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« Risposta #90 inserito:: Agosto 16, 2012, 07:12:23 pm » |
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L'EMERGENZA DAL NILO AL GANGE Il mal d'acqua del mondo Almeno di Ferragosto, niente politica. Ci sono cose più serie da considerare. La Terra brucia in una sempre più lunga sequela di estati, oppure si congela in inverni gelidi come non mai. I tranquillisti di professione (o anche a pagamento) obbiettano che la terra ha sempre subito cicli di raffreddamento e poi di riscaldamento. Sì, ma cicli di secoli, di millenni, o anche di milioni di anni; mai di decenni. Quando ero ragazzo esistevano le stagioni, e il caldo cominciava di regola a metà luglio. Quest'anno a metà giugno era già molto caldo e da luglio siamo stati quasi arrostiti. Di pari passo, quando non occorreva, specie di inverno, siamo stati ripetutamente alluvionati, dopodiché le piogge non si sono quasi più fatte vedere. Vedi, appunto, la siccità che affligge la Pianura Padana, ma che affligge anche gli Stati Uniti, che hanno registrato il luglio più caldo della loro storia, la Russia e tanti altri Paesi ancora, mentre nel contempo in Ucraina piove a dirotto. Potrei continuare a elencare. Ma oramai tutti concedono che il clima è impazzito. Prima si diceva che il clima era «pazzo» a marzo; ora è pazzo tutto l'anno. E oramai quasi tutti convengono che la colpa è del riscaldamento della Terra prodotto dai «gas serra» a sua volta prodotti dall'uomo, o meglio dai troppi, troppissimi uomini (siamo già a 7 miliardi, si prevedeva che arriveremo a 9 miliardi, ma ora si parla addirittura di 10. Poveri noi!). Presto mancherà sempre più quasi tutto (nonostante i miracoli tecnologici che escogitiamo, visto che vengono subito annullati dalla crescita demografica). Ma veniamo al tema che mi sono assegnato. In parte perché verte sul disastro che ritengo più imminente e in parte perché stimolato dal recente editoriale (più articolo di domenica) di Massimo Gaggi su La Battaglia dell'Acqua , che ha poi ottenuto il placet di Formigoni. L'acqua, dichiara il nostro governatore, «sarà il tema centrale dell'Expo Milanese del 2015». Per allora - rassicuro i lettori - l'acqua ci sarà ancora (il rischio è semmai che non ci sia l'Expo), ma temo che ce ne sarà sempre meno non solo per via del numero crescente degli assetati ma ancor più perché non si sa quando e dove arrivi. L'acqua serve per bere, ma anche per mangiare, e cioè per l'agricoltura. E qui il caso più grave è quello dei monsoni dai quali dipende la vita o la morte (esagero un po', ma non esageratamente) di qualcosa come 600 milioni di contadini indiani, più o meno la metà della popolazione complessiva del Paese. Sì, l'India ha un grande fiume, il Gange, che però è oramai ridotto allo stremo, e che purtroppo attraversa a monte il Pakistan, un nemico giurato (musulmano) che ne può aumentare a piacimento i prelievi. Pertanto l'acqua che salva l'agricoltura indiana è quella dei monsoni: pesanti piogge estive portate dal vento di Sud-Ovest che ogni anno cominciava a soffiare all'inizio di giugno. Ora non si sa più. Il monsone del 2012 al suo esordio ha lasciato il Nord-Ovest dell'India all'asciutto mentre ha alluvionato il Nord-Est. Per di più, o per di peggio, in varie zone le precipitazioni si sono dimezzate. E non occorre spiegare che se i monsoni impazzissero l'India sarebbe in ginocchio e potrebbe dover piangere montagne di morti. Un altro caso molto serio e che ci tocca da vicino è quello del Nilo, il fiume più lungo del mondo (se si sommano Nilo Bianco e Nilo Azzurro). La sorgente principale del Nilo è il lago Vittoria che è sì un lago immenso ma poco profondo (80 metri massimo), e che si sta non solo restringendo (il livello dell'acqua è sceso di due metri negli ultimi anni) ma che sta anche morendo perché invaso da alghe giganti che lo imputridiscono. A suo tempo le potenze coloniali spartirono le acque del Nilo (che per l'Egitto sono questione di vita o di morte per oramai 83 milioni di abitanti) tra Egitto (con il 90%) e il Sudan. Ma ora esistono altri cinque Stati - tra i quali Tanzania, Uganda e Kenya - che vantano diritti sulle acque del fiume e che si trovano a monte degli altri due. Guerra imminente per le acque del Nilo? È possibile; ma certo non risolverà il problema perché acqua per tutti già non c'è. Torniamo a casa, al Po. Purtroppo il Po è alimentato da ghiacciai che si stanno sciogliendo più rapidamente di altri. Quasi ogni anno lo vediamo man mano ridotto a un rigagnolo, o poco più. Occorre d'urgenza modificare le colture che dipendono dal bacino del Po, escludendo quelle che «bevono» più acqua. Se davvero Expo 2015 ci sarà, e se sarà davvero sull'acqua, fossi Formigoni (o chi per lui) manderei al più presto un gruppo di esperti in Israele per studiare l'irrigazione a gocce e verificare come gli israeliani siano riusciti, quasi senza acqua, a trasformare una sassaia desertica, quantomeno nel Nord del Paese, in una rigogliosa agricoltura. Acqua di falda, nella Pianura Padana, ancora ce n'è. Non aspettiamo che si prosciughi. Per una volta il mio pezzo di Ferragosto è (localmente) speranzoso. Giovanni Sartori 15 agosto 2012 | 10:16 da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_15/il-mal-d-acqua-del-mondo-giovanni-sartori_ab7036f4-e69e-11e1-aa6d-129c31caec0a.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Settembre 11, 2012, 10:08:12 pm » |
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IL VOTO NEI SISTEMI PARLAMENTARI IL GROVIGLIO ELETTORALE Un Paese democratico funziona anche perché si è data una buona legge elettorale, una legge che a sua volta produce un sistema politico che funziona. Noi siamo decollati, nel 1948, da un normale sistema proporzionale che era esposto a due rischi: approdare a un eccesso di frammentazione (troppi partiti), e anche a troppe crisi di governo (troppi governi troppo brevi: «governicchi», secondo Panebianco). Ma la presenza del Partito comunista moderò questi difetti. Il voto si concentrò sulla Dc, e i cosiddetti governicchi duravano sì poco, ma per trent'anni furono sempre nelle mani delle stesse persone, come prestabilito dal ben noto «manuale Cencelli», che curava la rotazione delle cariche interne della Dc. I nostri problemi cominciano, paradossalmente, con la fine del comunismo. A quel momento per bloccare la frammentazione sarebbe probabilmente bastata una «soglia di esclusione» del 5%, come insegnava l'esperienza tedesca, che in Germania ha anche prodotto la longevità dei governi. Invece abbiamo inventato il Mattarellum, un sistema per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale. Io mi opposi (si capisce, inutilmente) sin dal primo giorno osservando che il sistema maggioritario avrebbe attribuito, in Italia, un fortissimo potere di ricatto ai partitini, e che quindi avrebbe prodotto una dannosa frammentazione del sistema partitico. Difatti è stato così. Ed era facile, volendo, rimediare. Ma stavano emergendo due nuove «stelle», due imprevisti, che dovevano, per emergere, sparigliare le carte: Berlusconi e Prodi. La differenza tra i due è che quando Berlusconi si fece avanti nel 1993 aveva già alle spalle una sua televisione a diffusione nazionale (anche