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Autore Discussione: Giovanni SARTORI. Politologo fuori dagli schemi  (Letto 82864 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 03, 2010, 10:00:30 pm »

L'immagine di un paese

di  SERGIO ROMANO


Il lettore troverà in altre parti del giornale le parole inaccettabili che il presidente del Consiglio ha pronunciato ieri alla Fiera di Milano. Posso quindi esimermi dall’obbligo di ripetere ciò che è stato detto sui gay e sui mezzi d’informazione. Ma non posso impedirmi di pensare che Berlusconi stia distruggendo ciò che è riuscito a fare in questi anni. Conoscevamo il suo carattere, le sue debolezze, il suo conflitto d’interessi, le leggi ad personam e certi aspetti goliardici della sua personalità. Sapevamo che i suoi continui scontri con la magistratura rappresentavano un rischio per la tenuta delle istituzioni e l’equilibrio fra i poteri dello Stato.

Ma non ho mai pensato, a differenza di altri, che i suoi governi fossero inetti e impotenti. Mi sarebbe sembrato assurdo ignorare i risultati della lotta contro la criminalità organizzata, la riforma universitaria del ministro dell’Istruzione, gli entusiastici furori riformatori del ministro della Funzione pubblica, i passi compiuti sulla strada del federalismo fiscale, le missioni militari all’estero, l’attenzione dedicata ai problemi dell’energia, il progetto sulla legislazione del lavoro, la maggiore sensibilità per le opere pubbliche, certi interventi della Protezione civile, il recupero dell’evasione fiscale, la prudenza e l’abilità con cui è stata affrontata la crisi del credito. So che il bilancio deve tenere conto anche delle molte cose promesse e non fatte o fatte male. Ma se mi guardo attorno e confronto la politica italiana con quella di altri Paesi dell’Unione europea, non mi sembra che l’Italia, quando la partita si gioca sulle cose fatte e da fare, sia rimasta indietro. E guardandomi attorno non vedo altro Paese dell’Unione europea in cui lo stile di vita del premier, spesso per sua deliberata volontà, sia divenuto il tema centrale della politica nazionale.

Berlusconi non sembra rendersi conto che questa pubblica rivendicazione delle sue debolezze private sta divertendo il mondo, riaccendendo tutti i più triti pregiudizi sul carattere degli italiani e soprattutto oscurando quello che il governo è riuscito a fare in questi momenti difficili. Non credo che il presidente del Consiglio possa continuare a polemizzare con tutti, a braccio e nelle occasioni più disparate, senza neppure calcolare gli effetti delle sue parole su coloro che non gli sono pregiudizialmente ostili. Voglio sperare invece che Berlusconi possa ancora, se lo vuole, lasciare la tribuna delle dichiarazioni improvvisate per tornare a Palazzo Chigi dove lo aspettano molte cose da fare e molti problemi da risolvere. Se vi è ancora spazio per un accordo con Fini, tanto meglio. Il Paese non ha bisogno di una crisi che rischierebbe di frantumare il quadro politico nazionale con conseguenze forse devastanti.

La nazione ha il diritto di essere rappresentata autorevolmente nelle sedi in cui si sta disegnando il nuovo profilo della finanza internazionale e soprattutto a Bruxelles, dove nei prossimi mesi si deciderà, tra l’altro, la politica fiscale dell’Europa. Ma se la prospettiva razionale non fosse praticabile, è meglio tornare alle urne senza la scorciatoia di improbabili governi tecnici. Temo che dalle elezioni anticipate possano uscire equilibri ancora più traballanti degli attuali. Ma niente è più grave di questo continuo stillicidio di picche e ripicche, questa sciagurata confusione di pubblico e privato. Gli italiani non lo meritano.


03 novembre 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_03/romano_immagine_paese_a2e747fa-e701-11df-a903-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 07, 2010, 07:08:00 pm »

IL SUPERPREMIO DI MAGGIORANZA

Legge elettorale che cosa fare

In uno Stato ben ordinato debbono esistere punti fermi e problemi risolti. Per esempio la Costituzione (la regola delle regole) e anche il sistema elettorale. Invece la nostra Costituzione viene sempre più stravolta da interpretazioni «materiali» di natura populistica che appunto la stravolgono. E ora torna prepotentemente in ballo il sistema elettorale.

La Prima Repubblica adottò un sistema proporzionale che funzionò discretamente fino alla caduta del potere democristiano. Ma il proporzionalismo è esposto a due degenerazioni: la trasformazione del sistema parlamentare in un sistema assembleare ingovernabile perché troppo frantumato e anche perché troppo indisciplinato. In Italia queste degenerazioni furono bloccate sia dalla malfamata «partitocrazia », sia perché il pericolo comunista non consentiva voti sprecati. Così la proporzionale non moltiplicò il nostro sistema partitico oltre misura. La Prima Repubblica fu governata da più o meno cinque partiti, uno dei quali, la Dc, era dominante. Ma questo edificio crollò con la fine del comunismo sovietico.

