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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 138401 volte)
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« Risposta #255 inserito:: Febbraio 18, 2015, 08:06:20 am »

LE NUOVE CRISI
Ucraina, Grecia e Libia
Mai stati così insicuri

Di Angelo Panebianco

Puoi cercare quanto vuoi di evitarla ma prima o poi la politica ti troverà. E se non sarai pronto ad afferrarla ti travolgerà. È stata felice e fortunata la lunga epoca in cui l’Europa poteva evitare di occuparsi del principale aspetto della politica: il suo rapporto con la sicurezza (che poi riguarda, al dunque, la sopravvivenza fisica delle persone). Della politica in questo senso se ne occupavano altri: le due superpotenze durante la Guerra fredda e, per qualche lustro, nell’era unipolare, i soli Stati Uniti. Ora non è più così, ma gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza.

Ucraina, Grecia, Libia: tre diverse crisi che hanno a che fare tutte (anche quella greca) con la sicurezza e rispetto alle quali gli affanni dell’Europa sono fino ad ora apparsi evidenti. I complimenti di tanti ad Angela Merkel per il piglio con cui ha condotto le trattative con Putin sono stati prematuri. Dallo Zar di tutte le Russie la Merkel ha ottenuto poco, solo una tregua resa fragile e precaria dal fatto che le posizioni delle parti sono tuttora antitetiche, non c’è stato, almeno fino ad oggi, neppure lo straccio di un compromesso. Putin non sembra avere rinunciato alla volontà di creare un corridoio che colleghi direttamente la Russia alla Crimea passando per i territori controllati dai filorussi. E dunque a che cosa mai si brinda quando si brinda?

Registriamo invece quanto sia stata debole, fin dall’inizio, la posizione negoziale dei franco-tedeschi. Escludere a priori l’invio di armi a Kiev prima dei negoziati non ha giovato a tale posizione negoziale. Né hanno giovato altre dichiarazioni più o meno improvvide. Per esempio, l’affermazione della Merkel secondo cui la Russia è un «vicino di casa» e in quanto tale bisogna per forza accordarsi con essa, è sembrata, più che altro, una voce dal sen fuggita, di una persona cresciuta nella Ddr (la Germania comunista) e segnata psicologicamente da quell’esperienza. Che la Russia sia un vicino, infatti, è un’ovvietà geografica che nulla però dice su ciò che dovremmo fare. Anche l’Unione sovietica, infatti, era un «vicino di casa» ma non per questo entrammo nel Patto di Varsavia. Entrammo invece nella Nato, l’organizzazione che era nemica mortale del suddetto vicino. Sfortunatamente, dire, prima del negoziato, che la Russia è un vicino di casa con cui dobbiamo accordarci, è una dichiarazione preventiva di resa: fai ciò che vuoi, noi poi accetteremo il fatto compiuto (come è già accaduto con la Crimea).

Anche la negoziazione sul debito greco, contrariamente alle apparenze, ha molto a che fare con la sicurezza. Chi dice che bisogna usare criteri «politici» nel trattare con i greci dice il vero anche se intende qualcosa di diverso da ciò che qui si intende. In realtà, bisognerebbe mettere in gioco criteri geopolitici: la Grecia è politicamente un sodale della Russia e questa circostanza dovrebbe entrare a pieno titolo nelle valutazioni di chi tratta con i suoi governanti. Come gli uomini di Syriza hanno precisato subito, essi sono pronti a porre il veto se altre sanzioni contro la Russia venissero decise dall’Unione nel caso di un ulteriore aggravamento della crisi ucraina. Per non dire che hanno anche chiarito che voterebbero contro, facendo andare a picco l’accordo, se mai dovesse fare progressi il trattato Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), per il libero commercio fra Stati Uniti ed Europa.

Ci sono ottime ragioni - a sentire le autorità di Bruxelles e anche diversi economisti - per trovare un compromesso e «tenere dentro» i greci. E se esistessero anche ottime ragioni per buttarli fuori (non solo dall’Euroclub ma anche dall’Unione)? Forse è meglio che la Grecia diventi apertamente un alleato della Russia (che, peraltro, al momento, avrebbe qualche difficoltà a soccorrerla, essendo essa stessa economicamente stremata) piuttosto che permetterle di giocare impunemente il ruolo di quinta colonna in seno all’Unione. Se fossero capaci di pensare politicamente, gli europei dovrebbero porsi questi interrogativi nelle sedi appropriate. Non c’è solo il fatto che se ad Atene viene concesso ciò che non è stato concesso a nessun altro, si prepara la fine certa dell’euro (nessuno si farà mai più imporre niente). Ci sono anche alcune robuste ragioni geopolitiche.

E veniamo al caso che, drammaticamente, ci riguarda più da vicino, la Libia. Va dato atto a Matteo Renzi di avere sollevato il tema per tempo, e con la consueta energia, nelle sedi europee e in altre. Fino ad oggi, però, a quanto sembra, senza grandi risultati, soprattutto a causa del disinteresse americano e dell’impoliticità dell’Europa. Adesso, le conquiste dello Stato islamico hanno reso il quadro ancora più cupo. Come dimostrano anche le minacce provenienti dal Califfato contro il ministro Gentiloni, il «crociato» reo di avere ribadito la disponibilità dell’Italia a guidare una missione militare internazionale per riportare la pace in territorio libico. Mentre l’Onu prende tempo e l’Europa, fino ad oggi inerte anche sulla vicenda libica, lascia intendere che l’Unione politica forse non esisterà mai, ci conviene restare realisticamente abbarbicati al poco che abbiamo e a ciò che siamo. Dovremmo, ad esempio, domandarci se riusciremmo a intercettare e a neutralizzare un eventuale missile proveniente dalla Libia. Dovremmo chiedere al ministro competente e ai vertici delle forze armate di spiegare agli italiani quali siano, al momento, le nostre possibilità di difesa.

15 febbraio 2015 | 08:42
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_15/ucraina-grecia-libia-mai-stati-cosi-insicuri-9b0dc464-b4e3-11e4-b826-6676214d98fd.shtml
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« Risposta #256 inserito:: Febbraio 27, 2015, 04:25:38 pm »

Difesa e contraddizioni
Sentenze miopi e tagli sbagliati, le armi puntate contro di noi

di Angelo Panebianco

Mentre la politica discute se toccherà al nostro Paese la guida di un’eventuale missione militare di pacificazione (non chiamatela guerra, per carità) in Libia quando e se l’Onu darà il benestare, da diverse fonti emerge l’impreparazione dell’Italia di fronte ai nuovi pericoli.

Il generale dell’aeronautica Leonardo Tricarico, già vicecomandante della missione in Kosovo, in una drammatica intervista all’ Espresso di questa settimana, spiega che l’Italia non solo non è pronta per intervenire in Libia ma non ha neppure la capacità di difendere adeguatamente il nostro territorio.

Colpa dei tagli di bilancio che si sono susseguiti per anni, la nostra Difesa è oggi assai mal ridotta. Manca, ad esempio, la copertura finanziaria per garantire la continuità quando scadranno i contratti di manutenzione di diversi importanti sistemi d’arma aerea. Inoltre, i nostri Predators, aerei a controllo remoto, che potrebbero rivelarsi cruciali per la lotta al terrorismo, non sono armati. Né disponiamo di una adeguata capacità di difesa da eventuali attacchi dalla Libia: non sappiamo che fine abbiano fatto tutti gli Scud di Gheddafi (senza parlare del fatto che lo «Stato islamico» possiede soldi a sufficienza per procurarsi armamenti anche più sofisticati).

L’incuria denunciata dal generale Tricarico ha almeno due cause. La prima è data dal disinteresse, condiviso a lungo da quasi tutta la classe politica italiana, per la sicurezza nazionale. C’è da trovare soldi per garantire una categoria elettoralmente influente? Non c’è problema, i soldi si trovano tagliando i fondi della Difesa. La seconda causa è culturale. Come si è visto anche durante le discussioni sugli F 35, la quantità di parlamentari - a loro volta in sintonia con un settore rilevante dell’opinione pubblica - che vorrebbe lo smantellamento delle nostre forze armate in omaggio ai propri ideali pacifisti, è piuttosto ampia. La combinazione di disinteresse e di opposizione di principio ci ha condotto dove ora siamo: in presenza di una emergenza che non abbiamo i mezzi sufficienti per fronteggiare con efficacia.

Ma c’è di più. Magari bastasse solo un cambiamento degli orientamenti della classe politica. Ci sono altre cose assai gravi. A molti è forse sfuggito ma proprio mentre l’altra settimana eravamo alle prese con le minacce dello «Stato islamico» all’Italia dei crociati, l’ineffabile Tar di Palermo, con una sentenza, bloccava la costruzione, nella locale base Nato, della stazione di terra del Muos, il più avanzato sistema americano di comunicazioni satellitari a scopi militari, dando ragione al Comune di Niscemi che la definiva «dannosa per la salute».

La sentenza, naturalmente, è stata accolta con esultanza da tanti bravi cittadini della zona. Qui non si vuole scherzare su cose così gravi ma forse servirebbe una riflessione collettiva sul fatto che i «danni per la salute», se la situazione in Nord Africa continuerà a deteriorarsi, potrebbero risultare maggiori di quelli che può procurare una stazione Muos. Ma davvero la sicurezza nazionale, nonché i nostri impegni Nato, possono essere appesi alle sentenze dei Tar?

