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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 149522 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Novembre 25, 2009, 03:44:45 pm »

SEGNALI A DESTRA (E A SINISTRA)

Il bipolarismo al tramonto


Prosegue il lento di­sfacimento della trama bipolare. For­se scopriremo in se­guito che il bipolarismo (competizione e alternanza fra due schieramenti) ha rappresentato una parente­si nella storia repubblica­na. Una parentesi che ha coinciso con l'era Berlusco­ni. E' iniziata con la «disce­sa in campo» del 1994 e fini­rà nell'istante in cui Berlu­sconi (inventore e federato­re del centrodestra che non lascia eredi politici) uscirà di scena. Ma, contrariamen­te a ciò che pensano alcuni, la fine del bipolarismo non porterà stabilità. Verosimil­mente, almeno per una lun­ga fase, accrescerà instabili­tà e ingovernabilità.

L'ultimo scontro fra Gianfranco Fini e la Lega è solo un altro episodio che segnala il disfacimento in atto del bipolarismo. Che cosa ha detto in realtà Fini parlando di razzismo? Ha ri­badito ciò che si sapeva, os­sia che, quando Berlusconi se ne andrà, egli romperà l'alleanza con la Lega. Sen­za più federatore, il centro­destra si spaccherà: da una parte, presumibilmente, Tremonti e Bossi asserra­gliati nel fortilizio nordista, dall'altra parte ciò che reste­rà del fu-Popolo della Liber­tà. E qui entrano in gioco i calcoli (e le illusioni) di co­loro che dall'esterno spera­no in quel risultato. I calco­li, prima di tutto, del Parti­to democratico. Comprensi­bilmente, il neosegretario Bersani punta le sue carte sulla speranza che, dopo Berlusconi, il centrodestra si disintegri. Ciò che forse Bersani non considera è che la disgregazione del centrodestra scatenerebbe un terremoto anche nel centrosinistra. Le prime ele­zioni del post-Berlusconi le vincerà probabilmente il Partito democratico (per una ragione meccanica: vin­ce chi aggrega i suoi, perdo­no quelli che vanno alle ele­zioni divisi) ma c'è la possi­bilità che si tratti di una vit­toria di Pirro. Il tramonto del bipolarismo susciterà potenti spinte centrifughe dentro lo stesso Partito de­mocratico. Sarà durissima governare con forti divisio­ni interne, con l'ingombran­te alleanza del populismo autoritario di Di Pietro e con una parte assai signifi­cativa del Nord all'opposi­zione. E' difficile che possa essere un'esperienza lunga e di successo.

Poi ci sono i calcoli di co­loro che grazie alla disgre­gazione del centrodestra sperano di poter confezio­nare una grande formazio­ne neo-centrista. E' il so­gno della nuova Dc. Richie­de un cambiamento di si­stema elettorale (proporzio­nale con o senza sbarra­mento). L'illusione sta nel credere che un forte partito neo-centrista, magari pron­to ad allearsi al Partito de­mocratico in un nuovo «centrosinistra» (nell'acce­zione della Prima Repubbli­ca), possa stabilizzarsi subi­to, senza passare per un lungo periodo di rodaggio. E senza fare i conti con il ruolo della Lega al Nord.

Se finirà il bipolarismo, il periodo di instabilità che seguirà sarà, presumibil­mente, assai lungo. Avre­mo per un certo tempo più disgregazioni che aggrega­zioni dentro il sistema poli­tico. Uno scenario che po­trà essere scongiurato solo se Tremonti, Fini e gli altri maggiorenti del centrode­stra troveranno un nuovo punto di incontro. Oggi ciò appare, però, poco probabi­le. Né sembra che Berlusco­ni abbia la forza o la volon­tà per favorire una tale evo­luzione. La fragilità della politica italiana sta nel fat­to che i suoi equilibri pog­giano interamente sulle spalle di un uomo solo. Quando egli uscirà di scena quegli equilibri salteranno. Dopo di che ci aspetterà, probabilmente, un'altra in­terminabile «transizione». In stile italiano.

Angelo Panebianco

25 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #76 inserito:: Dicembre 17, 2009, 09:19:52 am »

La via d’uscita dall’estremismo


L’intervento di Fabrizio Cicchitto alla Camera due giorni fa, dedicato all'identificazione, nomi e cognomi, di quelli che egli considera i «mandanti morali» dell'aggressione fisica al premier, è stato del tutto sbagliato e inopportuno. Non aiuta il clima politico. Soprattutto, non aiuta il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, a sciogliere i nodi che egli sa di dover sciogliere. Sarebbe anche nell'interesse del centrodestra, e del Paese, che questo avvenisse.

Possiamo mettere in questi termini il problema dell’opposizione. La sua componente estremista ha un capo riconosciuto, con un profilo netto, Antonio Di Pietro. Bersani, invece, deve ancora dimostrare di saper essere, al di là della carica politica, il capo riconosciuto, con un profilo altrettanto netto, della componente democratica dell'opposizione. Quando si dice che il Pd dovrebbe rompere l'alleanza con Di Pietro si dice una cosa giusta ma banale. Si perde di vista che «rompere con Di Pietro» sottintende una complessa operazione politica che, per essere attuata, ha bisogno di una leadership coi fiocchi. Si tratta di un'operazione che implica sia la resa dei conti con il «dipietrismo interno» al Partito democratico sia una ricalibrazione dei rapporti con le forze esterne (certi magistrati, certi giornali, eccetera), che sul dipietrismo interno al Pd hanno sempre fatto leva per condizionarne la politica.

Opporsi alla persona di Berlusconi o opporsi alle politiche del governo? La risposta rivela la concezione della lotta politica, nonché il giudizio sullo stato della nostra democrazia, di ciascun singolo oppositore. Da quando c’è Berlusconi le due anime hanno convissuto e, quasi sempre, quella antiberlusconiana pura ha prevalso, essendo stato fin qui l'antiberlusconismo il vero ancoraggio identitario della sinistra.

E’ evidente che Bersani, per la sua storia personale, ambirebbe a portare il Pd fuori dall'orbita del massimalismo antiberlusconiano, dare a quel partito ciò che esso non ha: un chiaro profilo riformista. E’ anche evidente che egli (legittimamente) si preoccupa di non perdere consensi. Poiché il massimalismo antiberlusconiano è ben presente nell'elettorato e fra i militanti del Pd un’operazione che separi nettamente i destini politici degli estremisti da quelli dei riformisti appare, sulla carta, assai rischiosa.

Ma qui entra in gioco la questione della leadership. Immaginiamo che Bersani batta il pugno sul tavolo e dica: «Di Pietro non è un alleato ma un avversario da isolare e i dipietristi interni al partito sappiano che non sarà più tollerato chi tiene il piede in due staffe. A loro volta, le forze esterne che pretendono di condizionarmi sappiano che la linea politica del Pd la detto solo io a nome della maggioranza congressuale che mi ha espresso. Se vogliono opporsi a me e logorarmi si accomodino ma sia chiaro che, così facendo, favoriranno il centrodestra ». Gli antiberlusconiani duri e puri (anche quelli del Pd) griderebbero al tradimento ma ciò potrebbe essere compensato dalla scoperta, da parte degli elettori di sinistra, del fatto che c'è ora in circolazione un leader riformista forte e vero, dal profilo netto, che potrebbe domani anche portarli alla vittoria.

La politica, si dice, è ormai troppo debole per non essere condizionata da forze esterne. Tramontata l’epoca dei partiti di massa, è solo la leadership che può ridare forza alla politica.

Angelo Panebianco

17 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 30, 2009, 05:27:26 pm »

Il piede in due staffe

Una delle ragioni per le quali non conviene prendere troppo sul serio l'attuale revival di discussioni sulle «riforme costituzionali» è che le trattative sulle riforme sono come i negoziati internazionali: non portano a nulla se l'uno o l'altro (sia esso un partito politico o uno Stato) dei supposti protagonisti della trattativa è debole e diviso al suo interno, il che lo rende un negoziatore poco efficace e poco affidabile. Questa è la situazione in cui versa oggi il Partito democratico.

La conclusione del congresso di quel partito, come era forse prevedibile, non lo ha ricompattato e stabilizzato. Nonostante gli sforzi di Bersani, si fatica a intravedere una linea chiara. Se Bersani dice una cosa qualsiasi, gli esponenti della minoranza lo rimbeccano immediatamente sui giornali. A volte, dicono cose opposte a quelle che sostiene il segretario persino certi esponenti della stessa maggioranza (caso Rosy Bindi). Il Partito democratico è preda di una specie di «congresso permanente» che alcuni, o molti, confondono con la democrazia. I partiti di governo, tenuti insieme dai dividendi del potere, possono permettersi un simile coro di voci discordanti (talvolta, ne sono persino avvantaggiati). I partiti di opposizione non possono.