Io raccomandai, a quel tempo, un sistema maggioritario a doppio turno, come in Francia. Invano. Fu adottato, invece, il Mattarellum, un sistema per 3/4 maggioritario e per 1/4 proporzionale. Secondo i promotori di questa pensata il Mattarellum avrebbe prodotto anche in Italia un sistema bipartitico all’inglese. E quando il bipartitismo non arrivò (come si sapeva benissimo) la colpa fu addossata al «misto», al 25 per cento di proporzionale. Accusa ridicola, tanto più che se distribuita sulle due Camere la sua incidenza complessiva si riduceva a un misero 12,5 per cento. In realtà il Mattarellum produsse la frantumazione del nostro sistema partitico. Tanto vero che il secondo governo Prodi dovette imbarcare una sconnessa ammucchiata di partitini che lo fecero franare nell’inconcludenza.

Riacciuffato il potere, il governo Berlusconi-Bossi inventò un sistema inedito, il Porcellum, fondato su uno smisurato e inaccettabile premio di maggioranza. Un premio in virtù del quale la maggiore minoranza (anche se fosse soltanto, per esempio, del 30 per cento dei voti) conquista il 55 per cento dei seggi in Parlamento. Si capisce che questo sistema piaccia al Cavaliere, che lo dichiara intoccabile.

E siccome nuove elezioni potrebbero essere prossime, ecco che si moltiplicano le proposte per farlo saltare. Tra queste l’iniziativa di ieri (su questo giornale) del professor Stefano Passigli, già senatore, è quella che mi convince di più. Passigli preannunzia un referendum abrogativo della legge vigente, del Porcellum, che in sostanza ne cancella il premio di maggioranza.

Si potrebbe fare di più e anche di meglio. Ma è già emerso dall’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere del 12 ottobre che i nostri esperti continuano a essere in disaccordo e anche a proporre sistemi elettorali fantasiosi. So bene che il referendum è un grosso sforzo ma produrrebbe una soluzione accettabile e sensata per tutti. Sarebbe l’ora

Giovanni Sartori
 
07 novembre 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_07/sartori-che-fare_602ef5ea-ea47-11df-acba-00144f02aabc.shtml

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« Risposta #62 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:20:58 pm »

IL VOCABOLARIO DELLA CRISI

Una repubblica assai confusa

La nostra Seconda Repubblica lascia poche tracce di opere compiute, di riforme ben fatte e di problemi risolti. In compenso ha profondamente inquinato il vocabolario costituzionale e perciò stesso la nostra Costituzione e la politica che ne discende.
Comincio da «ribaltone». È una parola che non è accolta in nessun testo di nessun'altra democrazia parlamentare, visto che cambiare governo e cambiare maggioranza (o anche cambiare partito) costituisce parte integrante del loro modus operandi, del loro funzionamento. I sistemi parlamentari sono per eccellenza sistemi flessibili che nel corso del loro cammino possono benissimo cambiare personale e politiche.

Secondo: «Porcellum». È così che viene chiamata, con ragione, la nostra vigente legge elettorale. Ma perché è una porcheria, una porcata? Secondo Fini è perché non consente all'elettore la scelta del proprio rappresentante. Ma questa è una tesi puramente demagogica. Ricordo che noi abbiamo avuto un sistema proporzionale che consentiva all'elettore quattro-tre preferenze, poi ridotte ad una, e che queste preferenze sono state cancellate nel 1991-1993 da due travolgenti referendum di Pannella e Mariotto Segni. Io allora non mi scaldai molto perché ritenevo e continuo a ritenere che il potere di scelta del singolo elettore in collegi elettorali nei quali un seggio richiede circa 60 mila voti è un potere di scelta infinitesimale. C'è chi sostiene che nel collegio uninominale questo potere di scelta è maggiore. Ma dipende da chi ha i soldi: se il candidato (come quasi sempre negli Stati Uniti) oppure il partito. Se li ha il partito, anche nei sistemi uninominali le scelte dei candidati vengono dall'alto.

Comunque sia, il punto non è che il Porcellum sia tale (una porcata) perché non consente al votante di scegliere l'eletto, ma perché elargisce un premio di maggioranza spropositato che falsa completamente il risultato di una elezione. Peggio di così, in materia, si può soltanto ricordare la legge Acerbo del 1923, che installò Mussolini al potere attribuendo i 2/3 dei seggi, in Parlamento, a chi raggiungeva il 25 per cento dei voti. Sia chiaro: un premio di maggioranza è accettabile se rinforza chi ha già vinto il 50.01 per cento dei suffragi; ma non se trasforma una minoranza in una maggioranza come fa il Porcellum attribuendo il 55 per cento dei seggi alla maggiore minoranza.

Un'ultima sciocchezza, o comunque deviazione dalle costituzioni dei sistemi parlamentari, è che l'elettorato deve sapere, sin dall'inizio della legislatura, chi sarà il capo del governo e che il suo governo non potrà essere cambiato. Altrimenti - orrore orrore - incorriamo nel crimine di «ribaltonismo».

C'è poi il grido di dolore di chi si preoccupa di «salvare il bipolarismo». Ma chi ne fa un porro unum esagera; in realtà teme che si affermi, tra destra e sinistra, un partito di centro che lo danneggi. E così propone un sistema elettorale che penalizzi il centro, come l'uninominale inglese (e che erroneamente invoca, per questo, un ritorno a quel Mattarellum che ci ha rovinati). Invece il bipolarismo tedesco ha sempre funzionato bene con un terzo partito minore al centro. Al momento, allora, non c'è nulla da salvare. Ci sarà tutto da rifare utilizzando (a mio parere) o il sistema elettorale francese o quello tedesco.