con personale dal quale reclutare), mentre Prodi aveva alle spalle un brillante curricolo, a partire dalla presidenza dell'Iri e poi la presidenza della Commissione europea a Bruxelles, ma nessun partito. E così inventò (o lui, o Parisi, o insieme) una strana «primaria» che non era certo il meccanismo inventato dagli americani ma piuttosto uno strumento plebiscitario che stabilì con 4 milioni e passa di votanti che il leader della sinistra era lui. Bravissimo. Ma bravissimo per sé. Come è rivelato dalla intervista di Prodi al Corriere del 3 settembre scorso che merita citare: «A che servirebbe - si chiede - chiamare il popolo di centrosinistra a scegliere il candidato premier se poi la formula di governo, come avviene con la proporzionale, viene delegata alla trattativa tra le forze politiche e solo dopo le elezioni?». Ma qui si svela che Prodi di costituzionalismo sa poco o anche punto. Il nostro sistema politico è, piaccia o non piaccia, un sistema parlamentare. E finché lo è, è normale che i governi vengano decisi dopo le elezioni, e visti i risultati delle elezioni. Il nome del candidato premier stampato sulla scheda di voto fu un colpo di mano inspiegabilmente avallato dal presidente Ciampi. Infatti quel nome sulla scheda ha consentito al vincitore di dichiararsi eletto direttamente da una maggioranza del popolo (il che non è provato), e perciò stesso di ritenersi inamovibile. Se così, il sistema parlamentare viene snaturato in un sistema pseudo-presidenziale, che è poi un bastardo costituzionale. Almeno questa stortura spero che ci sarà evitata. Ma è ancora tutto in ballo. GIOVANNI SARTORI 11 settembre 2012 | 8:32© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_11/il-groviglio-elettorale-giovanni-sartori_49760dbc-fbce-11e1-8357-ee5f88952ff6.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Settembre 17, 2012, 10:55:59 am » |
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LEGGE ELETTORALE E OFFERTA DEI PARTITI Una nebbia fitta fuori stagione Che il sistema elettorale escogitato dal leghista Calderoli, noto come il Porcellum , fosse un sistema da dimenticare e al più presto seppellire è forse l'unico punto condiviso della riforma elettorale che stiamo oramai discutendo invano da mesi e mesi. Qual è il problema? Si sa che nessun sistema elettorale è del tutto «neutrale». Ma non esageriamo. I sistemi proporzionali favoriscono la frammentazione e i partitini; ma sappiamo che in genere basta uno sbarramento del 5 per cento come in Germania (con divieto, si intende, di alleanze che lo vanifichino) per correggere questo difetto. I sistemi maggioritari o uninominali sono invece accusati del difetto opposto: di favorire i grandi partiti. Ma talvolta è così, talvolta no. Vedi caso, da noi il Mattarellum - un sistema per tre quarti maggioritario - ha prodotto una frammentazione che né Prodi né i suoi fedeli hanno mai ammesso e tantomeno spiegato. Comunque il sistema maggioritario a doppio turno (come oggi in Francia) eliminerebbe, volendo, questo difetto. Allora, non è vero che noi siamo bloccati dalla ricerca di un sistema elettorale neutrale. Siamo bloccati, invece, dal fatto che i nostri partiti non sanno più quale sia l'elettorato sul quale puntare, o quale sia l'elettorato «fedele». Vagano, appunto, nella nebbia. A cominciare da Berlusconi. Il Cavaliere naviga, ma per il resto è fermo. Si supponeva che dopo aver graziosamente lasciato le patate bollenti al «governo dei tecnici» lui sarebbe ridisceso in campo. È vero che il suo partito oramai sta al 22 per cento. Ma contava sull'effetto trainante del suo rientro e sulla sua indubbia bravura di acchiappavoti. Invece la sua sondaggista di fiducia non ha registrato, almeno sinora, nessun effetto trainante, di trascinamento, dalla sua ricomparsa. Così Berlusconi medita e attende. Tanto ha sempre il potere di tutelare i suoi interessi e di bloccare le sue pendenze giudiziarie. Se Berlusconi è fermo, il suo principale avversario, Bersani, si destreggia tra mille difficoltà. Si libera o non si libera di Vendola? Un giorno sì, e un giorno no. Sostiene lealmente il governo Monti, ma non può dimenticare che ha bisogno del voto di una Cgil che sempre più lo combatte. In questi frangenti, ha l'idea (direi poco azzeccata nel momento nel quale centinaia di milioni di musulmani sono scatenati contro l'Occidente per un filmino che nessuno di loro ha visto) di promettere la cittadinanza ai figli degli immigrati, ivi inclusi gli islamici. Ma torniamo al problema di fondo, alla nebbia. La nebbia è creata in primo luogo dai grillini, che al momento risultano al 18 per cento dei consensi anche se nessuno capisce cosa saprebbero fare al governo; e ancor più, in secondo luogo, dall'incognita di quasi la metà del nostro elettorato che dichiara nei sondaggi di non voler votare o di non sapere per chi votare. Questo è il vero terrore dei politici minacciati di rottamazione. Quale sarà il loro elettorato? Dove lo dovrebbero cercare? E come fermare il grillismo? Bravo chi lo sa. Giovanni Sartori 17 settembre 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_17/una-nebbia-fitta-fuori-stagione-giovanni-sartori_cf611b96-0084-11e2-821a-b818e71d5e27.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Ottobre 14, 2012, 04:01:01 pm » |
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QUALE SISTEMA ELETTORALE Il porcellum e i porcellini Il testo della nuova legge elettorale sinora lungamente sudata nella sua gestazione nella commissione Affari costituzionali del Senato passerà ora (con calma, si intende) all'esame dell'Aula. Non è una proposta unanime. È una proposta di impianto proporzionale che al Pd di Bersani non piace (secondo me a ragione). Ma Bersani non si oppone come altri facendo fuoco e fiamme. E così la proposta arriverà, finalmente, all'Aula del Senato. Lì il testo passerà così com'è? Forse, perché il Senato non prevede il voto segreto e quindi lì è più difficile fare vigliaccate. Se ne vedremo di belle sarà allora a Montecitorio, dove invece il voto segreto è consentito. In attesa di quel voto segreto, facciamo il punto. Il Porcellum , la legge elettorale di Calderoli, fu un atto di tracotanza: l'allora alleanza di ferro Berlusconi-Bossi bastava ad assicurare il passaggio di una legge truffa che è purtroppo ancora vigente. Questa volta la legge in gestazione è invece un calcolino di paure (di essere rottamati) e di allettamenti demagogici. Ma la paura non è, spesso, buona consigliera. E nemmeno lo è la demagogia sfrenata. Difatti il testo faticosamente partorito in Senato è pieno di stranezze forse intese a salvare i «rottamandi», ma non per questo di stranezze intelligenti. Ne indicherò tre. Un primo problema per tutti i sistemi elettorali proporzionali, o prevalentemente tali, è di bloccare la frammentazione dei partiti (che è, piaccia o non piaccia, la causa prima della ingovernabilità, come nel suo secondo governo Prodi ha forse capito, visto che si è trovato a dover fare ogni giorno «la quadra» con 13 partiti e con un governo di oltre cento governanti. Un po' troppi, no? Comunque sia, per bloccare la frammentazione occorre (Germania docet ) uno sbarramento che elimini i partitini, i nanetti. Invece, udite udite, i nostri legislatori