Siamo passati di colpo dall’età dell’oro all’età dell’emergenza. Nell’età dell’oro potevamo permetterci di abrogare unilateralmente la guerra (tanto a farla ci pensavano i nostri protettori militari americani), fare a meno di una cultura della difesa e, persino, affidare ai tribunali amministrativi le decisioni ultime sulla sicurezza militare. L’età dell’oro è finita, anche se molti figli di quella stagione tuttora in circolazione non se ne rendono conto. Non avremo difesa efficace finché non lo capiranno.

23 febbraio 2015 | 08:46
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_23/sentenze-miopi-tagli-sbagliati-armi-puntate-contro-noi-33a48176-bb2f-11e4-aa19-1dc436785f83.shtml
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« Risposta #257 inserito:: Marzo 03, 2015, 07:53:20 am »

Gli amici del Cremlino
La Russia di Putin e le relazioni imbarazzanti

Di Angelo Panebianco

Se esistesse un indice di moralità politica applicabile alle tirannie, Benito Mussolini otterrebbe un punteggio più alto di Vladimir Putin. Mussolini, dopo il delitto Matteotti, se ne assunse la responsabilità. Putin, invece, di fronte all’omicidio del suo avversario Boris Nemtsov, ha saputo solo parlare di «provocazione». Come peraltro è avvenuto in occasione di altri omicidi di oppositori del Cremlino.

I simpatizzanti che Putin può annoverare in Italia dovrebbero porsi qualche domanda. A destra, lo dovrebbero fare Berlusconi, amico personale di Putin, e Salvini. A sinistra il compito spetterebbe a molti, a cominciare dalla Mogherini, e dallo stesso Renzi, sempre molto comprensivi per le «esigenze» russe nella crisi ucraina.

Varrebbe la pena di riflettere sul fatto che esiste un legame fra la politica estera e la natura dei regimi politici. La natura del regime russo - non una tirannia in senso classico ma una democrazia autoritaria - è oggi brutalmente disvelata dall’omicidio Nemtsov. Perché continuare a fingere che il neoimperialismo della Russia non abbia una stretta connessione con l’autoritarismo interno? Quando Putin si è incamerato la Crimea, cambiando in modo non consensuale i confini dell’Europa, ha fatto ciò che una grande potenza che aspiri a cogestire l’ordine internazionale mai avrebbe dovuto fare. Perché quella decisione ha alterato irreversibilmente i suoi rapporti con l’Europa e gli Usa. Putin lo ha fatto perché un regime come il suo può sostenersi soltanto aizzando frenesie nazionaliste. Poi, una volta fatta quella scelta (irrimediabile), Putin non si è più fermato né, probabilmente, avrebbe ormai avuto senso fermarsi: dopo la Crimea, ha trasferito nel resto dell’Ucraina orientale la guerra.

È necessario che gli amici di Putin ci pensino su prima di continuare a fiancheggiarlo. Devono riconoscere la pericolosità di quel regime, per ciò che fa agli oppositori interni e per il fatto che negli obiettivi della sua politica estera, oltre all’espansionismo territoriale, c’è anche il condizionamento da esercitare sull’Europa tramite i suoi amici politici greci, italiani, francesi, tedeschi.

Piuttosto che stendere tappeti rossi davanti al nostro «vicino di casa» (come lo ha definito la Merkel), è meglio rendersi conto della sua pericolosità e chiudere i buchi della rete divisoria che ci separa dal suddetto vicino. Significa adottare una postura più decisa nella crisi ucraina. E pensare a come diversificare al meglio gli approvvigionamenti energetici in modo da renderci meno esposti ai suoi ricatti.

2 marzo 2015 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_02/russia-putin-relazioni-imbarazzanti-6d6365f6-c0a4-11e4-b2c9-4738a8583ea9.shtml
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« Risposta #258 inserito:: Marzo 07, 2015, 03:53:35 pm »

I moderati e Salvini
Il complesso dell’altro Matteo

Di Angelo Panebianco

L a questione delle alleanze elettorali è oggi il solo argomento di rilievo di cui si discuta pubblicamente nell’area moderata (Forza Italia, Ncd) del centrodestra. Forza Italia deve allearsi con Alfano e Casini o con la Lega di Salvini? O deve riuscire a tenerli tutti insieme? Le alleanze sono importanti ma è patologico che soltanto di questo si parli. Svela il vuoto di idee da cui quella parte del centrodestra è afflitto e mostra, più in generale, uno schieramento di destra che, sul piano nazionale almeno, potrebbe essere destinato a non toccar palla per un tempo assai lungo (cinque anni? dieci? di più?). Perché discutere di alleanze anziché delle cose che si intendono fare, significa non avere capito quali novità abbia introdotto nel discorso pubblico l’ascesa di Matteo Renzi.

Lega di Salvini a parte (che invia messaggi chiari agli elettori sulle cose che vuole fare), se guardiamo agli stili comunicativi dei vari esponenti del centrodestra, solo pochissimi sembrano avere mangiato la foglia, sembrano aver compreso la novità.
Prima di Renzi, la politica elettorale funzionava così: si formavano l’una contro l’altra armata due coalizioni altamente eterogenee, attraversate da dissensi programmatici radicali, tenute insieme solo dalla volontà di battere il comune nemico. Così faceva Berlusconi, così faceva la sinistra. Chi vinceva le elezioni, naturalmente, non riusciva a governare. Mettendo insieme il diavolo e l’acqua santa, la Lega di Bossi e l’Alleanza Nazionale di Fini, gli ex democristiani di Casini e Mastella e i liberisti della prima Forza Italia, nel 1994 Silvio Berlusconi fece il miracolo di fare nascere uno schieramento politico di destra. In una Repubblica che un tale schieramento non aveva mai conosciuto la novità fu sconvolgente. Negli anni seguenti, però, i limiti di alleanze elettorali culturalmente e programmaticamente eterogenee vennero tutti fuori. Si faceva una grande fatica a governare, non parliamo poi della possibilità di mantenere le ambiziose promesse elettorali.
Chiedersi oggi se ci sarà o no una alleanza che comprenda i pro-euro di Alfano e gli anti-euro di Salvini, il liberoscambismo di Forza Italia (o di certi suoi settori) e il protezionismo economico duro e puro della Lega, i filo-americani e i filo-russi, significa ragionare nei termini antichi, quelli che hanno preceduto il ciclone Renzi. Alle Regionali ancora ancora, ma chi volete che possa prendere sul serio una simile armata Brancaleone nel caso di elezioni politiche nazionali?

Come e perché Renzi ha cambiato le carte in tavola? Le ha cambiate dicendo cosa avrebbe fatto o voluto fare, anche in barba ai maggiorenti del suo partito. Ha avuto successo (è stato premiato dall’opinione pubblica) perché ha rotto con la tradizione. Non ha detto alla sinistra, come si faceva prima di lui: mettiamoci tutti insieme intorno a un tavolo e troviamo un minimo comun denominatore. Ha detto invece: io voglio fare questo e quello, chi ci sta venga con me.

Non c’è bisogno di prendere per oro colato tutto ciò che Renzi ha detto e dice, o ha fatto e fa, per riconoscere il cambiamento radicale di cui è stato l’artefice. Si può anche pensare tutto il male possibile delle sue riforme, ma gli va comunque dato atto del fatto, ad esempio, che sta cercando di sconfiggere (eliminando il bicameralismo paritetico) il conservatorismo costituzionale tradizionalmente dominante a sinistra. Ancora, si possono anche fare le bucce al Jobs act ma si deve riconoscere che lo scontro fra Renzi da un lato e la Cgil e la sinistra del Pd dall’altro non è una pantomima, è un conflitto vero.

In queste circostanze, continuare, come fa Forza Italia, ad invocare alleanze fra gli opposti (come Alfano e Salvini) significa non avere capito che le regole del gioco sono cambiate.

A destra, solo Salvini parla di cose da fare anziché di alleanze. Proprio questo probabilmente, lo premierà elettoralmente. Solo che se ciò avvenisse, se a destra il baricentro si spostasse verso la Lega, il centrodestra nel suo insieme non sarebbe più competitivo per un lungo periodo. Se il suo più temibile avversario dei prossimi anni risulterà Salvini, Renzi potrà dormire tra due guanciali. Nessuno lo farà sloggiare da Palazzo Chigi per chissà quanto tempo.

Il centrodestra tornerà competitivo solo se e quando la parte più centrista di quell’area avrà appreso la lezione. Quando avrà capito, cioè, che per vincere non deve smussare le differenze fra i partiti, al fine di dare vita a alleanze elettorali incoerenti e purchessia, deve fare invece proposte chiare agli elettori. Per rendere di nuovo il centrodestra competitivo rispetto alla «sinistra dopo la cura Renzi» quelle proposte, presumibilmente, dovrebbero avere due obiettivi: il contrasto, sul piano culturale oltre che politico, in nome del libero scambio, all’impraticabile e irrealistico protezionismo economico propugnato dalla Lega, nonché il definitivo abbandono di quel corporativismo spicciolo (caro sia al Nuovo centrodestra che a settori di Forza Italia), quella vocazione a tutelare ogni categoria professionale «amica», che ha sempre impedito al centrodestra, quando ha governato, di aprire i mercati chiusi e protetti alla concorrenza. Se le proposte intercetteranno favori e umori dell’opinione pubblica, le alleanze seguiranno. È vero il fatto, naturalmente, che, proprio come ha dimostrato la sinistra, le nuove idee richiedono nuovi leader.
Stringere buoni accordi elettorali, in politica, è sempre cosa utile. Ma lo è di più capire come e perché il gioco sia cambiato e quali siano le nuove regole.