Giovanni Sartori

18 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_18/una-repubblica-assai-confusa-editoriale-sartori_8c1cd734-f2db-11df-8691-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Dicembre 11, 2010, 06:28:50 pm »

RENZI, VENDOLA E LA GENERAZIONE CONTRO

Giovanilismo e rottamazione


Se Berlusconi non ride (perlomeno sino al 15 dicembre) la sinistra di Bersani e dintorni può solo piangere. Quando il Pd era il Pc—da Togliatti a Berlinguer — il cursus honorum, la carriera, era rigidamente disciplinata: prima una esperienza nelle amministrazioni locali, poi, per i più bravi, il parlamento nazionale. Il tutto era deciso dalla segreteria del partito e, in ultima istanza, dal suo segretario. Allora nessuno osava dire, e nemmeno pensare, che i Pajetta e i Terracini di quel tempo fossero da «rottamare», da pensionare perché vecchi. E se Togliatti non fosse deceduto anzitempo, nessuno lo avrebbe contestato nemmeno a 90 anni. Eppure quel Pc, nel complesso «anzianotto», arrivò a conseguire un terzo del voto degli italiani e quasi a sorpassare la Dc.

Rispetto alla sua epoca d’oro la nostra sinistra post-comunista di oggi esibisce leader relativamente giovani, da D’Alema a Fassino a Veltroni e Bersani. Nessun vegliardo. Eppure il sindaco di Firenze Matteo Renzi (35 anni) e il governatore della Puglia Vendola (52 anni) li definiscono «roba vecchia», materiale da pensione. La loro parola d’ordine è avanti i giovani, e cioè sé stessi. Nella storia, da sempre e dappertutto, il giovanilismo è raro. Le irrequietezze giovanili cominciano con lo Sturm und Drang (tempesta e assalto) dei primi romantici e, in Italia, con il futurismo e il fascismo. Ma furono fuochi fatui. Le rivoluzioni sono spesso promosse dai giovani; giovani che però si attaccano al potere sino alla morte. Quando l’Urss si dissolse esibiva la più straordinaria gerontocrazia (governo dei vecchi) al mondo.

Dicevo che il giovanilismo non dura. È così per forza, perché i giovani diventano vecchi. Ma è anche bene che sia così. I giovani apportano un elemento — l’energia — che gli anziani non hanno più, mentre gli anziani apportano l’elemento che i giovani ancora non hanno, e cioè esperienza e conoscenze. Insomma, gioventù è energia senza sapere, anzianità è sapere senza energia. Le civiltà decadono per senescenza e quando diventano gerontocrazia. Però, nessuna civiltà è mai emersa da una paidocrazia, dal potere dei giovani. In questo momento la scuola è in subbuglio e i giovani si battono contro la riforma dell’Università. È una riforma senza soldi, e questo è il suo più grave limite. Ma, soldi a parte, la riforma Gelmini non è una cattiva riforma. Ed è una riforma necessaria perché affronta le insensatezze legislative e gli abusi «baronali » degli ultimi decenni.

Non so se la generazione in agitazione sia, come scrive Barbara Spinelli su Repubblica, una «generazione bruciata». Ma è certamente una generazione allevata dalla promessa insensata delle «aspettative crescenti». Sì, i giovani di oggi avranno una vita dura. Ma fu dura anche la vita dei giovani che si trovarono, dopo la fine dell’ultima guerra, con un Paese distrutto e un avvenire che sembrava senza avvenire. Noi, i giovani di allora, ce la siamo cavata. Ma i giovani di oggi che si battono contro la riforma universitaria Gelmini si battono a proprio danno e per il proprio male.

Giovanni Sartori

11 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_11/sartori_giovanilismo-rottamazione-vendola-renzi_364fe652-04f1-11e0-b4fb-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 15, 2010, 05:27:58 pm »

DOPO LA FIDUCIA

Berlusconi, il peso della vittoria

Dovrà rinunciare ai lodi personali e alle polemiche nei confronti della magistratura

Berlusconi ha certamente vinto. Sarebbe assurdo negarlo e inutile disquisire con acrimonia, in questo momento, sul modo in cui ha sconfitto i suoi avversari. Ma la portata della vittoria e le sue conseguenze dovrebbero suggerire al vincitore qualche riflessione.
Alla vigilia del voto le posizioni dei due gruppi, all'interno del centrodestra, si erano considerevolmente avvicinate. Nessuno aveva rinunciato ai suoi argomenti polemici, ma tutti sembravano d'accordo sull'opportunità che Berlusconi continuasse a governare il Paese e sulla necessità di un governo diverso, per la sua composizione e il suo programma, da quello attuale. Il contrasto era sul modo in cui affrontare la seconda metà della legislatura. L'opposizione voleva che Berlusconi si dimettesse e il presidente del Consiglio rifiutava di piegarsi a tale richiesta. Il problema non era formale o procedurale. Le dimissioni, se Berlusconi fosse stato costretto a presentarle, avrebbero permesso a Fini e a Casini di affrontare i negoziati per la formazione del nuovo governo da posizioni di forza. Il presidente del Consiglio si è impuntato, ha scatenato una sorta di controffensiva e ha segnato il punto. La vittoria non è travolgente, ma la sconfitta dei suoi avversari è indiscutibile. Fini, in particolare, dovrà chiedersi se la sua presenza al vertice della Camera non abbia contribuito a rendere la sua azione meno credibile e convincente.