Le difficoltà della leadership sono ben rispecchiate nel modo in cui il Pd si avvia verso le elezioni regionali. In Lazio non ha ancora trovato un candidato da opporre a una sfidante fortissima come Renata Polverini, in Puglia la questione Niki Vendola ne sta da tempo dilaniando le carni. La Campania è già praticamente persa. Piemonte e Liguria, se i sondaggi sono attendibili, sono in bilico. Il Pd rischia assai grosso. Un quasi-cappotto alle regionali suonerebbe come una campana a morto. È tradizione, in Italia, che l'opposizione ottenga lusinghieri successi alle elezioni regionali. Una sconfitta del Pd testimonierebbe, a un tempo, della buona salute di cui continuano a godere i partiti di governo e della malattia che attanaglia il maggior partito di opposizione.

La malattia si chiama crisi di identità e le incertezze del partito sulla questione delle alleanze ne sono la spia. L'amletico dubbio è: rompere con Antonio Di Pietro e allearsi con l'Udc (peraltro determinante in molte regioni) adottando con decisione quello stile di opposizione pacata e responsabile che è nelle corde di Bersani o perseverare in un’alleanza che spaventa e allontana i moderati?

La minoranza del partito vuole che con Di Pietro non si rompa. Alcuni esponenti vicini a Massimo D'Alema vorrebbero il contrario.
Sapendo peraltro che mettere fine all'alleanza con Di Pietro significherebbe attirarsi gli strali, e le consuete accuse di tradimento, di quei mezzi di informazione che campano sull’antiberlusconismo radicale. Come sempre, quando un partito è tirato per la giacca in direzioni opposte, a prevalere, almeno temporaneamente, è il «centro», in questo caso rappresentato da coloro che ritengono conveniente tenere il piede in due staffe: corteggiare l'Udc e non spezzare il rapporto con Di Pietro. Ma in politica quelli che tengono il piede in due staffe rischiano molto: rischiano di essere considerati da chi li osserva «né carne né pesce». È la condizione peggiore che si possa immaginare quando si tratta di andare a chiedere ai cittadini consensi e voti.

Angelo Panebianco

30 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #78 inserito:: Gennaio 08, 2010, 07:01:12 pm »

Le fermezza e l'ipocrisia


Sappiamo da tempo che l'immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell'Europa. Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee. In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni. Ci sono almeno tre temi su cui non c'è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni. Non c'è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per «integrazione» degli immigrati. A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero. Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa?

Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per «integrazione» certi operatori istituzionali. Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore. Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà. E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.

C'è poi, in secondo luogo, la questione dell'immigrazione islamica. Tipicamente (le critiche di Tito Boeri - 23 dicembre - e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori - 20 dicembre - sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l'esistenza del problema. Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l'esistenza facendo di tutta l'erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall'altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l'islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione. E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti. Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all'uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi. Negare il problema è, francamente, da irresponsabili.

Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio). Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti. Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati. Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata.

Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?). Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro. Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità. Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati. Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione. Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità «non statale». Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no. Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale. Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti. Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale.

La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico. Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive. In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai. Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili.

Angelo Panebianco

08 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #79 inserito:: Gennaio 16, 2010, 03:00:12 pm »

La rivoluzione mancata del pdl

Il paradosso delle tasse


In materia di tasse Silvio Berlusconi ha un grande merito e un altrettanto grande demerito. Il merito è che la questione della riduzione drastica delle tasse entrò nella agenda italiana grazie a lui. Ai tempi della Prima Repubblica il tema era tabù. La Lega di Bossi, è vero, ne aveva parlato prima ma, in quel caso, le tasse erano solo un elemento fra gli altri entro la cornice del rivendicazionismo identitario-territoriale. Il demerito di Berlusconi è di non avere dato seguito alla promessa. Sergio Rizzo ( Corriere, 11 gennaio) ha ricostruito in modo esauriente la storia degli annunci e delle promesse mancate. Per arrivare a oggi, quando nel giro di pochi giorni Berlusconi ha rilanciato il vecchio progetto delle due sole aliquote per poi subito accantonarlo.

L’occasione mancata risale al governo Berlusconi del 2001-2006. Si andò vicino al traguardo con la legge delega, predisposta da Giulio Tremonti, che introduceva le due aliquote. Poi i contrasti nella maggioranza bloccarono il progetto. Berlusconi non fu capace di imporre ai suoi alleati una riforma su cui si giocava l’identità politica sua e di Forza Italia. Perché ora dovremmo credere che la grande riforma fiscale si farà, se non venne fatta allora, in un’epoca di espansione economica internazionale?

Il paradosso delle tasse può essere così riassunto: la storia di un quindicennio mostra che Berlusconi è inaffidabile quando promette la riforma fiscale. Al tempo stesso, c’è la quasi certezza che se la riforma non verrà fatta da lui non verrà fatta da nessun altro.
Non dal centrosinistra che sulle tasse ha ereditato gli atteggiamenti della classe politica della Prima Repubblica e che, per cultura, e per gli interessi della sua constituency elettorale, è ostile a riduzioni generalizzate della pressione fiscale. Ma nemmeno dal centrodestra, nel quale, tolta la componente di Forza Italia (e neppure tutta) del Pdl, sono presenti tanti politici che sulle tasse non hanno mai condiviso fino in fondo le idee (o i sogni?) di Berlusconi.

Certo, per ridurre le tasse occorre prima tagliare la spesa pubblica (campa cavallo). Oppure, come sostiene il «partito liberista» (da Antonio Martino a Oscar Giannino, ad Alberto Mingardi), occorre rovesciare le priorità: fare in modo che sia una drastica riduzione delle tasse a imporre la contrazione della spesa pubblica. Ci sono nodi tecnici da sciogliere, e conti da far quadrare, come il ministro Tremonti ricorda. Ma ci sono anche nodi politici. Ridurre le tasse significa destabilizzare clientele e corporazioni che vivono di spesa pubblica, colpire gli interessi cresciuti al riparo di un’alta fiscalità. E favorire cambiamenti di mentalità, fare accettare anche nelle aree del Paese che non ci credono l’idea che un livello troppo alto di tassazione sia un indicatore della scarsa libertà dei cittadini.

Con lodi o biasimi, a seconda degli orientamenti, gli ultimi decenni verranno ricordati nei libri di storia come quelli della «era Berlusconi». Ma se Berlusconi non riuscirà a rivoluzionare il fisco, nemmeno il più benevolo degli storici vi aggiungerà mai la parola «liberale».

Angelo Panebianco

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« Risposta #80 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:48:12 pm »

Il bipolarismo senza equilibrio

La nostra vita pubblica, apparentemente immobile, sembra vivere in realtà di oscillazioni radicali, sembra evolvere passando da uno squilibrio all’altro. Da noi, si tratti di rapporti fra politica e giustizia, fra pubblico e privato, o fra maggioranze e opposizioni entro il sistema dei partiti, non si trovano mai o quasi mai «punti di equilibrio» soddisfacenti. Nei rapporti fra politica e magistratura, ad esempio, siamo passati dal dominio della politica con debole o nulla indipendenza dei magistrati (nei primi decenni della Prima Repubblica) alla situazione opposta del predominio giudiziario sulla politica. Forse, l’episodio emblematico che consacrò la svolta fu, nel 1993, il proclama televisivo con cui l’allora pool di Mani Pulite affossò il decreto Conso sulla questione della corruzione. Da uno squilibrio all’altro, insomma.

La stessa cosa vale per i rapporti fra pubblico e privato. O è il pubblico (che poi significa sempre politica, partiti) a dominare il privato oppure è il privato che si appropria del pubblico. Anche qui, si danno, per lo più, oscillazioni da un estremo all’altro.

Anche se guardiamo ai rapporti fra i partiti, fra le maggioranze e le opposizioni, la situazione non è diversa. In Italia sembra esserci spazio solo per le alleanze formali, cementate dalla comune gestione del potere, e per le contrapposizioni totali alimentate da linguaggi e toni da scontro di civiltà (ma anche accompagnate, come è inevitabile perché il sistema non crolli, da frequenti accordi sottobanco).

Guardiamo all’oggi. Il bipolarismo richiederebbe una prevalenza della moderazione sull’estremismo, una convergenza al centro. Non è necessario che ciò accada continuamente (anche nei sistemi bipolari più stabili si danno inevitabilmente momenti o episodi di lotta feroce) ma è necessario, perché il sistema duri, che moderazione e convergenza al centro siano, almeno, le tendenze prevalenti. In Italia non è così. La caratteristica italiana è che mentre i fautori della moderazione sono per lo più contrari al sistema bipolare, i difensori del bipolarismo sono contrari alla moderazione.