6 marzo 2015 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_06/complesso-dell-altro-matteo-44bc4682-c3c8-11e4-8449-728dbb91cb1a.shtml
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« Risposta #259 inserito:: Marzo 16, 2015, 11:53:53 pm »

Ma serve ancora votare?

Di Angelo Panebianco

I l ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis (in foto), tra un attacco alla Germania e l’altro, ha anche dichiarato che, per arrivare a un accordo con l’Europa, il suo governo è pronto a rinviare alcune promesse elettorali. Poiché i greci non vogliono suicidarsi e il resto d’Europa (con l’apparente eccezione del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble) sembra pensare che Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro, sarebbe un disastro per tutti, è possibile che alla fine si riesca a trovare un compromesso. In tal caso, la speranza di aver chiuso definitivamente la partita greca sarebbe talmente forte che governi, autorità dell’Unione, mass media, cercherebbero di presentare il compromesso come un grande successo. Però, stiano attenti alla natura del compromesso che si realizzerà (se si realizzerà) perché il suddetto «successo» potrebbe anche essere l’anticamera di un più generale fallimento, quello dell’Unione.

Quale è il grande e irrisolto problema dell’Europa oggi? È il «disallineamento» in atto da tempo fra il patto europeo e le regole e i principi su cui si reggono tuttora le democrazie nazionali (europee): il primo (il patto) impone che gli impegni presi reciprocamente fra i governi dell’Unione debbano essere rispettati, i secondi (le regole e i principi) impongono che i governi rispondano prima di tutto ai loro elettorati e soltanto dopo, solo in seconda istanza, all’Unione.

La data emblematica in cui prende il via, platealmente, il processo di disallineamento è il 2005. Fino ad allora, integrazione europea e democrazie nazionali avevano quasi sempre marciato insieme (con qualche eccezione, soprattutto all’epoca del gollismo negli anni Sessanta). Nel senso che gli accordi in sede europea erano sempre stati tacitamente accettati e sottoscritti dai vari elettorati.

Nel 2005, il referendum francese che affondò il trattato costituzionale europeo fu il primo segnale della grande svolta: ormai non era più pacifico o automatico che gli elettorati trangugiassero senza fiatare tutti i cocktail (o gli intrugli) preparati a Bruxelles. Poi la crisi economica ha fatto il resto: oggi il disallineamento è assai forte. Da un capo all’altro del Vecchio Continente ci sono ormai tanti leader politici che ottengono grandi ascolti e mietono successi elettorali contrapponendo la democrazia (nazionale), le prerogative degli elettori, i diritti dell’uomo comune, alla «dittatura» europea, al potere, più o meno anonimo, delle eurotecnocrazie, alla «arroganza» della Germania, eccetera, eccetera.

Conta poco il fatto che nella propaganda antieuropea ci siano, oltre a qualche verità, anche diverse bugie. Importa che, per effetto sia di una lunga crisi economica che degli errori commessi nel corso del tempo dalle autorità europee, quella propaganda faccia breccia in porzioni non irrilevanti degli elettorati.

Allora, attenti alla natura del compromesso che ci sarà (se ci sarà) fra i greci e l’Europa. Se potrà essere letto soprattutto come una vittoria dei greci, scatenerà i rancori dell’opinione pubblica tedesca e dei Paesi più vicini all’orientamento tedesco: sarà letto come il successo degli imbroglioni (quelli che truccano i conti), degli scialacquatori, dei parassiti che vivono alle spalle altrui. Niente di buono si preparerebbe allora per l’Unione. Se il compromesso sarà invece letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale - che verrà usato e rilanciato da tutti i leader antieuropei - sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello. Anche in questo secondo caso un futuro piuttosto cupo si preparerebbe per l’Unione.

Un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una catastrofe per l’Europa, dicono quasi tutti. E se lo dicono quasi tutti, sarà vero. Però, alla Grecia - un Paese che non avrebbe mai dovuto essere ammesso nell’Europa monetaria - si chiedono «riforme» che dovrebbero trasformarla in una «buona economia di mercato» (come ha osservato Giacomo Vaciago, Il Sole 24Ore, 11 marzo), in quanto tale compatibile con la moneta unica. Il punto, naturalmente, è che nessun governo greco è in grado di riuscire nell’impresa, men che mai in tempi brevi. Figuriamoci poi se può farlo un governo formato da una coalizione fra un partito di estrema sinistra (Syriza) e una formazione di destra (Greci Indipendenti). Sarebbe come se in Italia qualcuno chiedesse a un eventuale governo presieduto da Nichi Vendola e appoggiato dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, di lavorare per il libero mercato. Vendola e Meloni (giustamente, dal loro punto di vista) penserebbero che a quel qualcuno manchi una rotella.

Grexit, dicono tante voci autorevoli, sarebbe un disastro. E chi siamo noi per dubitarne? Non tutte le alternative, però, sono migliori.

15 marzo 2015 | 08:57
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_15/ma-serve-ancora-votare-582c4924-cada-11e4-9a7c-4c357fdc7cec.shtml
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« Risposta #260 inserito:: Aprile 04, 2015, 12:00:13 pm »

Il blocco del Muos
Il paese nelle mani dei Tar
La procura di Caltagirone e l’ordine del sequestro dell’impianto satellitare

Di Angelo Panebianco

Non sembra una storia vera ma una barzelletta inventata da qualcuno che ce l’ha con gli italiani. Solo poche settimane dopo la sentenza del Tar di Palermo che ha dato ragione al Comune di Niscemi e ai vari comitati ambientalisti, ecco che la procura di Caltagirone ha ordinato il sequestro dell’impianto satellitare Muos della locale base americana. Il Muos (Mobile User Objective System) è il più avanzato sistema americano di comunicazioni satellitari a scopi militari. Una volta funzionante dovrebbe essere dislocato in permanenza su quattro stazioni di terra (oltre a Niscemi, oggi in forse, in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). È un sistema di comunicazione concepito per accrescere la capacità di individuazione dei pericoli. Ma ciò, a quanto pare, non ha importanza. Il sindaco di Niscemi, i 5 Stelle, i verdi, e persino il locale «comitato delle mamme» hanno comunicato al mondo il loro entusiasmo per la decisione della procura.

Ci sono tre aspetti sconcertanti. È sconcertante che la nostra sicurezza nazionale (di cui gli impegni con l’alleato americano sono un’essenziale componente) sia appesa alle decisioni di Tar e procure. È sconcertante, inoltre, che tali decisioni siano prese sotto la spinta di una mobilitazione cosiddetta ambientalista contro presunti, e tutti da dimostrare, «rischi per la salute», proprio in una fase in cui si profilano minacce gravissime per la vita (e dunque - si suppone - anche per la «salute») degli italiani, in una fase in cui andrebbero accresciuti, e non indeboliti, tutti gli strumenti possibili di difesa, nonché la capacità del Paese di dimostrarsi un partner affidabile per i suoi alleati militari. Nessuno legge i giornali o guarda la televisione da quelle parti? Nessuno sa che cosa stia accadendo in Libia? Nessuno ha mai sentito parlare del Califfo? Nessuno si rende conto che la Sicilia è la parte del territorio italiano più esposta, quella che viene prima nella linea di tiro, il bersaglio più vicino? La memoria storica, da quelle parti, è così evanescente che nessuno si ricorda più dei missili di Gheddafi lanciati contro l’Italia nel 1986 e fortunatamente caduti al largo dell’isola di Lampedusa?

Infine, è sconcertante il silenzio delle autorità nazionali. Il nostro loquace premier non ha detto una parola. E nemmeno le altre autorità dello Stato. E molti mezzi di comunicazione, con l’eccezione del Corriere e di pochi altri, hanno preferito ignorare la notizia. Eppure, il tema meriterebbe una discussione più intensa e appassionata di quelle che vengono riservate a tanti altri argomenti.

«Sovrano - diceva il giurista Carl Schmitt - è colui che decide sullo stato d’eccezione». In Italia le decisioni sullo stato d’eccezione, e dunque la sovranità, appartengono ai Tar e alle procure? Alla luce di quanto è accaduto in questo Paese negli ultimi trent’anni eravamo in molti a sospettarlo. La vicenda Muos è la conferma? Questa storia è una variante di un fenomeno più generale, di quella «terribile alleanza» che si è ormai da tempo consolidata in tante parti d’Italia. Di solito, la terribile alleanza vede coinvolti «soggetti ambientalisti» che puntano alla deindustrializzazione del Paese, sfruttano la combinazione di ignoranza e paure irrazionali che si manifesta nella sindrome «non nel mio giardino», e trovano, troppo spesso, l’avallo e il sostegno di tribunali amministrativi e procure. Nel caso Muos c’è una differenza. Qui l’ambientalismo, verosimilmente, è la copertura di un movimento di opposizione all’alleanza militare fra Italia e Stati Uniti, e la posta in gioco è la sicurezza nazionale. Nel nostro Paese, lo scarto fra gli auspici e i disegni dei nostri governanti, e dei professionisti della politica estera e di difesa che li coadiuvano, e la realtà dei processi decisionali, non potrebbe essere più forte. Così forte da danneggiare, se non neutralizzare del tutto, quegli auspici e quei disegni. L’interesse nazionale italiano ci spinge a chiedere un impegno della Nato sul fronte Sud assai maggiore di quello attuale, un rafforzamento della difesa collettiva dalle minacce che arrivano dal Vicino e Medio Oriente. Ciò richiede, ovviamente, e prima di tutto, che si riescano a convincere gli Stati Uniti. È vitale, infatti, per gli italiani, ottenere che l’attenzione della Nato non sia concentrata soltanto sull’Ucraina e su quanto accade ad Est.

