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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 157912 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Luglio 15, 2012, 07:52:11 pm »

I TEMPI DELLA DEMOCRAZIA E I MERCATI

Chi ha paura della clessidra

Viviamo in una fase ove è costante la tensione fra la democrazia e l'Europa, fra gli orientamenti degli elettorati e l'esigenza di salvaguardare il progetto comune europeo. È una tensione che a volte si riesce a tenere sotto controllo e a volte degenera in conflitto aperto. La frattura, che attraversa l'eurozona, fra le democrazie nordiche e le democrazie mediterranee, ne è espressione. Per tenere a bada i mercati, rassicurare le opinioni pubbliche delle democrazie nordiche, e salvare la nostra appartenenza al club dell'euro, l'Italia si è inventata una misura-tampone, una soluzione d'emergenza: il governo detto tecnico. Ma la clessidra è spietata, il conto alla rovescia non può essere fermato. Per quanto ciò possa apparire paradossale (e «politicamente scorretto»), quasi tutti, in Italia e fuori, temono il momento in cui la «democrazia» si riprenderà le sue prerogative, il momento in cui, fra meno di un anno, gli elettori si pronunceranno. Perché c'è in giro tanta paura della democrazia? Perché, a torto o a ragione, è diffusa la convinzione che le forze politiche fra le quali si distribuiranno i voti degli italiani, siano tutte inadeguate, costitutivamente incapaci di perseverare nelle politiche di risanamento che la crisi ha reso necessarie.

A parole, i partiti che oggi sostengono il governo Monti promettono che non disferanno ciò che esso ha iniziato. Ma perché dovremmo crederci? Perché dovremmo credere che la destra, se tornasse al governo, non si sbarazzerebbe subito della spending review per ricominciare con la gestione della spesa pubblica che l'ha sempre caratterizzata? E perché dovremmo credere alla sinistra quando dice che non abbandonerà la strada aperta dal governo Monti, essendo un fatto che quella strada è invisa ai sindacati ed è impensabile che la sinistra faccia alcunché senza disporre del placet sindacale?
Che si parli di possibile «grande coalizione» (ossia, di un governo Monti bis) dopo le elezioni, la dice lunga su quanto siano consapevoli delle proprie inadeguatezze le stesse forze politiche.

Come se ne esce? Una strada ci sarebbe. Difficilissima ed estranea alle nostre tradizioni. Per la prima volta, da quando esiste la democrazia in Italia, le forze politiche che contano dovrebbero applicare le istruzioni contenute nel «Manuale del Bravo Democratico». Il manuale del bravo democratico dice che le campagne elettorali non si conducono a colpi di promesse generiche ma di progetti specifici. Un progetto specifico è tale se chiarisce chi verrà premiato e chi verrà penalizzato. È tale se viene applaudito da alcuni e fa imbufalire altri.

Esempi possibili di progetti specifici che una forza politica dovrebbe così annunciare agli elettori: se vinciamo le elezioni, entro trenta giorni dall'insediamento del governo, faremo tagli alla spesa pubblica per il valore di X nei comparti A, B, C, D, e ridurremo per l'ammontare corrispondente la pressione fiscale. O ancora: se vinciamo le elezioni, fatti salvi i servizi essenziali, dimezzeremo i trasferimenti dal Nord al Sud accompagnando il provvedimento con l'azzeramento del prelievo fiscale sulle imprese meridionali per tot numero di anni.

Su tutti i principali temi di interesse pubblico i partiti dovrebbero proporre progetti. Ad esempio, in materia di Sanità, che fine hanno fatto i costi standard? O, nel caso della scuola, chi se la sente di proporre un dettagliato piano (il contrario del bla bla generico) per iniettare meritocrazia? Legare l'ammontare degli stipendi alla qualità dell'insegnamento è tecnicamente possibile, se esiste la volontà politica.

Se una campagna elettorale venisse così condotta, si tratterebbe, in un certo senso, di una vittoria postuma di Ugo La Malfa (l'enfasi sui contenuti a scapito degli schieramenti era l'essenza della pedagogia politica di La Malfa). La «lamalfizzazione» delle forze politiche comporterebbe uno strappo radicale rispetto alla tradizione. In Italia, da sempre, le campagne elettorali vengono condotte combinando prese di posizione ideologiche contro il «nemico» e promesse generiche. L'ideologia (i vari «ismi»: l'anticomunismo, l'antiberlusconismo, eccetera) serve a compattare «i nostri», le promesse generiche, non scontentando nessuno, servono per sommare clientela a clientela. Passare dal metodo «ideologia + promesse generiche» al metodo «progetti specifici» sarebbe una rivoluzione: obbligherebbe, per esempio, a radicali cambiamenti di stile politico e comunicativo.
Per istinto, per calcolo, per tradizione, e anche per capacità personali, i politici si preparano a fare la solita campagna all'italiana. Ma questa volta, forse, sbagliano i conti. Il discredito della politica, documentato dai sondaggi, ha superato il livello di guardia. Cambiare radicalmente stile comunicativo potrebbe essere l'unica possibile via d'uscita. E, inoltre, avrebbe un effetto rassicurante per il mondo che ci scruta dall'esterno.

Ciò che si perderebbe presentando progetti in grado di far perdere voti antagonizzando potenziali clientele elettorali si guadagnerebbe in immagine di serietà e rigore. Ed è proprio la mancanza di serietà e rigore ciò che oggi tutti rimproverano alla politica. Senza contare il fatto che una campagna elettorale condotta a colpi di progetti specifici contrapposti consentirebbe agli elettori di capire quali siano le forze più credibili come continuatrici della politica di risanamento.
La crisi mondiale, come ci viene ripetuto ogni giorno, ci obbliga, se vogliamo sopravvivere, a cambiare molte delle nostre abitudini. È arrivato il momento in cui anche alla politica conviene cambiare le sue.

Angelo Panebianco

15 luglio 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_15/chi-ha-paura-della-clessidra-editoriale-angelo-panebianco_28d1c820-ce43-11e1-9b00-18ac498483bd.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Luglio 23, 2012, 04:36:13 pm »

PRESSIONE FISCALE, SPESA PUBBLICA

Troppi topi nel formaggio

Dobbiamo proprio sperare che la pressione dei mercati sul nostro Paese si attenui, che i pronostici più infausti si rivelino sbagliati. Se questo accadrà, finita l'estate, comincerà subito, di fatto, la (lunghissima) campagna elettorale. Quali temi la caratterizzeranno? A fronte di una pressione fiscale che ha raggiunto il 55% (e oltre), è facile scommettere che quello fiscale sarà l'argomento che più terrà banco. Tutti, o quasi tutti, diranno di voler ridurre le tasse. Nella schiacciante maggioranza dei casi si tratterà di bluff o di promesse da marinaio. Come riconoscere i bluff? Ci sono, sostanzialmente, due modi per bluffare in materia di tasse. Il primo è proprio di coloro che promettono drastiche riduzioni della pressione fiscale senza spiegare dove troveranno le risorse necessarie, senza spiegare come, dove, e di quanto, taglieranno la spesa pubblica al fine di mantenere la promessa. Questo è un bluff facile da scoprire, inganna solo chi vuole essere ingannato.

Il secondo modo è più sottile, più subdolo: è proprio di coloro che attribuiscono la responsabilità dell'elevata tassazione vigente all'eccesso di evasione fiscale e, per conseguenza, promettono di colpire gli evasori fiscali al fine di ridurre le tasse. Anche se è molto popolare, condivisa da tanti, la tesi secondo cui per ridurre le tasse bisogna prima contenere l'evasione fiscale, è falsa. È vero infatti l'esatto contrario. Per contrastare, come è doveroso fare, l'evasione fiscale, non basta, anche se è ovviamente necessario, usare gli strumenti repressivi: bisogna anche ridurre in modo cospicuo le tasse. Soltanto una riduzione della pressione fiscale, infatti, può spingere l'evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell'evasione. Senza di che, nemmeno la più vigorosa e puntuta «lotta alla evasione» potrà mai ottenere seri e durevoli risultati. La controprova è data dal fatto che quando aumentano le tasse aumenta anche l'area dell'economia sommersa. Si tratta di un movimento a spirale: più crescono le tasse più cresce l'evasione. Abbassare sostanzialmente le tasse, passare da un regime di tasse alte a un regime di tasse basse, è sicuramente il mezzo più sicuro per contenere l'evasione.

Oltre che falso l'argomento secondo cui non si possono ridurre le tasse se non si riduce prima l'evasione, ha anche il difetto di fare distogliere lo sguardo dalla principale causa del regime di tasse alte: la presenza di un amplissimo stuolo di rent-seekers , di cercatori e percettori di rendite che campano di spesa pubblica, che prosperano grazie a un sistema pubblico che combina alti costi di mantenimento e, soprattutto in certe zone del Paese, l'erogazione di servizi scadenti. È lì che si annidano i più strenui difensori del regime di tasse alte. La contrazione della spesa pubblica e, con essa, dell'area della rendita, brulicante, per usare una vecchia espressione di Paolo Sylos Labini, di «topi nel formaggio», è l'unica strada possibile per ridurre la pressione fiscale. Ma è anche una strada politicamente molto impervia.