Lo si vede in ogni zona del sistema partitico. Nel centrodestra le cose appaiono solo un po’ più confuse e complesse a causa degli effetti dell’esercizio del potere, del ruolo di Berlusconi, e della presenza della Lega (un partito di rappresentanza territoriale che, in quanto tale, ha un rapporto solo strumentale con il bipolarismo)

La tendenza— che però, ripeto, riguarda l’intero sistema politico— è invece visibilissima nel caso del maggior partito di opposizione, il Partito democratico. Qui, spingono chiaramente per la moderazione coloro che vorrebbero far saltare il bipolarismo mentre i difensori del bipolarismo cavalcano l’estremismo. Lo si è visto, qualche mese fa, nella gara per la segreteria nazionale. Il segretario uscente, Dario Franceschini, difendeva il bipolarismo usando però i toni e gli argomenti dell’estremismo giustizialista. Lo sfidante Pier Luigi Bersani sceglieva invece una linea assai più moderata (opposizione ferma sì ma senza massimalismi) mentre i dalemiani che lo sostenevano non facevano mistero della loro crescente insofferenza per l’alleanza con Di Pietro.

Questa moderazione, però, non era funzionale all’idea di fare del Pd una componente stabile del gioco bipolare. Ciò che si intravedeva era un diverso disegno. Il progetto era quello di sacrificare il bipolarismo sull’altare di una alleanza con i centristi di Casini (in attesa del botto finale: la disgregazione del centrodestra dopo l’eventuale uscita di scena di Berlusconi).

Fra il bipolarismo massimalista (Franceschini) e l’anti-bipolarismo moderato (Bersani) il «popolo democratico» scelse allora il secondo.
Il progetto di Bersani e D’Alema è ora stato sconfitto in Puglia. Se è vera l’ipotesi che da noi si procede solo passando da uno squilibrio all’altro, nel caso del Pd il pendolo dovrebbe ora di nuovo spostarsi verso l’irrigidimento massimalista. È probabile che assisteremo a una progressiva chiusura anche di quei piccoli spiragli di dialogo sulle riforme che si erano recentemente aperti. A maggior ragione se, come è possibile, le elezioni regionali andranno male per il Partito democratico. Ed è anche molto probabile che una nuova svolta massimalista del Pd non dispiaccia a Berlusconi. Nel breve termine, essa darebbe infatti ulteriori vantaggi al centrodestra.

A destra come a sinistra sono deboli le forze disponibili a far funzionare il sistema bipolare tramite moderazione e convergenze al centro. Le forze contrarie sono più consistenti.

Ricorrere a espressioni come « punto di equilibrio » , «equilibrio fra i poteri» (e ad altre espressioni ancora in cui figuri la parola «equilibrio») significa affidarsi a un linguaggio metaforico. Si vuole indicare, semplicemente, il consolidamento di prassi, di comportamenti, che raccolgano l’approvazione, se non di tutti, quanto meno dei più. Perché, si tratti di rapporti fra politica e magistratura, fra pubblico e privato, o fra maggioranze e opposizioni, non si riesce quasi mai a creare sufficiente consenso diffuso non sui contenuti (dove il dissenso e il conflitto sono legittimi e necessari) ma sul modo in cui quei rapporti dovrebbero correttamente svilupparsi? Perché queste oscillazioni fra estremi opposti? Le ragioni sono complesse e ciascuno può scegliere le risposte che preferisce. La più semplice è che, a tutte le latitudini, in alto e in basso, fra le élite come fra i cittadini comuni, mentalità, cultura e sensibilità liberali siano tuttora pressoché introvabili.

Angelo Panebianco

28 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #81 inserito:: Febbraio 05, 2010, 12:18:10 pm »

OBAMA E L’EUROPA MAI COSÌ DISTANTI

Il divorzio atlantico


La visita di Silvio Berlusconi in Israele non è stata solo un successo personale del premier italiano. Non ha soltanto ribadito agli israeliani (e ai loro nemici), ma anche all’opinione pubblica italiana, che il deciso schieramento dell’Italia a fianco del «più grande esempio di democrazia e libertà del Medio Oriente» rappresenta — come ha osservato giustamente Peppino Caldarola sul Riformista — la più forte discontinuità di politica estera fra i governi del centrodestra berlusconiano e tutti i precedenti governi italiani.

Quella visita, che dà ulteriore forza alla posizione energica assunta sulle questioni della difesa di Israele e del nucleare iraniano dal cancelliere tedesco Angela Merkel, ha anche varie implicazioni di politica internazionale. Soprattutto, contribuisce a segnalare all’Amministrazione Obama che la distratta negligenza con cui il presidente ha trattato gli storici alleati europei dell’America nel suo primo anno di governo è stata forse uno dei suoi più gravi errori politici (da cui non sembra abbia voglia di emendarsi, come dimostrerebbe, se venisse confermato, anche il recente annullamento della sua visita in occasione del prossimo vertice, fissato per maggio, fra Unione Europea e Stati Uniti).

Noi europei, per lo più con ragione, siamo soliti lamentarci di noi stessi, della nostra incapacità di darci quel tanto di coesione necessaria per parlare al mondo con una sola voce (continua a mancare quel numero telefonico unico che Henry Kissinger non trovava quando voleva comunicare con l’Europa). E sappiamo che questo stato di cose durerà probabilmente ancora per generazioni, se mai finirà. Inoltre, è più che lecito, e anche Obama ha ragione a farlo, rimproverare gli europei per la loro mancanza di nerbo quando si tratta di concorrere con l’America a fronteggiare le minacce. I tanti «no», soprattutto tedeschi e francesi, alla disperata richiesta di Obama di un maggiore impegno in Afghanistan, stanno lì a dimostrare di quanta poca determinazione alcuni dei principali Paesi europei siano dotati quando ci sono in gioco questioni cruciali per la sorte del mondo occidentale, come il contenimento dell’islamismo radicale o la stessa sopravvivenza della Nato.

Detto tutto il male che si può dire dell’Europa, resta però il fatto che Obama, fin dai primi giorni del suo insediamento, ha probabilmente sbagliato i calcoli. Ha pensato che fosse ormai tempo di ridimensionare il peso e il ruolo di quella speciale «relazione transatlantica » fra Stati Uniti ed Europa, che è stata, per cinquant’anni, uno dei pilastri della stessa potenza americana nel mondo. Non si è reso conto che se andasse in pezzi la «comunità euro-atlantica», il declino americano, comunque in atto (un declino che spaventa tanti e rallegra tanti altri) potrebbe solo subire un’accelerazione. Nonostante i suoi continui omaggi al multilateralismo, Obama è stato fin qui altrettanto «unilateralista » del suo predecessore Bush. Ha pensato che i vecchi alleati democratici fossero solo un ingombro, non un punto di forza, per le relazioni internazionali dell’America.

Come ha osservato Robert Kagan in un recente scritto molto critico sull'attuale Presidenza, la svalutazione delle relazioni euro-atlantiche da parte di Obama discende, almeno in parte, da una visione che, volendo liquidare l'eredità wilsoniana (la tradizione di interventismo democratico che si fa risalire al presidente Woodrow Wilson) in tutte le varianti, assume l'alleanza e il rapporto privilegiato con le democrazie (europee, ma non solo) come non più vitale per gli interessi dell'America. Per Obama, nel suo primo anno di Presidenza, era invece vitale solo cercare intese realistiche con chiunque (persino all'Iran è stata tesa la mano, ed è stata ritirata solo perché gli iraniani l'hanno morsa) sulla base dell'irenico, e sbagliato, presupposto che sia sempre possibile mettersi d'accordo, trovare comunque una convergenza su interessi comuni. Gli esiti non sono stati fin qui brillanti.

Il rapporto privilegiato che Obama pensava di stabilire con la Cina (il G2) non ha soltanto spaventato altri Paesi asiatici (come l'India), è anche stato privo di buoni frutti. I cinesi hanno detto «no» a tutte le richieste americane (il viaggio di Obama a Pechino fu per molti versi umiliante). Adesso fa la voce grossa (forniture d'armi a Taiwan, scontro su Internet, visita preannunciata del Dalai Lama a Washington), ma sapendo bene di non poter rompere con il principale creditore dell'America. L'indecisione strategica è evidente. Così come è evidente nel caso dell'Iran. Si è passati da una fase in cui, alla ricerca di chissà quali concessioni del regime iraniano, si scelse di non sostenere la rivolta popolare, a una fase in cui si torna a un atteggiamento duro e deciso (sperando che la Russia, ma soprattutto la Cina, non impediscano un'azione concertata della comunità internazionale contro il nucleare iraniano).