Fin qui i propositi, le strategie geopolitiche, eccetera. Ma poi ci sono i processi decisionali, quelli veri. Dopo la vicenda Muos, con che faccia, con che credibilità, potremo sostenere tali richieste?
Forse, stabilire finalmente quali confini non possano e non debbano essere mai attraversati, superati, dalle magistrature, in quali ambiti siano soltanto i governi nazionali (in virtù di un mandato elettorale) a decidere, aiuterebbe a impostare politiche di sicurezza più efficaci. E poiché le politiche di sicurezza hanno a che fare con la vita e con la morte, decidono chi sopravviverà, è bene che, almeno in questa materia, sia chiaro a tutti dove risieda la sovranità .

4 aprile 2015 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_04/paese-mani-tar-37a2c05c-da89-11e4-8d86-255e683820d9.shtml
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« Risposta #261 inserito:: Aprile 04, 2015, 12:20:42 pm »

Berlusconi e Renzi
Ai tempi in cui c’era lui

Di Angelo Panebianco

Sia Berlusconi ai suoi bei dì che Matteo Renzi da quando è al governo sono stati accusati di autoritarismo, di rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma c’è una grandissima differenza. Berlusconi aveva contro (ferocemente contro) metà dell’Italia e, per conseguenza, anche una grande quantità di persone che contavano tantissimo sia dentro che fuori il Paese. Renzi, invece, è accusato di autoritarismo solo da una minoranza (sinistra pd, Cinque Stelle, una parte del sindacato), per lo più composta da sconfitti, molti dei quali presumibilmente in marcia verso una definitiva marginalità politica. Non è la stessa cosa. E infatti le campagne contro Berlusconi e il suo supposto autoritarismo videro impegnati eserciti sterminati, guidati da persone dotate delle risorse necessarie per alimentare un volume di fuoco elevatissimo, capaci anche, ad esempio, di arruolare nella crociata antiberlusconiana fior di cronisti stranieri, figure di spicco del Parlamento europeo, eccetera eccetera.

Niente del genere è accaduto e accade a Matteo Renzi. Eppure Renzi, ad esempio, ha predisposto una riforma della Rai di cui un aspetto non secondario è accrescere il controllo di Palazzo Chigi. Sta proponendo, con esiti ancora incerti, una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie e uno dei suoi, per l’occasione, ha ipotizzato (pensate cosa sarebbe successo ai tempi di Berlusconi) il ricorso al carcere. Renzi, inoltre, ha messo in piedi una riforma elettorale che gli cade addosso perfettamente come fosse un vestito di alta sartoria (invece, la cattiva legge elettorale fatta a suo tempo da Berlusconi servì a lui ma anche, e forse soprattutto, ai suoi alleati). Infine, Renzi sta (finalmente) imponendo il superamento del bicameralismo paritetico. Quando Berlusconi tentava di fare cose simili, veniva giù il Paese, gli attacchi e gli allarmi contro il «nuovo fascismo» erano quotidiani, anche sulle reti Rai. O qualcuno si è forse dimenticato di cosa accadeva all’epoca dei governi Berlusconi?

Ci sono tre considerazioni da fare. La prima è che, molte volte, quanto più i «grandi principi» e i «grandi valori» vengono sbandierati con ossessione, quanto più ci si straccia pubblicamente le vesti in loro difesa gridando al lupo, tanto meno chi lo fa crede davvero in quei principi e valori. I principi vengono spesso usati in modo strumentale, piegati alle esigenze politiche del momento, sono, per molti, armi da usare contro il nemico politico e da rinfoderare quando è l’amico a fare ciò che faceva il nemico.

La seconda considerazione è che era insopportabilmente esagerata la «mobilitazione anti autoritaria» contro Berlusconi. È pertanto decisamente un bene che (sia pure a causa dell’opportunismo e del doppiopesismo di tanti) tale mobilitazione non ci sia, o coinvolga comunque assai meno persone, nel caso di Renzi.

La terza considerazione è che non c’è contraddizione fra volere un rafforzamento del governo (e dunque un accrescimento delle capacità d’azione di chi momentaneamente lo controlla) ed essere pronti a criticarne le singole decisioni e azioni. Proprio se si auspica, perché serve alla democrazia, un più forte potere esecutivo, occorre essere pronti a fargli le bucce ad ogni passo falso. Le democrazie hanno bisogno di governi forti (e chi scambia ciò per «autoritarismo» prende lucciole per lanterne). Non hanno invece bisogno di stuoli di cortigiani sdraiati ai piedi del suddetto governo forte. E il premier ne ha tanti.

Renzi ha un grande merito: sta abituando la democrazia italiana all’idea che «un uomo solo al comando» non equivalga, in quanto tale, e solo per questo, al fascismo. È anche possibile che i futuri libri di storia finiscano per ricordarlo soprattutto per questa eccellente, meritoria impresa. Ma questo non deve renderlo immune dalle critiche. Le lodi doverose per certe buone cose varate non possono oscurare i motivi di biasimo. Sia per il tanto fumo e poco arrosto che per certe scelte, le quali spacciano come «grandi innovazioni» banali, antiche, e collaudate, furbizie elettorali.

29 marzo 2015 | 09:38
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_29/ai-tempi-cui-c-era-lui-457c91c6-d5de-11e4-b0f7-93d578ddf348.shtml
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« Risposta #262 inserito:: Aprile 20, 2015, 06:00:06 pm »

Legge elettorale
Il rivale che serve a Renzi

Di Angelo Panebianco

Poiché «l’era Renzi» promette di durare a lungo, una domanda diventa legittima: gli storici futuri ne parleranno come di un’epoca di buongoverno oppure di malgoverno? Si dirà un giorno che durante l’era Renzi vennero introdotte serie innovazioni a correzione dei nostri mali antichi, oppure se ne parlerà come di un periodo costellato da improvvisazioni demagogiche, capaci di suscitare consensi immediati ma anche di aggravare, nel medio termine, le difficoltà del Paese?

La risposta più ovvia a questa domanda («dipenderà da Renzi») è, almeno in parte, sbagliata. Perché molto, moltissimo, invece, dipenderà non da Renzi ma dall’opposizione, dalla qualità dell’opposizione. Se il premier sentirà sul collo il fiato di un’opposizione vigorosa (che non significa affatto agitata, scomposta o urlatrice) con serie possibilità di sconfiggerlo, di mandarlo a casa nelle elezioni successive, allora è probabile che egli venga costretto dalla forza delle cose a ben governare. Se Renzi dovrà invece fronteggiare un’opposizione non credibile, plausibilmente incapace di batterlo elettoralmente, se avrà la sensazione dell’impunità qualunque cosa egli dichiari o faccia, e qualunque errore commetta, allora non ci saranno santi: il suo diventerà rapidamente un malgoverno.

Poiché, come è noto, la storia non insegna mai niente a nessuno, sembra che oggi molti si apprestino a commettere, di fronte a Renzi, gli stessi errori che altri commisero durante la cosiddetta Prima Repubblica, quando giudicavano le performance dei governi della Democrazia cristiana. Allora, tanti commentatori, e tanti agitatori politici, si specializzarono nella critica del (vero o presunto) «malgoverno democristiano». Senza rendersi però conto del fatto che quel malgoverno dipendeva da una circostanza: la Dc non poteva perdere le elezioni, era inamovibile, e proprio per questo poteva dedicarsi in tutta tranquillità a ciò che i suoi critici chiamavano malgoverno. La ragione della sua inamovibilità aveva un nome preciso: quello del Partito comunista. Poiché il Pci era al tempo stesso il più forte partito di opposizione e un’opposizione non credibile, incapace di vincere le elezioni, la Dc restava per l’appunto inamovibile, impunibile e impunita. Chi ce l’aveva con la Dc, in realtà, avrebbe dovuto prendere di petto il Partito comunista, avrebbe dovuto augurarsi che quel partito cessasse di essere il principale partito d’opposizione. Solo così, un giorno, si sarebbe potuto sconfiggere elettoralmente la Dc. E solo così i democristiani, temendo di perdere il potere, si sarebbero sforzati di migliorare la propria capacità di governo.

Oggi si fanno troppe chiacchiere su presunti sviluppi autoritari alle porte. Non è affatto quello il rischio che corre la democrazia italiana. Il rischio è quello di un governo Renzi senza rivali plausibili, spinto a mal governare (poiché mal governare è sempre molto più facile che governare bene) dall’assenza di serie sfide elettorali. Se nei prossimi anni i cosiddetti principali sfidanti di Renzi saranno Beppe Grillo e Matteo Salvini, allora vorrà dire che Renzi non dovrà fronteggiare alcuna opposizione capace di batterlo. Certo, gli sbarchi continui di migranti gonfieranno plausibilmente i voti della Lega ma ciò, di sicuro, non basterà a farne uno sfidante vero.

Ciò che servirebbe all’Italia, allora, è una qualche soluzione (che ancora non si vede) della crisi innescata nel centrodestra dal declino politico di Berlusconi. Perché solo se rinasce una forte opposizione - conservatrice ma non estremista - Renzi si sentirà elettoralmente minacciato e sarà costretto a governare limitando al minimo indispensabile il ricorso ai trucchi da avanspettacolo, non sarà tentato di nascondere le difficoltà del governare ricorrendo ad armi di «distrazione di massa» (così il Sole 24 Ore di qualche giorno fa a proposito di tesoretti, bonus e altre tentazioni peroniste).

