le istituzioni al massimo livello e ha spaccato il Paese. Due partiti nemici (si badi: ho detto nemici, non avversari) si fronteggiano e nessuno sa come andrà a finire. Come sempre in questi casi, è scattato, nei due campi, l'ordine di mobilitazione generale, la militarizzazione delle coscienze è in corso, e la consegna, per le opposte schiere, è di non fare prigionieri. Eppure, nonostante la violenza del conflitto, e la polarizzazione che l'accompagna, non è così facile (come vorrebbe farci credere la propaganda dei due contrapposti partiti) spazzare via i dubbi che le persone di buon senso, quali che siano le loro convinzioni morali, devono per forza nutrire di fronte a una vicenda come quella di Eluana. Anche se non è detto che i protagonisti ne abbiano piena contezza, l'intrattabilità politica del tema trova una eco nei «trasversalismi » e in certe contorsioni che si manifestano in queste ore nell'arena pubblica.

Se il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, sceglie di non seguire il leader dello schieramento cui appartiene, aprendo così una frattura difficilmente ricomponibile, ecco che Antonio Di Pietro, l'arcinemico di Berlusconi, dichiara di dare libertà di coscienza ai suoi parlamentari sul provvedimento del governo, ammettendo così implicitamente il proprio accordo con la scelta del premier di tenere in vita Eluana. E si noti che anche alcuni settori del Pd sono orientati a votare a favore. Ormai le cose si sono spinte troppo in là, è troppo tardi per fermare il processo che si è messo in moto ma è giusto per lo meno dare testimonianza del fatto che, oltre ai due partiti che si scontrano, ne esiste anche un terzo, per lo più silenzioso, e che, comunque vada la vicenda, è già stato sconfitto. È il partito di chi pensa che la Politica, la Democrazia, il Diritto, e tutte le altre più o meno utili astrazioni che siamo soliti invocare per imporre faticosamente un minimo di ordine nella vita associata dovrebbero essere tenute fuori dalla porta al di là della quale sono in gioco, come in questo caso, le questioni ultime dell'esistenza. È il partito di chi pensa che occorrerebbe coltivare, nella riservatezza e nella discrezione, una zona grigia, protetta da una necessaria ipocrisia, nella quale le decisioni sul caso singolo (sempre diverso, almeno per qualche aspetto, da qualunque altro caso singolo) restano affidate alla sensibilità e alla pietas del medico che ha in cura il malato e ai sentimenti delle persone che lo amano. Che è quanto si è sempre fatto, checché ne dicano certi sepolcri imbiancati. È il partito di chi pensa che quelle situazioni debbano essere sottratte al clamore delle «battaglie di principio». Condivido quanto ha detto Emanuele Severino (sul Corriere di ieri): a scontrarsi sono due forme di violenza. I due partiti millantano certezze assolute che, su questa terra almeno, a nessuno è dato di possedere.

Fa francamente effetto (e non è un bell'effetto) vedere, nei telegiornali, le opposte fazioni mobilitate e schierate, a Udine e in altri luoghi, l'una a difesa della vita di Eluana e l'altra a difesa del suo diritto a morire. Credo che, in queste ore, nessuno incarni lo spirito dei due partiti contrapposti meglio di Marco Pannella e di Giuliano Ferrara, due uomini stimabilissimi per il coraggio, la passione e l'onestà intellettuale con cui difendono le cose in cui credono. Schierati sugli opposti lati della barricata Pannella e Ferrara hanno tuttavia una cosa in comune: credono entrambi che tocchi alla legge, e alla democrazia che fa le leggi, il compito di imporre la soluzione. Per il diritto del singolo a scegliere, sempre e comunque (Pannella). Per l'intangibilità della vita, sempre e comunque (Ferrara). Anche se la differenza è che, per Ferrara, l'intervento del Parlamento dovrebbe essere la risposta di emergenza a una sentenza emessa in assenza di legge. Spiacente ma sono in disaccordo con entrambi. Deploro fortemente la giuridicizzazione (e l'inevitabile politicizzazione che l'accompagna) di questioni come questa. La legge è uno strumento che gli uomini hanno inventato per ridurre l'arbitrio, per trattare in modo il più possibile simile casi simili. Le «buone» leggi (non sempre le leggi sono buone) rappresentano effettivamente un utile strumento, ancorché imperfetto, per favorire uguali trattamenti e affermare principi universalistici in molte situazioni.