La grande forza dell'America, dopo la seconda guerra mondiale, è sempre consistita nel fatto che, pur trattando e negoziando con le tirannie, essa non perdeva di vista l'importanza del suo rapporto privilegiato con le altre democrazie, europee in primo luogo. L'Amministrazione Obama sembra non averlo capito. Per giunta, e nonostante le tante magagne dell'Europa, quale altro vero alleato l'America potrebbe mai trovare per contrastare la minaccia del terrorismo islamico? Tenuto conto che l'Europa, per geografia, risorse e storia, è, da un lato, la più esposta al pericolo e, dall'altro, quella dotata della migliore expertise per muoversi con una qualche efficacia nello scenario mediorientale. Forse il declino della potenza americana è inarrestabile, come molti ritengono, a causa del deterioramento della forza economica che la sosteneva e dell'emergere di altre potenze. Forse, come pensano altri, non c'è nulla di già scritto, di predeterminato, in queste faccende. E' però plausibile aspettarsi un'accelerazione del declino se la dirigenza americana penserà di poter fare a meno di quel rapporto con l'Europa che per tanto tempo ha contribuito ad assicurare a noi la libertà e agli Stati Uniti il primato.

Angelo Panebianco

05 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #82 inserito:: Febbraio 26, 2010, 12:03:21 pm »

DIRIGENTI ELETTI E SELEZIONE CHE NON C’E’

La corruzione e i partiti


Il caso del senatore Di Girolamo ma anche quanto documentano tante inchieste della magistratura sulla politica locale chiamano direttamente in causa le modalità di reclutamento della classe politica, al centro e alla periferia (le vicende giudiziarie che coinvolgono, rispettivamente, la Protezione civile ma anche Telecom e Fastweb toccano invece aspetti diversi). Come sempre, quando scoppia una emergenza giudiziaria, e tanto più se ci si trova alla vigilia di qualche importante scadenza elettorale, si invocano e si propongono nuove regole, soprattutto per quanto riguarda la composizione delle liste elettorali. È giusto che i partiti, in questa situazione, si diano delle norme stringenti nella selezione dei candidati. Proporre nuove regole, più o meno moralizzatrici, ha lo scopo di tranquillizzare un’opinione pubblica allarmata e sconcertata. Ma che servano davvero a risolvere, alla radice, il problema della qualità dei reclutamenti dei politici è un altro discorso. Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda la natura dei partiti: la loro plasticità e permeabilità. I partiti sono strutture camaleontiche, che si adattano all’ambiente in cui operano, e sono anche, inevitabilmente, condizionati, sia per il reclutamento del personale politico sia per quanto riguarda le influenze che su quel personale sono esercitate dall’esterno, da gruppi, aziende, notabili (ma anche, in certe zone, organizzazioni criminali), che nei diversi territori sono dotati delle maggiori risorse. Ne discende che le battaglie moralizzatrici (anche ammesso, e non concesso, che vengano intraprese con reale convinzione e con reale volontà) tese a bonificare i partiti sono destinate a sicuro fallimento se non si procede prima, o almeno contestualmente, a bonificare l’ambiente.

È inutile, ad esempio, stupirsi delle «infiltrazioni mafiose » nei partiti se parti ampie delle economie dei territori in cui le infiltrazioni avvengono sono in mano alla criminalità. Per bonificare con speranze di successo i partiti bisogna intervenire sull’economia di quei territori. Tramontata l’epoca che alcuni (ma non chi scrive) ritengono gloriosa dei partiti di massa ideologici, i partiti sono ormai quasi esclusivamente comitati elettorali e rimarranno tali. La loro permeabilità all’ambiente resterà, pertanto, elevatissima. E il reclutamento del personale politico continuerà a esserne condizionato. Il secondo aspetto importante riguarda l’opacità delle relazioni fra gruppi di affari e il personale politico. Qui bisogna davvero intendersi. Non si riuscirà mai a dare la trasparenza necessaria alla attività delle lobbies che operano sul piano locale e sul piano nazionale se continueremo a demonizzarle (come la nostra cultura politica ha sempre fatto) anche a prescindere dalla individuazione di specifici e circostanziati reati penali. Le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche. I vescovi hanno levato giustamente la loro voce contro i perversi rapporti fra politica e affari nel Mezzogiorno. Ma è un problema che non si risolve se non ci si fa venire nuove idee su come combattere l’economia parassitaria (l’economia che vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese.

C’è poi il fatto che non bisognerebbe avanzare richieste contraddittorie. È più che lecito, ad esempio, criticare l’attuale legge elettorale perché, fra le altre cose, spezza il rapporto fra l’eletto e il territorio. Ma come si concilia questa critica con la richiesta di usare la ramazza contro i comitati d’affari locali? Se, cambiando legge elettorale, si rinforzano i legami fra eletti e territorio (per esempio, reintroducendo le preferenze) anche i rapporti fra i candidati, gli eletti e gli interessi dei gruppi locali che fanno affari con la politica non possono che rafforzarsi. Chi scrive è sempre stato un fautore del sistema maggioritario con collegi uninominali. Perché mi sembra il sistema elettorale che meglio favorisce la competizione fra opposti schieramenti politici. Ma mentirei se sostenessi che con il collegio uninominale si allenterebbe la dipendenza degli eletti dai gruppi di interesse locali. Probabilmente, quella dipendenza potrebbe solo accrescersi. Il fervore con cui, improvvisamente, si cerca di trovare «nuove regole» è comprensibile. Ma non porterà da nessuna parte senza interventi ben più incisivi e importanti sugli ambienti sociali ed economici in cui i partiti operano. Ad esempio, scordatevi la possibilità di avere nel Sud partiti puliti e lustri se la realtà meridionale, per tante parti, resta quella che è. Anche se una certa, diffusa mentalità legalistico-formalistica porta tanti a non comprenderlo, una nuova «regola», quale che essa sia, per esempio in materia di composizione delle liste, se cade in un ambiente con essa incompatibile, verrà necessariamente aggirata o stravolta. Passata l’emergenza, tutto ricomincerà più o meno come prima.

Angelo Panebianco

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« Risposta #83 inserito:: Marzo 10, 2010, 09:15:21 am »

IL PD E L’IPOTECA DI PIETRO

Un partito prigioniero


La tragicommedia non è ancora finita. Per ora il «golpe » (come certi oppositori, dotati, come ognun vede, di senso della misura e dell’equilibrio, hanno subito definito il decreto salva-liste) è stato bloccato da un Tar. Ieri la lista pdl nella provincia di Roma ha subito un nuovo stop. Vedremo gli sviluppi. Al momento, si constatano due conseguenze. La prima è data dal grave danno d’immagine che il centrodestra si è auto-inflitto e di cui è il solo responsabile. La seconda riguarda gli effetti sull’opposizione. La reazione del Partito democratico fa riflettere. È possibile che abbia ragione Giuliano Ferrara («Il Foglio», 8 marzo): il Pdl aveva fatto un clamoroso autogol ma il Pd non è stato poi capace di approfittarne. I dirigenti del Pd avrebbero potuto dire: accertato che i nostri avversari sono dei pasticcioni, noi che abbiamo a cuore la sorte della democrazia e che non possiamo accettare che una competizione democratica venga svuotata di significato per assenza del nostro principale antagonista, sosterremo le scelte che farà il presidente della Repubblica per sanare questa anomala situazione. Sarebbero usciti da questa vicenda a testa alta, come l’unico partito importante dotato di senso delle istituzioni. Ma ciò avrebbe anche richiesto che il Pd fosse un partito diverso da ciò che è, un partito forte, capace di decidere da solo la propria agenda politica, non un partito debole e etero- diretto, un partito che l’agenda, nei momenti critici, se la fa dettare sempre da altri, si tratti dei giornali di riferimento o di Antonio Di Pietro.

All’indomani del decreto, incapaci di sfruttare il grande vantaggio tattico che il Pdl aveva loro offerto, i dirigenti del Partito democratico si sono subito infilati in una trappola. Parlo della manifestazione di sabato prossimo. Se non verrà annullata, risulterà per il Pd un boomerang e un pasticcio politico, in qualche modo summa e specchio di tutte le sue debolezze. I dirigenti del Pd possono negarlo quanto vogliono ma la manifestazione avrebbe necessariamente il carattere di una presa di posizione contro il capo dello Stato e non solo contro il governo. Il decreto salva-liste, infatti, è stato firmato e difeso da Napolitano. In questa situazione, la stella di Di Pietro, oggi vero leader morale dell’opposizione, brillerebbe: egli è infatti il solo non-ipocrita della compagnia, quello che dice pane al pane, quello che ha chiesto subito l’impeachment per il capo dello Stato. Si badi: se fosse vera la tesi (ma i costituzionalisti sono assai
divisi) secondo cui il decreto crea un grave vulnus al processo democratico, allora Di Pietro avrebbe mille volte ragione a proporre
l’impeachment. Quello del Pd risulterebbe dunque un capolavoro politico alla rovescia. Consentirebbe (e ha già consentito) al centrodestra, responsabile del pasticcio, di fare la vittima e di ergersi a difensore del presidente della Repubblica.