Qualcosa a che fare col tema che stiamo discutendo ce l’ha la legge elettorale che si andrà fra poco a votare. Non aiuterà la formazione di una forte e credibile opposizione la scelta di consentire a chiunque di entrare in Parlamento superando una misera soglia del tre per cento (come la proposta di legge prevede). Si è detto che una soglia così bassa è stata una concessione di Renzi ad Alfano e alle altre formazioni minori che sostengono il suo governo. Lo è ma non è solo questo. Perché favorisce, in prospettiva, una frammentazione dell’opposizione che a Renzi, forse, non dispiace. Fu Berlusconi ad accettare, ai tempi del patto del Nazareno, una soglia così bassa e commise un grave errore, un errore che, presumibilmente, in futuro, pagheranno proprio i suoi eredi politici.
Alla democrazia conviene che esista un’opposizione credibile. Converrebbe anche a Renzi, in realtà.

19 aprile 2015 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_19/rivale-che-serve-renzi-0e6390fa-e65e-11e4-aaf9-ce581604be76.shtml
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« Risposta #263 inserito:: Maggio 01, 2015, 11:55:00 am »

La morte di Lo Porto
Il nemico non è l’America

Di Angelo Panebianco

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, porgendo le scuse alle famiglie, nella sua qualità di comandante in capo delle forze armate, si è assunto la responsabilità per la morte dei due cooperanti Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein. Speriamo che a nessuno, qui da noi, venga in mente di spedirgli un avviso di garanzia. I precedenti non mancano. È il caso, ad esempio, della mirabolante inchiesta giudiziaria degli anni Novanta denominata Cheque to Cheque, a proposito di un supposto traffico d’armi internazionale. Quell’inchiesta, naturalmente, finì come doveva finire, ossia in niente. Ma tenne per mesi e mesi le prime pagine dei giornali anche perché era stata condita e «caricata» con indagini su personalità internazionali varie, dall’allora leader nazionalista russo Zhirinovski all’arcivescovo di Barcellona.

Non accadrà anche a Obama (si spera) ma ciò che rende una tale eventualità non del tutto implausibile è il clima che si respira oggi nel nostro Paese. Sembra, ad ascoltare certi commenti, che gli americani siano il «nemico», i veri assassini. Assassini reticenti, per di più: il principale tema in discussione è se Obama sapesse o non sapesse e, nel caso sapesse, perché non l’abbia detto prima. Si perde così di vista l’essenziale. E l’essenziale è che se anche gli americani hanno commesso un errore (e chi non ne commette in guerra?) i nemici, gli assassini, non sono loro: sono coloro che hanno rapito, imprigionato per anni e mai rilasciato Lo Porto e Weinstein. Perché questa semplice e incontrovertibile verità fatica ad affermarsi? Fondamentalmente, perché la legittimità dell’azione militare occidentale contro i gruppi jihadisti nelle varie parti del mondo è contestata o non accettata da rilevanti settori del Paese. Si guardi a come molti parlano della guerra in Afghanistan. Facendo di tutta un’erba un fascio la mettono insieme all’invasione dell’Iraq. Sarebbe anch’essa, nient’altro che una «guerra di Bush». Dimenticando che se certamente l’Iraq è un caso controverso, che ha fin dall’inizio diviso l’opinione pubblica occidentale, questo non è vero per l’Afghanistan. Gli americani intervennero in Afghanistan a seguito dell’11 settembre 2001 proprio perché lì era stato concepito e organizzato quell’attacco. Se c’è stata una guerra con tutti i crismi della «guerra giusta» (così come è stata codificata dal cristianesimo medievale) questa è stata senz’altro la guerra d’Afghanistan. Ma il fatto che questo aspetto non venga riconosciuto o sia stato dimenticato contribuisce a spiegare la diffidenza e il distacco con cui le azioni americane anche in quella parte del mondo vengono guardate da certi settori dell’opinione pubblica italiana: una diffidenza e un distacco tanto più sgradevoli e fuori luogo se si tiene conto del ruolo attivo che i nostri militari hanno avuto e tuttora hanno in Afghanistan e del tributo di sangue pagato in quella missione da tanti nostri soldati.

Difficoltà a distinguere fra gli americani e i veri nemici, difficoltà ad accettare la piena legittimità delle azioni militari di contrasto ai gruppi jihadisti nei vari luoghi ove si combatte, ci fanno correre, qui e ora, un gravissimo rischio. Il rischio è quello del disarmo morale di fronte a una aggressione jihadista che ha ormai anche noi italiani nel mirino (non avevamo certo bisogno degli arresti di jihadisti di qualche giorno fa per averne la conferma). Il rischio è quello di restare psicologicamente, e quindi anche praticamente, impreparati di fronte alla minaccia. Ci sono dalle nostre parti parecchi aspiranti Don Ferrante (il personaggio manzoniano che attribuiva la peste ad influssi astrali anziché al contagio), gente che si rifiuta di riconoscere la natura del male e le ragioni per cui si propaga, gente che non vuole guardare in faccia la realtà, che preferisce aggrapparsi alla rassicurante idea secondo cui la guerra dei jihadisti abbia un solo vero nemico: gli altri musulmani. I Don Ferrante non vogliono sentirsi dire che i nemici dei jihadisti, invece, sono di due tipi: i musulmani corrotti dalla modernità e il mondo occidentale (i crociati) epicentro di quella modernità.

Forse è arrivato il momento di svegliarsi. I nemici ci sono, e non sono gli americani. Ed è un peccato che non bastino gli avvisi di garanzia per fermarli.

27 aprile 2015 | 08:20
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_27/nemico-non-l-america-editoriale-corriere-sera-27-aprile-2015-panebianco-b757cc7a-ec9f-11e4-8e05-565b17b54795.shtml
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« Risposta #264 inserito:: Maggio 11, 2015, 09:51:09 am »

Italicum

Un governo che si rafforza e l’assenza dell’opposizione
Matteo Renzi è solo a metà strada per quanto riguarda il rinnovamento delle istituzioni. Se riuscirà a portare a termine l’impresa, si porrà un nuovo problema per l’Italia: la necessità di una minoranza che si faccia sentire e che possa puntare il dito sulla ripresa economica (che non c’è)

Di Angelo Panebianco

Quanto durerà l’Italicum, la nuova legge elettorale? C’è la possibilità che duri fino al momento in cui un governo (quale che sia) si convinca di essere in procinto di perdere le elezioni successive. Quel tal governo, probabilmente, cercherebbe di cambiare il sistema elettorale per evitare la prevista sconfitta. Ed è possibile che il suddetto governo si faccia forza, per riuscire nell’ impresa, anche delle polemiche e delle aspre divisioni che hanno oggi accompagnato il varo della legge. Una legge, come è già stato rilevato da molti, che ha chiari e scuri: assicura la governabilità grazie al ballottaggio e al premio di maggioranza ma rischia anche, a causa della clausola di sbarramento del tre per cento, troppo bassa, di favorire la frammentazione delle opposizioni.

Renzi, comunque, ha fatto, in materia istituzionale, solo metà del cammino. La metà che manca, altrettanto impegnativa, riguarda la definitiva riforma del Senato. I suoi avversari possono ancora impallinarlo, bloccando quella riforma. In tal caso, la vittoria ottenuta da Renzi con l’Italicum sarebbe di fatto neutralizzata, annullata. È la ragione per cui continuo a ritenere sia stata sbagliata la rottura con Berlusconi. Si è persa la possibilità di disporre di una maggioranza ampia, sicura, confortevole, per riformare in tutta tranquillità il Parlamento. Se Renzi, però, batterà gli avversari anche sul Senato, allora potremo dire che, grazie al combinato disposto Italicum più fine del bicameralismo paritetico, egli avrà fatto davvero la «Grande Riforma» di cui si è parlato inutilmente per decenni, egli avrà cambiato su un punto decisivo l’impianto costituzionale: avrà tolto di mezzo quel meccanismo di «contrappesi senza pesi» (governi istituzionalmente deboli accerchiati da una pluralità di forti poteri di veto) costruito dai costituenti in coerenza con la propria allergia per i governi forti, per gli esecutivi che dominano i Parlamenti anziché esserne dominati.

Se le opposizioni non riusciranno a fermare Renzi neppure sul Senato, allora dovranno rifare molti conti. Nulla ha più successo del successo. Se Renzi vincerà su tutta la linea, nella stessa minoranza del Pd, oggi in rotta di collisione con il premier, ci saranno probabilmente ripensamenti e riposizionamenti. È persino possibile che certi suoi esponenti, a quel punto, scoprano improvvisamente di essere sempre stati («in fondo in fondo») renziani.

Ma anche le altre opposizioni dovranno, fra un’invettiva e l’altra, trovare il tempo per mettersi a pensare. L’Aventino, il fascismo. Ecco come si fa a banalizzare pagine serie e tragiche di storia patria: è sufficiente evocarle a sproposito. Non c’è nessun fascismo. E uscire dall’Aula al momento del voto per tenere compatto il proprio gruppo è del tutto legittimo ma non ha niente a che fare con l’Aventino. È proprio perché Renzi sta rafforzando, con le sue riforme, la posizione del governo all’interno del sistema politico che diventa necessaria, anzi vitale, l’emergere di una opposizione seria, non velleitaria.