Ma il punto cruciale, quello che veramente interessa il Paese, è l'uso che Berlusconi intende fare della sua vittoria.

Credo che il presidente del Consiglio abbia di fronte a sé due strade. Può compiacersi del successo, infierire sugli sconfitti, lasciare le cose come stanno e dichiarare che governerà sino alla fine della legislatura. I tre voti di maggioranza non gli permetteranno di evitare gli innumerevoli trabocchetti che gli si apriranno sotto i piedi alla Camera e nelle commissioni, in gran parte delle quali la maggioranza non c'è. Ma gli forniranno l'occasione per sostenere che l'impotenza del governo è colpa delle opposizioni e di recitare di fronte agli elettori, se e quando riuscirà a ottenere lo scioglimento delle Camere, la parte del leader vilmente tradito. Il Paese, se Berlusconi adottasse questa linea, sarebbe condannato a un supplemento dell'indecoroso spettacolo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi: polemiche, litigi, sberleffi goliardici e una generale disattenzione per i problemi economici e finanziari che il Paese sta attraversando. Se vi saranno nuove elezioni in un tale clima, poco importa chi vince e chi perde. L'Italia ne uscirà certamente perdente.

La seconda strada è la ricomposizione della maggioranza su basi nuove. Oggi la prospettiva può sembrare improbabile, ma diverrà praticabile soltanto se Berlusconi saprà rinunciare ai lodi personali, alle polemiche contro la magistratura (quanto più attacca i magistrati tanto più allontana nel tempo la possibilità di una riforma), agli aspetti più discutibili della sua diplomazia personale. Non basta. Sul piatto dell'intesa dovrà esserci una nuova legge elettorale. Un realista come Berlusconi non può ignorare che quella con cui siamo andati alle urne ha prodotto risultati catastrofici, sia sul piano politico, sia su quello morale. Gli italiani sono stanchi di mandare in Parlamento gli «eletti» dei partiti e vogliono il diritto di scegliere.
Berlusconi ha vinto. Ma ogni vittoria può essere guastata dalle decisioni sbagliate del giorno dopo. Tocca a lui ora trasformare una vittoria personale in una vittoria del Paese.

Sergio Romano

15 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_15/berlusconi-il-peso-della-vittoria-editoriale-sergio-romano_5c8f6598-0813-11e0-b759-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Gennaio 03, 2011, 04:44:21 pm »


RISCHI E STRANEZZE DI UNA SCELTA

Le primarie fanno male al Pd

Le elezioni primarie sono una invenzione americana. E negli Stati Uniti servono specialmente (ma non soltanto) per selezionare i candidati alla presidenza del Paese. In Italia sono state, invece, una invenzione di Prodi e del suo fido Parisi. Dico invenzione e non importazione perché le primarie prodiane non erano una vera contesa, una vera gara; erano piuttosto un modo per rafforzare e legittimare un candidato che era un leader senza partito, che non aveva il sostegno di un suo partito.

Negli Stati Uniti esistono molte varietà di primarie, alcune «aperte» a tutti, altre «chiuse», e cioè riservate agli iscritti o a chi si dichiara tale. Ma non mi addentro in questa casistica, che è varia, cangiante e complessa. Il punto è che dopo il fallimento del progetto prodiano le primarie, quelle vere, sono state adottate dalla sinistra.

È una buona idea? In linea di principio, sì. Perché non c'è dubbio che le primarie sono uno strumento e un «aumento di democrazia» molto più efficace del voto di preferenza. Sono le primarie, ben più che le preferenze, a dare voce e peso effettivo all'elettorato nella scelta dei candidati. Inoltre la sinistra italiana soffre oggi di mancanza di idee, di nuove «idee di sinistra». E le primarie diventano una idea di sinistra, visto che Berlusconi ha una concezione padronale del suo partito, e visto, quindi, che per lui le primarie sono inaccettabili.

Ciò detto, non è detto che le primarie funzionino sempre come dovrebbero. Un primo rischio è che le primarie «estremizzino» la scelta dei candidati. È così, o può essere così, perché chi va a votare nelle primarie è di solito più coinvolto nella politica, e quindi più «intenso», più appassionato dell'elettore medio, dell'elettore normale. In tal caso il candidato scelto dalle primarie è un candidato sbagliato, un candidato perdente. Se, per esempio, Vendola trionfasse nelle primarie della sinistra, la mia previsione è che per il Pd sarebbe una catastrofe.

Un secondo rischio è che le primarie producano, all'interno del partito che le adotta, un forte frazionismo. Per vincere nelle primarie i pretendenti debbono avere una propria organizzazione elettorale interna. La prima volta, o per un paio di volte, le primarie possono essere salutari: immettono aria fresca, svecchiano un partito troppo ingessato e intorpidito. Ma poi la frammentazione in correnti, oggi variamente travestite da «fondazioni», centri studio e simili, diventa inevitabile. Negli Stati Uniti non è così perché lì i partiti sono deboli, non scelgono i candidati ma, piuttosto, sono scelti dai candidati. Inoltre negli Stati Uniti i soldi (elettorali) saltano il partito e vanno direttamente a chi scende in campo. In Italia, invece, i soldi per i partiti vanno ai partiti. E questa differenza fa molta differenza.

Infine, una stranezza (forse). A lume di logica i partiti con primarie dovrebbero piacere agli elettori più dei partiti senza primarie. Ma in Italia non è così. Agli elettori di Berlusconi sembra (dai sondaggi) che delle primarie non importi un fico.