L’intera vicenda si presta a considerazioni amare sulla qualità, la tempra e la professionalità della classe politica, di destra e di sinistra. Sulle debolezze (tante e complesse) del centrodestra avremo modo di ragionare in seguito. Per quanto riguarda il Pd, basti ricordare che esso, incapace di tracciare una linea di divisione netta fra sé e il movimento giustizialista, incapace di combattere i giustizialisti (apprezzati da tanti anche al suo interno), ha finito per abbracciarli. E questo è il risultato.

Angelo Panebianco

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« Risposta #84 inserito:: Marzo 16, 2010, 10:34:20 am »

LA PRIMA REPUBBLICA VA RIMPIANTA?

Quelle inutili nostalgie


Di fronte al marasma in cui è quotidianamente immersa la nostra vita pubblica attuale è comprensibile che tanti ripensino con nostalgia alla Prima Repubblica, trasfigurata nel ricordo e idealizzata come un’oasi di ordine politico e di pace. Un «luogo» ove erano inimmaginabili la volgarità dell’oggi, e ove (come si sente continuamente dire) i politici erano dei veri professionisti, misurati nelle parole e capaci di gestire con competenza situazioni difficili. Il contrario dello spettacolo di disordine, dilettantismo e sguaiataggine cui assistiamo. La nostalgia per il passato è uno dei più naturali e ricorrenti fra i sentimenti degli uomini. C’è gente che ricorda con nostalgia persino le guerre e altre catastrofi (magari perché, all’epoca, possedeva la cosa che tutti rimpiangono quando non c’è più: la gioventù). È accaduto anche in Russia: spaventati dal disordine successivo alla caduta dell’Urss, tanti russi si scoprirono nostalgici dei «bei tempi» del potere totalitario comunista. Dunque, non c’è nulla di strano nel fatto che tanti italiani oggi ricordino con nostalgia la Prima Repubblica. Ma ne vale la pena?

La Prima Repubblica non era affatto un luogo ameno, o un’irreprensibile democrazia. Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora) nel quale i tentacoli dei partiti si estendevano ovunque. La sua storia va divisa in due parti. Nella prima parte, l’Italia fu immersa in una guerra civile virtuale: da un lato i comunisti, di stretta osservanza sovietica, dall’altro lato i democristiani e i loro alleati. La Falce e il Martello e lo Scudo Crociato, che campeggiavano sulle loro bandiere, erano simboli di guerra, di armate al servizio di visioni della società e della politica mortalmente nemiche. L’inamovibilità della Dc, l'assenza di alternanza al governo, non erano casuali. Erano il prodotto necessario della natura degli attori politici. Se vogliamo capire, guardando allo scontro di oggi fra berlusconiani e antiberlusconiani, dove abbiamo appreso la sciagurata abitudine di trattare la politica come conflitto fra Bene e Male è a quell’epoca che dobbiamo rivolgerci. Nella seconda fase della Prima Repubblica, le contrapposizioni ideologiche si stemperarono un po', i nemici ideologici impararono a coesistere ma ciò non migliorò la condizione della nostra vita pubblica. Per certi versi, la peggiorò. Si aprì infatti l’epoca che Alberto Ronchey per primo battezzò della «lottizzazione», una selvaggia e continua spartizione delle spoglie pubbliche fra fameliche macchine partitiche.

Non esisteva una reale separazione dei poteri. Finché i partiti non cominciarono a indebolirsi (più o meno, dalla Presidenza Pertini in poi), ad esempio, i Presidenti della Repubblica erano comandati a bacchetta dalle segreterie di partito. La costituzione formale era una cosa ma ciò che contava era la costituzione materiale: le vere regole del gioco avevano ben poca attinenza con le regole formali (costituzionali). La Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità molti disastri. Ne cito quattro. L'assenza di alternanza andava a braccetto, nella Prima Repubblica, con un'endemica instabilità governativa. La conseguenza era l'incapacità della politica di concepire e attuare piani a medio termine nei suoi vari settori di competenza. Era costretta ad occuparsi solo del consenso immediato. Il dissesto idrogeologico, il decadimento di tante infrastrutture, la carenza di ospedali, carceri o scuole, da cui siamo tuttora afflitti, hanno la loro radice nell’incapacità della Prima Repubblica di attuare politiche di respiro nei vari ambiti. La pubblica amministrazione, oltre che come ricettacolo di clientele, fu utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, soprattutto dal Mezzogiorno, senza riguardo per i suoi problemi di funzionalità. La sua celebre inefficienza, che tuttora ci opprime, è un regalo della Prima Repubblica. Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.

Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele, dopo il '68 diventò (come, in seguito, accadrà anche alla Rai) la principale sede di uno strisciante «compromesso storico»: il clientelismo dei democristiani si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex sessantottini diventati insegnanti. Chi vuole capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola è al quarantennio della Prima Repubblica che deve guardare. Infine, la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità un colossale debito pubblico (una colpa più grave, per i suoi effetti, del finanziamento illecito dei partiti). Si consentì a tanti italiani di vivere al di sopra dei loro mezzi scaricandone i costi sulle generazioni successive. Anche i figli dei nostri figli continueranno, incolpevoli, a pagare quel conto. Ma, si dice, i partiti erano fonte di «professionalità » (sottintendendo: altro che i dilettanti attuali). Questo è vero ma la professionalità dei politici dell'epoca non impedì nessuno dei disastri che ho sopra ricordato. Ma, si dice ancora, c'era più decoro, meno volgarità imperante. Anche questo è vero, ma si dimentica qual era la causa del minor tasso di volgarità.

La società era meno libera, condizionata da modelli di comportamento assai più rigidi degli attuali. La volgarità di oggi è, per così dire, il lato oscuro della libertà. Siamo più liberi, e ciascuno fa uso di quella libertà come sa e come è portato a fare. C'è poi il capitolo magistratura (l'unico rispetto al quale persino un detrattore della Prima Repubblica, quale è chi scrive, ha qualche tentennamento). Siamo passati da una magistratura dipendente dal potere politico (almeno nella prima fase della Prima Repubblica) all’anarchia giudiziaria attuale, dove ci sono magistrati che vorrebbero avere diritto di vita e di morte sui governi (si tratti del governo Prodi o del governo Berlusconi) e assistiamo al fenomeno dei raider giudiziari, procuratori che costruiscono inchieste spettacolari (spesso destinate a finire in nulla) per poi costruirci sopra carriere politiche. Non siamo riusciti a trovare un accettabile punto di equilibrio fra la dipendenza di ieri e l'anarchia di oggi. La nostalgia è un sentimento rispettabile ma, come spiegano gli psicologi, non è sano. È nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi. Non serve evocare un’età dell'oro che non è mai esistita.

Angelo Panebianco

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« Risposta #85 inserito:: Marzo 25, 2010, 11:06:50 am »

TRA RAPPRESENTANZA E CONFLITTUALITA’

Tremonti, Fini e le scelte del Pdl


Comunque vadano le elezioni regionali per il Popolo della libertà, i risultati difficilmente ne freneranno la conflittualità interna.
Per due ragioni. La prima è che il calendario politico è diverso dal calendario gregoriano. Secondo il calendario gregoriano mancano tre anni al 2013 e, quindi, alla fine della legislatura. Ma per il calendario politico ne mancano due. Nel senso che il governo ha ormai poco tempo per attuare i suoi programmi: due anni, forse anche meno. L’ultimo anno sarà elettorale e, a quel punto, ci si preparerà al duello, si scalderanno i muscoli, si fronteggeranno le manovre dei possibili «traditori », eccetera: l’attività dell’esecutivo verrà piegata a queste esigenze. Con la riduzione del tempo a disposizione del governo cresceranno nervosismo e conflittualità. La seconda ragione è che il Pdl è una costruzione assai fragile, l’aggregazione di una molteplicità di gruppi e gruppuscoli tenuti insieme solo dalla leadership di Berlusconi e sulla quale, per giunta, pesa il conflitto fra il premier e Gianfranco Fini. Molti dirigenti e parlamentari non possono non interrogarsi sul futuro del partito (e, quindi, sul loro futuro personale): sarà ancora Berlusconi a guidare il partito nella sfida elettorale del 2013? Oppure ragioni anagrafiche o anche l’usura politica lo obbligheranno a lasciare? E in tal caso che fine farà il Pdl?