ora propongono uno sbarramento del 5 per cento che per i partiti coalizzati scende al 4 per cento. Invece, se uno sbarramento deve funzionare, le coalizioni elettorali tra i partiti devono essere vietate. Questa è una condizione inderogabile e anche molto ovvia. Possibile che i nostri legislatori non ci arrivino? Analogo è il discorso sul premio di maggioranza. Il progetto prevede un premio del 12,5 per cento. È una misura di premio accettabile, ma di nuovo viziata dal fatto che può essere attribuito non solo al partito ma anche a una coalizione. No, e poi no. Nei sistemi parlamentari le coalizioni si fanno in parlamento, non prima. E si possono anche cambiare. Pertanto il premio va attribuito soltanto al partito che ottiene più voti. Un ultimo punto è sulle preferenze. Quando le avevamo (fino agli anni 90) Mario Segni le fece abolire per referendum, davvero a furor di popolo. Ora, da qualche anno, giornali, tv e partiti sbavano sulle preferenze. Senza preferenze, si proclama, il popolo è spodestato. La domanda resta: le preferenze ricreano davvero il «popolo sovrano»? A suo tempo si sapeva che in Sicilia le preferenze erano manovrate dalla mafia. Ora si scopre che vengono comprate anche a Milano. E allora? Una soluzione ci sarebbe. La propongo da anni, ovviamente invano. Giovanni Sartori 14 ottobre 2012 | 8:52© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_14/porcellum-e-porcellini-sistema-elettorale-Sartori_567a6f8e-15c9-11e2-9913-5894dabaa4c4.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Ottobre 20, 2012, 04:02:41 pm » |
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SISTEMA ELETTORALE A DOPPIO TURNO Tanto semplice che non si faràLa vicenda dei nostri sistemi elettorali spiega, o comunque concorre a spiegare, il fallimentare andazzo della politica italiana. Nel mio ultimo pezzo ( Il Porcellum e i Porcellini di domenica scorsa) concludevo dicendo che un modo non corruttibile di consentire all'elettore di esprimere le sue preferenze sui candidati esiste. Ma non lo indicavo. È che il mio spazio era finito, e anche che volevo mettere assieme e ricordare quante leggi elettorali sbagliate, e quindi dannose, abbiamo accumulato negli ultimi decenni. Ricordare gli sbagli serve ad evitarli? In Italia no. Non mi illudo, ma provo lo stesso. Nel dopoguerra, e dopo l'esperienza del fascismo, era normale adottare un normale sistema proporzionale. Che funzionò senza proliferare partitini perché la paura del Pci portava a concentrare il grosso dei voti sulla Dc. Così fu il Partito comunista che, senza volere, fece funzionare un «bipartitismo imperfetto» che, per quanto imperfetto, ricostruì il Paese e produsse il miracolo economico del nostro dopoguerra. La Francia, con un Pcf molto meno forte, restò invece impantanata in una «repubblica dei deputati» che era poi un parlamentarismo anarchico. Però anche noi, tra gli anni 50 e 60, abbiamo avuto un Gianburrasca, per l'esattezza Marco Giacinto Pannella, che si impadronì dal 1967 in poi, e oramai si direbbe a vita, del Partito radicale e che affascinò, tra i tanti, anche Mariotto Segni. Pannella riuscì a persuadere Segni (e molti altri, si intende) che l'Italia doveva adottare un sistema maggioritario secco (puro e semplice) che avrebbe immancabilmente prodotto un sistema bipartitico all'inglese. Mai tesi fu più campata in aria. Ho scritto e riscritto senza sosta, nei decenni, che Pannella e i suoi si sbagliavano di grosso. E per decenni ho sostenuto che mentre il maggioritario a un turno avrebbe frantumato il nostro sistema partitico, era invece il maggioritario a due turni che ci avrebbe avvicinati al bipartitismo. Ma come resistere alla prepotenza e ai digiuni di Pannella? Vinse anche la viltà della Dc che, sfaldandosi, preferì il meno pericoloso (ritenne) Mattarellum , un sistema misto, maggioritario secco per tre quarti e proporzionale per un quarto. Con il Mattarellum cominciò così la nostra scivolata elettorale verso il peggio e la ingovernabilità. L'alibi invocato dai difensori del Mattarellum è di addebitare la moltiplicazione dei partiti al quarto proporzionale di quella legge. Ridicolo. Quella moltiplicazione fu dovuta alle «desistenze»: i partitini che non potevano vincere nella contesa uninominale ricattavano i partiti maggiori chiedendo in cambio dei loro voti una serie di collegi sicuri per sé. Grazie al Mattarellum siamo così arrivati alla frantumazione partitica che si è conclusa nella grande ammucchiata del secondo governo Prodi. E il rimedio fu ancora peggiore del male che si doveva curare, fu l'ancor vigente legge Calderoli, il Porcellum . Nel frattempo erano tornate alla ribalta le preferenze che poco più di 20 anni prima avevamo ripudiato a furor di popolo. Fortuna vuole che ora si scopra che i voti di preferenza si comprano anche a Milano. Aggiungi che le preferenze ricreano i partiti di corrente, o di fazioni, addetti appunto a catturare le preferenze che poi, in realtà, il popolo non sa dare o a chi dare. Eppure un sistema che consente e anzi produce una genuina espressione delle preferenze degli elettori esiste: è il maggioritario a doppio turno. L'ho proposto più volte. Ma no; i nostri legislatori non lo vogliono. Né vogliono capire che il doppio turno è anche un indicatore di preferenze. Lo debbo rispiegare? Per amor di patria (si dice ancora?) forse sì. Comincio dal ricordare che il sistema maggioritario a doppio turno (che funziona bene da sempre nella V Repubblica francese) è, al primo turno, come un sistema proporzionale: ogni elettore esprime liberamente la sua prima preferenza e, così facendo, immette la sua scelta nel meccanismo elettorale. Meccanismo che conta i voti, che scarta le preferenze dei meno, e che ovviamente non è comprabile. Supponiamo, per esempio, che la mia prima preferenza sia Marco Giacinto Pannella. So benissimo che il mio sarà un voto perduto. Ma lo voto lo stesso e nessuno potrà dire che non mi è stata data la libertà di preferire e di scegliere. Al secondo turno, la seconda volta, mi toccherà invece scegliere un candidato di mia seconda preferenza, o anche il meno sgradito. Ma anche questa è una scelta mia, non del partito o della mafia. In nessun caso sono mai un sovrano spodestato. Dunque, se le preferenze si vogliono le possiamo avere così. Ma il maggioritario a doppio turno (proposto, ma a sprazzi e senza troppa convinzione, soltanto dal Pd) non piace a nessun altro. Forse per ignoranza, non infrequente nei nostri legislatori; ma soprattutto, sospetto, perché manderebbe troppa gente a casa. Siccome non sono cattivo come ho la fama di essere, anni fa proposi un addolcimento. In primo luogo il passaggio al secondo turno sarebbe consentito ai primi quattro. Dopodiché, al secondo turno i due partiti minori (dei quattro) hanno la scelta di ritirarsi e così di fruire di un «premio di tribuna», mettiamo, del 20 per cento dei seggi; oppure di combattere le elezioni, perderle, ma così facendo perdendo anche il proprio premio di tribuna. Questa, oso dire, è una proposta «pulita», tanto più che oggi come oggi è difficile prevedere chi se ne avvantaggerebbe; siamo troppo nel caos (con Grillo, Renzi, i non votanti e una valanga di incerti) per indovinare. Per una volta sarebbe facile fare il bene del Paese. Invece appena presentata in Aula la proposta della commissione Affari Costituzionali del Senato, viene ricevuta da 222 emendamenti. Troppa grazia Sant'Antonio. Giovanni Sartori 20 ottobre 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_20/tanto-semplice-non-si-fara-sartori_eaab1388-1a75-11e2-a470-3b372467b052.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Novembre 03, 2012, 11:49:49 am » |