Ma non credo affatto che una legge possa davvero regolare le questioni-limite di cui qui parliamo. Data l'estrema variabilità dei casi, e le profonde, irriducibili, differenze fra le persone, una legge che offre una buona soluzione per un caso può risolversi in una intollerabile forma di violenza in un altro caso. D'altra parte, dire leggi significa dire tribunali. Proprio il caso di Eluana mostra quanta fragilità, quante incongruenze, quante contorsioni, siano contenute nelle sentenze dei tribunali su vicende come la sua. Lo stesso discorso vale per la democrazia. Con tutte le sue brutture e volgarità, è pur sempre la migliore forma di governo, dal momento che consente di risolvere le controversie senza spargimenti di sangue, con il voto anziché con le armi. Da qui però ad affidarle le decisioni sulla vita e sulla morte ce ne corre, o ce ne dovrebbe correre assai. Parlamenti e tribunali, insomma, dovrebbero essere tenuti lontani da queste cose, a conveniente distanza di sicurezza. Certo, i progressi della medicina modificano continuamente le situazioni e la politica subisce un'inevitabile pressione a intervenire. E può anche accadere, in qualche caso, che un Parlamento riesca a sfornare una legge (ci credo poco, ma l'eventualità non può essere scartata a priori) che rappresenti un buon punto di equilibrio fra opposte, e forse ugualmente rispettabili, esigenze. Se non c'è verso di tenere le grinfie dello Stato, ancorché democratico, lontano dalle questioni estreme, che almeno si evitino gli eccessi. La politicizzazione della morte è il misfatto più grave che una democrazia possa commettere.

09 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 23, 2009, 06:20:46 pm »

La legge sul fine vita

I confini della politica


di Angelo Panebianco


La frittata è fatta. Non c'è modo di tornare indietro. Lo scontro sui contenuti della legge che deve, con delicato linguaggio burocratico, «regolamentare il fine vita » dilanierà il Paese per molti anni. Forse era inevitabile. Come poteva un Paese iper politicizzato come il nostro non arrivare, prima o poi, a politicizzare anche la morte? Resta da sapere come verrà, alla fine, regolamentato il fine vita, se con la legge voluta dai neo guelfi o con il referendum contro la legge brandito dai neo ghibellini.
L'aspetto più impressionante della feroce disputa in atto è l'esibizione, da parte dei vari esponenti delle due fazioni, di certezze, oltre che di muscoli. Una volta tolti dal mazzo coloro che sono di tempra troppo debole per essere in grado di coltivare il dubbio, che dire degli altri? Come possono esibire certezze in una materia che per sua natura non le ammette? Pur con le dovute eccezioni, molti, mi sembra, stanno esibendo certezze per ragioni politico- strumentali. Come sempre accade quando una questione viene politicizzata, essa entra nel tritacarne delle logiche di schieramento. La questione del fine vita è ora diventata un'altra posta in gioco nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani: un conflitto transitorio, contingente, che tuttavia, nel caso in questione, va a incastrarsi in una divisione antica, quella fra guelfi e ghibellini.

Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.

I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione.