Il Pdl è certamente molte cose. È, prima di tutto, una classica grande aggregazione di centrodestra. In quanto tale, ha attirato, come fanno sempre queste aggregazioni, una quota elevata di personale politico con esperienze di governo, nazionale o locale, in precedenti formazioni moderate. È l’aspetto che più lo avvicina alla Dc e che, per certi versi, lo rende erede (questione religiosa a parte) di quella esperienza. Ma il Pdl non è solo questo. È anche un partito che, attraverso la componente Forza Italia, ha reclutato un personale che proprio in Forza Italia ha fatto il suo apprendistato, un personale «chiamato alle armi» dal Berlusconi del ’94 e del 2001, quello del programma «liberista» (meno di tutto: Stato, burocrazia, tasse) e che ha il suo elettorato di riferimento in quella parte di cittadini, soprattutto al Nord, sensibili a quei temi. E c’è la componente An, con una storia e un insediamento sociale ed elettorale assai diversi da quelli di Forza Italia. Come potrà stare insieme in futuro questa aggregazione? Qualcuno potrà vincere la partita della successione a Berlusconi mantenendola unita? Al momento c’è un solo dirigente che ha messo il suo ingegno, le sue risorse culturali e la sua capacità di governo al servizio di un progetto che possiamo definire «post-berlusconiano», in grado, cioè, sulla carta, di andare oltre Berlusconi. È Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia si è mosso su tre piani: quello dell’azione di governo (tenendo in piedi il Paese nel mezzo della tempesta globale), delle alleanze sociali, che ha gestito con accortezza, e sul piano della proposta politico-culturale. Quanto a quest’ultima, è strano che non si siano notate certe somiglianze, forse involontarie, fra la posizione tremontiana e alcuni aspetti, oltre che del conservatorismo classico europeo, anche del neoconservatorismo americano: mix di mercato e Stato, recupero della tradizione religiosa, enfasi sulla centralità della coesione sociale, eccetera.

È un’offerta politica che potrebbe mordere su una parte significativa di quell’elettorato moderato cui Tremonti si rivolge. Inoltre, l’accento sulla coesione sociale ha anche l’effetto di spiazzare una sinistra in crisi di identità e con poche idee. Ma ci sono due «ma». Il primo riguarda il rapporto con la Lega. A parte Berlusconi, Tremonti è l’unico leader del Pdl che possa garantire l’alleanza con la Lega.
Ma potrebbe riuscirci, uscito di scena Berlusconi, senza perdere porzioni rilevanti del Pdl nel Centroitalia e nel Sud? Il secondo «ma» riguarda la parte di Forza Italia tuttora ancorata alle tradizionali posizioni liberiste del Berlusconi del ’94 e del 2001. Questa parte del partito non può riconoscersi nel tremontismo. Così come non vi si riconoscono quei settori di classe media indipendente del Nord che, da un lato, sono refrattari alle chiusure del comunitarismo leghista e, dall’altro, sono delusi dalla dismissione del programma liberista (sul deficit di rappresentanza di questi ceti i lettori del Corriere sono stati informati dalle approfondite inchieste di Dario Di Vico).

La dismissione del programma liberista è forse il problema che più pesa sulle prospettive del Pdl. È un fatto però che l’oppositore per antonomasia, Fini, non lo ha fin qui riconosciuto come il tema su cui costruirsi una posizione di forza per le sfide del dopo Berlusconi. C’era e c’è, insomma, un «posto vacante » ma Fini non lo ha occupato. Anziché scegliere la strada, che potrebbe rivelarsi sterile, della fronda continua, Fini avrebbe potuto contrapporsi a Tremonti (e a Bossi) in nome delle «ragioni» (abbandonate) del ’94, diventando punto di riferimento per quella parte dell’elettorato di centrodestra non catturabile né dalla Lega né dal tremontismo. Anche la polemica con Berlusconi, in questo caso, si sarebbe dovuta concentrare sulle incoerenze, sul divario fra promesse e realizzazioni, sull’abbandono del liberismo originario. Quella scelta sarebbe stata certamente in conflitto con la formazione personale e le esperienze passate di Fini ma, a ben vedere, non più di quanto lo siano le posizioni assunte sui temi etici o sull’immigrazione. E, in seguito, ci sarebbe stato tempo e modo per stipulare i necessari compromessi con il resto della dirigenza del partito. La storia è sempre imprevedibile, naturalmente. Al momento il futuro del Pdl appare incerto. E non si può scommettere su una riduzione della sua interna conflittualità. Tra le molte ragioni c’è anche il fatto che non è emerso ancora nessuno con la statura adeguata per occupare il «posto vacante». A meno che, a dispetto di pronostici, età e usura politica, quel posto non venga alla fine rioccupato, ancora una volta, da Berlusconi.

di ANGELO PANEBIANCO

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« Risposta #86 inserito:: Aprile 01, 2010, 07:45:48 am »

IL NUOVO VOLTO DELLA LEGA

Popolare e borghese


Forse non bisognerebbe perseverare, a campagna elettorale conclusa, nell'errore commesso prima e durante la campagna, quello di sopravalutare l'influenza dei suoi risultati sulla stabilità del governo nazionale. Il governo in quanto tale è sicuramente uscito vincitore da un'elezione regionale che gli illusi credevano di trasformare in un referendum contro Berlusconi («Faremo come in Francia»).
Ma sarebbe sopravvissuto anche a una sconfitta. E i gravi problemi che ha sul tavolo e aspettano di essere affrontati sarebbero stati lì comunque. Saranno le scelte o le non scelte su quei problemi che in definitiva rafforzeranno o indeboliranno il governo. Né ha molto senso trarre chissà quali indicazioni dal forte astensionismo registrato. E' possibile, se non probabile, che alle prossime elezioni politiche (nel 2013) la tendenza astensionista non si confermi. La drammatizzazione, la trasformazione delle elezioni in «giudizi di Dio», funziona molto meglio nelle elezioni politiche che in quelle regionali. E lì, in genere, ha un effetto inibitore sull'astensionismo. Fine della storia. In seguito, fra qualche mese, quando di queste elezioni non importerà più nulla a nessuno, verranno pubblicate ottime analisi disaggregate dei dati e serie ricerche sui flussi elettorali, e sarà possibile capire nel dettaglio (ma la cosa, a quel punto, interesserà solo agli studiosi) che cosa è davvero successo nella pancia del Paese. Al momento, sono solo possibili valutazioni generiche e di massima. Intanto, notiamo un paradosso: Berlusconi premier ha molti più motivi di sorridere del Berlusconi leader del Pdl. Non solo la maggioranza di governo non è stata duramente punita, come di solito avviene, ma ha addirittura vinto le elezioni. Il Pdl, invece, è in seria difficoltà a causa della avanzata della Lega in tutto il Nord. Una crescita entro certi limiti prevedibile dal momento che i candidati leghisti alla Presidenza in Veneto e Piemonte non potevano non tirare la volata al loro partito ma anche una crescita che, per le sue dimensioni e proporzioni, pone un'ipoteca sul futuro del Pdl. E' la capacità competitiva del Pdl nell' area del centro-destra del Nord che dovrà essere soppesata nel prossimo futuro.

Inoltre, i successi registrati dalla Lega nelle tradizionali zone rosse (in certe aree dell'Emilia soprattutto) dovrebbero preoccupare sia il Pdl che il Partito democratico. Sembrano indicare che là dove la tradizione politica locale predilige i partiti popolari con vocazione per il radicamento territoriale, la Lega possiede sia notevoli capacità competitive nei confronti dei partiti d'opposizione che un tempo si sarebbero detti «borghesi» (come il Pdl), a debole radicamento, sia una certa potenzialità di espansione ai danni di forze popolari tradizionalmente dominanti (come, appunto, il Pd nelle zone rosse). Ma su questo solo l'analisi dei flussi elettorali potrà darci indicazioni più precise.

Soprattutto, bisognerà comprendere come è andato trasformandosi, e come ancora si trasformerà per effetto della crescita, il movimento di Bossi. I vecchi cliché, ma anche qualche vecchia buona analisi, non ci aiutano più a capire.