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SCELTE NECESSARIE, TERAPIE POSSIBILI Il freno tirato del governo Premesso che Monti ci ha salvati, tuttavia non capisco bene né come stia cercando di governare, né come possa davvero ridurre la disoccupazione riportandola a livelli fisiologici. All'inizio Monti governò spesso e volentieri per decreto e con frequente ricorso alla fiducia. Ma poi ha sempre più cercato di governare in sintonia con il Parlamento. Farebbe bene se il suo tempo (il tempo del suo governo) non fosse oramai corto, e se il Parlamento non fosse oramai in febbre elettorale, e cioè nel momento nel quale i parlamentari sono al loro peggio. Una ipotesi è che Monti sia ora frenato dal presidente Napolitano, uomo di lunga esperienza parlamentare che resta legato a quel suo passato. Ma proprio non so. So però che di questo passo Monti arriverà al termine del suo mandato con poco di concluso e troppo ancora da concludere. Ma vediamo i problemi. Non c'è dubbio che il primo e inderogabile problema di Monti sia stato di salvare il Paese dalla insolvenza e dalla catastrofe finanziaria evidenziata da un debito che è oramai arrivato al 126 per cento del Pil, del Prodotto interno lordo. A questo punto un Paese non ha più soldi da spendere per investire, dal momento che tutti i suoi introiti sono assorbiti dal pagamento dei servizi, del suo personale e degli interessi dei suoi debiti. Questa era senza dubbio la prima inderogabile priorità da affrontare, e Monti l'ha affrontata con successo pieno in termini di riconoscimento internazionale. Ma con meno successo in termini di entrate fiscali. Se si punta, come è doveroso, sulla lotta alla evasione fiscale bisognerà derogare alla linea dei tagli eguali per tutti. Se il Fisco deve incassare di più, allora deve essere rafforzato e non indebolito. Risparmiare sulla Guardia di finanza è come fare il notissimo dispetto alla moglie. Comunque, fin qui il governo Monti ha (più o meno bene) affrontato il problema prioritario che doveva affrontare. Resta l'altro problema, che è di tutt'altra natura, di come affrontare e ridurre la disoccupazione soprattutto giovanile. Su questo punto quasi tutti gli economisti ciurlano nel manico. Scrivevo (voce nel deserto) quasi vent'anni fa che la disoccupazione nei Paesi diciamo «ricchi» diventa una conseguenza inevitabile e facilmente prevedibile (anche se il grosso degli economisti non lo ha previsto) della «globalizzazione» mal fatta, male o punto meditata, che abbiamo attuato. Ripartendo dall'inizio, nel secondo dopoguerra l'economia si è man mano divisa in due settori: produttivo e finanziario. Il primo si interessa ai beni tangibili; il secondo è di carta (carta moneta, si intende). E le ultime generazioni degli economisti si sono buttati e specializzati nel secondo, che è anche l'economia dei guadagni smisurati, dei «soldi facili». Così l'economia di moda, in auge, fa finta di non vedere, o effettivamente è cieca e non vede, che la disoccupazione dell'Occidente è frutto della differenza, della grandissima differenza dei costi di lavoro tra Paesi benestanti e Paesi malestanti. La regola, o diciamo pure la legge, è che «a parità di tecnologia i Paesi a basso costo di lavoro (anche dieci volte meno) andranno a disoccupare i Paesi ad alto costo di lavoro». Ovvio? A me sembra ovvio. E questa è la causa primaria , di fondo, della nostra disoccupazione crescente. Si capisce, questa legge non è senza eccezioni e per ora non tocca tutti i Paesi di Eurolandia. Ma la linea di tendenza, purtroppo, è questa. E non raccontiamoci la favola che la nostra economia produttiva (di beni) ripartirà tra un anno o due. Mi vorrei sbagliare. Ma temo di no. Giovanni Sartori 1 novembre 2012 | 16:24© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_01/freno-tirato-del-govermo-sartori_b4a060cc-23f3-11e2-9217-937e87f32cd3.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Novembre 12, 2012, 05:21:19 pm » |
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L'EUROPA DELLA MONETA UNICA Un animale senza difese Non so bene quanti siano gli Stati, Staterelli o isolotti-Stato oggi esistenti. Diciamo, all'ingrosso, circa 200. Eppure il più strano animale tra questi duecento è l'Europa dell'euro. L'animale è grandino, conta ancora nel mondo, ma è anche un animale assurdo. È unificato da una moneta comune sottratta al controllo dei singoli Stati membri. E fin qui va bene. Però disporre di una moneta unica non basta: impedisce, è vero, il rimedio «sporco» della inflazione per fronteggiare i debiti; ma oggi come oggi facilita le incursioni monetarie della speculazione internazionale. Il rimedio? Quello risolutivo sarebbe, a detta dei più, di arrivare a un'Europa federale. Ma temo che sia un rimedio impossibile. Uno Stato federale richiede una lingua comune. Difatti tutti gli Stati federali esistenti sono costituiti da componenti che si capiscono e parlano tra loro. La Germania parla tedesco, gli Stati Uniti e l'Australia l'inglese (e così pure l'India a livello di élite di governo), il Brasile il portoghese, l'Argentina e il Messico lo spagnolo, e così via citando. Se l'Europa diventasse uno Stato federale io mi potrei trovare sulla scheda di voto un candidato finlandese del quale non saprei nemmeno pronunziare il nome e del quale nessun europeo sa nulla. La sola piccolissima eccezione è la Svizzera, che però a livello di classe politica federale si intende benissimo. E trovo stupefacente che nessuno dei proponenti dell'Europa federale si renda conto di questo pressoché insuperabile ostacolo. E allora? Allora il nostro strano animale è anche il più indifeso al mondo. Tutti gli altri Stati si difendono quando i loro interessi vitali vengono minacciati con dazi e severi controlli doganali. Persino l'Inghilterra, con un piede dentro e un piede fuori dall'Europa dell'euro, resta liberissima di proteggersi con dazi sulle importazioni; e siccome mantiene la sterlina resta anche liberissima di stampare moneta. Lo stesso è ancor più vero per gli Stati Uniti, che per esempio hanno di recente protetto «protezionisticamente» la loro produzione di acciaio. L'Europa dell'euro è invece inerme, come se fosse votata al suicidio. Si prenda il recente caso dell'alluminio del Sulcis. L'Alcoa se n'è andata per la semplicissima ragione che la nostra energia elettrica è più cara (la importiamo in parte dalla Francia e, ironia della sorte, dalle sue centrali nucleari). Mi chiedo: non avrebbe senso che l'autorità europea della concorrenza si comportasse in modo più flessibile? Tanto da consentire all'Italia di salvare l'alluminio del Sulcis accollandosi il differenziale elettrico? L'occupazione si difende così. Se no come facciamo a produrre lavoro e ricchezza? È un quesito al quale dovrebbero rispondere gli economisti. Ma negli ultimi venti-trenta