I percettori di rendita da spesa pubblica sono numerosissimi, e ciò li rende assai potenti, sanno come ricattare elettoralmente i partiti, tutti i partiti. Per giunta, hanno dalla loro parte le norme (o meglio: le prevalenti interpretazioni delle norme) e la giurisprudenza. La sentenza della Corte costituzionale che ha colpito le liberalizzazioni dei pubblici servizi locali è stata certamente accolta con applausi e brindisi da tutti i rent-seekers sparsi per la Penisola. Anche le iniziative, abbastanza timide fino ad oggi, del governo Monti in materia di spending review rischiano di infrangersi contro un sistema amministrativo e un sistema giudiziario costruiti per proteggere la rendita da spesa pubblica a scapito del mercato e dei consumatori. Se non si disbosca quella giungla la riduzione delle tasse resterà un sogno irrealizzabile.

Ci sono coloro che, scambiando il sintomo con la causa, sono convinti che a provocare le guerre siano i mercanti d'armi (non è così naturalmente: i mercanti d'armi guadagnano grazie a guerre che hanno all'origine ben altre cause). Allo stesso modo, ci sono coloro che non comprendono, o fingono di non comprendere, che l'evasione fiscale è un deprecabile effetto, ma non la causa, delle tasse alte. Converrà guardarsi da costoro nella prossima campagna elettorale.

Angelo Panebianco

23 luglio 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_23/troppi-topi-nel-formaggio-panebianco_e6b0498e-d483-11e1-9251-6da620bfc4cf.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Agosto 01, 2012, 07:46:30 pm »

LA GERMANIA E GLI ALTRI

La sovranità dei debitori

Nella sua storia il processo di integrazione europea ha combinato il nobile disegno di unificare il Continente, sia pure in un futuro indefinito, con misure pragmatiche, molto concrete, volte a risolvere i problemi man mano che si presentavano. È stata, fino alla crisi dell'euro, una storia di successo. Procedere, come si è sempre fatto, «per tentativi ed errori», e senza eccessi di politicizzazione dei problemi (che avrebbero scatenato conflitti), ha sempre aiutato l'integrazione. Almeno fino ad oggi. Anche la nascita dell'euro era avvenuta in questo modo: «Ci si imbarca e poi si vede». Si sperava che l'unificazione monetaria potesse trascinarsi dietro anche decisivi passi avanti sul piano dell'integrazione politica. Ma nessuno sapeva quando quei passi sarebbero stati compiuti. La crisi dell'euro ha cambiato tutto. Perché non è possibile uscirne con il tradizionale pragmatismo europeo, non è possibile superarla senza scelte di alto profilo politico. In gioco, niente di meno, ci sono la sovranità statale e i principi (e le procedure) della democrazia rappresentativa.

Il Financial Times ha ospitato ieri l'autorevole parere di Otmar Issing, già membro del Consiglio della Banca centrale europea. In sintonia con l'opinione pubblica del suo Paese, Issing osserva che chiedere ai contribuenti tedeschi di ripianare, attraverso gli eurobond e in altre forme, i debiti dei Paesi dell'Europa mediterranea senza avere il diritto di esercitare uno stretto controllo sul modo in cui vengono impiegati i loro soldi, violerebbe il principio democratico del no taxation without representation (niente tasse se i cittadini-contribuenti non hanno il diritto di scegliere i rappresentanti). Perché mai i contribuenti tedeschi dovrebbero sborsare denaro senza che esistano i meccanismi per assicurare loro il controllo sul modo in cui quei soldi verranno spesi? Lungi dal favorire l'integrazione, ciò farebbe sorgere in Germania, secondo Issing, un risentimento così forte da portare alla dissoluzione dell'Unione. Piaccia o non piaccia, è una opinione «pesante» che non può essere ignorata. Si può però far osservare a Issing che i tax payers italiani potrebbero porsi un analogo interrogativo, di segno rovesciato, di fronte alla circostanza di una Germania che attualmente si finanzia a tassi negativi. Ma per capire la posizione dei tedeschi, d'altra parte, ci basta ricordare ciò che è accaduto poche settimane fa in Italia: di fronte a un quadro che si riteneva drammatico dei conti della Sicilia non si sono subito levate voci che chiedevano un commissariamento della Regione Siciliana da parte del governo? E che altro significava se non l'indisponibilità di molti contribuenti a continuare a pagare, senza poter esercitare alcun controllo, per le spese siciliane?

L'esempio siciliano, naturalmente, riguarda il rapporto fra chi paga e chi spende all'interno di uno Stato nazionale. Nel caso europeo, la questione è ulteriormente complicata dall'assenza di uno Stato unitario. Ma, per l'essenziale, il problema è identico: chi paga deve essere titolare di un diritto di controllo sulle spese. Non si esce dalla crisi se non si trova il modo di conciliare due esigenze: garanzie per i tedeschi sull'impiego dei loro soldi, garanzie per gli altri che l'inevitabile perdita di sovranità che si prospetta non verrà usata dai più forti (come nel caso dei finanziamenti negativi) per indebolire ulteriormente i più deboli a proprio vantaggio. È un doppio e incrociato sistema di garanzie, in altri termini, quello che deve essere costruito. Non solo le rivoluzioni, ma anche le unificazioni incruenti non sono pranzi di gala.

Angelo Panebianco

31 luglio 2012 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_31/sovranita-dei-debitori-angelo-panebianco_2a67cbaa-dad0-11e1-8089-ce29fc6fe838.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Agosto 07, 2012, 04:46:29 pm »

PROPORZIONALE E ALLEANZE DI GOVERNO

Il dilemma dei centristi

Con l'annunciato ritorno alla proporzionale, ridiventerà lecito ciò che non lo era dopo il 1994: correre da soli alle elezioni e fare le alleanze di governo in Parlamento dopo il voto. Era il sistema della Prima Repubblica. Grazie a esso l'Italia riuscì a collezionare ben 45 governi in 44 anni (dal 1948 al 1992): un record negativo eccezionale. Allora però ce lo potevamo permettere: la democrazia italiana viveva di puntelli esterni. C'erano la guerra fredda, la Nato, la minaccia comunista, la conventio ad excludendum.

C'è da dubitare che una democrazia così mal funzionante possa reggere a lungo nel burrascoso mondo in cui viviamo. Ma la politica è interessata solo al breve termine. E nel breve termine una legge elettorale proporzionale serve a tanti. Serve ai probabili sconfitti (il centrodestra) perché, a differenza delle leggi maggioritarie, consente di limitare le perdite, di rimanere in gioco. E serve a chi si è posizionato «al centro» (Pier Ferdinando Casini). Perché gli assicura una rendita di posizione, lo rende indispensabile in qualunque combinazione parlamentare. Può svolgere il ruolo del king maker quale che sia lo schieramento, di sinistra o di destra, con cui, dopo le elezioni, si troverà a trattare la formazione del governo.
Facciamo un esercizio di fantasia, immaginiamo lo scenario del dopo elezioni (la storia poi, si sa, va per suo conto, ma disegnare scenari è un modo per dotarsi di una bussola artigianale).

È probabile che l'alleanza Bersani-Vendola prevalga sul centrodestra nelle prossime elezioni. Non avrà però, verosimilmente, i numeri per governare. Dovrà fare i conti con Casini. Quanto potrà reggere il governo che si formerà? Nello «schema di gioco» di Bersani, a Casini spetterà la difesa della continuità con il governo Monti, a Vendola (ma anche a una parte del Partito democratico) spetterà rivendicarne la discontinuità. Con Bersani al centro che media fra le due componenti. Ma potrà mai reggere quello schema di gioco? Sicuramente no, se dovremo fare ricorso allo scudo anti- spread e accettare le rigide condizioni che ciò comporta: l'ala sinistra, vincolata a un programma di rigore e di tagli alla spesa che non è il suo, non potrebbe reggere a lungo il gioco. Ma anche senza scudo, e connesso commissariamento, lo schema di Bersani incontrerebbe grossi problemi. Non sarebbe facile per il governo, data la sua composizione, guadagnarsi la fiducia dei mercati. Le probabilità di fallimento nel giro di un anno sarebbero piuttosto alte. Figurarsi poi se all'assedio dei mercati dovesse sommarsi, poniamo, una improvvisa pressione politico-diplomatica dovuta al precipitare di una crisi militare (fra Israele e Iran) in Medio Oriente.

Esaurito l'esperimento, Casini cercherebbe di smarcarsi, di cambiare cavallo, di aprire una trattativa con la destra (grazie anche al ridimensionamento politico di Berlusconi dovuto alla sconfitta elettorale). Potrebbe farlo, però, solo se esistessero in Parlamento i numeri necessari per rovesciare le alleanze. Ma se quei numeri non ci fossero? La benedizione rappresentata dal posizionamento al centro si trasformerebbe in una maledizione. Perché i centristi non potrebbero allora schivare le macerie del fallito esperimento di governo.