Il rischio più grave che corre l’Italia in questa fase storica è di avere, al tempo stesso, un governo che si irrobustisce e un’opposizione che diventa sempre più debole, che si riduce a una confusa congrega di individui politicamente impotenti, agitatissimi e fastidiosamente urlanti proprio perché politicamente impotenti.

Se un’opposizione seria ci fosse, oppure si (ri)formasse, il premier dovrebbe avere timore: dopo un anno e mezzo di governo, infatti, ancora non si è vista una vigorosa ripresa dell’economia. Se avesse di fronte a sé una siffatta opposizione, Renzi dovrebbe cominciare a preoccuparsi. È proprio a questo, a preoccupare i governi, che servono le opposizioni serie.

7 maggio 2015 | 10:26
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_07/governo-che-si-rafforza-l-assenza-dell-opposizione-78426472-f489-11e4-83c3-0865d0e5485f.shtml
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« Risposta #265 inserito:: Maggio 16, 2015, 04:28:08 pm »

Forza Italia
Il destino bloccato di un partito

Di Angelo Panebianco

Il buon risultato del Partito democratico nel Trentino e, insieme, la débâcle di Berlusconi e i successi dei 5 Stelle e della Lega, sono musica soave per le orecchie di Matteo Renzi. Confermano ciò che già si sapeva, ossia che, in assenza di un’opposizione credibile, egli è attualmente, e lo sarà probabilmente, per molto tempo, imbattibile, inaffondabile.
Il punto decisivo, naturalmente, è lo stato comatoso di Forza Italia. Si tratta di un partito in cui il declino del carisma del fondatore ha aperto la strada a una miriade di conflitti fra i notabili che si disputano pezzi di eredità, che litigano per assicurarsi porzioni di territorio dell’antico regno: un partito che anche per questo (ma non solo per questo) non è più in grado di attrarre gli elettori di centrodestra. Ai partiti carismatici nei quali il carisma del leader si indebolisce o evapora, accade più o meno ciò che accade agli «Stati falliti» (come la Libia): i signori della guerra cominciano a scannarsi fra loro e ciò continua fin quando non arriva qualcuno, più potente o abile, a sottometterli con la forza.

Forza Italia è, al momento, un partito «bloccato», non può vivere né con né senza Berlusconi. Da un lato, non può farne a meno perché lui è il fondatore e solo lui può decidere se e quando tirarsi fuori. E anche perché, pur essendo la stella di Berlusconi offuscata, egli resta comunque l’unico leader che possa ancora fare presa su settori dell’elettorato conservatore: qualcuno che riesca a prenderne il posto non è ancora emerso. D all’altro lato, è ormai nella consapevolezza generale che il vecchio leader non sia più in grado di calamitare i consensi di un tempo. In questo modo, però, molti italiani si trovano privi di riferimento politico. Sono costretti a dividersi fra chi sceglie (provvisoriamente?) Renzi, chi sceglie l’astensione, e chi si fa ammaliare da coloro che urlano più forte, Grillo e Salvini.

Ma poiché Berlusconi resta, nonostante tutto, molte spanne al di sopra degli altri politici di centrodestra, sembra anche il solo ancora capace di intuizioni giuste: tale potrebbe essere l’idea di dare vita a un Partito repubblicano (ispirato ai conservatori americani). Solo che non basta creare un contenitore nuovo. Occorre anche rinnovare la leadership. E la leadership, a sua volta, non può essere rinnovata senza un rinnovamento delle idee. Il Foglio rilevava correttamente ieri quanto sia ottuso, ad esempio, da parte di esponenti di Forza Italia, l’accodarsi (col solo scopo di dar fastidio al governo Renzi) alla sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni. Non è ottuso solo perché quella sentenza calpesta una legge del governo Monti a suo tempo votata da Forza Italia. Lo è anche perché impedisce a Forza Italia (o al Partito repubblicano in fieri) di adottare una piattaforma politica coerente. Non puoi, ad esempio, puntare, come un Partito repubblicano degno del nome dovrebbe fare, alla riduzione drastica delle tasse e, contemporaneamente, applaudire una sentenza che colpisce i conti pubblici, rischia di far lievitate le tasse, o comunque di bloccarne la riduzione, e può piacere, pertanto, solo agli statalisti, non a dei liberali anti tasse (ammesso che siano tali davvero e non per finta). Ha ragione probabilmente Antonio Martino, economista liberale e uno dei fondatori di Forza Italia, quando ritiene che il rilancio potrebbe avvenire solo intorno a una piattaforma politica centrata sull’idea del superamento della tassazione progressiva e dell’introduzione della flat tax (non importa quanto guadagni: tolta la fascia dei più poveri, esentati dalle tasse, il prelievo fiscale dovrebbe essere una percentuale x uguale per tutti). Se diventasse qualcosa di diverso da uno slogan ma un progetto politico coerente, fattibile, e pertanto credibile nel giudizio degli elettori, avrebbe anche, probabilmente, effetti dirompenti, avrebbe la capacità di calamitare i consensi di mezzo Paese. Se fosse poi davvero adottata, la flat tax accentuerebbe le disuguaglianze (per questa ragione può essere proposta solo da destra, non da sinistra) ma avrebbe anche, assai plausibilmente, la capacità di innescare una crescita economica vigorosa, forse anche, nel tempo, spettacolare. Poiché, a quanto si è letto, anche Salvini sembrerebbe orientato ad adottare una simile proposta, questo potrebbe diventare un motivo di convergenza fra una Forza Italia rinnovata e la Lega.

C’è un ampio elettorato di centrodestra che al momento si sente politicamente orfano, non rappresentato. Ma può essere riconquistato se gli si presentano nuovi leader e nuove idee. Se ciò accadesse, Renzi troverebbe subito pane per i suoi denti e, per vincere, dovrebbe faticare molto di più di quanto non fatichi oggi.

13 maggio 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_13/forza-italia-destino-bloccato-23f25b90-f932-11e4-997b-246d7229677f.shtml
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« Risposta #266 inserito:: Maggio 19, 2015, 10:06:29 am »

Medio Oriente
Bene e male, quella linea incerta
Noi europei e il medio Oriente: decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile

Di Angelo Panebianco

C’è stato un tempo, il tempo della Guerra fredda, in cui gli amici e i nemici, il bene e il male erano facilmente riconoscibili. Una volta presa la decisione fondamentale (stare con i democratici occidentali oppure con i comunisti sovietici) tutto discendeva di conseguenza. Era un mondo «semplice», chiaro e limpido sotto il profilo morale, ove si sapeva sempre da che parte stare, ove era sempre evidente dove fossero ubicati il bene e il male. Ed era anche un mondo in cui ciascuno era in grado di calcolare, per lo meno all’ingrosso, il proprio interesse.

Oggi non è più così. Si guardi all’atteggiamento di noi europei di fronte all’intricatissima situazione del Medio Oriente. Non solo il bene e il male si confondono ogni giorno, non è possibile distinguerli, ma anche decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile. In molti casi ci troviamo di fronte a scelte che hanno contemporaneamente un lato luminoso e un lato oscuro, che sono segnate da un’ineliminabile ambiguità. Ad esempio, come ha scritto giustamente Franco Venturini sul Corriere di ieri, gli europei dovrebbero fare pressione sull’Egitto del generale Al-Sisi perché la condanna a morte dell’ex presidente Morsi non venga eseguita (probabilmente non lo sarà. Al-Sisi non è uno sciocco, non ha interesse a suscitare l’ostilità della comunità internazionale). M a al tempo stesso è un fatto che non possiamo dare alla società egiziana l’impressione di parteggiare per i Fratelli musulmani, un errore che gli occidentali commisero (alienandosi molte simpatie fra gli egiziani) quando Morsi era ancora al potere. E sempre a proposito dell’Egitto: i regimi militari nati da colpi di Stato sono sicuramente una gran brutta cosa ma sono anche peggiori dello Stato autoritario islamico che il maldestro Morsi a un certo punto tentò di imporre nel suo Paese? Dove stanno il bene e il male?

Oppure prendiamo il caso di Saddam Hussein e di Gheddafi. Fu una buona cosa spazzare via due regimi sanguinari o era meglio lasciarli al potere tenuto conto di ciò che ne è seguito sia in Iraq che in Libia? E c’è poi il caso del dittatore siriano Assad. C’è chi pensa che convenisse, e che convenga tuttora, all’Occidente impegnarsi per abbatterlo, tenuto conto di quante cose tremende quel dittatore ha fatto al suo stesso popolo. Sì, ma dopo? Anche ammesso (e non concesso) che fosse stato possibile mandare al potere in Siria uomini ragionevoli anziché fanatici, anziché estremisti islamici, come saremmo riusciti, ad esempio, ad assicurare protezione a quella minoranza cristiana che in Siria sta con Assad perché teme le persecuzioni che seguirebbero a una eventuale vittoria sunnita? E l’elenco non è finito. È chiaramente nel nostro più vitale interesse colpire con la massima durezza lo Stato islamico (ex Isis), indebolirlo militarmente e fare in modo che il mito del Califfato prima o poi si appanni e si sgonfi, che il suo carisma smetta di eccitare e di attrarre giovani islamici da ogni parte del mondo. Ma per perseguire questo vitale interesse abbiamo forse anche bisogno di rendere esplicita, consolidandola, l’alleanza militare fino ad oggi implicita, di fatto, con Assad di Siria e con l’Iran (sciita)? C’è il rischio che un’alleanza esplicita di tal fatta faccia pagare a noi occidentali costi molto elevati. I sunniti (che sono la netta maggioranza nel mondo islamico) diventerebbero ancora più ostili di quanto già oggi non siano nei confronti degli occidentali laddove questi risultassero anche formalmente alleati con i loro arci-nemici sciiti.