Se dalla destra dello schieramento ci spostiamo verso il centro, ci imbattiamo nell’Udc di Pier Ferdinando Casini. In fondo, in questa campagna, Casini aveva il progetto più ambizioso: dimostrare di essere il vero ago della bilancia della politica italiana, dimostrare ai due blocchi che si poteva vincere solo alleati con lui. Ha mostrato di essere determinante in Lazio, in Puglia (dove la sua mancata alleanza con il Pdl ha favorito l’affermazione di Nichi Vendola), in Liguria. Ma ha mancato l’en plein in Piemonte dove sosteneva la Bresso. Più grave ancora, lo spostamento a sinistra del baricentro dell’opposizione che queste elezioni prefigurano riduce il valore del capitale politico a sua disposizione. A sinistra, infatti, un’ulteriore radicalizzazione sembra un esito probabile. L’Italia dei Valori consolida le sue posizioni ed è ormai un interlocutore/ competitore/alleato di peso di cui il Partito democratico non può più fare a meno. C’è poi il fenomeno, per certi versi enigmatico e comunque non previsto dai sondaggi, rappresentato dai successi delle liste di Beppe Grillo.

E c’è la consacrazione di Vendola come potenziale leader nazionale. Quella che avrebbe dovuto essere, nel progetto da cui nacque quel partito, il motore, l’anima e la forza egemone del Partito democratico, ossia la componente riformista, esce male anche da queste elezioni. Si conferma il fatto, oggi come in passato, alla luce dell’intera storia della sinistra italiana, che il massimalismo paga più della moderazione, che i riformisti sono destinati a restare minoranza. Come, del resto, i liberali a destra.

Angelo Panebianco

31 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #87 inserito:: Aprile 12, 2010, 11:37:49 pm »

EUROPA IN DIFFICOLTÀ

La Polonia e le vendette della Storia

Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento verso Est


Anche se non c'è alcun legame, ma solo una coincidenza temporale, fra il disastro aereo che decapitando in terra russa una parte importante della classe dirigente polacca ha risuscitato i fantasmi della Seconda guerra mondiale e le divisioni europee sulla questione del salvataggio della Grecia, i due episodi segnalano quanto gravi e complessi siano i problemi che attanagliano l'Europa. Non sono passati molti anni da quando gli europei, o molti di loro, parlavano dell'Europa come se si trattasse di un continente ormai al riparo dalle imboscate della storia. C'è stato un tempo in cui le elite europee credevano sinceramente che l'integrazione fosse una strada a senso unico e dalla quale l'Europa non sarebbe mai più tornata indietro. Molti pensavano che persino l'unificazione politica fosse a portata di mano, realizzabile nel giro di una o due generazioni. L'Unione godeva allora di grande prestigio (accresciuto dal successo della moneta unica) e la sua capacità di attrazione sui Paesi che non ne facevano parte era fortissima. Era l'epoca in cui si potevano immaginare ambiziose strategie e grandiosi piani di sviluppo (la strategia di Lisbona del 2000). In polemica con gli Stati Uniti, si favoleggiava di una Europa «potenza civile » che, con i suoi modi gentili e rassicuranti, avrebbe portato stabilità e benessere negli scacchieri caldi del Pianeta.

Poi le cose cominciarono a girare in un altro modo. Con l'allargamento, l'eterogeneità interna all'Unione aumentò, crebbero i contrasti e i rischi di paralisi dei processi decisionali europei. La guerra in Iraq, spaccando l'Europa in due fronti, uno a favore e uno contro gli Stati Uniti, rivelò poi l'esistenza di radicali divergenze nelle concezioni geopolitiche e nel modo in cui i governi europei definivano i rispettivi interessi nazionali (la cosa si è ripetuta durante la guerra russo- georgiana del 2008, quando proprio i polacchi assunsero le posizioni più intransigenti verso il rinascente imperialismo russo). Il colpo più duro fu la sconfitta della cosiddetta «costituzione europea » nel referendum francese del 2005. Proprio in uno dei Paesi-cardine dell'Unione l'elettorato sceglieva di dare un violento ceffone a quelle elite che avevano ritenuto i tempi maturi per una maggiore integrazione. La successiva adozione del trattato di Lisbona tamponò la ferita senza guarirla.

Guardiamo all'oggi. Possiamo scegliere una lettura immediata, più superficiale, delle attuali ragioni di crisi oppure una lettura che scavi alla ricerca delle forze più profonde. A una lettura immediata, molti problemi sembrano dipendere dagli atteggiamenti di una Germania emancipata dai complessi del passato e dalle linee guida dei suoi moderni fondatori, da Adenauer a Kohl. Nel caso della Grecia spetterà agli esperti valutare l'accordo raggiunto ieri, dopo un lungo travaglio, nell'Eurogruppo: la Germania, dopo essersi eretta a inflessibile ostacolo per una soluzione europea della crisi greca, ha scelto all'ultimo momento (anche tenendo conto dell'esposizione delle banche tedesche nella crisi) la via del compromesso. Importante per se stessa, l'evoluzione della crisi greca lo sarà anche, e soprattutto, per misurare le possibilità future di tenuta dell'eurozona. Quelle possibilità dipendono dalla continua capacità dei partner di convergere verso un interesse comune. Se si afferma la percezione di una incompatibilità fra gli interessi nazionali, la convergenza diventa ardua. Per ora si può solo osservare che rinunciando al suo tradizionale ruolo di leader dell'Europa, la Germania ha già mandato in pezzi l'asse franco-tedesco, l'antico motore dell'integrazione.

Ma si noti anche, cambiando luoghi e scenario, quanto la politica della nuova Germania condizioni la vicenda polacca. Le paure di Varsavia nei confronti dell’imperialismo russo, alimentate da una memoria che non può essere cancellata, sono esasperate dalla scelta tedesca di un matrimonio di interessi con la Russia di Putin e Medvedev. I Paesi dell'Est, Polonia in testa, sono sempre meno sicuri che l'Unione sia capace di dare loro adeguata protezione e una solidarietà non solo formale a fronte dei periodici ruggiti dell'orso russo. Se si scava a un livello più profondo, però, il problema non è più la politica della Germania. Il problema è che la storia pesa e, soprattutto quando viene negata, finisce per presentare il conto. Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento a Est. Bisognava sapere che quell'allargamento interessava Paesi che avevano riacquistato l'indipendenza nazionale dopo mezzo secolo di dominio sovietico e che le loro (comprensibilissime) preoccupazioni geopolitiche sarebbero state indirizzate a cercare protezione da un possibile, risorgente imperialismo russo.

Così come, più in generale, bisognava saper valutare il peso delle secolari divisioni dell'Europa. Non era possibile forzare troppo la mano nella direzione dell'unificazione politica senza provocare reazioni popolari che avrebbero messo a rischio persino il tantissimo di buono che l'integrazione economica e monetaria aveva dato all’Europa. Ci sono tempi e ritmi che vanno rispettati. Sempre guardando alle forze più profonde, è difficile non mettere in relazione l'attuale crisi dell'Unione con l'indebolimento del ruolo politico degli Stati Uniti. Agli europei, spesso, non fa comodo ricordarlo ma non ci sarebbe stato nessun processo di integrazione europea al di fuori del contesto di sicurezza garantito dopo la Seconda guerra mondiale, dagli Stati Uniti. Ciò suggerisce la possibilità che il futuro della comunità euro-atlantica e quello dell'integrazione europea siano fra loro più connessi di quanto di solito si creda e che il declino o il rilancio della prima possano coincidere con il declino o il rilancio della seconda.

Angelo Panebianco

12 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #88 inserito:: Aprile 18, 2010, 10:09:44 pm »

IL PARADOSSO DEL CASO FINI

Un favore alla Lega


Accade continuamente che certe nostre azioni, volte a ottenere determinati risultati, producano effetti opposti, in contrasto con le nostre intenzioni. Una delle ragioni per le quali è possibile che il presidente della Camera Gianfranco Fini cerchi un accomodamento dell'ultimo minuto con Berlusconi consiste nel fatto che una scissione potrebbe ampliare ulteriormente gli spazi di manovra della Lega di Bossi. Sarebbe paradossale se proprio Fini, il leader che contrasta il peso politico della Lega nella maggioranza e nel governo, si trovasse nella condizione di favorirne involontariamente l'accrescimento anziché il ridimensionamento.