La verità è che a Casini conviene solo una grande coalizione. La distribuzione delle forze in Parlamento che risulterà quando, a urne chiuse, si saranno contati i voti e proclamati i risultati, ci dirà se i centristi avranno ragioni per brindare o per essere spaventati.

Angelo Panebianco

6 agosto 2012 | 9:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_06/dilemma-centristi-panebianco_ea3dc730-df86-11e1-a2e0-2a62fa6322b0.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Agosto 16, 2012, 06:45:16 pm »

LA PARTITA PER UN'EUROPA PIÙ UNITA

L'integrazione e gli interessi

La discussione che si è aperta in Germania sulla opportunità di indire un referendum che superi i vincoli e gli ostacoli che la Costituzione tedesca pone ai progetti di maggiore integrazione in Europa, ci riporta forse alla realtà. La Germania, come qualunque altro Paese europeo di fronte alla crisi, è divisa sul da farsi: varie opzioni, anche contrapposte, si contendono il campo. Come sempre accade in tutte le democrazie (e, in realtà, in tutti i sistemi politici complessi, anche quelli autoritari, Cina inclusa). E ciò forse significa, contro certe interpretazioni troppo unilaterali che hanno dipinto la Germania come un compatto blocco di potere teso a distruggere le economie più deboli succhiando loro il sangue, che esistono margini di manovra e di trattativa più ampi di quelli fin qui immaginati, anche per i partner europei della Germania, Italia compresa.

Disporre di margini di manovra richiede però due cose: la prima consiste nella capacità di perseguire con continuità intelligenti ed energiche politiche di risanamento interno (i compiti a casa). Senza di che, i margini di manovra, insieme alla credibilità, si riducono a zero. Si spera che i partiti, nell'imminente campagna elettorale, ne vogliano tenere conto.
La seconda consiste nell'adozione di una visione più realistica di quella che è sempre circolata in Italia sulla natura dell'integrazione europea. Non c'è più tempo né spazio per quella retorica, spesso fondata sull'autoinganno e su idee di dubbia consistenza, che l'Italia pubblica ha tante volte abbracciato. Un europeismo adeguato ai tempi richiede che l'Unione venga guardata per ciò che è, senza fronzoli, miti e utopie.

Cominciamo col ricordare, anche se ciò può dispiacere ad alcuni, che l'ideale di una Europa unita è un ideale freddo. Non abbandonare la strada dell'integrazione, perseverare nel cammino verso l'unificazione politica, serve sicuramente a tutti noi europei. «Serve», appunto. Il verbo scelto rimanda al carattere strumentale (o prevalentemente strumentale) di questo processo. L'integrazione europea ha infatti due scopi. In primo luogo, mantenere la pace in Europa (il che non sarebbe più garantito se l'Unione si disgregasse). In secondo luogo, assicurare anche agli europei, in un'epoca in cui potere e ricchezza sono collegati alle «taglie forti», in cui solo i giganti politici dettano legge, di godere di indipendenza (e quindi tutelare le proprie storiche libertà) e di influenza (e quindi incidere sulle scelte da cui può dipendere la futura prosperità delle nazioni europee associate).

C'è poi da sbarazzarsi di un modo paradossale, e tuttavia diffusissimo in Italia, di guardare all'integrazione politica europea. In tanti resoconti, essa è stata troppe volte dipinta, con imperdonabile ingenuità, come se si trattasse di un processo apolitico. Molti ne parlavano, e tuttora ne parlano, come se l'integrazione politica non dovesse, a dispetto dell'aggettivo, mettere in gioco la politica, ossia quella competizione sempre aspra, spietata, per il potere, lo status e la ricchezza, che è tanta parte del materiale di cui è fatta la politica, e senza il quale la politica non c'è.

Forse è proprio il fatto di avere così a lungo pensato l'integrazione politica in termini apolitici, di non avere capito in tempo che l'auspicata «costruzione di una Europa federale» non può avvenire senza essere accompagnata da una dura competizione che inevitabilmente genera, e genererà, vincitori e vinti (fra i Paesi e all'interno dei Paesi), a spiegare la sorpresa che ha colto tanti italiani quando hanno scoperto (ma guarda un po') che i tedeschi erano e sono molto attenti agli interessi loro, che i francesi, aggrappati al tabù della sovranità, devono alimentare la finzione di un «rapporto alla pari» con la Germania, eccetera, eccetera. Prima ci sbarazzeremo della visione irenica, apolitica appunto, dell'integrazione europea e prima e meglio potremo contribuire alla causa comune (l'integrazione) difendendo contemporaneamente, con la durezza necessaria, i nostri interessi.

Purtroppo, bisogna dirlo, l'Italia non è ancora attrezzata per giocare al meglio questa complicata partita. Non solo perché, ovviamente, non si può difendere niente se non si è messo in ordine la propria casa, se non si è diventati efficienti e competitivi. Ma anche per una ragione culturale: per decenni, l'Italia pubblica ha creduto di potere sostituire l'europeismo al patriottismo («bruciato» dall'avventura fascista e dalla sconfitta della Seconda guerra mondiale), di fare del primo un surrogato del secondo. Non si è mai adeguatamente preparata per una partita in cui il problema è mantenere un ragionevole equilibrio fra le ragioni dell'europeismo e quelle del patriottismo; lavorare per la causa comune e, insieme, tutelare i propri interessi in una competizione in cui nessuno regala niente a nessuno. I nostri governi, naturalmente, badando pragmaticamente agli interessi, lo hanno sempre fatto. A volte bene e a volte male. Ma senza mai spiegarne fino in fondo condizioni e implicazioni alla classe politica nel suo insieme e all'opinione pubblica. I tempi richiedono che si adotti con rapidità una più appropriata prospettiva.

Angelo Panebianco

13 agosto 2012 | 9:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_13/panebianco-integrazione-interessi_04dd0596-e505-11e1-97d9-de28e70d5d31.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Agosto 29, 2012, 04:49:13 pm »

UN OBIETTIVO, TROPPE DIVISIONI

Si fa presto a dire crescita

A causa del fatto che, per lo più, non si vuole concedere all'avversario una qualche dignità, ma anche a causa di una diffusa ignoranza della storia patria, il nostro dibattito pubblico tende quasi sempre a immiserire e a banalizzare ciò che non dovrebbe esserlo: le nostre divisioni. Esse non sono alimentate, come ci fa comodo credere, solo da contingenti conflitti di interesse. Riflettono, e riproducono, contrapposizioni antiche. Le divisioni politiche contingenti occultano radicate, profonde, e probabilmente incomponibili, divisioni culturali. Siamo divisi praticamente su tutto e il fatto che il nostro sia ancora uno Stato unitario, per di più corredato di una (claudicante) democrazia, è una specie di miracolo. Usiamo le stesse parole ma diamo loro significati antitetici. Se prescindiamo per un momento dagli interessi in gioco, ad esempio, che altro è lo scontro sulle intercettazioni (diritto di cronaca contro diritto alla privacy) se non una divisione che chiama in gioco due idee radicalmente diverse, e cariche di storia, della libertà?

La stessa cosa accade con un'altra parola che usiamo tanto, soprattutto da quando l'«oggetto» a cui si riferisce è sparito nel nulla: la parola in questione è «crescita». Tre partiti si confrontano e si scontrano sulla crescita. Il primo partito, più diffuso e ramificato di quanto si voglia credere, è quello dei nemici della crescita, dei fautori della de-industrializzazione del Paese. Varie pulsioni lo alimentano: la critica romantica della società industriale, un anticapitalismo che ha varie ascendenze culturali, utopie bucoliche, la sindrome «non nel mio giardino», il sogno di una società capace di eliminare il rischio, l'avversione per un sistema economico-sociale fondato sul continuo cambiamento.

Ma anche i fautori della crescita sono divisi al loro interno. Qui i contrasti si fanno più sottili, non sono sempre immediatamente riconoscibili. Lo stesso governo Monti appare attraversato da questa divisione. E ciò si riflette nei provvedimenti che esso appronta.

A confrontarsi e a scontrarsi sono il partito per il quale la crescita deve essere guidata dallo Stato, che pensa che il governo ne debba essere il deus ex machina , e il partito che la intende come il virtuoso sottoprodotto della libertà degli individui. Ne consegue che i due partiti, pur con alcune sovrapposizioni, attribuiscono compiti diversi al governo. Per il primo partito, il governo deve direttamente «farsi carico» della crescita. Per il secondo, invece, deve creare le condizioni perché siano i cittadini, con la loro libera attività, a farsene carico. Per dire, sia il segretario della Cgil Susanna Camusso nelle sue dichiarazioni che gli economisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nei loro editoriali sul Corriere auspicano la crescita ma i mezzi a cui pensano per ottenerla non sono propriamente gli stessi. Alla prima concezione, per esempio, è associata l'idea di «politica economica» (salvo ricordare che già nella prima metà dello scorso secolo l'economista Joseph Schumpeter ammoniva che la politica economica è in realtà «politica e basta») e, in tempi passati, anche di «programmazione»: il governo, oltre a manovrare la spesa pubblica, deve marcare stretto, da vicino, gli operatori economici, gli spetta il compito del direttore d'orchestra.