Non è un caso che anche nelle società più liberali, dove i diritti di libertà sono più solidi (e più rispettati che da noi), su questi temi possano esplodere conflitti micidiali. Non stiamo parlando di un diritto qualitativamente simile ai più tradizionali diritti di libertà. Proprio perché la democrazia non è fatta per fronteggiare conflitti filosofici di questa portata, sia le prassi ispirate al principio della sacralità della vita sia quelle ispirate al principio opposto della libertà di scelta, dovevano (come si è sempre fatto) rimanere «al di qua» dello spazio pubblico, affidate al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra i medici e gli assistiti o fra i medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti. In un precedente intervento («Quel silenzioso terzo partito », Corriere del 9 febbraio) avevo parlato dell'importanza di preservare una zona grigia protetta (così mi ero espresso) da una «necessaria ipocrisia». Qualche amico, pur favorevole alle mie tesi, ha criticato l'uso del termine ipocrisia. Penso invece che fosse appropriato. In queste questioni l'ipocrisia non è, come si suole dire, una manifestazione del vizio che rende omaggio alla virtù. È essa stessa virtù. È la virtù grazie alla quale si possono cercare empiricamente (al riparo dai riflettori) soluzioni atte a ridurre le sofferenze dei malati senza offendere la sensibilità e le credenze delle persone coinvolte. Contemporaneamente, è la virtù che consente di non trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza.

Il secondo micidiale errore è stato quello di credere che solo la «legge» possa salvarci dall'arbitrio, dei medici o di chiunque altro. È un effetto di quell'ideologia italiana che assume che tutti i problemi debbano avere una soluzione «giuridica». È il riflesso di un Paese schizofrenico che, da un lato, ha della legge una visione cinica («la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici», recita il detto) e, dall'altro, non sa evitare di farne un feticcio. Ma in un ambito come quello qui considerato la legge non riduce l'area dell'arbitrio. Anche ammesso, e non concesso, che possa eliminare le forme di abuso fin qui forse praticate, essa ne genera comunque altre. La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo: pretendendo di imporre uguale trattamento in casi diversissimi, essa crea, più o meno involontariamente, le condizioni per nuovi arbitrii.

Senza contare che la legge, di sicuro, è il luogo più inadatto, più inospitale, per depositarvi visioni ultime della vita. Checché ne pensino i feticisti della legge, ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante non ne possano contenere i loro codici e i loro commi. Qui siamo dunque, purtroppo. E non ne usciamo. Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l'alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato.


23 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #42 inserito:: Marzo 01, 2009, 06:18:39 pm »

LA STRATEGIA ANTICRISI DI OBAMA

Usa, i pericoli del nuovo corso


di Angelo Panebianco


No, we cannot. L'inquietudine e le preoccupazioni per i primi passi dell'Amministrazione Obama, per il modo in cui il nuovo Presidente americano sta reagendo alla crisi economica, crescono fra gli osservatori. Tutti sappiamo che le decisioni dell'America ci riguardano, che la crisi mondiale, là cominciata, può finire solo se l'America farà le scelte giuste contribuendo a ricostituire la fiducia perduta dei mercati e ponendo le condizioni per il rilancio, in tutto il mondo, della crescita. Il dubbio che serpeggia è che il nuovo Presidente possa non rivelarsi all'altezza, che la Presidenza Obama possa un domani, quando verrà il momento dei bilanci, mostrare di avere qualcosa in comune con l'Amministrazione (repubblicana) di Herbert Hoover, la quale, con le sue scelte sbagliate, aggravò la crisi seguita al crollo di Wall Street del 1929.

Certo è che fin qui i mercati hanno reagito con scetticismo o addirittura negativamente a tutti gli annunci e a tutte le decisioni prese dall'Amministrazione. Ciò nonostante, Obama sembra deciso a pagare le cambiali contratte in campagna elettorale con la sinistra americana: piano sanitario nazionale, rivoluzione verde, massicci investimenti pubblici, tasse più elevate per gli alti redditi. La dilatazione della spesa pubblica implica un cambiamento epocale, il passaggio a una fase di forte presenza statale nella vita economica e sociale americana. Ma è proprio quella la ricetta giusta per rassicurare i mercati e rilanciare consumi e investimenti? Se lo sarà, la Presidenza Obama risulterà un successo e non solo l'America ma tutto il mondo ne verranno beneficiati. Altrimenti, la crisi si aggraverà e ci vorranno molti più anni di quelli che oggi gli esperti prevedono per uscirne. Nell'attesa, possiamo però già valutare alcune conseguenze che la crisi, e le prime risposte dell’Amministrazione Obama, stanno determinando in tutto il mondo.