Giovanni Sartori

03 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_03/sartori_8fc7510a-16ff-11e0-b956-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 31, 2011, 11:25:58 am »


I RISCHI DEL MEDIO ORIENTE IN FIAMME

Illusioni e delusioni

Sin da quando esistono, gli Stati Uniti si sentono investiti della missione di diffondere la libertà e la democrazia nel mondo. L’intento è nobilissimo. Ma le buone intenzioni possono generare cattivi risultati. Da quando la Cina ha sepolto il maoismo e ristabilito buoni rapporti con l’Occidente, non c’è presidente americano che non si senta in dovere, in Cina, di bacchettare i governanti di Pechino sul rispetto dei diritti umani. Serve a qualcosa? Ovviamente no; semmai li irrita. I cinesi si sentono eredi della più antica civiltà del mondo. La civiltà del Celeste Impero ha avuto alti e bassi, ma non si è mai dissolta. Persino a dispetto di Mao è restata, nel fondo, confuciana da 2.500 anni. E oggi non è la Cina ad aver bisogno degli Stati Uniti, ma gli Stati Uniti della Cina. Che tra l’altro protegge (per fare dispetto?) la Corea del Nord.

Venendo al Medio Oriente, lì il grosso sbaglio del missionarismo americano è stato l’Iran. Lo scià Reza Pahlavi era sì un despota, ma un despota illuminato inteso a modernizzare il suo Paese. Quando scoppiò la rivolta istigata dal clero islamico, gli americani consigliarono ai generali dello scià di non resistere, di arrendersi. Khomeini rientrò trionfante da Parigi e li fece tutti fucilare. E da allora l’Iran degli ayatollah minaccia tutti i suoi vicini. Passando all’Iraq, probabilmente Bush credeva davvero che Saddam Hussein fabbricasse armi nucleari; ma in ogni caso credeva che la sua guerra avrebbe instaurato una democrazia a Bagdad. Poverino, l’intelligenza non è mai stata il suo forte. E lo stesso discorso si dovrà fare al più presto per l’Afghanistan, dove il problema non è di trasformare un millenario sistema tribale in uno Stato democratico, ma di impedire che diventi, o ridiventi, uno «Stato canaglia » nel quale il terrorismo islamico possa liberamente produrre micidiali armi chimiche e batteriologiche.

Ma veniamo all’oggi, al fatto che parte dell’Africa araba che si affaccia sul Mediterraneo (Algeria, Tunisia, Egitto) è subitamente esplosa. C’era da aspettarselo? No, nel senso che tutti sono stati colti di sorpresa. Ma sì nel senso che sappiamo, o dovremmo sapere, che Internet, telefonini cellulari e simili sono formidabili strumenti di mobilitazione istantanea, e quindi anche di esplosioni insurrezionali (a fin di bene o a fin di male che siano).

Al momento il caso più preoccupante è quello dell’Egitto. E al momento in cui scrivo Mubarak non è fuggito, è ancora lì; ma ha dovuto cedere il potere ai militari. Gli Stati Uniti hanno condannato, come da copione, Mubarak per l’impiego della violenza contro i manifestanti e sospeso gli aiuti militari. E ora il rischio è (come ha scritto sul Corriere Benny Morris) di ripetere «un secondo Iran». Mubarak è stato un leale alleato dell’Occidente, ha firmato la pace con Israele, non è stato un dittatore sanguinario e ha bloccato i Fratelli musulmani (che si presentano come un islam moderato che però appoggia Hamas in Palestina). Spero che Obama sappia come è andata in Iran e che non ripeta gli errori di allora. Viviamo in un mondo pericolosissimo, che dobbiamo fronteggiare non da missionari ma scegliendo il male minore.

Giovanni Sartori

31 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA - corriere.it/editoriali/11_gennaio_31
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« Risposta #67 inserito:: Febbraio 19, 2011, 04:30:40 pm »


LE SCELTE DELLE OPPOSIZIONI

Come perdere le elezioni


Se fossi al teatro non mi sarei mai divertito tanto. Ma non sono al teatro e non mi diverto per niente.
Lo spettacolo allestito da Berlusconi&Co. è allucinante. Ma anche lo spettacolo offerto dalle opposizioni è desolante.

Piluccando fior da fiore, non si era mai visto, nemmeno in Italia, che ben 315 parlamentari votassero e accreditassero la favola (favola anche per un bambino di sei anni) di un Berlusconi che crede davvero che la carnosa Ruby fosse una nipote di Mubarak e che lui era intervenuto telefonando a notte fonda alla questura di Milano per evitare un incidente diplomatico con l'Egitto. A parte il fatto che il Nostro trasforma una marocchina in una egiziana, non si capisce proprio quale terribile incidente diplomatico potesse nascere da questo modestissimo episodio.

Non si capisce proprio, anche se 315 onorevoli sono evidentemente più intelligenti di me e l'hanno capito. Ma forse la questione non è di intelligenza, è che i 315 sono (come scrive Mauro Calise, politologo della Università di Napoli) inglobati in un «partito personale» al quale debbono obbedienza cieca. Perché se fiatano perdono il posto.