Anche la trattativa con l’Iran per il nucleare ha il suo lato oscuro. È una trattativa ragionevole se riesce a ritardare nel tempo l’avvento di un Medio Oriente nucleare (quando l’Iran si doterà della bomba, l’Arabia Saudita, l’Egitto, e forse anche altri, seguiranno immediatamente). Ma non è ragionevole se contribuisce a spezzare i residui esili fili fra gli occidentali e le potenze sunnite.

E ancora: forse abbiamo fatto bene a tenere la Turchia, con i suoi ottanta milioni di musulmani, fuori dall’Europa. Ma, forse, il prezzo di una Turchia in via di accelerata ri-islamizzazione (quanto sta oggi accadendo), impegnata a sostenere l’islamismo politico ovunque esso si trovi (per esempio, in Libia) è, per gli europei, ancor più salato.

Come si vede, non solo il bene e il male si confondono, ma la stessa definizione di quali siano i nostri interessi in una così complicata vicenda è difficile da stabilire. Alla fin fine, forse, possiamo dire che in Medio Oriente gli europei dovrebbero avere, oltre diversi obiettivi pragmatici, da definire e ridefinire giorno per giorno (si tratti di business, rifornimenti energetici, controllo dei flussi migratori, contenimento delle minacce terroriste, eccetera), due soli obiettivi duraturi e irrinunciabili, due soli obiettivi che possiamo chiamare «di civiltà», collegati alla storia e alla identità europee e occidentali: fare il possibile perché non avvenga mai una seconda Shoah (quella distruzione di Israele che continua ad essere sognata e invocata da tanti musulmani in Medio Oriente) e proteggere le minoranze cristiane colpite dalla violenza dei fondamentalisti islamici.

Al primo ministro britannico ottocentesco Benjamin Disraeli è attribuita l’affermazione secondo cui le nazioni non hanno amici o nemici stabili ma solo interessi permanenti. Forse è così. Ma non sempre si riesce a capire come soddisfarli.

18 maggio 2015 | 08:57
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_18/medio-oriente-bene-male-linea-incerta-0d127de0-fd1c-11e4-b490-15c8b7164398.shtml
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« Risposta #267 inserito:: Giugno 05, 2015, 10:53:22 pm »

Le previsioni azzardate
Dall’analisi del voto le tre ragioni che preoccupano il centrosinistra


Di Angelo Panebianco

Anche se in Italia invitare alla prudenza contro la pretesa di trarre da elezioni regionali indicazioni sulle future elezioni politiche è, per lo più, un’impresa inutile, proviamoci ugualmente, non si sa mai. Ci sono almeno tre ragioni per diffidare di siffatte indicazioni e previsioni. La prima riguarda il numero dei votanti. Con il 52,2 per cento dei voti queste elezioni hanno registrato un elevato astensionismo. È difficile che alle prossime consultazioni politiche la percentuale dei votanti resti così bassa (se non altro perché la posta in gioco sarà diversa, e più alta, di quella regionale). S e salirà significativamente, vorrà dire che quella parte, rilevante, dell’elettorato detto moderato, poco portato verso le varie forme di estremismo, che è oggi rimasta a casa, sarà andata a votare. Se ciò accadrà, plausibilmente, le percentuali di voti dei partiti più estremi si ridurranno. Tutto dipenderà dalle offerte politiche che Renzi da un lato e ciò che oggi continua a ruotare intorno a Berlusconi dall’altro lato, saranno in grado di offrire agli elettori. È improbabile, ad esempio, che i 5 Stelle, contrariamente a ciò che qualcuno ha ipotizzato, possano domani andare al ballottaggio contro Renzi in elezioni politiche nazionali. È forse sufficiente, perché ciò non si verifichi, che salga in modo significativo la percentuale dei votanti.

La seconda ragione per tenersi alla larga da previsioni azzardate ha a che fare con la fondamentale regola di saggezza secondo cui è vietato confrontare mele e pere. Regge assai poco il confronto fra le Europee dello scorso anno e le Regionali di oggi, fra una elezione tutta giocata sulla leadership di Renzi e elezioni regionali in cui sia le facce dei candidati in lizza (vedi, ad esempio, fra i vincenti, Emiliano e De Luca) sia i risultati conseguiti o non conseguiti nella passata gestione, contano quanto, se non più, delle leadership nazionali. Al netto delle divisioni entro la sinistra, chi ha perso in Liguria? Renzi oppure chi ha gestito la Regione nel decennio precedente? Per lo meno, possiamo dire che se Renzi vinse le Europee tutto da solo, in Liguria ha perso in buona e folta compagnia. Per la stessa regola di saggezza si eviti di accostare troppo disinvoltamente elezioni fra loro così diverse come le Regionali e le Politiche. Fare finta che i risultati di elezioni locali non siano fortissimamente influenzati da motivi locali è sbagliato, frutto di un pregiudizio ipercentralista secondo il quale tutto ciò che accade in giro per l’Italia è solo un riflesso di ciò che accade a Roma.

La terza ragione ha a che fare con le differenze di sistema elettorale. Se alle prossime Politiche si voterà con l’Italicum e se non potrà essere aggirata la regola che vieta le coalizioni (già ora si sente parlare di listoni, un modo per far rientrare dalla finestra quelle coalizioni che sono state vietate dalla legge), si giocherà con regole assai diverse da quelle delle Regionali, e anche delle precedenti elezioni politiche. Se non ci saranno coalizioni, allora anche l’attuale auto-incoronazione di Matteo Salvini quale leader del centrodestra non significherà molto. Perché ciascuno dovrà giocare per sé. E se gli astensionisti di centrodestra (quelli che già si astennero alle Politiche precedenti) ritorneranno in campo attirati da una buona offerta politica, la partita a destra diventerà apertissima.
In linea di principio, il ballottaggio favorisce le formazioni centriste. Ma perché ciò accada occorre che, per lo meno, tali formazioni esistano. C’è già oggi il (centro)sinistra, il Pd di Renzi. Manca ancora un (centro)destra con una rinnovata capacità di attrazione. Chi metterà mano alla sua ricostruzione dovrà affrontare un difficile problema: se è vero infatti che, con l’Italicum, ciascuno correrà per sé, è anche vero che le due principali formazioni di destra (Lega e ex Forza Italia) non potranno comunque esasperare troppo la loro competizione politica. Chi andrà al ballottaggio dovrà poter contare, al secondo turno, sugli elettori della parte esclusa. Ciò significa che, anche senza formare una coalizione, le varie anime del centrodestra dovranno cercare un punto di mediazione. È un’operazione difficile: come si fa, ad esempio, a mettere insieme il no all’euro di Salvini e il sì all’euro della destra moderata? C’è chi pensa che Salvini abbia la duttilità necessaria per fare la richiesta convergenza al centro e c’è chi pensa che non potrà permetterselo. Ma non dipenderà solo da lui. Dipenderà anche dalla forza o dalla debolezza dei suoi interlocutori.

3 giugno 2015 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_03/previsioni-azzardate-b8a2a798-09b0-11e5-b7a5-703d42ecd92c.shtml
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« Risposta #268 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:51:10 pm »

Medio Oriente
Bene e male, quella linea incerta
Noi europei e il medio Oriente: decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile

Di Angelo Panebianco

C’è stato un tempo, il tempo della Guerra fredda, in cui gli amici e i nemici, il bene e il male erano facilmente riconoscibili. Una volta presa la decisione fondamentale (stare con i democratici occidentali oppure con i comunisti sovietici) tutto discendeva di conseguenza. Era un mondo «semplice», chiaro e limpido sotto il profilo morale, ove si sapeva sempre da che parte stare, ove era sempre evidente dove fossero ubicati il bene e il male. Ed era anche un mondo in cui ciascuno era in grado di calcolare, per lo meno all’ingrosso, il proprio interesse.

Oggi non è più così. Si guardi all’atteggiamento di noi europei di fronte all’intricatissima situazione del Medio Oriente. Non solo il bene e il male si confondono ogni giorno, non è possibile distinguerli, ma anche decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile. In molti casi ci troviamo di fronte a scelte che hanno contemporaneamente un lato luminoso e un lato oscuro, che sono segnate da un’ineliminabile ambiguità. Ad esempio, come ha scritto giustamente Franco Venturini sul Corriere di ieri, gli europei dovrebbero fare pressione sull’Egitto del generale Al-Sisi perché la condanna a morte dell’ex presidente Morsi non venga eseguita (probabilmente non lo sarà. Al-Sisi non è uno sciocco, non ha interesse a suscitare l’ostilità della comunità internazionale). M a al tempo stesso è un fatto che non possiamo dare alla società egiziana l’impressione di parteggiare per i Fratelli musulmani, un errore che gli occidentali commisero (alienandosi molte simpatie fra gli egiziani) quando Morsi era ancora al potere. E sempre a proposito dell’Egitto: i regimi militari nati da colpi di Stato sono sicuramente una gran brutta cosa ma sono anche peggiori dello Stato autoritario islamico che il maldestro Morsi a un certo punto tentò di imporre nel suo Paese? Dove stanno il bene e il male?