Tramonta rapidamente l'immagine di un'America che doveva il suo grande dinamismo alla valorizzazione massima dell'iniziativa individuale e che, come tale, si proponeva quale modello da imitare per le altre società. Se anche l'America «sceglie» lo Stato, il massiccio intervento pubblico, cosa possono fare quelle società che hanno sempre avuto una fiducia assai minore nelle virtù dell'individualismo, nelle benefiche conseguenze collettive della valorizzazione della libertà individuale? Due aspetti delle risposte, pur fra loro assai differenziate, che i governi, americano ma anche europei, stanno dando alla crisi, dovrebbero essere attentamente valutate. Il primo riguarda la pericolosa rotta di collisione che, in situazione di crisi, può determinarsi fra le ragioni dell'economia e quelle della democrazia. La logica economica, in queste situazioni, può entrare in conflitto con la logica politica.

I governi prendono decisioni volte a rassicurare l'opinione pubblica e a sostenere, con politiche pro-occupazione e misure di segno egualitario (più tasse sui ricchi), il consenso nazionale, decisioni che tuttavia possono aggravare o prolungare nel tempo la crisi. Blandire Main Street (l'uomo della strada) scaricandone tutti gli oneri su Wall Street può essere un'ottima mossa politica nel breve termine, ma i costi di medio e lungo termine potrebbero rivelarsi assai elevati. Il secondo aspetto riguarda gli effetti sugli atteggiamenti culturali diffusi. Nel momento in cui si radica l'idea secondo cui il mercato è il «Dio che ha fallito», si afferma per ciò stesso la pericolosa illusione che la salvezza possa venire solo dallo Stato. Si dimentica il fatto essenziale che tanto il mercato quanto lo Stato, in quanto istituzioni umane e per ciò imperfette, possono fallire ma che i fallimenti dello Stato sono in genere assai più catastrofici di quelli del mercato. Quando il mercato fallisce provoca grandi, ancorché temporanee, sofferenze (disoccupazione, drastica riduzione del tenore di vita delle persone, povertà).

I fallimenti dello Stato, per contro, si chiamano compressione delle libertà (sempre), oppressione politica (spesso) e, nei casi estremi, tirannia e guerre. Oggi, i Robin Hood di tutto il mondo (i nostri, i Robin Hood italiani, sono addirittura entusiasti) lodano Obama che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Finalmente, come si sente continuamente ripetere, lo «strapotere del mercato» è finito. Dimenticando che quello «strapotere» ci ha dato decenni di crescita economica impetuosa con molte ricadute virtuose in ambito politico (si pensi a quanto si è diffusa e radicata nel mondo la forma di governo democratica). Tornare all'epoca dello «strapotere dello Stato» è certo un'idea attraente per coloro che detestano il mercato, e la competizione che ne è l'essenza. Ma che succede se lo strapotere dello Stato impedisce di rilanciare la crescita, e ci fa precipitare in un mondo di conflitti neo-protezionisti? Lo sceriffo di Nottingham sarà pure stato sconfitto ma non resterà, a quel punto, abbastanza bottino per sfamare i poveri.

01 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 16, 2009, 05:16:17 pm »