Ma se Berlusconi non ride, le opposizioni possono solo piangere. Chiedono le sue dimissioni e quindi nuove elezioni. Ma sono davvero in condizioni di affrontarle con una ragionevole speranza di vincerle? Oggi come oggi direi proprio di no. Per la semplicissima ragione che sono opposizioni al plurale spesso profondamente divise (anche al proprio interno) che hanno poco di «unitario» da proporre. E il recente congresso dei finiani ha peggiorato questo quadro rivelando che anche in quel partito regna la zizzania. Eppure il duo Berlusconi-Bossi è battibile solo se tutte le opposizioni fanno, elettoralmente, fronte comune.

È possibile? Sarà possibile? Forse lo è se ricordiamo il principio che mettersi d'accordo per dire no è molto più facile che mettersi d'accordo per dire sì. Una alleanza sulle tante cose da ripudiare o disfare del lungo periodo berlusconiano potrebbe risultare più facile del previsto.

Una circostanza facilitante, in questo disegno, è proprio il Porcellum. Tutte le opposizioni sono state danneggiate da questo iniquo sistema elettorale, perché il premio di maggioranza regala seggi a minor prezzo ai partiti che ne usufruiscono mentre rende più «cari» (e rari) i seggi degli altri partiti. Il no al Porcellum di tutte le opposizioni è da considerare scontato. Analogamente tutti hanno da guadagnare dalla abrogazione di un'altra scandalosa «legge truffa», la legge Frattini sul conflitto di interessi, che ha regalato a Sua Emittenza un esorbitante potere sugli strumenti di comunicazione di massa. Sono anche da cancellare tutte le leggi o leggine ad personam, fatte per favorire e proteggere il Cavaliere.

Tanto può già bastare per giustificare - lo dico solo a titolo del tutto personale e non propongo affatto un'«ammucchiata programmatica», contro la quale il Corriere si è già espresso - una «Federazione democratica» nella quale ogni partito sottoscrive le abrogazioni che accennavo, e poi mantiene la propria identità specificando le proprie proposte caratterizzanti.

Giovanni Sartori

18 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #68 inserito:: Marzo 27, 2011, 10:45:14 am »

IN GIAPPONE DISASTRO SISMICO, NON ATOMICO

Senza nucleare e senza petrolio

Il titolo è interrogativo: è una domanda. Ma la grafica non vuole punti interrogativi nel titolo. Ce li deve mettere il lettore. Non so se resteremo senza nucleare e anche senza petrolio. Me lo chiedo.

La catastrofe dell'impianto nucleare in Giappone bloccherà o altrimenti rinvierà di parecchio la costruzione di nuove centrali atomiche. Però la verità è che in Giappone la catastrofe è stata in primo luogo sismica (un terremoto tra i tre maggiori mai accaduti da quando li misuriamo) seguita da un maremoto gigantesco che ha spazzato via i collegamenti elettrici delle pompe di raffreddamento. Pertanto la lezione non è che le centrali nucleari siano di per sé pericolose, ma che non debbono essere costruite in zone sismiche. Ma al momento questa distinzione sfugge, travolta dall'orrore e dal terrore che tutti proviamo nell'aver visto le immagini di Fukushima.

Sfortuna vuole che contemporaneamente la produzione del petrolio cada sempre più in mani infide (per l'Occidente). L'Europa Occidentale quasi non ne ha, e anche gli Stati Uniti non ne hanno a sufficienza nemmeno per sé. In quell'emisfero il Paese con più petrolio è il Venezuela, governato «a vita» da un caudillo alla cubana e nemico viscerale degli Stati Uniti. In Africa l'oro nero si trova soprattutto in Nigeria dove guerriglieri-pirati infestano il delta del Niger e i musulmani scannano i cristiani; e poi, appunto, soprattutto in Libia.

Mubarak è caduto lestamente perché il suo esercito dipendeva dagli aiuti americani (che non potevano consentire un massacro della popolazione civile). Gheddafi, invece, paga i suoi soldati e mercenari con i proventi del petrolio e quindi si può permettere di resistere e anche di massacrare chi gli resiste. In verità Gheddafi avrebbe già schiacciato la rivolta nel sangue senza l'intervento autorizzato dalle Nazioni Unite; purtroppo un intervento vacillante che rischia di affondare nel ridicolo. Al momento la sola certezza è che se Gheddafi resta in sella si vendicherà negandoci il suo petrolio.

Cosa resta? Restano l'Arabia Saudita e i vari emirati arabi di contorno; e resta la Russia, più l'Iran degli ayatollah. E siccome l'Iran è un nemico mortale dell'Occidente, è chiaro che resta troppo poco per un mondo affamato di petrolio. Senza contare che anche l'Arabia Saudita diventa instabile se tutto il Medio Oriente traballa. Resta anche - non lo posso dimenticare per dovere di inventario - il metano. L'Italia lo riceve dalla Russia, dall'Algeria (instabile) e finora (ma probabilmente non più) dalla Libia.

Torno al nucleare. Sulla sua insostituibilità convengo con quanto già scritto sul Corriere da Panebianco e Boncinelli (16 marzo). E torno a ripetere che la catastrofe avvenuta in Giappone non è atomica: è sismica. La lezione è che è follia costruire centrali dove sappiamo che la terra trema. Ma è anche follia non costruirle dove la terra non trema e dove uno tsunami non può arrivare. Nei prossimi 25 anni il fabbisogno energetico mondiale crescerà, si prevede, del 60 per cento. Non sarà con il sole né con il vento che potremo colmare la voragine di vuoto energetico che si sta profilando.