Per la seconda concezione, invece, il governo, se vuole davvero la crescita, deve darsi due compiti essenziali: rendere efficienti (la miglior qualità possibile al costo più basso possibile) i servizi che gli spettano e mettere la società in condizioni di respirare, di non essere oppressa da un eccesso di regolamenti e tasse. Per la seconda concezione, non è compito del governo «promuovere» la crescita. Il suo compito è togliere gli ostacoli burocratici che impediscono alla libera attività dei cittadini di promuoverla.

Se fossimo un Paese meno complicato di come la storia ci ha reso, il confronto politico e, massimamente, il confronto elettorale, sarebbero chiarificatori: sinistra e destra si sfiderebbero proponendo ai cittadini due diverse visioni dei mezzi necessari per rilanciare la crescita economica. Ma siccome siamo complicati, da noi tutto si confonde: talché, a destra, a sinistra e al centro, troviamo, mescolati, i fautori di entrambe le concezioni, i rappresentanti di entrambi i partiti.

Per avere crescita serve dare impulso a un massiccio programma di opere pubbliche mantenendo la pressione fiscale al livello a cui è giunta oppure serve, prima di tutto e soprattutto, abbassare le tasse? La risposta qualifica l'interlocutore come appartenente all'uno o all'altro dei due partiti.

Forse, inadeguatezza di molti protagonisti a parte, una delle ragioni per cui l'esperimento di bipolarismo politico è fallito in questo Paese è che, oberati dalle cattive abitudini e eredità della Prima Repubblica, non siamo riusciti a farne lo strumento per incanalare e contrapporre visioni della crescita (e connesse prassi di governo) chiaramente e inequivocabilmente alternative.

Angelo Panebianco

29 agosto 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_29/si-fa-presto-a-dire-crescita-panebianco_8d01b02e-f19a-11e1-975b-225a9f9609c6.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Settembre 05, 2012, 03:39:18 pm »

INSIDIE DI UN RITORNO AL PROPORZIONALE

I nostalgici dei governicchi

È una regolarità conosciuta: in tempo di pace gli stati maggiori elaborano piani di guerra sulla base dell'erronea convinzione che il prossimo conflitto sarà la fotocopia del precedente. Poi, quando la guerra scoppia, si scopre che essa è diversa e quei piani di guerra diventano carta straccia. Qualcosa del genere sembra accadere nella politica italiana. I politici sono impegnati nel riproporre dosi più o meno massicce di proporzionale nella legge elettorale. Contemporaneamente, danno a intendere che dalle prossime elezioni possano uscire responsi definitivi, vincitori e vinti, un governo di legislatura. Per questo, fra l'altro, si attardano a parlare di primarie. Ma ha ragione Romano Prodi ( Corriere , 3 settembre) quando, a proposito del Partito democratico, osserva che le primarie hanno senso solo quando, vigente un meccanismo maggioritario, si sceglie il candidato premier, uno che, se vincerà, avrà buone probabilità, salvo incidenti di percorso, di governare per cinque anni. Non hanno senso invece in regime di proporzionale, ove il nome del premier è deciso dai partiti mediante trattative parlamentari.

Non si può prender congedo dal ventennio maggioritario, ritornare alla proporzionale, e poi pretendere che nella legislatura successiva ci sia un governo solo e basta. Quanti governi si succederanno dopo le elezioni del 2013: Due? Tre? Quattro? Si accettano scommesse. Se si affida ai partiti in Parlamento, anziché agli elettori, la formazione del governo, esso sarà poi in balia delle sempre mutevoli combinazioni parlamentari.

Giustamente Francesco Giavazzi (sul Corriere di ieri) auspica che centrosinistra e centrodestra prendano impegni su cosa faranno in seguito. Ma dato il quadro politico che si delinea sarà difficile che i partiti possano rispettarli. Perché le politiche di governo dipenderanno, più che dagli impegni presi con gli elettori, dalle contrattazioni post elettorali. Senza contare che solo chi è sicuro che la propria identità resterà salda nel tempo può assumere un impegno oggi convinto di volerlo rispettare domani. E le identità future degli attori odierni sono incerte.

Non esistono partiti per tutte le stagioni. Il Pd e il Pdl sono figli dell'epoca maggioritaria. È difficile che sopravvivano nella nuova stagione proporzionale. È più plausibile che nel corso della prossima legislatura si assista a scomposizioni e ricomposizioni lungo tutto l'arco parlamentare. C'è, a questo proposito, una certa congruenza fra la rivalutazione (che contraddice le ragioni della nascita del Pd) di Palmiro Togliatti, fatta dall 'Unità , e il ritorno alla proporzionale, preferenze incluse (forse). Si spiega col fatto che le «ragioni sociali» dei partiti del maggioritario sono venute meno.

Il fallimento della stagione maggioritaria, di cui è stato un aspetto essenziale la mancata riforma della Costituzione, ci lascerà con governi ancor più deboli e precari dei precedenti. Ciò fa intravvedere scenari inquietanti. Se l'Unione europea reggerà, se ci saranno passi importanti sulla strada della integrazione politica, l'Italia non avrà governi abbastanza forti per trattare autorevolmente con i partners . Sarà un vaso di coccio e ne faremo tutti le spese.

Se invece l'Europa si sfalderà, peggio ancora: senza leadership di governo forti, legittimate dal consenso popolare, ci ritroveremo presto alla deriva. Per durare nel tempo fronteggiando grandi sfide, di tutto hanno bisogno le democrazie tranne che di una successione di governicchi.

Angelo Panebianco

5 settembre 2012 | 9:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_05/nostalgici-dei-governicchi-panebianco_22310508-f71a-11e1-8ddf-edf80f6347cb.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Settembre 13, 2012, 03:35:34 pm »

LO SGUARDO MIOPE DELL'OCCIDENTE

Il giorno dopo l'11 settembre

Dell'assalto al consolato americano a Bengasi e dell'uccisione dell'ambasciatore Chris Stevens e di altri funzionari si possono dare due interpretazioni. La prima fa riferimento al caos libico. Le elezioni di luglio, con la sconfitta degli islamici estremisti e la vittoria di una coalizione guidata da un filoccidentale (Mahmud Jibril) sono apparse rassicuranti agli osservatori occidentali, ma non hanno nascosto a lungo la realtà: il fatto che la Libia sia tecnicamente un failed State , uno Stato fallito, nel quale non esiste monopolio statale della forza e ove scorrazzano tante milizie armate fuori dal controllo del governo. La tragedia di Bengasi può essere letta, in questa prospettiva, come un episodio circoscritto, causato dalla natura della situazione libica.

Ma c'è anche un'altra interpretazione possibile. È quella che fa dei fatti di Bengasi (come indica la rivendicazione di Al Qaeda) il possibile avvio di una nuova fase della guerra antioccidentale di un estremismo islamico-sunnita uscito rafforzato dalle cosiddette rivoluzioni arabe. Non bisogna dimenticare che le dimostrazioni antiamericane degli estremisti salafiti contro il presunto film blasfemo su Maometto cominciano in Egitto e rimbalzano in Libia qualche ora dopo. In Egitto governano oggi i Fratelli Musulmani ma i salafiti, l'ala più estremista dell'islamismo, ottennero, nelle prime elezioni del post Mubarak, un eccellente risultato elettorale. È una presenza che condiziona, e condizionerà, l'evoluzione politica. È solo ironia della sorte il fatto che si manifesti di nuovo l'ostilità antioccidentale in Paesi in cui, diplomaticamente (Egitto) o militarmente (Libia), l'Occidente si era speso a favore dei rivoluzionari e contro i vecchi dittatori? O è anche il frutto degli errori di lettura delle rivolte arabe dello scorso anno? Si pensi, per esempio, al fatto che gli occidentali non si avvidero che l'abbattimento della torva dittatura di Gheddafi avrebbe spalancato le porte, come è avvenuto, al dilagare dell'estremismo islamico nel Mali e in altre aree adiacenti.

Ma si pensi, soprattutto, al fraintendimento del significato dei processi di democratizzazione che fu proprio di molti media occidentali quando scoppiarono le rivolte in Tunisia e in Egitto. Non si capì che la democratizzazione è un bene ma solo se non prende una piega illiberale. Dal momento che le democrazie illiberali possono essere persino più opprimenti delle dittature per le minoranze interne e, spesso, più pericolose sul piano internazionale. È il dilemma che ha oggi l'Occidente di fronte alla guerra civile siriana. È giusto appoggiare i ribelli ma solo a patto che siano i «ribelli giusti». Altrimenti, si passa dalla padella alle braci, da una dittatura sanguinaria a un regime, magari formalmente più democratico, ma altrettanto sanguinario.