anni gli economisti si sono buttati in massa sull'economia finanziaria (che è eccitante e rende anche bene), ignorando la distinzione che ricordavo. Leggevo l'altro giorno su Repubblica un articolo di Luciano Gallino, uno studioso molto serio della materia da tutti rispettato, intitolato «La strada da seguire per creare più lavoro». Mi sono detto: finalmente un titolo che affronta il problema senza fronzoli evasivi, senza paura di fare paura. Ma poi Gallino sa solo proporre la cosiddetta job guarantee (JG), una formula per la quale è lo Stato che crea direttamente occupazione. Sì, ma è troppo poco: sono gocce di acqua in uno stagno. Tutto serve o può servire; ma anche Gallino è costretto dai tabù che ci paralizzano a proporre un rimedio troppo piccolo per un malanno troppo grande. Intanto la realtà è questa: che in Italia le piccole imprese che resistono alla crisi e che prosperano sono soprattutto le circa 13.000 aziende, di regola aziendine, create e gestite da immigrati. Tante grazie. Sono di solito imprese familiari che non hanno (per loro fortuna) la tutela della Camusso e dei nostri sindacati. Aggiungi che le nostre aziende di media grandezza in su continuano sempre più a fuggire dall'Italia (a meno di non poter utilizzare, restando qui, la manodopera sottocosto degli immigrati o anche dei clandestini). Al contempo tra il giugno 2011 e quello 2012 il flusso degli investimenti esteri che ci lasciano è stato di 235 miliardi, pari al 15 per cento del nostro Pil (prodotto interno lordo). E perché meravigliarsi? L'Italia è un Paese la cui burocrazia è probabilmente tra le più lente, inefficienti e anche esasperanti della zona euro. Inoltre l'Italia è classificata tra i Paesi più corrotti tra i 200 che ricordavo all'inizio. Senza contare che persino lo Stato paga i suoi fornitori anche con dodici mesi di ritardo. Infine abbiamo un cuneo fiscale (il prelievo del Fisco sui salari) davvero eccessivo che, dice giustamente il presidente di Confindustria Squinzi, «strangola» la nostra economia. E anche questo non è certo un incentivo per attirare investimenti dall'estero. Tirate le somme, la crisi dell'occupazione non verrà certo rimediata in un anno. E anzi temo che si aggraverà finché non cominceremo a proteggerci. D'altra parte non arrivo a intravedere una soluzione migliore alla politica delle porte spalancate di quella di una concorrenza vigilata e corretta da una forte autorità europea che sia flessibile e attenta alle emergenze. Qualcuno ha idee migliori? Se così, tanto meglio. La mia proposta intende soltanto sollevare il problema. Cominciamo a discuterne, invece di continuare a fare i finti (o magari veri) tonti. Giovanni Sartori 12 novembre 2012 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_12/un-animale-senza-difese-giovanni-sartori_121347e2-2c91-11e2-ac32-eb50b1e8a70b.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 24, 2013, 05:28:51 pm » |
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PIU' IDEE E PIU' LAVORO L’economia del Prozac Fino all’Ottocento l’economia era soprattutto agricola. C’erano anche l’artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti dovevano mangiare. Poi arrivò, all’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale con l’invenzione del telaio meccanico, e per esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del quale si ricorda il detto: comprate l’automobile del colore che volete purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l’avvento della «società dei servizi» che può essere considerata anch’essa una rivoluzione industriale perché fondata sull’avvento dei computer. Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici. Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro. Ma ecco la novità: è in arrivo una quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte quelle che l’hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione. È vero che, in condizioni normali, l’economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo». Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l’economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev). Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell’1% e altrettanto scenderà l’occupazione. Che in verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile. Le imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo.Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati. Giovanni Sartori 23 gennaio 2013 | 9:17© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_23/economia-prozac_9d211208-6524-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Febbraio 11, 2013, 11:42:00 pm » |
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INTERPRETI DI UNA BRUTTA CAMPAGNA Bugie elettorali con le gambe corte Che brutte elezioni!Sino a fine mese la campagna elettorale diventerà rituale (in televisione) e i sondaggi di opinione dovranno essere clandestini. Poco male. Per mio conto ho già visto e sentito abbastanza. Per dirla alla Renzi, in partenza il «rottamando» sembrava che dovesse essere un Berlusconi che usciva di scena con il sorriso a tutti i denti e docile come non mai. Invece no. È lestamente tornato in scena più in forma di sempre, e in campagna elettorale è sicuramente stato il più bravo di tutti. Il secondo vincitore, si direbbe, è Grillo. Riempie le piazze, azzecca spesso le critiche che piacciono anche per la loro volgarità, e risulta dai sondaggi che spedirà in Parlamento parecchie brave persone che però sono in grandissima parte digiune di tutto quel che occorre sapere per legiferare e governare. Monti, invece, non ha avuto sufficiente presa elettorale. Combattere una elezione cominciando dal discettare su «destra» e «sinistra» dimostra che quel mestiere non gli è congeniale. Quanto a Bersani, è persona solida che però non brilla mai; e che per di più (o per di peggio) si è voluto incastrare in una alleanza di ferro con Nichi Vendola, morbido nel dire ma fanatico nel pensare; il che sposta il Pd a sinistra e ne spaventa la componente e l'elettorato riformista. Su queste premesse, e mettendo in conto una legge elettorale che è davvero un pasticcio (oltre che una «porcata»), è probabile e anche sperabile che avremo un Parlamento breve, nato morto. Tutti, a parole, hanno detto che il Porcellum andava cambiato; ma sotto sotto sia Berlusconi che Bersani erano tentati dall'enorme (abnorme) premio di maggioranza di quella legge, e quindi hanno manovrato, sotto sotto, per tenersela. Se così, male; male certamente per uno di loro, ma anche probabilmente male per tutti. Intanto è interessante capire come è che il Cavaliere batte qualsiasi rivale nell'arte della «bugia continua», tale perché ogni volta viene creduta. Il suo genio è stato di inventare un alibi perfetto: la favola che il nostro capo del governo è impotente, che la Costituzione non gli consente di fare nulla. Questo alibi è falso; ma come fa il grosso pubblico a saperlo? Eppure nelle cose che interessano lui e i suoi interessi il nostro Cavaliere non si è mai lasciato fermare da nessuno. Ha persino imposto alla sua maggioranza in Parlamento di votare che lui riteneva in buona fede che Rubi «rubacuori» fosse egiziana, e anche nipote di Mubarak! Impotente o strapotente? La verità è che se l'alibi di Berlusconi è fasullo, è anche vero, ad onor del vero, che il grosso dei nostri costituzionalisti propone da tempo piccoli e facili rimedi atti a rafforzare i poteri del capo del governo per quel tanto che sarebbe utile e anche necessario. Ma il Cavaliere non è interessato. Per dare credibilità al suo alibi ci racconta che è tutta la Costituzione che va rifatta. Proprio no. Anche io l'ho scritto e spiegato non so quante volte. Ma il Cavaliere non legge, e il suo pubblico nemmeno. Per di più, il Cavaliere si è anche munito, per il futuro, di un secondo alibi: è l'Europa che gli lega le mani, è la Germania che lo vuole fare fuori. Ma se il suo potere è così impotente, la domanda è: perché ci tiene tanto? Lui lo sa. Credo di saperlo anch'io. Ma è tempo che anche gli elettori lo scoprano. Sennò, peggio anche per loro. Giovanni Sartori 11 febbraio 2013 | 10:42© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_11/bugie-elettorali-sartori_cd428b9a-7412-11e2-b945-c75ed2830f7b.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Marzo 07, 2013, 05:14:06 pm » |