Nel breve termine, come ha osservato Stefano Folli ( Il Sole 24 ore), una scissione dei finiani potrebbe esaltare il ruolo della Lega nel governo non lasciando a Berlusconi altra scelta se non quella di rafforzare ulteriormente l'asse con Bossi. Ma le conseguenze di più ampia portata si avrebbero in sede elettorale (con o senza elezioni anticipate). Oggi, complici anche certe letture superficiali dei risultati delle regionali, la forza della Lega appare alquanto sopravvalutata. La Lega ha infatti ottenuto un grande successo ma con la complicità dell'astensione (l'astensionismo ha colpito il Pdl non la Lega). E’ plausibile che, nelle prossime elezioni politiche, riassorbito l'astensionismo, i rapporti di forza fra Lega e Pdl possano tornare più o meno ai livelli delle politiche precedenti. Ma se ci fosse una scissione le cose cambierebbero. Il Pdl apparirebbe al Nord ancor più fragile di quello che è e la Lega potrebbe avvantaggiarsene strappando molti elettori al partito di Berlusconi. L'egemonia leghista al Nord diventerebbe allora una «profezia che si autoadempie». La scissione finiana contribuirebbe al risultato.

Inoltre, quale che sia la consistenza delle truppe finiane, è probabile che il grosso di quelle truppe sia dislocato essenzialmente nel Centro-Sud, da Roma in giù. Fini potrebbe così trovarsi, involontariamente, alla testa di una specie di Lega Sud, con una capacità di attrazione nel Nord del Paese vicina allo zero o giù di lì. Sarebbe un passo in più verso uno scenario un po' fosco, quello di una netta divisione politicoterritoriale fra Nord e Sud.

D’altra parte, sono i numeri a dire che fino ad ora è stata solo la leadership di Berlusconi a tenere insieme le diverse anime territoriali della maggioranza. Fini ha però di fronte a sé anche un’altra opzione: fare ciò che fino ad oggi non ha fatto o non è riuscito a fare (come ha osservato Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere del 16 aprile). Evitare la scissione e costruire una corrente, interna al Pdl, dotata di un suo chiaro e riconoscibile programma, capace di parlare davvero all’elettorato di destra. In questo caso, Fini si doterebbe di una certa forza contrattuale da spendere nelle trattative con Berlusconi, Tremonti e Bossi sulle varie questioni interessate dall’azione del governo. È una strada sdrucciolevole: elaborare un programma siffatto (soprattutto, sulle questioni economiche) non è facile. Ma sembra anche, per Fini, l’unica possibilità. Limitarsi a fare il controcanto ogni volta che Berlusconi parla, come il Presidente della Camera ha fin qui scelto di fare, può strappare applausi alla sinistra ma, politicamente, non porta da nessuna parte. Con o senza scissione.

Angelo Panebianco

18 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #89 inserito:: Maggio 29, 2010, 12:42:50 pm »

FEDERALISMO E SPESA AL SUD

I costi politici dei tagli

Riforma seria: un assetto federale serio riduce i trasferimenti dalle regioni ricche a quelle povere


La manovra in atto sui conti pubblici non è soltanto una mossa necessaria per tranquillizzare i mercati e salvare la stabilità monetaria.
È anche qualcos’altro: è una sorta di anticipazione, di prova generale, dei conflitti che si manifesteranno quando si tratterà di varare, con i decreti attuativi, il federalismo fiscale. Contenere e razionalizzare la spesa, ridurre il ruolo dell’intermediazione statale, eliminare gli sprechi? Semplice a parole, complicatissimo nei fatti. La resistenza della Lega sulla questione dell’abolizione di alcune Province è assai significativa. Così come è significativa la paura del partito berlusconiano che il blocco degli stipendi degli statali e le misure anti-sprechi possano aprire, soprattutto al Sud, grandi falle nel suo bacino elettorale.

Prendiamo il caso degli enti locali. I tagli indiscriminati, dice giustamente Luca Ricolfi (La Stampa, 28 maggio), trasmettono un senso di iniquità perché colpiscono allo stesso modo gli enti virtuosi e quelli viziosi. Verissimo, ma il fatto è che misure mirate, concentrate proprio là dove si annida lo spreco, sarebbero politicamente destabilizzanti: ovviamente, i tagli selettivi colpirebbero prevalentemente (non solo, ma prevalentemente) le istituzioni locali del Mezzogiorno. Tenuto conto che il consenso del Sud è decisivo al fine di vincere le elezioni, quale governo se li può permettere? Questa è la ragione per la quale da sempre (non solo oggi), quando si tratta di varare manovre di austerità, si ricorre a tagli e blocchi indiscriminati (alle università, agli enti locali, eccetera). Si ritiene (probabilmente, con ragione) che sia politicamente meno pericoloso permettere che un senso di iniquità si diffonda fra i virtuosi che scatenare la furibonda reazione dei viziosi. Se i tagli, infatti, si concentrassero su quei territori ed enti ove sono più forti gli sprechi dovrebbero colpirli ancor più pesantemente. È politicamente più accorto spalmare le misure restrittive su tutti, diluendone così l’impatto.

Due aspetti si sommano e frenano l’opera di razionalizzazione della spesa. C’è la volontà della politica di non rinunciare a nessuno degli strumenti locali di intermediazione di cui dispone. La Lega, con le sue posizioni in difesa delle Province o del controllo municipale sui servizi, non è diversa, sotto questo profilo, dai notabili politici meridionali: cambia solo il contesto in cui l’una e gli altri operano. E c’è poi, soprattutto, la questione del Mezzogiorno, che nessuno sa più come affrontare.

Ciò ci porta al problema del federalismo fiscale. È sempre stato presentato dai suoi sostenitori come la manna. Col federalismo fiscale, ci viene detto, si ridurranno le tasse, si razionalizzerà la spesa pubblica, migliorerà la qualità dei servizi sociali. Solo vantaggi, insomma, e nessuna controindicazione. Anche chi, come chi scrive, pensa che il federalismo fiscale sarebbe una buona cosa per il Nord, dubita fortemente che tutte queste belle conseguenze si avrebbero anche nel Centro-Sud. Per una ragione generale e per una più specifica. La ragione generale è che abitudini radicate e regole informali condizionano i comportamenti degli uomini assai più delle regole formali.

Se con le suddette abitudini e regole informali va a scontrarsi una nuova regola formale (poniamo, il federalismo) è assai probabile che quest’ultima abbia la peggio, che venga aggirata o piegata a vantaggio delle prime. Sono possibili eccezioni, naturalmente, ed è sperabile che il federalismo risulti appunto una di queste felici eccezioni. Ma lo scetticismo è lecito.

La ragione più specifica ha a che fare con le condizioni del Mezzogiorno. Il «non detto» del federalismo fiscale è che esso deve ridurre sensibilmente i trasferimenti dalle regioni ricche a quelle povere o, quanto meno, istituire rigidi paletti: così rigidi da obbligare il Sud (ma anche alcune regioni non virtuose del Centro e del Nord), a razionalizzare la spesa, migliorando altresì la qualità dei servizi erogati ai cittadini. Ma come può avvenire questo miracolo?

Un acuto osservatore del Mezzogiorno (Massimo Lo Cicero, Il Riformista, 25 maggio) ha notato che il Sud sta all’Italia come la Grecia sta all’Unione europea. In entrambi i casi si tratta di obbligare il soggetto inadempiente a una dura disciplina. Ma c’è una cruciale differenza. Non è difficile per l’Unione emanare un diktat per obbligare il governo greco a cambiare registro (altra cosa è che il governo greco faccia davvero ciò che deve). Qui il ricatto, il diktat, è per così dire «esterno». Ma nel caso del Sud non c’è possibilità di ricatto esterno. Per il governo si tratta di incidere sulle proprie aree di consenso elettorale, rischiando di regalarle all’opposizione o al ribellismo sociale, o a entrambi.

Per il federalismo fiscale ci sono tre possibilità. Non si fa perché, a causa della crisi, non sono affrontabili i suoi costi di avvio. In tal caso, però, la stabilità del quadro politico è a rischio. La Lega, a causa della sua stessa ragione sociale, non può accettare questa soluzione. Oppure si fa un finto federalismo (tutto cambia nella forma e nulla nella sostanza: nessuno perde niente). Però anche un finto federalismo ha le sue controindicazioni.

Persino un finto federalismo costa. Può funzionare solo se si escogita qualche trucco che posponga il più possibile nel tempo il pagamento del conto (come ha fatto Obama con la riforma sanitaria). Infine, si fa un vero federalismo, sapientemente disegnato. Ma un vero federalismo non può che far saltare, per le ragioni dette, quanto meno a breve termine, gli equilibri politici nelle regioni che più dovrebbero modificare il proprio modus operandi. Chi se ne assumerà la responsabilità? Sulla carta ci sarebbe anche una quarta possibilità: si ricorre a soluzioni istituzionali diverse a seconda delle condizioni dei diversi territori (federalismo al Nord, controllo centralizzato sulla spesa al Sud). La migliore ricetta. Se non fosse per un piccolo dettaglio: è politicamente impraticabile.

Angelo Panebianco

29 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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