Oppure prendiamo il caso di Saddam Hussein e di Gheddafi. Fu una buona cosa spazzare via due regimi sanguinari o era meglio lasciarli al potere tenuto conto di ciò che ne è seguito sia in Iraq che in Libia? E c’è poi il caso del dittatore siriano Assad. C’è chi pensa che convenisse, e che convenga tuttora, all’Occidente impegnarsi per abbatterlo, tenuto conto di quante cose tremende quel dittatore ha fatto al suo stesso popolo. Sì, ma dopo? Anche ammesso (e non concesso) che fosse stato possibile mandare al potere in Siria uomini ragionevoli anziché fanatici, anziché estremisti islamici, come saremmo riusciti, ad esempio, ad assicurare protezione a quella minoranza cristiana che in Siria sta con Assad perché teme le persecuzioni che seguirebbero a una eventuale vittoria sunnita? E l’elenco non è finito. È chiaramente nel nostro più vitale interesse colpire con la massima durezza lo Stato islamico (ex Isis), indebolirlo militarmente e fare in modo che il mito del Califfato prima o poi si appanni e si sgonfi, che il suo carisma smetta di eccitare e di attrarre giovani islamici da ogni parte del mondo. Ma per perseguire questo vitale interesse abbiamo forse anche bisogno di rendere esplicita, consolidandola, l’alleanza militare fino ad oggi implicita, di fatto, con Assad di Siria e con l’Iran (sciita)? C’è il rischio che un’alleanza esplicita di tal fatta faccia pagare a noi occidentali costi molto elevati. I sunniti (che sono la netta maggioranza nel mondo islamico) diventerebbero ancora più ostili di quanto già oggi non siano nei confronti degli occidentali laddove questi risultassero anche formalmente alleati con i loro arci-nemici sciiti.

Anche la trattativa con l’Iran per il nucleare ha il suo lato oscuro. È una trattativa ragionevole se riesce a ritardare nel tempo l’avvento di un Medio Oriente nucleare (quando l’Iran si doterà della bomba, l’Arabia Saudita, l’Egitto, e forse anche altri, seguiranno immediatamente). Ma non è ragionevole se contribuisce a spezzare i residui esili fili fra gli occidentali e le potenze sunnite.

E ancora: forse abbiamo fatto bene a tenere la Turchia, con i suoi ottanta milioni di musulmani, fuori dall’Europa. Ma, forse, il prezzo di una Turchia in via di accelerata ri-islamizzazione (quanto sta oggi accadendo), impegnata a sostenere l’islamismo politico ovunque esso si trovi (per esempio, in Libia) è, per gli europei, ancor più salato.

Come si vede, non solo il bene e il male si confondono, ma la stessa definizione di quali siano i nostri interessi in una così complicata vicenda è difficile da stabilire. Alla fin fine, forse, possiamo dire che in Medio Oriente gli europei dovrebbero avere, oltre diversi obiettivi pragmatici, da definire e ridefinire giorno per giorno (si tratti di business, rifornimenti energetici, controllo dei flussi migratori, contenimento delle minacce terroriste, eccetera), due soli obiettivi duraturi e irrinunciabili, due soli obiettivi che possiamo chiamare «di civiltà», collegati alla storia e alla identità europee e occidentali: fare il possibile perché non avvenga mai una seconda Shoah (quella distruzione di Israele che continua ad essere sognata e invocata da tanti musulmani in Medio Oriente) e proteggere le minoranze cristiane colpite dalla violenza dei fondamentalisti islamici.

Al primo ministro britannico ottocentesco Benjamin Disraeli è attribuita l’affermazione secondo cui le nazioni non hanno amici o nemici stabili ma solo interessi permanenti. Forse è così. Ma non sempre si riesce a capire come soddisfarli.

18 maggio 2015 | 08:57
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« Risposta #269 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:12:18 pm »

I compiti che l’Europa deve fare
Il nuovo patto confederale per far ripartire l’Unione

Di Angelo Panebianco

Né con te né senza di te: forse si può riassumere così l’attuale atteggiamento della maggioranza degli europei verso l’Unione: da un lato, c’è l’insofferenza per ciò che l’Unione europea è, per i suoi vistosi limiti e difetti; dall’altro lato, c’è il timore di ciò che potrebbe capitarci se l’Unione improvvisamente si disgregasse. Vero, ci sono anche quelli che hanno tradotto l’insofferenza per l’Unione in un programma d’azione antieuropeo, che pensano che dell’Unione possiamo fare a meno, persone che seguono movimenti politici che rivendicano il ritorno alle sovranità nazionali. Sono tanti in Europa, forse anche in crescita, ma sono ancora lontani, secondo i sondaggi, dall’essere maggioranza. Più o meno oscuramente, tanti europei, comunque, comprendono che in un mondo di colossi non si compete mantenendo le «taglie», demografiche, economiche e politiche, dei vecchi Stati europei: sarebbe come se (accadde di frequente ai tempi della colonizzazione europea) piccole tribù con archi e frecce si scontrassero contro grandi eserciti dotati di cannoni e mitragliatrici.

Persino Marine Le Pen non riesce a essere convincente quando rivendica il ritorno alla sovranità, nonostante che ella stia parlando della Francia, dello Stato-nazione meglio strutturato e organizzato che la storia europea abbia espresso. Figurarsi poi quando la rivendicazione di ritorno alla sovranità è invocata dai movimenti antieuropeisti vocianti all’interno delle «pulci», gli staterelli europei. O anche dell’Italia, che pulce non è: la Lega di Matteo Salvini, ad esempio, che contrasta l’euro e invoca il ritorno alla sovranità, non fa i conti con la cronica debolezza dello Stato-nazione italiano. Se il protezionismo economico (statal-nazionale) invocato dai movimenti anti-euro è insostenibile per tutti, nel caso italiano ci sono anche buone ragioni geopolitiche per evitare il «faccio da sola, grazie»: hanno a che fare con le turbolenze mediterranee. Se bastasse sigillare le frontiere per tenersi al riparo dai guai, allora vivremmo da un pezzo in un mondo stabile e pacifico.

Se dunque, quando si parla di Europa, il «senza di te» non è praticabile, bisogna però anche aggiungere che una sorte migliore non arride al «con te», checché ne pensino certi europeisti un po’ acritici. Ha ragione Francesco Giavazzi (Corriere, 5 giugno): ma come è possibile che, mentre nel mondo accade di tutto, l’Europa, da cinque anni, sia inchiodata a parlare quasi esclusivamente di Grecia? Per giunta, occupandosene in un modo che oscilla fra l’ipocrita e il patetico: pretendendo dai greci una modernizzazione dell’economia (proposte «assurde», ribadisce l’ineffabile primo ministro Tsipras), che la società greca, a maggioranza, non ha mai avuto intenzione di fare? Forse è il caso di dire basta e cominciare a parlar d’altro.

Giavazzi ritiene che se proprio vogliamo tener dentro una Grecia che ha scelto di non modernizzarsi pagandone (noi europei) il prezzo, dovremmo farlo solo per ragioni geopolitiche, essendo quello un Paese cerniera fra Europa e Medio Oriente. In teoria, Giavazzi ha ragione. In pratica, questa Europa, in virtù della sua storia pregressa, ha sviluppato una particolare sordità di fronte alle più stringenti necessità geopolitiche. Come dimostra anche la sua incapacità di creare una politica comune dell’immigrazione.

Contrariamente a quanto si aspettava l’europeismo tradizionale, l’integrazione economica non è stata affatto un viatico o un facilitatore dell’integrazione politica. La prova sta nella rinascita dei nazionalismi e nel condizionamento che essi esercitano su tutte le classi politiche europee. Servirebbe un nuovo «patto europeo» da proporre alle opinioni pubbliche con la giusta enfasi ma senza fumosità e ipocrisie, fondato sulla chiarezza dei propositi. Insieme a uomini politici dotati di coraggio e di visione. Servirebbe un nuovo patto perché quello su cui è stata edificata l’Europa in oltre mezzo secolo si è irreparabilmente usurato, e fare finta che non sia così rischia di portarla alla distruzione. Occorre che agli europei venga offerta la possibilità di dare vita a un accordo confederale (come ce ne sono stati tanti nella storia del mondo): si mettono in comune poche cose cruciali (moneta, controllo dei confini mediante la regolamentazione dei flussi, trattati internazionali), senza troppa retorica, per ragioni di pura convenienza, convincendo le opinioni pubbliche che i Paesi europei, andando ciascuno per suo conto, non potrebbero fronteggiare le dure condizioni della competizione internazionale. Si lascia contemporaneamente la gestione di tutto il resto ai singoli Stati, nel rispetto di identità antiche, forgiate dalla storia, non cancellabili con un burocratico tratto di penna. Sarebbe anche necessario un nuovo trattato per riorganizzare la macchina dell’Unione, per ridefinirne compiti e funzioni. Persino Angela Merkel, persona prudente ma politica di razza, dovrà prima o poi capire che occorre un salto di qualità.

C’è stato un tempo in cui l’Europa aveva un tale prestigio che poteva «vendere» qualunque cosa a chiunque. Allora, ad esempio, avrebbe potuto persino far credere a tanti che uno come l’attuale presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, fosse un «grande leader europeo». Quell’epoca è finita. Prima lo si capisce e prima diventerà possibile inventarsi una nuova offerta politica.

8 giugno 2015 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_08/i-compiti-che-l-europa-deve-fare-661c0094-0d9f-11e5-9908-1dd6c96f23f8.shtml
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