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LA STRATEGIA DEL LEADER M5S Il firmamento dei sogni costosi Grillo è dotato, oltre che di eccezionale bravura scenica, di straordinaria furbizia. Finita la campagna elettorale fa notizia stando zitto. La pubblicità se la fa fare (gratis) rifiutando di parlare alle televisioni e ai giornalisti italiani. Sia chiaro, non è che Grillo si neghi a tutti: ai giornali e alle televisioni del resto del mondo parla. A noi no, perché siamo corrotti, venduti, infidi. Se io fossi un giornalista ricambierei la scortesia: se lui non vuole parlare con me, nemmeno io voglio parlare con lui né di lui. Invece ho visto diecine e diecine di operatori delle varie tv accalcati e imploranti di fronte alla sua porta inesorabilmente chiusa. Così, dicevo, ottiene pubblicità gratis e non corre rischi. Attorno a un tavolo, parlando, è molto meno bravo di quanto non lo sia urlando, e dunque lì corre rischi. Alla fine lo dovrà fare; ma forse manderà in sua vece il suo guru. Intanto, che fare? Io ho spesso criticato molte delle regole che abbiamo. Però riesco a capire che non possiamo vivere e convivere senza regole. Se Grillo non le rispetta o non le accetta, le regole che abbiamo debbono rifiutare lui. Per esempio, se il suo non è un partito, allora i suoi eletti non hanno il diritto di costituire un gruppo parlamentare né di usufruire dei benefici connessi (per esempio di utilizzare una sede che grava sul bilancio del Parlamento). E prima di precipitarsi a cercare di «comprarli» (così direbbe Grillo) qualcuno ci dovrebbe spiegare che razza di rappresentanti sono. Chi rappresentano? Tra le richieste perentorie del Nostro c'è anche quella di abolire il divieto del mandato imperativo. Si avverta: questo divieto, istituito dalla rivoluzione francese, esiste a tutt'oggi in tutte le costituzioni democratiche. Perché? È perché altrimenti si ricade nella rappresentanza medievale, o comunque premoderna, per la quale il rappresentante è soltanto l'emissario, l'ambasciatore di un padrone. Il che, intendiamoci, a Grillo va benissimo, visto che tutti i suoi debbono obbedire soltanto a lui e funzionare soltanto come dei «signorsì». Ma questa richiesta è evidentemente inaccettabile per qualsiasi costituzionalista serio (preciso perché non tutti lo sono). Andiamo egualmente male per la proposta pericolosamente demagogica di sottoporre a referendum la nostra appartenenza all'euro. Tecnicamente non si può fare perché la creazione dell'euro discende da trattati internazionali, e per altre ragioni ancora. Che Grillo probabilmente non conosce. Ci sono poi tutte le richieste-proposte economiche. Grillo propone un «reddito del cittadino» di mille euro al mese. Nel conteggio Istat i disoccupati in questione sarebbero circa 3 milioni: il che comporterebbe una spesa annua di 36 miliardi. Ma il conteggio dei disoccupati è notoriamente difficile: sono soltanto coloro che hanno perso il lavoro e che non ne trovano un altro? I 3 milioni di cui sopra includono i cassaintegrati. Ma poi ci sono quasi il 40 per cento di giovani disoccupati. L'altro versante del problema è che abbiamo un debito pubblico vicino al 130 per cento del Pil, del Prodotto interno lordo, e che, con lo spread che torna ad allargarsi, comporta un costo di interessi sui nostri buoni del tesoro che diventa davvero insostenibile. E tutti questi soldi Grillo dove li troverebbe? Io non lo so. Ma non lo sa nemmeno lui. Giovanni Sartori 7 marzo 2013 | 9:35© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_07/sartori-firmamento-dei-sogni-costosi_fe7d7236-86ed-11e2-82ae-71d5d7252090.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Marzo 27, 2013, 06:29:40 pm » |
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Editoriale Governicchi e governacci Economia e politica, le ragioni della crisi Mentre il parto del nuovo governo si ingarbuglia sempre più, il presidente di Confindustria, Squinzi, dichiara che «siamo alla fine, non c'è più tempo né ossigeno». Sembra anche a me. E per sostenere questa conclusione vorrei cominciare dal ricordare alcuni antefatti dei problemi che ci affliggono. L'EUROPA E GLI IMPEGNI - Forse molti non sanno che l'Unione Europea (Ue) non comporta l'adozione di una moneta comune (l'euro). I Paesi Eu che hanno adottato l'euro sono 17, mentre i Paesi senza euro sono 10. A parte l'Inghilterra che mantiene la sterlina e che è il caso più importante, sono fuori euro Danimarca, Svezia, Polonia, Ungheria, Romania e altri piccoli Stati. L'Unione Europea nacque quando venne di moda (diciamo così) la «globalizzazione». S'intende che la globalizzazione finanziaria venne da sé, con la tecnologia che la rendeva non solo possibile ma anche ineluttabile. La globalizzazione economica è tutt'alta cosa, avendo in mente, per l'Europa, il modello Stati Uniti. IL MODELLO USA - Il problema è che un sistema federale richiede un linguaggio comune. Gli Stati Uniti parlano l'inglese, la Germania il tedesco, l'India ha ereditato l'inglese, il Messico lo spagnolo, il Brasile il portoghese. L'Europa parla invece circa 22 lingue, che certo non possono alimentare una aggregazione federale. Invece l'Europa può diventare una comunità economica, che oggi è la comunità dell'euro. Ma purtroppo la messa in opera di questa unione è stata frettolosa e insufficientemente pensata. Tutti gli Stati del mondo controllano la propria moneta e si possono difendere, economicamente, con dazi, dogane, e anche svalutando o rivalutando la propria moneta. Così gli Stati Uniti tengono il dollaro «basso» per facilitare le proprie esportazioni. Invece l'Unione Europea è una comunità economica indifesa. I singoli Stati che la compongono non possono stampare moneta, né difendere le proprie industrie con barriere doganali, né impedire che le popolazioni più povere dell'Unione si trasferiscano dove lo Stato sociale paga meglio. Difatti quattro Paesi (Germania, Gran Bretagna, Austria e Olanda) chiedono di poter rifiutare il welfare agli immigrati comunitari. LE NOSTRE COLPE - In questa vicenda tutti hanno le proprie colpe. Ma ne hanno di più i Paesi mediterranei, Italia inclusa, che si sono dati alla bella vita