Vuoi in variante realista (i Fratelli Musulmani), vuoi in variante estremista, l'islamismo militante è in ascesa in Medio Oriente. Ne derivano due conseguenze. La prima è che gli Stati Uniti sono chiamati a valutare se le loro scelte strategiche non abbiano un urgente bisogno di revisione (l'uccisione di Stevens fa irrompere la politica estera in una campagna presidenziale che fin qui ha parlato soprattutto d'altro). Nell'undicesimo anniversario dell'11 Settembre gli Stati Uniti devono riconoscere che nemmeno la morte di Bin Laden ha fermato la minaccia. La seconda conseguenza è che l'Europa dovrà prepararsi a fronteggiare gli effetti, anche in casa propria, dell'ascesa islamista. Poiché la sicurezza è altrettanto vitale della difesa dell'euro e della crescita economica.

Angelo Panebianco

13 settembre 2012 | 7:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_13/giorno-dopo-undici-settembre-panebianco_2fcef20a-fd60-11e1-ae02-425b67d1a375.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:30:06 am »

PERSONALISMI E PROGETTI SMARRITI

Il labirinto delle vanità

La discussione, che sarebbe stata altrimenti surreale, su un eventuale Monti bis dopo le prossime elezioni è il frutto della sfiducia degli altri governi e degli investitori internazionali nella capacità futura dell'Italia di perseverare nell'opera di risanamento. Dato il marasma in cui versa il fu-centrodestra non è il ritorno al potere di Berlusconi che si teme (una eventualità nella quale non crede nessuno, nemmeno Berlusconi). Piuttosto, come ha argomentato Antonio Polito ( Corriere , 29 settembre), sono le scelte che farà il probabile vincitore delle elezioni, il Pd, a preoccupare. Per le alleanze politiche (Vendola) e sociali (Cgil) di Bersani, e per la volontà conclamata degli uomini di Bersani di mandare in cavalleria, su punti decisivi, le riforme Monti, dalle pensioni al lavoro.

Ma c'è dell'altro. Del futuro dell'Italia dovrebbero infatti preoccupare, più che i suoi prossimi equilibri politici, i suoi prossimi squilibri. L'esito, di volta in volta, può essere più o meno drammatico, ma sembra che l'Italia pubblica non possa fare a meno, periodicamente, di essere investita da devastanti crisi di legittimità: malversazioni e scandali superano il livello di guardia, la sfiducia dei cittadini nelle classi dirigenti diventa totale o quasi, le istituzioni rappresentative perdono ogni residuo alone di rispettabilità. È accaduto nella fase terminale della democrazia giolittiana e ciò aprì le porte al fascismo. È accaduto, di nuovo, con le inchieste sulla corruzione dei primi anni Novanta che spazzarono via i vecchi partiti (la cosiddetta Prima Repubblica). Sta accadendo, ancora una volta, oggi.

C'è un elemento di somiglianza fra la crisi attuale e quella dei primi anni Novanta. Anche allora il passaggio fu scandito dalla presenza di governi detti tecnici (i governi Amato e Ciampi). Ma a colpire sono le differenze. Due in particolare. La prima è che negli anni Novanta il mondo viveva una fase di espansione economica. Oggi la crisi politico-istituzionale italiana è aggravata dalla contestuale recessione internazionale. Il che rende le prospettive della crisi piuttosto cupe.

La seconda differenza è che nei primi anni Novanta c'era, per lo meno, una idea, una visione, un progetto (chiamatelo come volete) su come uscire dalla crisi. I referendum Segni sul sistema elettorale non erano semplicemente espressione della volontà di cambiare le regole del voto. Contenevano una implicita proposta di ristrutturazione radicale del sistema politico. Se la Prima Repubblica era stata partitocratica (dominata dai partiti) e ciò l'aveva alla fine condotta al fallimento, la Seconda avrebbe dovuto spostare il baricentro dai partiti alle istituzioni rappresentative. Se la Prima Repubblica aveva avuto il suo fulcro nel Parlamento (luogo privilegiato della mediazione partitica), la Seconda avrebbe dovuto rafforzare il ruolo del governo. Se la Prima Repubblica era stata segnata da endemica instabilità governativa, la Seconda avrebbe dovuto avere, come regola, governi di legislatura. Se la Prima Repubblica aveva dilatato l'area della rendita politica (da lì l'esplosione del debito pubblico), la Seconda avrebbe dovuto ridurre quell'area restituendo al mercato e alla società ciò di cui la politica si era impadronita. Si aggiunga che la contestuale emergenza della Lega Nord aveva creato anche una pressione per una ridistribuzione dei poteri, in linea di principio non sbagliata, dal centro alla periferia.

È andato quasi tutto storto. Abbiamo avuto il bipolarismo, un governo di legislatura (il secondo governo Berlusconi), una legislatura interamente guidata dal centrosinistra ('96-2001) e abbiamo spostato alcuni poteri dal centro alla periferia. Ma l'area della rendita politica non si è ridotta, anzi si è dilatata ulteriormente. Inoltre, le riforme istituzionali che avrebbero dovuto stabilizzare il nuovo assetto o non si sono fatte (fallimento della Bicamerale) o sono state insufficienti (elezione diretta dei sindaci e presidenti di Regione). E anche il decentramento dei poteri è stato realizzato senza imporre al ceto politico locale l'onere della responsabilità, di fronte agli elettori, dell'uso del denaro pubblico. Il peso dell'intermediazione politica è cresciuto anziché diminuire.

Possiamo attribuire alla inadeguatezza dei protagonisti, da Berlusconi, con il peso dei suoi interessi, al vasto popolo degli ex (ex democristiani, ex comunisti, ex fascisti) oberati da culture politiche condizionate dal passato, il fallimento di quel progetto. O possiamo (ma, guarda caso, sono quasi sempre i suddetti ex ad abbracciare questa tesi) attribuire il fallimento alla intrinseca debolezza del progetto, alla sua estraneità rispetto alla tradizione italiana. Ma, quale che sia la ragione del fallimento, resta una circostanza. Negli anni Novanta c'era almeno una idea, l'ipotesi di un percorso, per superare la crisi istituzionale. Oggi, a fronte di una nuova crisi istituzionale, non c'è nulla di nulla, non c'è uno straccio di visione, di ipotesi su come uscirne. C'è smarrimento e inerzia. E qualche tentativo, neppure convinto (come mostrano i propositi di riforma elettorale), di ritornare a vecchie formule e abitudini, già esperite e già fallite. La Prima Repubblica era dominata dalla Dc e dal Pci. Forse, non è propriamente un caso se all'attuale, pauroso, vuoto di idee corrisponde il fatto che, governo Monti a parte, diversi capi partito, o i loro uomini di punta, che si affannano intorno alla crisi istituzionale, provengano da quelle esperienze.

Angelo Panebianco

2 ottobre 2012 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_02/labirinto-vanita-panebianco_a0f18f56-0c51-11e2-a61b-cf706c012f27.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Ottobre 09, 2012, 11:06:12 am »

BERSANI, RENZI E IL SILENZIO DI VELTRONI

Primarie vere giochi aperti

Bloccando chi voleva imporre regole per le primarie così penalizzanti per Matteo Renzi da trasformare il sindaco di Firenze in un martire, facendogli in questo modo un grande, involontario favore politico, Pier Luigi Bersani, come tanti osservatori hanno rilevato, ha mostrato intelligenza e fiuto. E si è anche impegnato in una partita - le primarie - che se risultasse per lui un trionfo, lo emanciperebbe dal vecchio gruppo dirigente, gli darebbe una preminenza personale indiscutibile dentro il partito. Adesso è libero di concentrarsi sulla sfida con un avversario pericoloso come Renzi. Un avversario che difficilmente potrà vincere ma che potrebbe comunque imporre una forte ipoteca sul partito, condizionarne futuri equilibri e azioni.

Gli osservatori pro Bersani dicono che Renzi sia solo un abile propagandista di se stesso e che il suo «programma» non vada al di là della proposta della rottamazione: una sfida generazionale senza contenuti. Ciò è vero ma non del tutto. Ci sono comunque accenni di programma nella campagna di Renzi ed hanno diversi punti di contatto con quel discorso del Lingotto con cui Walter Veltroni, nel 2007, avviò la navigazione del Partito democratico. Chi ricorda quel (notevole) discorso sa che Veltroni vi delineava il progetto di un forte rinnovamento, di una significativa discontinuità, rispetto alla tradizione della sinistra italiana. Poi, come spesso succede nelle cose di questo mondo, quella visione innovativa si scontrò con la dura realtà quotidiana della politica, e si perse per strada. Bersani è l'opposto del Veltroni del Lingotto: uno che non predica discontinuità ma che propone piuttosto l'adattamento della tradizione alle circostanze presenti.

Date certe affinità, che esistono, c'è da chiedersi come mai Veltroni non abbia appoggiato Renzi. A maggior ragione, se si tiene conto della distanza che lo separa da Bersani, per tacere di D'Alema. Se lo avesse fatto, probabilmente, le chance di vittoria di Renzi nelle prossime primarie sarebbero cresciute. Si può azzardare una ipotesi: Veltroni non ha appoggiato Renzi perché, comprensibilmente, non ha voglia di fare la fine che fece il socialista Giacomo Mancini all'epoca del Midas (1976), quando l'emergente Bettino Craxi sbaragliò la vecchia oligarchia (dei De Martino, Lombardi, eccetera). In quel frangente, fu Mancini il king maker , colui che favorì la vittoria dell'emergente. Ma, dopo un breve lasso di tempo, venne egli stesso emarginato dalla nuova dirigenza del Psi.