Giovanni Sartori

27 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #69 inserito:: Aprile 15, 2011, 04:41:37 pm »

LE RIVOLTE TRA MILITARI E CORANO

Il calderone mediterraneo

Le insurrezioni nel mondo arabo che si affaccia sul Mediterraneo hanno colto l'Occidente di sorpresa. Non poteva essere diversamente: sono insurrezioni di giovani attizzati dalla tecnologia, dai telefonini, dalla televisione e soprattutto da Internet. Come si fa a indovinare se e quando «la Rete» accenderà un incendio? Molti dicono «rivoluzione». Ma sbagliano. Per ora assistiamo soltanto a rivolte, a insurrezioni. Che in passato sono state per lo più rivolte di contadini che non hanno mai portato a nulla perché erano soltanto rivolte.

Le rivoluzioni sono una cosa diversa e sono soltanto moderne. La prima ad essere chiamata tale fu la «gloriosa rivoluzione» inglese del 1688-89. Ma fu una rivoluzione anomala. Rivoluzione perché trasformò la monarchia inglese in una monarchia parlamentare; ma anomala perché avvenne quasi senza colpo ferire. Pertanto la rivoluzione per antonomasia, la rivoluzione «modello», fu la rivoluzione francese del 1789. Che fa testo perché fu una conquista violenta del potere dal basso, che poi ristruttura il potere. Il che sottintende che una rivoluzione è tale perché incorpora un progetto che poi realizza. Alle spalle della rivoluzione francese c'era l'età dei lumi, l'illuminismo. Invece alle spalle delle insurrezioni non c'è nulla. Sono esplosioni senza progetto.

In quasi tutta l'Africa e dintorni, seppure con importanti eccezioni, il potere è oggi dei militari, e sono i militari che bloccano l'Islam. In Siria Assad, padre dell'attuale presidente, sterminò i Fratelli Musulmani a cannonate. In Iraq la feroce dittatura di Saddam Hussein fu laica perché Saddam estromise l'Islam dal suo sistema di potere. In Egitto Mubarak, che era un dittatore moderato, pur sempre controllava strettamente i Fratelli Musulmani di casa sua. Però, nel 2005 permise che si presentassero alle elezioni in un centinaio di circoscrizioni e si ritrovò, con sua sorpresa, con 88 seggi (un 20 per cento dell'assemblea popolare) conquistati dagli islamici. E dove regna il caos, come in Somalia, è solo l'intervento etiopico che impedisce agli estremisti di Al Qaeda di conquistare il Paese. Pertanto chi proclama, in Occidente, che le «rivoluzioni arabe hanno seppellito l'islamismo» parla a vanvera con poca conoscenza di causa.

Torno all'Egitto. Anche lì i ribelli chiedono «democrazia». Ma se guardiamo alle strutture l'Egitto è già, ufficialmente, una «Repubblica araba con un sistema democratico socialista» di tipo presidenziale, con un Presidente eletto a suffragio diretto per 6 anni (rinnovabili) e un parlamento bicamerale anch'esso eletto periodicamente. Eppure era, di fatto, un regime autoritario fondato sul potere dei militari. Sulla carta l'Egitto è già, o potrebbe già essere, una democrazia. Ma le forze organizzate che muovono le pedine del gioco sono il potere della forza da un lato, e il Corano dall'altro.

Può darsi che i giovani che hanno dominato la piazza cerchino a loro volta di organizzarsi in partiti o comunque in forze elettorali e di governo. Può darsi, ma la gioventù che si ribella in Nord Africa e dintorni non è preparata per questo. Come dicevo, non ha un progetto. E il dramma è che si ritroverà, in Egitto, in Tunisia e anche in Libia (dove assistiamo davvero a una «drôle de guerre», a una guerra strana e impasticciata che non ha precedenti) più affamata che mai.

Giovanni Sartori

15 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #70 inserito:: Aprile 27, 2011, 02:47:57 pm »

IL «PORCELLISSIMUM» ELETTORALE

Il superpremio di maggioranza


Se le opposizioni sono a pezzi e divise in troppi pezzi, anche il partito del Cavaliere scricchiola, afflitto da troppe combriccole, capetti e appetiti. Però quando si tratta di salvare il suo leader il Pdl è granitico. Perché Berlusconi sa come vincere le elezioni: è una formidabile macchina elettorale. Lo sa lui e lo sanno i suoi. E quindi è difficile che il Pdl si sfasci.

Ma se le cose stanno così, non si capisce se le opposizioni chiedano nuove elezioni per finta oppure sul serio. Sono assai più sfasciate del partito del Cavaliere. E da tutti i sondaggi risulta che potrebbero vincere solo se unite. Però, attenzione. I sondaggi sommano preferenze di voto che in realtà, nel mondo reale, non si sommano. Se per esempio Vendola e Casini si presentassero assieme, sia l'uno che l'altro perderebbero parecchi voti. Il totale dei sondaggisti non è, in questo caso, un totale realistico.

Una ulteriore stranezza è che il maggior partito dell'opposizione ha scoperto che attaccare Berlusconi non serve, che «non rende».
Sarà. Ma se attaccare il Cavaliere non rende, mi sfugge perché renda «non attaccarlo». Questa è stata la strategia elettorale di Veltroni ed è anche stata, si è visto, una strategia perdente: non da partito a vocazione maggioritaria ma da partito a vocazione minoritaria.