IL CASO PREFETTI

Il mercato nell'angolo


di Angelo Panebianco

La decisione, da ricondurre soprattutto alla volontà del ministro del Tesoro Giulio Tremonti, di affidare ai prefetti il monitoraggio sulle attività del credito ha i caratteri delle decisioni importanti: per i suoi aspetti simbolici e per i suoi presumibili effetti pratici. Lasciamo da parte gli aspetti più contingenti collegati a quella decisione: la rivalità fra Tesoro e Bankitalia, la scontata opposizione dei banchieri, eccetera.
Non è possibile comprendere il senso della decisione senza inquadrarla nella più generale azione intrapresa dal ministro Tremonti e senza tener conto del rapporto fra la posizione culturale che Tremonti ha autonomamente elaborato (e che, grazie al suo ruolo politico e istituzionale, è ormai un pezzo importante della «identità» del centrodestra) e le quotidiane decisioni che egli assume in qualità di massima autorità di governo dell' economia. Il ministro del Tesoro, infatti, è portatore di una visione, indubbiamente coerente, sullo stato del mondo nella congiuntura presente e di idee (fino ieri giudicate dai più non ortodosse, forse anche bizzarre) su come l'Occidente dovrebbe agire per fronteggiare una crisi che, per lui, è morale prima che economica. E' ovvio che ci sia un rapporto fra quella visione (articolata da Tremonti, oltre che in altri luoghi, nel libro «La paura e la speranza») e le decisioni prese. Certo, senza calcare troppo la mano sulla cogenza di quel rapporto, dal momento che, ovviamente, un ministro prende le sue decisioni sulla base dei vincoli e degli stimoli che la realtà gli impone. Ma un rapporto fra le due cose (la visione e le decisioni), benché allentato e mediato, comunque c'è.
Per quanto riguarda le decisioni del ministro (quella sui prefetti a parte), al netto delle opposte propagande, sembra convincente la tesi di molti osservatori neutrali, secondo cui Tremonti si è mosso fin qui con equilibrio, adottando una linea di azione che mira a tamponare gli aspetti più gravi della crisi tenendo però conto dei vincoli che gravano sul Paese a causa del debito pubblico. Ciò che l'opposizione giudica colpevole inazione sembra piuttosto il frutto di un calcolo in base al quale la massima prudenza è necessaria per camminare sull'orlo dell' abisso senza precipitarvi dentro. Né sembra sbagliata la tesi di Tremonti secondo cui una crisi mondiale da indebitamento ha poche probabilità di essere curata facendo ancor più debiti. Si tratta di un' implicita critica (che mi pare condivisibile) alle scelte dell'Amministrazione Obama e uno stop anticipato a chi vorrebbe, a casa nostra, fronteggiare la crisi dilatando ulteriormente il debito.
Il problema vero, a me pare, sta, più che in molte delle decisioni fin qui prese, nella visione di Tremonti e negli effetti a lungo termine che essa può esercitare sul futuro del Paese.
Fulcro di quella visione è l'idea che il primato del mercato abbia condotto il mondo occidentale in un vicolo cieco, in una crisi morale e ora anche economica, e che occorra ristabilire il primato della politica attraverso regole dotate di forte caratura etica, al servizio del bene comune. Il rifiuto dell'idea che i mercati abbiano capacità di autoregolazione e che perciò sia necessaria una forte guida politica è ben illustrato dalla polemica di Tremonti contro gli «economisti » e dalla contestuale rivalutazione dei «giuristi». Tremonti ha cercato, oltre che in altri luoghi culturali, in una corrente liberale, l'ordoliberalismo della scuola di Friburgo (un gruppo di economisti e giuristi tedeschi di ispirazione liberale attivi nella prima metà del secolo scorso) i suoi referenti. E' la scuola a cui si ispira la cosiddetta «economia sociale di mercato». Essa combina meriti e una potenziale ambiguità.
L'ambiguità sta nel fatto che, nell'economia sociale di mercato, l'accento può cadere, a seconda delle circostanze, sul sostantivo mercato oppure sull'aggettivo sociale. Se cade sul mercato, ne deriva che lo Stato (come nell'ispirazione originaria della scuola di Friburgo) deve limitarsi a porre regole che consentano al mercato di autoregolarsi senza produrre effetti «tossici». Se invece l'accento cade sul «sociale », allora la politica è chiamata a svolgere, tramite le sue regole (il diritto) un ruolo assai più attivo, di controllore diretto. C'è insomma il rischio di dare vita a uno Stato interventista che spazzi via l'autonomia del mercato. Era questa la sostanza della polemica insorta nel 1949 entro la Mont Perelin Society (una celebre associazione di studiosi liberali) fra l'economista austriaco Ludwig von Mises e l'esponente dell'ordoliberalismo Walter Eucken.
In ogni caso, è questo il problema italiano. Nella nostra situazione, infatti, ciò che Tremonti chiama «mercatismo» ha goduto solo di un'effimera popolarità in tempi recenti. Noi veniamo da una tradizione di controllo statale sull'economia. Anche la Costituzione non è una solida barriera. I costituenti erano anch'essi antimercatisti. Al punto di negare alla libertà economica, per la costernazione dei liberali, la qualifica di diritto fondamentale di libertà (la libertà economica è per la Costituzione solo un «interesse legittimo», subordinato alle più generali esigenze politiche e sociali). E' questa anche la ragione per cui l'appello da parte dell'opposizione alla Costituzione contro l'uso dei prefetti (lo ha notato Alberto Mingardi sul
Riformista) è un'arma spuntata.
Non è sorprendente, allora, che Antonio Di Pietro sia favorevole alla scelta di Tremonti: vi vede una possibilità di commissariamento indiretto dell' economia non incompatibile con la sua visione da sempre favorevole, sulla scia dell'esperienza di Mani Pulite, a un forte interventismo delle procure nella vita economica. L'elemento accomunante è la sfiducia nell'autonomia e nella capacità autoregolativa dei mercati.
E' possibile che nel breve termine molte scelte del ministro Tremonti si rivelino appropriate per fronteggiare l'emergenza. Una volta superata la crisi mondiale, nel lungo termine, il rischio è che l'eredità lasciata al Paese consista più in un ritorno agli antichi vizi che nell'acquisizione di nuove virtù. Al di là e contro, certamente, le reali intenzioni di Tremonti.