Se Renzi perde «bene», se Bersani vince ma solo di misura, allora la navigazione per il suo partito, dato per favorito alle prossime elezioni, diventerà ancor più perigliosa di quanto già non sia. Perché un Renzi forte non può non accentuare le difficoltà di quel partito nel predisporre una plausibile agenda di governo. L'eredità del governo Monti diventerà un peso del quale, per il Pd, non sarà facile sbarazzarsi. Un Renzi forte creerà problemi al segretario, e potenziale premier, Bersani su tutti i fronti. All'interno del partito, per la distanza che c'è fra Renzi e l'entourage del segretario. Nei rapporti con l'alleato Vendola, perché questi vuole azzerare scelte del governo Monti che Renzi difende strenuamente. E nei rapporti con la Cgil, per la stessa ragione.

Queste sono le prime «vere», competitive, primarie nazionali del Partito democratico (in precedenza, ci si era limitati a fare plebiscitare un leader già deciso dal gruppo dirigente). Proprio perché sono vere lasceranno un forte segno.

Angelo Panebianco

8 ottobre 2012 | 9:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_08/primarie-vere-giochi-aperti-angelo-panebianco_b8467240-1109-11e2-b61f-b7b290547c92.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Ottobre 22, 2012, 04:45:40 pm »

LA DEMOCRAZIA DELL'EMERGENZA

La normalità è una chimera

Assumiamo che Pier Luigi Bersani non riesca a vincere le primarie del Pd al primo turno. Di fronte a tale eventualità, Bersani dovrebbe cominciare a preoccuparsi un po' meno dei voti che raccoglierà Matteo Renzi al primo turno e molto di più di quelli che si concentreranno su Nichi Vendola. Perché se Vendola otterrà un buon successo, una percentuale ragguardevole di voti al primo turno, allora sì che saranno guai per il Pd. Al secondo turno, nel ballottaggio fra Bersani e Renzi, i voti di Vendola rifluirebbero su Bersani e, se risultassero decisivi per la sua affermazione, il messaggio che verrebbe inviato urbi et orbi sarebbe inequivocabile: il Pd, dopo tanto peregrinare, è tornato alle origini, è di nuovo un partito di sinistra-sinistra grazie anche alla iniezione di anticapitalismo vendoliano.

Il (fragile) equilibrio che Bersani ha fin qui tentato di mantenere fra le diverse istanze del partito si spezzerebbe.

Il rischio di fare la fine della gloriosa macchina da guerra di occhettiana memoria diventerebbe forte. Anche a dispetto dello stato di marasma in cui versa oggi il centrodestra. D'altra parte, ci sono già segnali in quella direzione, dal crescente distacco dalle politiche del governo Monti (in coincidenza con la radicalizzazione della Cgil) alle battute, infelici ma rivelatrici, sul mondo della finanza. Difficilmente, un Pd così spostato a sinistra potrebbe ottenere i numeri per governare. Se, per ventura, e a dispetto dei santi, li ottenesse, si troverebbe comunque a fare i conti con l'allergia di una parte ampia del Paese che chiede sviluppo e non ideologia, con il giudizio negativo dei mercati, con i sospetti dell'Europa a guida tedesca. Giusto o sbagliato, c'è comunque un prezzo da pagare per fare parte del più ampio sistema europeo.

Il problema del Pd (che, peraltro, grazie alla sfida di Renzi, sembra al momento l'unico partito tradizionale con un po' di vitalità) rispecchia il più generale problema della democrazia italiana in questo frangente. Una democrazia può benissimo, per fronteggiare situazioni di emergenza, adottare soluzioni eterodosse. Il governo detto tecnico è stato appunto una di queste soluzioni. Ma molto presto si dovrà tornare alla normalità, a governi fondati sulla legittimazione elettorale. Se non che, a pochi mesi dalle elezioni, le forze politiche che avrebbero dovuto preparare il Paese a questo rientro nella normalità non l'hanno fatto. Non sono state ancora capaci di fare una buona legge elettorale tale da favorire condizioni di governabilità. Così come non sono state capaci, nonostante scandali e discredito, di riformare radicalmente i meccanismi di finanziamento della politica.

Normalmente, nelle fasi di crisi, sono gli elettori a sciogliere, con le loro scelte, i nodi più intricati. Ma possono farlo solo se vengono messi di fronte ad alternative chiare.

Occorre che l'offerta politica sia congegnata in modo da consentirlo. Ciò che spaventa tutti, in Italia e fuori, è che, al momento delle elezioni, l'offerta politica risulti così destrutturata, così slabbrata, da non permettere la formazione di governi stabili. È comprensibile che i politici si preoccupino più del proprio destino che di quello che potremmo chiamare il «disegno più ampio». Ma ci sono anche momenti in cui la stessa sopravvivenza a breve termine del politico dipende dalla sua capacità di guardare lontano. Il problema è che c'è ormai poco tempo per ridare funzionalità, attraverso una chiara ristrutturazione dell'offerta politica, a una democrazia che sappia fare i conti con vincoli esterni sempre più stringenti.

Angelo Panebianco

22 ottobre 2012 | 9:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_22/normalita-chimera-panebianco_4d760a46-1c0a-11e2-b6da-b1ba2a76be41.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Ottobre 27, 2012, 06:07:09 pm »

IL BLOCCO DEGLI INTERESSI CONSOLIDATI

Vacui riformatori veri resistenti


Sarebbe, in un certo senso, rassicurante attribuire le crescenti difficoltà parlamentari del governo Monti — dalla bocciatura dei tagli nella sanità allo stop sui tagli alle spese delle Regioni — solo alle fibrillazioni della campagna elettorale. Si potrebbe infatti dedurne che, se non fosse per la vicinanza delle elezioni, ci sarebbe più spazio per incidere sulla spesa e le sue disfunzioni. Ma non è così. Perché non sono solo i partiti ma un intero, variegato ma potentissimo, «blocco politico- amministrativo-giudiziario » a mettersi di traverso non appena si cerca di incidere (anche solo blandamente, come ha fatto fin qui, per lo più, il governo Monti) i bubboni del nostro sistema pubblico. Si pensi alle recenti sentenze della Corte costituzionale: dalla bocciatura dei tagli agli stipendi di magistrati e alti funzionari fino al «no» a un modesto provvedimento che mirava a ridurre i tempi della giustizia civile.

Il premier Monti ha detto che l’Italia non ha bisogno di moderazione ma di «riforme radicali». Se non che, quel blocco politico- amministrativo-giudiziario di cui sopra è in grado di sabotare (con i più vari strumenti) persino le riforme blande. Figurarsi che cosa riuscirebbe a fare se qualche aspirante suicida politico si mettesse davvero in testa di fare tutte le «riforme radicali» che sarebbero necessarie: ne sa qualcosa il ministro Fornero che di riforme radicali, sfruttando la condizione di emergenza in cui si trovava l’Italia, è riuscita a farne almeno una, quella delle pensioni, e ha potuto constatare di persona quanto potente sia stato, e sia tuttora, il contrattacco. Per riforme radicali si devono intendere, logicamente, quelle capaci di modificare in profondità lo status quo. In Italia, significherebbe incidere sul sistema pubblico, ridurne il peso sulla società e, insieme, costringerlo a una maggiore efficienza, passare da un sistema pubblico grasso e inefficiente a uno magro e efficiente. Chi può avere la forza per fare una rivoluzione di questa portata? La resistenza degli interessi consolidati è tale che fare quella rivoluzione richiederebbe un «centro» (un governo), non forte ma fortissimo, così forte da piegare e sconfiggere gli innumerevoli poteri di veto che stanno a difesa di quegli interessi consolidati.

Si consideri che i tanti cani da guardia che proteggono il sistema pubblico così come è vivono, per lo più, in un mondo tutto loro. Sono autarchici, se non autistici. Nulla può a loro importare degli stringenti vincoli europei o del fatto che, Europa o non Europa, se non si abbassano le tasse tagliando la spesa pubblica, non c’è possibilità di rilanciare la crescita, non c’è altro destino possibile se non il declino e l’impoverimento collettivo. La sola cosa che conta per quei cani da guardia è fare blocco intorno a supposti diritti acquisiti e a interessi consolidati, della più varia e diversa natura, ma tutti alimentati e garantiti attraverso la spesa pubblica. Non in tutte le democrazie ci sono poteri di veto così forti, ramificati e diffusi. Scontiamo in tutta la sua drammatica ampiezza il danno dovuto a un grande fallimento. Il fallimento di quella riforma costituzionale— di cui si parla inutilmente dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo — che, dando più forza istituzionale al governo, avrebbe dovuto, e potuto, spuntare le unghie dei troppi cani da guardia.