indebitandosi oltre il lecito. L'ora della verità è scoccata, ahimè, troppo tardi per i Paesi che sono riusciti ad accumulare un debito pubblico (Buoni del Tesoro) che supera abbondantemente il Pil, il Prodotto interno lordo. Come possono risalire la china nella quale sono colpevolmente precipitati? In Italia oramai la pressione fiscale è altissima, a livelli che soffocano la crescita. E l'evasione fiscale resta largamente impunita. IL CARO EURO - Dovremmo esportare di più. Ma qui l'ostacolo è, come ho già accennato, che la nostra moneta, l'euro, è sopravvalutata rispetto al dollaro. In passato (nel 1972) avevamo escogitato il «serpente monetario» europeo che consentiva fluttuazioni delle monete entro una fascia del 2.25 per cento. L'esperimento fu utile, ma venne sostituito nel 1979 dal sistema monetario europeo (Sme) che venne a sua volta sostituito, da ultimo, dalla Banca centrale europea di Francoforte. CRESCITA ZERO - Varrebbe la pena di risuscitare un nuovo «serpente» sotto il controllo, beninteso, di Francoforte? Non lo so. Ma varrebbe la pena di pensarci. Perché da 14 anni la crescita dell'Italia è vicina allo zero.Aggiungo che il nostro Paese è particolarmente a rischio anche per le ragioni che passo rapidamente a elencare. Primo, risultiamo, nelle graduatorie internazionali, tra i Paesi più corrotti al mondo. Tra l'altro siamo anche gli inventori della «onorata società», volgarmente mafia, e per essa un Paese forse più tassato dal pizzo che dallo Stato. Aggiungi una altissima inefficienza burocratico-amministrativa. A tal punto che i fornitori dello Stato vengono pagati con nove-dodici mesi di ritardo. Un vero scandalo. Tutto sommato, allora, non vedo proprio come gli investitori stranieri siano, in queste condizioni, tentati di investire in Italia. Giovanni Sartori 27 marzo 2013 | 7:35© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_27/governicchi-e-governacci-sartori_0aeb55c6-96a5-11e2-b7d6-c608a71e3eb8.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Aprile 17, 2013, 11:48:32 am » |
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IL DIVIETO DI VINCOLO DEL MANDATO La libertà degli eletti Nel mio ultimo pezzo di febbraio il cui titolo doveva essere Le bugie elettorali dalle gambe lunghe scrivevo in esordio: «Che brutte elezioni». Era facile indovinarlo, ma non ho indovinato abbastanza. L'elezione è stata più che brutta, bruttissima; e il bello è che tra i suoi tre quasi-vincitori è stata quasi vinta da una organizzazione incostituzionale. Io non ho titolo per sottoporre la questione all'esame della Corte costituzionale. Ma l'Italia, mi raccontavano da bambino a scuola, è «la patria del diritto». Del diritto romano certo; ma del diritto costituzionale delle democrazie rappresentative (moderne) si direbbe proprio di no. E ancor meno ne sa, temo, la appena eletta presidente della Camera che ha esordito con questa puerile sparata retorica: «Noi abbiamo la più bella Costituzione del mondo». Temo di no. Ho sostenuto più volte che quel testo andava emendato sui poteri del governo, che sono insufficienti; che i nostri costituenti avevano dimenticato di richiedere ai partiti dei veri e propri statuti, e che non avevano previsto lo «stato di emergenza» o di necessità: un istituto che sarebbe davvero servito, per esempio, a legittimare e rafforzare il governo Monti senza dover ricorrere alla fragile finzione del «governo del presidente». Ma salvo ritocchi come questi, ho sempre avversato l'idea di scrivere una nuova Costituzione ricorrendo ad una Assemblea costituente di politici. Le buone Costituzioni sono sempre state stilate da giurisperiti, mentre le Costituzioni che sono un parto assembleare (vedi America Latina) sono state quasi tutte pessime (come non potevano non essere). Comunque, il primo punto da fermare è che il XX secolo ha anche prodotto Costituzioni intelligenti e innovative quali la attuale Costituzione della Germania federale, e la Costituzione semi-presidenziale (da non chiamare presidenziale, come è invalso nello sciatto giornalismo dei nostri giornali) della V Repubblica francese, la Costituzione stesa da Debré (e poi in parte modificata, ma senza danno, anzi). Ma veniamo al punto che davvero importa. Questo: che il divieto del mandato imperativo è stato formulato dai costituenti della Rivoluzione francese, e che da allora si ritrova in tutte le Costituzioni ottocentesche e in buona parte anche in quelle del Novecento. Perché? Semplicemente perché istituisce la rappresentanza politica (di diritto pubblico) dei moderni. Senza questo divieto si ricadrebbe nella rappresentanza medioevale, nella quale, appunto, i cosiddetti rappresentanti erano ambasciatori, emissari, portavoce che «portavano la parola» dei loro padroni e signori. Il loro mandato era imperativo perché dovevano solo riferire senza potere di trattare. Esattamente come pretendono oggi Grillo e il suo guru. Mi sembra chiaro che della ragion d'essere costituzionale (ineliminabile) del divieto del mandato imperativo (la cui formula è: «I rappresentanti rappresentano la nazione») Grillo-e-Guru non sanno nulla. Ma questo non li giustifica né li legittima. Fanno finta di praticare una nuova democrazia diretta (telematica). Ma la verità è che nel loro macchinario ha voce, e parla, solo la loro voce. Confesso che non riesco a capire come la nostra Corte costituzionale non abbia sinora veduto una così macroscopica violazione costituzionale. Giovanni Sartori 17 aprile 2013 | 9:47© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_17/la-liberta-degli-eletti-editoriale-sartori_62377084-a718-11e2-ae64-724b68a647ec.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Maggio 01, 2013, 06:45:08 pm » |
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NECESSARIO CHE UN GOVERNO CI SIA La larghezza e la fragilità Meno male che Napolitano c'è. Meno male che ci sono due Letta, tutti e due bravi (uno a destra e uno a sinistra). Meno male, infine, che Letta jr. è riuscito a mettere assieme una difficile coalizione tra Pd e Pdl (per molti come tra il diavolo e l'acquasanta). È questa una Grosse Koalition alla tedesca? Cosa sia questo animale nordico l'ha subito spiegato domenica, con sicura competenza, Sergio Romano. E, sì, credo anch'io che questa volta ci siamo, ci siamo arrivati. In passato ci siamo a lungo trastullati, invece, con il consociativismo, invocato per anni senza sapere, al solito, cosa fosse per il suo inventore e per i testi che ne trattavano. Oggi della democrazia consociativa non si parla più; ma va ricordata come il periodo nel quale il nostro indebitamento, il nostro debito pubblico, spiccò il volo verso i troppo alti e ingloriosi destini nei quali oggi stiamo affogando. Ma torniamo al punto: bene o male, una Grosse Koalition siamo riusciti a metterla assieme. Bene o male? Non voglio infierire. È già un miracolo, già lo dicevo, che ci sia. Resta però che i veti incrociati, antichi rancori e le vendette degli esclusi hanno generato un «governicchio» nel quale è entrato, più spesso che no, il meno qualificato per il posto a lui (lei) assegnato. Sono persino bravi, magari bravissimi, nel loro vero mestiere, ma assegnati a un mestiere che non è il loro. Salta all'occhio semplicemente leggendo i