16 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #44 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:22:10 am »

DIRITTI UMANI E GIOCHI DEL MEDITERRANEO


Se l'Occidente è più debole


di Angelo Panebianco


Quando la crisi economica sarà superata il mondo ci apparirà assai cambiato. Si modificheranno gli equilibri di potenza fra aree geografiche e fra Stati. E i mutamenti nella distribuzione del potere avranno ripercussioni su tanti aspetti della vita degli abitanti del pianeta. L'esito più probabile è un ridimensionamento, sia pure relativo, del peso politico del mondo occidentale nelle vicende internazionali, una riduzione della sua capacità di imporre i propri valori, le proprie concezioni, le proprie istituzioni. Una vittima illustre sarà probabilmente quel «regime dei diritti umani» affermatosi, sia pure in modo lento, tortuoso e imperfetto, dopo il 1945, nell'epoca della Pax Americana: un'epoca in cui il primato politico americano traeva, pur con una elaborazione originale, nutrimento e forza dalle influenze di una più antica cultura europea. In anni recenti, dominati da diffusi risentimenti nei confronti degli Stati Uniti, si è spesso dimenticato quanto stretto fosse quel collegamento. Ma tanto la nascita delle Nazioni Unite quando la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (gli eventi che hanno dato impulso a tutte le successive iniziative per la promozione dei diritti dell'uomo) non furono frutti del caso ma della visione e della volontà degli Stati Uniti.