ANGELO PANEBIANCO

27 ottobre 2012 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_27/vacui-riformatori-veri-resistenti-panebianco_1a405830-1ff6-11e2-9aa4-ea03c1b31ec9.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Novembre 11, 2012, 04:03:10 pm »

INTERESSI VERI E TIFO PER OBAMA

L'infantilismo degli europei

C'è qualcosa che non va nel modo in cui tanti europei seguono gli eventi, si tratti delle elezioni americane o del Congresso del Partito comunista cinese, che condizioneranno le nostre sorti. Non solo il grande pubblico ma anche la ristretta opinione pubblica più attenta alle notizie, e con più mezzi per decifrarle, oscilla spesso fra il tifo insufficientemente motivato, o mal motivato, e l'indifferenza. Questi atteggiamenti verso ciò che di rilevante accade nel resto del mondo fanno dubitare che l'Europa possa diventare, in un prossimo futuro, qualcosa di diverso da ciò che è: un aggregato di governi e società tenuti insieme dalla convenienza ma senza un senso di comune appartenenza, senza volontà o possibilità di diventare una comunità politica.

Prendiamo il caso delle elezioni americane. L'Europa tifava Obama. Bene. Ma perché? Con quali motivazioni? Che tifassero Obama i governi è comprensibile. Meglio avere a che fare con un'amministrazione già sperimentata, di cui si conoscono pregi e difetti, con cui c'è consuetudine. Ed è, in particolare, comprensibile che tifasse Obama il governo italiano. Anche per l'ottimo rapporto personale fra Monti e il presidente. Ma soprattutto perché Obama è nostro alleato nel contrasto alle rigidità tedesche.

Governi a parte, perché gli europei tifavano per il presidente uscente? Per un insieme di motivazioni, dicono i sondaggi. Perché non apprezzavano il miliardario Romney (troppi soldi), perché Obama, anche se ha perso smalto, è l'anti Bush, uno che esce dalle guerre anziché entrarci (e che importa se, uscendone, può provocare altrettanti guai di chi ci entra), perché Obama è il campione delle minoranze, dell'America multiculturale (e ciò è popolare in Europa) e del politicamente corretto, perché, sui temi etici caldi, sembra più vicino all'Europa secolarizzata che all'America religiosa.

C'è, come si vede, qualcosa di impolitico nel modo in cui tanti europei tifavano Obama: si trattava di un giudizio che prescindeva da considerazioni sui possibili effetti sull'Europa di una vittoria dell'uno o dell'altro candidato.

Naturalmente, è vero che Romney era un candidato debole e nemmeno lui molto attraente dal punto di vista europeo. Non per le sue ricette economiche, forse migliori di quelle di Obama (come, ad esempio, in Italia ha bene argomentato Luigi Zingales sul Sole 24 Ore, 8 novembre), ricette che avrebbero potuto favorire una ripresa più forte dell'economia americana di quella che favorirà Obama, con ricadute positive anche per noi. Non era attraente per l'Europa perché pur essendo un repubblicano moderato era tuttavia condizionato da correnti del suo partito di ispirazione isolazionista, poco orientate a coltivare i legami transatlantici. Ma questa, che sarebbe un'ottima ragione politica, non figurava fra le motivazioni del tifo europeo per Obama. E sarebbe stato sorprendente il contrario, visto che Obama, nei suoi anni di governo, ha dato segnali di un interesse altrettanto scarso di quello di Romney per i legami transatlantici.

È un punto sul quale non bisogna, come alcuni fanno, confondere le acque. Certo che Obama è stato, e sarà ancora, presente in Europa per sollecitare misure che evitino la crisi dell'euro: se va in malora l'euro va in malora anche la sua economia. Ma ciò ha a che fare con necessità connesse all'interdipendenza economico-finanziaria globale. Non ha a che fare con le scelte culturali, politiche e strategiche collegate a ciò che un tempo chiamavamo atlantismo: un rapporto di alleanza sia pure asimmetrica, e di solidarietà, politica e militare, oltre che economica, fra democrazie, fra America e Europa.

E se questa considerazione appare a qualcuno astratta, o ideologica, o nostalgica, si consideri qualche concretissimo esempio. L'area esterna che più può influire negativamente sul futuro dell'Europa è il cosiddetto «Grande Medio Oriente», da dove si irradiano le infezioni connesse all'estremismo islamico, dal quale hanno origine robuste correnti migratorie verso l'Europa e dove sono ubicate risorse energetiche vitali. Ebbene, nel Grande Medio Oriente, Obama (uccisione di Bin Laden a parte) ha fin qui collezionato una impressionante serie di insuccessi. In parte dovuti alla obiettiva difficoltà delle situazioni ma in parte anche al suo fallimentare approccio. Con l'annunciato ritiro ha posto le premesse per la sconfitta occidentale in Afghanistan. Con le sue indecisioni a fronte della mezzaluna sciita (Iran, Siria, Iraq) ha disorientato i tradizionali alleati, dagli israeliani ai sauditi. Ha poi mostrato di non avere alcuna strategia di fronte ai movimenti islamisti (sunniti) già al potere in alcuni Paesi o sul punto di afferrarlo in altri.

Il suo approccio è insicuro e incoerente anche per il fatto che il «jeffersonismo» che lo ispira (come Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori, Obama pensa che l'America debba coltivare la democrazia a casa propria e gli altri si arrangino) ha conseguenze negative per la politica estera americana in Medio Oriente e, in prospettiva, crea problemi anche all'Europa. Per esempio, dato l'agnosticismo dell'Amministrazione in materia di politiche di sostegno alla democrazia, è da dubitare che l'America sfrutterà gli aiuti all'Egitto come arma di pressione per impedire ai Fratelli Musulmani e ai salafiti di imporre la sharia , la legge islamica. Col rischio di fare dell'Egitto, con o senza elezioni, una dittatura islamica. E con gravissimo danno per le relazioni mediorientali.

È giusto tentare di dialogare con chiunque, fosse pure il Diavolo. Ma senza perdere di vista che il dialogo, in tal caso, ha di rado esiti fruttuosi. Se è vero quanto alcuni prospettano, ossia che l'America del secondo Obama, preso atto degli insuccessi, sposterà ancor di più il suo baricentro geopolitico verso il Pacifico, lasciando a un'Europa che non è in grado di farlo di gestire il grosso dei dossier mediorientali (quello iraniano e pochi altri a parte), allora forse i guai sono solo all'inizio. E non rassicura il fatto che Hillary Clinton, forse la più legata alla vecchia scuola fra i responsabili della politica estera, lasci ora il Dipartimento di Stato. Agli europei converrebbe liberarsi di un certo infantilismo, cominciare a pensare politicamente, quando giudicano cosa accade in terra americana come nelle altre terre che contano.

Angelo Panebianco

11 novembre 2012 | 8:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_11/infantilismo-degli-europei-panebianco_f9e8b8b4-2bd2-11e2-a3f0-bca5bc7cc62d.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Novembre 18, 2012, 03:17:16 pm »

ILNUOVO POLO CATTOLICO-LIBERALE

Le ambizioni dei moderati

Se diamo retta alla fotografia degli umori del Paese che oggi ci consegnano i sondaggi, alle prossime elezioni due forze politiche potrebbero riscuotere più consensi delle altre: l’alleanza Bersani- Vendola e il movimento Cinque Stelle. E poiché entrambe queste forze, sempre stando ai sondaggi che circolano, resterebbero al di sotto del trenta per cento dei suffragi, tutti coloro che non si riconoscono in nessuna delle due sarebbero drammaticamente sottorappresentati, consegnandosi all’astensione (che si prevede alta) o alla dispersione fra i tanti rivoli e frammenti in cui potrebbe sciogliersi il centrodestra berlusconiano.

Davvero rischiamo di consegnare l’Italia a un «bipolarismo » Bersani-Grillo, con, in più, la drastica sottorappresentazione della maggioranza degli elettori? Dipenderà da ciò che accadrà «a destra» di Bersani, in quelle vaste praterie elettorali un tempo monopolizzate da Berlusconi. Riuscirà Angelino Alfano a limitare le perdite, e a tenere unito il suo gregge, garantendo così un futuro all’attuale Pdl? E quali caratteri avranno le nuove offerte politiche che emergeranno nel tentativo di sfondare nelle suddette vaste praterie? Non ancora una compiuta risposta ma, per lo meno, una seria indicazione potrebbe venire dall’appuntamento pubblico che oggi a Roma terrà a battesimo una nuova forza politica, voluta da Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo, dal ministro Andrea Riccardi e da altri, e che parte già potendo contare sull’appoggio della Cisl, delle Acli, e di diverse associazioni sia laiche che cattoliche.