curricoli (alcuni anche molto modesti). Il nuovo governo Letta si è assegnato 18 mesi di tempo per il programma presentato alle Camere, programma che include, nel contesto generale delle «riforme costituzionali e istituzionali», anche l'abrogazione del Porcellum e una nuova legge elettorale. Sia subito chiaro: 18 mesi sono «stretti» per le riforme costituzionali, visto lo scontato ostruzionismo dei grillini; ma sono troppi e del tutto innecessari per la riforma elettorale. Le nostre leggi elettorali sono leggi ordinarie che possono essere abrogate in un giorno. Così come, volendo, una nuova legge elettorale può essere varata in una settimana. Tutto sta in quel «volendo». Proprio per questo sarebbe bene cominciare subito a tastare il terreno. Credo che sia noto, almeno ai miei lettori, che io mi batto da sempre (assieme a molti altri costituzionalisti, s'intende) per un sistema semi-presidenziale di tipo francese fondato sul doppio turno. In questo caso occorre anche una riforma costituzionale (per il semi-presidenzialismo) che richiede tempi lunghi. Ma nulla osta che intanto il ministro delle Riforme costituzionali, Quagliariello - che per fortuna è persona giusta al posto giusto - sostituisca lestamente il Porcellum con un sistema elettorale proporzionale a due turni con forte sbarramento, sul quale, volendo, si potrà poi innestare la Costituzione semi-presidenziale. Nel qual caso aggiungerò Quagliariello alla lista dei «meno male» che lì c'è lui. GIOVANNI SARTORI 1 maggio 2013 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_01/sartori-la-larghezza-e-la-fragilita_95a69c02-b225-11e2-876c-e00ef3e168b7.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Maggio 08, 2013, 05:36:57 pm » |
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LA CONVENZIONE PER LE RIFORME Attenti al trappolone Il primo maggio nel mio editoriale avevo deliberatamente ignorato la proposta dei «saggi» di creare un nuovo organo costituente battezzato Convenzione per le riforme addetto, appunto, a rivedere e rifare la nostra Costituzione. L'avevo ignorata perché mi interessava spiegare come ci potevamo facilmente liberare del Porcellum sostituendolo con uno dei due sistemi elettorali più accreditati e ben riusciti dell'Occidente: il sistema maggioritario a doppio turno della Francia, oppure il sistema tedesco. Ad entrambi si sarebbero poi dovute aggiungere strutture costituzionali che avrebbero richiesto più tempo; ma intanto il rischio di restare con il Porcellum sarebbe sparito. Perché i sistemi elettorali sono, in Italia, materia di legge ordinaria, e quindi disgiungibili da riforme costituzionali i cui tempi possono essere lunghi e soprattutto facilmente allungabili. Ma oramai questa malefatta - la convenzione per le riforme - è fatta. E mi incombe ora di spiegare perché sia da temere. In Italia non siamo alla prima prova. Si cominciò nel 1985 con la commissione Bozzi, che combinò poco o nulla. Venne poi, nel 1997, la Bicamerale presieduta da D'Alema che lavorò seriamente ma che alla fine Berlusconi fece affondare. Seguì poi la cosidetta Costituzione di Lorenzago, opera svelta di quattro gatti ma fortemente voluta e sostenuta da Bossi e Berlusconi. Per respingerla (come meritava) si dovette combattere un referendum che la bocciò nel giugno 2006. Quindi oggi siamo alla quarta prova di rilievo: e si pensa a una commissione di ben 75 membri (tanti quanti furono i costituenti del 1946-48) costituita da delegazioni di partito, più qualche esterno al Parlamento. Sia chiaro: anche se mi contenterei di una decina di ritocchi alla Costituzione vigente, io non sono contrario ad adottare, alla grande, il semipresidenzialismo francese fondato su elezioni a doppio turno, o il sistema federale tedesco. Anzi, mi batto per una di queste due formule da un decennio o anche due. Il punto è che le buone Costituzioni debbono essere stese da giuristi e costituzionalisti. La Costituzione di Weimar fu scritta da Preuss, quella della V Repubblica francese da Debré, e così via. Le assemblee di politici non sanno e nemmeno vogliono stendere una buona Costituzione che è tale per tutti. L'America Latina ha scritto e riscritto da un secolo a questa parte decine di Costituzioni che sono l'una peggio dell'altra. Sarebbe lo stesso oggi, in Italia. Infinitamente meglio, allora, adottare una Costituzione già collaudata e sicuramente funzionante. E vengo al trappolone. Berlusconi sostiene il governo Letta finché gli farà comodo, e cioè finché la sua popolarità anti Imu (e simili) non abbia raggiunto un livello di sicurezza a prova di bomba. Intanto la commissione per le riforme resterà impigliata nel dibattere le riforme costituzionali. E al momento giusto per lui, «Re Berlusconi» farà cadere il governo Letta, chiederà nuove elezioni che stravincerà da solo tornando a votare con il Porcellum . Il trappolone è perfetto. I suoi hanno già detto che si dovrà discutere la forma dello Stato prima o comunque insieme alla riforma elettorale. Così potranno tirare per le lunghe finché Berlusconi non sarà pronto a farsi rivotare con la legge truffa di Calderoli. Come dicevo, un trappolone perfetto. Un vecchio proverbio diceva che il mondo è fatto a scale, c'è chi scende e c'è chi sale. Nel mio scenario il nostro Cavaliere sale, continua a salire. Giovanni Sartori 8 maggio 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_08/attenti-al-trappolone-sartori_128e4fb6-b79f-11e2-b9c5-70879a266c65.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Maggio 11, 2013, 05:40:06 pm » |
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PIU' IDEE E PIu' LAVORO L’economia del Prozac Fino all’Ottocento l’economia era soprattutto agricola. C’erano anche l’artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti dovevano mangiare. Poi arrivò, all’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale con l’invenzione del telaio meccanico, e per esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del quale si ricorda il detto: comprate l’automobile del colore che volete purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l’avvento della «società dei servizi» che può essere considerata anch’essa una rivoluzione industriale perché fondata sull’avvento dei computer. Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici. Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro. Ma ecco la novità: è in arrivo una quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte quelle che l’hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione. È vero che, in condizioni normali, l’economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo». Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l’economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev). Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell’1% e altrettanto scenderà l’occupazione. Che in verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile. Le imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo.Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati. Giovanni Sartori 23 gennaio 2013 | 17:46© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_23/economia-prozac_9d211208-6524-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml
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