Roosevelt progettò l'Onu ispirandosi a quella Società delle Nazioni voluta alla fine della prima guerra mondiale da un altro Presidente americano: Woodrow Wilson, portabandiera di un internazionalismo democratico nutrito di utopia che non nascondeva il suo debito verso la migliore cultura liberale europea. A sua volta, la Dichiarazione universale del '48 sarebbe stata impensabile se non fosse stata preceduta e ispirata da documenti che hanno fatto la storia dell'Occidente moderno, dalla Dichiarazione di indipendenza americana alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Rivoluzione francese. Il giusnaturalismo cristiano, il costituzionalismo liberale, le rivoluzioni democratiche occidentali sono le vere fonti di quell'insieme, nutritissimo, di norme e istituzioni che dopo il '45, al riparo della potenza americana, si è sviluppato al fine di offrire qualche protezione alle persone contro la tirannia. Cosa resterebbe di quelle norme e di quelle istituzioni nel momento in cui il primato americano venisse meno e, più in generale, ciò che siamo soliti chiamare Occidente vedesse drasticamente ridimensionata la propria capacità di influenza? L'indebolimento relativo del mondo occidentale, sul piano economico, era già in atto da tempo. Negli ultimi anni si è tanto discusso dello spostamento verso l'Asia del potere economico mondiale. L'incertezza riguardava solo i tempi. La crisi potrebbe accelerare il processo. Gli indizi non mancano. Da un lato, la comunità euro- atlantica vive un momento assai difficile, esemplificato dalle divergenze fra l'Amministrazione americana e i principali governi europei su diagnosi e terapie per affrontare la crisi economica.

Al G20 di Aprile, probabilmente, un qualche compromesso verrà trovato (per tenere buoni i mercati) ma la divisione c'è e l'America non dispone di risorse di leadership tali da poter imporre agli europei le proprie soluzioni. Per giunta, gli europei stessi sono divisi: alcuni cercano, all'interno di una formale unità di intenti (come ha osservato André Glucksmann sul Corriere di ieri), di trovare da soli la via alla salvezza. Dall'altro lato, sembra chiaro che se la crisi verrà superata moltissimo si dovrà al cosiddetto G2, alla capacità di Stati Uniti e Cina di coordinare fra loro le misure anticrisi. Superata la crisi, potremmo trovarci con un'America almeno in parte politicamente ridimensionata, un'Europa ulteriormente indebolita e forse anche più divisa, e una grande potenza autoritaria ormai detentrice della co-partnership nel governo degli affari mondiali. Che accadrebbe ai diritti umani? Con una Cina autoritaria che uscisse rafforzata dalla crisi o anche con una Russia semi-autoritaria che consolidasse ulteriormente la sua capacità di ricatto energetico nei confronti dell'Europa, crescerebbe il tasso di ipocrisia a cui dovremo adattarci: Tibet, quale Tibet? Omicidi di Stato in Russia? Ma quando mai? Peraltro, abbiamo già prove abbondanti di cosa succede alle istituzioni dei diritti umani quando l'egemonia occidentale si indebolisce. È un po' ciò che accade a una democrazia quando al suo interno agisce un partito totalitario: esso usa le libertà democratiche per scavare la fossa alla democrazia.

Le istituzioni dei diritti umani cambiano segno se l'Occidente ripiega. Accadde alla Conferenza Onu contro il razzismo di Durban del 2001, trasformata in una manifestazione di razzismo antisemita da tirannie islamiche e africane. Sarebbe successo di nuovo nella prossima Conferenza sul razzismo di Ginevra se la reazione americana prima e italiana poi non avessero spinto anche i più riluttanti fra i Paesi europei a imporre cambiamenti radicali del testo che la Conferenza sarà chiamata ad approvare. Per inciso, c'è un altro caso, che ci riguarda da vicino, in cui l'azione dei nemici dei diritti umani si manifesta: quei Giochi del Mediterraneo che si terranno a Pescara fra un paio di mesi e dai quali i fautori arabi della distruzione di Israele ne hanno ottenuto l'esclusione. Il ministro degli esteri Frattini, che ha avuto grandi meriti nell'azione per impedire una Durban 2, sostiene, con rammarico, che non è più possibile fermare la macchina dei giochi. Forse non è più possibile ma sarebbe stato necessario muoversi per tempo. Una luce assai sinistra illuminerà quei giochi dal primo giorno all'ultimo. Contro la convinzione di chi pensa che la storia proceda in modo inesorabile, non c'è ragione per credere che i diritti umani siano destinati ad affermarsi sempre più. Ci sono invece ragioni per credere il contrario. Figli della cultura occidentale, i diritti umani, come la democrazia politica, sono legati al destino dell'Occidente, ne seguono e ne seguiranno la parabola.

23 marzo 2009
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