Il futuro di una nuova forza politica è sempre dettato da due fattori, uno «soggettivo » e uno «oggettivo». Conta ciò che quella forza decide di essere, l’identità che sceglie di darsi. E contano le condizioni esterne che ne influenzeranno il percorso. Insomma, conta sia ciò che quella forza politica «vuole» essere (la sua carta d’identità) sia ciò che essa «può» essere (e che dipende da opportunità e vincoli imposti dalle circostanze). L’identità di un nuovo movimento politico è definita dalla proposta che esso indirizza al Paese. Nessun movimento allo stato nascente può avere successo se la sua proposta e, di conseguenza, la sua identità, non sono chiare, comprensibili, definite. Quale sarà la proposta della forza politica che nasce oggi a Roma? Nell’attesa dei futuri sviluppi, si può solo ragionare sui pochi elementi in nostro possesso. Sappiamo che il nuovo movimento si presenterà come alfiere di un definitivo superamento della (cosiddetta) Seconda Repubblica, come punto di riferimento per chi cerca una via d’uscita dopo l’esaurimento della stagione berlusconiana. Ma ciò è troppo poco o troppo generico per configurare una proposta. Possiamo anche, conoscendo la qualità di alcune delle persone impegnate, in posizioni di rilievo, nel movimento (gli economisti Nicola Rossi e Irene Tinagli e altri), scommettere sul fatto che da esso usciranno «proposte » (al plurale), su economia, istruzione, eccetera, di sicuro interesse e di altrettanto sicura serietà.

Ma la proposta (questa volta al singolare) che il movimento farà al Paese quale sarà? Da ciò che si capisce, sarà soprattutto la rivendicazione di una continuità con l’opera del governo Monti. Però, va notato che questa enfasi sulla continuità con il governo in carica può comportare sia vantaggi che svantaggi: poiché il governo Monti è stato ed è diverse cose, alcune luminose (il rigore sui conti) e altre meno (tante tasse e pochi tagli, niente liberalizzazioni, niente riforma dell’amministrazione). Rivendicare la continuità con Monti se non si distingue fra ciò che va e ciò che non va conservato, rischia di annacquare la proposta, di renderla ambigua, non incisiva. Vedremo come il neonato movimento scioglierà questo nodo. Specialmente sul versante liberale, dopo le tensioni, e forse il divorzio, da Oscar Giannino ed Emma Marcegaglia.

Oltre alle scelte che il nuovo movimento farà, conteranno le circostanze. Anche a dispetto della volontà dei suoi proponenti esso potrebbe domani ritrovarsi ad essere nient’altro che un rassemblement neocentrista, alla ricerca continua di alleanze a destra e a manca. Per effetto della dissoluzione del vecchio bipolarismo destra/sinistra e del ritorno alla proporzionale. Con due conseguenze. La prima sarebbe quella di ritrovarsi nello stesso spazio occupato (ma, nel suo caso, si tratta di esplicita volontà) da Pier Ferdinando Casini. La seconda sarebbe quella, al di là delle migliori intenzioni, di rendere la propria proposta vacua e debole. Poiché è nella natura dei rassemblement neocentristi di non potersi permettere un profilo programmatico netto, dovendo essi barcamenarsi, a seconda dei numeri parlamentari, fra sinistra e destra. È evidente che, in questo caso, con una proposta debole, sarebbe difficile intercettare quell’elettorato ex berlusconiano oggi tentato più dall’astensione che dal voto. Anche per questa ragione il nuovo movimento dovrà assumere posizioni nette sulle questioni costituzionali ed elettorali. Quale assetto istituzionale caldeggerà (proporzionale o maggioritario? Parlamentare o presidenziale?)? Sarà difficile eludere il tema.La disgregazione del centrodestra apre grandi spazi. La conquista di quell’area richiede fortuna ma anche virtù: ambizione, coraggio, e scelte nette.

Angelo Panebianco

17 novembre 2012 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_17/panebianco-le-ambizioni-dei-moderati_db6e59ca-307d-11e2-baec-20f01743e162.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Dicembre 02, 2012, 05:38:26 pm »

EFFETTI COLLATERALI DI UNA SFIDA

Un referendum sulla sinistra


È stato detto, ed è vero, che, chiunque vinca le primarie, il Partito democratico sarà in futuro diverso da ciò che è stato.
La sfida di Renzi lo ha già cambiato.

Queste primarie non sono state solo uno strumento per la scelta del candidato premier. Sono state anche un referendum sul significato da dare alla parola «sinistra». Hanno assunto, grazie a Renzi, una forte valenza culturale, hanno investito i temi della tradizione e della identità.

Sinistra, in Italia, è un termine che ha sempre avuto un significato diverso da quello che ha nei Paesi che non hanno conosciuto la presenza - per quasi mezzo secolo di vita democratica - di un grande partito comunista, radicato in tanti gangli vitali della società: un partito che, grazie anche al suo rapporto quasi monopolistico con i ceti intellettuali, era il solo legittimo giudice di cosa fosse o non fosse «sinistra». Al punto che persino Bettino Craxi, uomo del socialismo autonomista, privo di complessi di inferiorità nei confronti dei comunisti, poteva essere tranquillamente dipinto come uomo di destra. «Sinistra» erano il Pci e ciò che si muoveva nella sua orbita, ivi comprese quelle forze (una parte del Psi pre Craxi, la sinistra democristiana) sue sodali o che mostravano sudditanza, culturale e psicologica, nei suoi confronti. «Sinistra» erano le interpretazioni del mondo, del passato e del presente, e di ciò che era giusto o sbagliato, che si producevano entro quei confini politici.

Crollato il Muro di Berlino, il Pci, ufficialmente, morì. Iniziò la fase post comunista. Ma la storia non fa salti. Dentro il «post» c'era tanta continuità. Sotto le nuove spoglie sopravviveva molto della vecchia organizzazione - con le sue regole, i suoi riti, le sue gerarchie, e le sue tesorerie - e anche del vecchio universo simbolico (come mostra il mantenimento delle antiche denominazioni: Unità , Festival dell'Unità, Istituti Gramsci, eccetera). E, naturalmente, venne preservato, sotto quell'ombrello, il grosso dei corposi interessi (sindacali e non solo) che facevano capo al vecchio Pci. Era inevitabile, dato che il cerchio dirigente e i quadri venivano da quella esperienza. Chi non era di quelle parti poteva facilmente accorgersi di queste continuità andando in giro, e annusando l'aria, nelle regioni rosse.

Il Partito democratico nacque mettendo insieme vecchi amici: ciò che restava del post comunismo e dell'antica sinistra democristiana. Bisogna riconoscere a Walter Veltroni, il primo segretario del Pd, il merito di avere tentato di creare, almeno entro certi limiti, qualcosa di nuovo (del resto, era il solo che potesse permetterselo proprio perché veniva dalla tradizione comunista) ma l'operazione, difficile e forse impossibile, fallì.

Data la storia pregressa, sono in buona fede quei sostenitori di Bersani che avversano Renzi perché lo giudicano «di destra». È effettivamente la prima volta che, all'interno di quel mondo, la tradizione post comunista subisce una sfida così dura da parte del rappresentante di una sinistra che non fa riverenze a quella tradizione e intende sbarazzarsene.

Come mostra il fatto (lo ha osservato Pierluigi Battista sul Corriere del 29 novembre), che non c'è alcun tema programmatico - si tratti di welfare, scuola, lavoro, politica estera o altro - su cui Renzi non si sia contrapposto alla linea della continuità incarnata da Bersani.

La vera sorpresa, ciò che nessuno si aspettava, è che proprio all'interno del popolo della sinistra (e nelle regioni rosse), fossero ormai così tanti quelli disposti a votare «sì» al referendum indetto da Renzi: «Vuoi tu abbandonare la tradizione e ridefinire l'identità della sinistra?». Che si tratti di una sfida, nonostante i bisbigli contrari, tutta giocata a sinistra è certo. Le rilevazioni fatte all'uscita dai seggi del primo turno hanno confermato ciò che si intuiva, ossia che, tra i votanti, la percentuale di ex elettori del centrodestra è stata bassa. Come era logico che fosse. Un ex elettore della destra potrebbe anche votare Renzi alle elezioni politiche (dato il marasma in cui versa il centrodestra) ma difficilmente potrebbe iscriversi alle primarie del, da lui detestato, centrosinistra. Senza contare che gli elettori di destra hanno scarsa propensione per forme di partecipazione diverse dal voto in regolari elezioni.

Se, come appare probabile, vincerà Bersani, la tradizione verrà conservata. Ma con qualche rilevante novità. Bersani, premiato per il coraggio che ha avuto mettendosi in gioco (anche se non ne ha avuto abbastanza da varare regole per le primarie un po' più liberali), regolerà molti conti con la vecchia oligarchia e promuoverà uomini e donne giovani che, tuttavia, saranno figli e figlie della tradizione di cui egli è il garante. Però, il consenso che Renzi ha saputo raccogliere a sinistra non potrà restare senza effetti. Bersani, che è un abile politico, si troverà di fronte al difficile compito di dare qualche risposta anche alle domande di chi non si riconosce più in una tradizione che giudica ammuffita.

L'errore che Bersani potrebbe commettere sarebbe quello di credere che basti vincere le prossime elezioni perché tutto, in qualche modo, si aggiusti. A leggere i segnali di queste primarie si arriva alla conclusione che non sarà così.

ANGELO PANEBIANCO

2 dicembre 2012 | 9:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_02/un-referendum-sulla-sinistra-panebianco_74e21412-3c53-11e2-bc71-193664141fb2.shtml
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