Torno alla domanda: perché le opposizioni chiedono con insistenza nuove elezioni, elezioni anticipate, se non sono in grado di vincerle?
La risposta è che contano sul fatto che il premio di maggioranza (truffaldino) della legge elettorale vigente, del famigerato Porcellum, viene attribuito per la Camera su base nazionale ma per il Senato su base regionale. Pertanto se le opposizioni vincono il premio di maggioranza in un numero sufficiente di regioni, Berlusconi rischia di trovarsi in minoranza al Senato.

Il Cavaliere lo sa, e per mettersi al sicuro fa rispolverare una norma (già proposta dal senatore Quagliariello in ottobre) che estende anche al Senato il premio di maggioranza su base nazionale. Così quando dorme può dormire tranquillo. Ma forse no.

Ricordo che l'attribuzione del premio di maggioranza su base regionale fu giustificata, a suo tempo, dal fatto che l'incombente riforma federale dello Stato prevede, come è sensato che sia, un Senato delle regioni fondato sul principio della rappresentanza territoriale, non della rappresentanza individuale. Così mentre a Bossi viene concesso un federalismo fiscale che è già in corso di attuazione, allo stesso tempo gli viene sottratta la struttura portante di un federalismo costituzionale e del federalismo politico. Se gli sta bene, bene.
Ma se no, Berlusconi rischia di imbattersi nel veto della Lega.

C'è poi anche un problema costituzionale. L'articolo 57 della Costituzione stabilisce che «Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale». È per questo che a suo tempo il presidente Ciampi chiese e ottenne che il premio di maggioranza venisse assegnato su base regionale. Così mentre il sistema elettorale è materia di legge ordinaria, su questo punto siamo in materia di legge costituzionale.
Se il presidente Napolitano solleverà la stessa eccezione del suo predecessore, allora a Berlusconi le elezioni anticipate non convengono più. Tanto meglio per il Paese - siamo stanchi di troppe elezioni - e anche per le nostre scervellate opposizioni.

Giovanni Sartori

27 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #71 inserito:: Maggio 01, 2011, 05:35:20 pm »

IL PREMIER, L’ALLEATO E IL DITTATORE

Pasticcio libico. Febbre padana


Che l’asse Berlusconi- Bossi si incrinasse in modo vistoso su Gheddafi proprio non me lo aspettavo. E per una volta (mi capita di rado) devo dare ragione a Berlusconi. Che la politica estera del nostro premier sia dilettantesca è comune opinione dell’Occidente che conta. Però il nostro premier non è stupido. Ne combina di tutti i colori, ma è intelligente.

È chiaro che a Berlusconi la ribellione in Libia contro il suo molto corteggiato e baciato (sulla mano) Gheddafi, è andata di traverso, e molto. Gheddafi era, per noi, petrolio assicurato e anche un guardiano che poteva socchiudere, invece di spalancare, i cancelli dell’immigrazione clandestina degli africani. Lampedusa è vicina, la Spagna e la Francia sono lontane; e quindi noi siamo i più esposti.

All’inizio Berlusconi ha temporeggiato. Non poteva rompere con Francia, Inghilterra e Stati Uniti né sconfessare una delibera delle Nazioni Unite. Così ha inventato la ingegnosa formula degli aerei da guerra che volano ma non sparano. Sperando in cuor suo (immagino) che il Colonnello domasse la ribellione in fretta, e così contando di ripresentarsi a lui a Tripoli come la persona che, frenando gli altri, lo aveva salvato. Ma poi, passa un giorno passa l’altro, si è accorto che non poteva fare un doppio gioco, o un gioco su due fronti, più di tanto. Ha anche capito, immagino, che ormai Gheddafi non lo avrebbe perdonato in nessun caso, e che la sua ovvia vendetta sarebbe stata di negarci il petrolio e di inondarci di migranti. E così, obtorto collo, ha capito che si doveva schierare, e che la cacciata di Gheddafi era diventata un vitale interesse anche per lui.

Ora Berlusconi si batte il petto e ammette di aver sbagliato nel lasciare Bossi all’oscuro del suo voltafaccia. Ma secondo me non ha sbagliato per niente. Sapeva che avvertendo Bossi si sarebbe imbattuto nel suo veto. Dopo aver detto sì al presidente Obama non poteva richiamarlo per dirgli che Bossi non voleva. Molto meglio far finta ex post, a cose fatte, di essere dispiaciuto e di scusarsi. Tanto Bossi sa di aver bisogno di Berlusconi per varare il suo agognato federalismo, così come il Cavaliere sa di aver bisogno di Bossi per restare in sella. Difatti il Senatur ha già detto che non farà cadere il governo, anche se al momento i rapporti tra i due restano gelidi.

Comunque sia la vicenda mette a nudo quanto sia profondo e purtroppo radicato il «localismo» chiuso della Lega. Niente Europa, niente guerra, niente stranieri, insomma niente di niente. La Lega è come un mulo che s’impunta, e che si impunta sempre.

Inoltre, nel frattempo, l’Europa ci ha appena condannati per la legge che considera l’immigrazione clandestina un «reato ». Difatti, e a prescindere da quanta accoglienza l’Italia vorrà e potrà dare agli stranieri che fuggono dai loro Paesi, dalla fame o anche dalla tirannide, l’idea del reato non è stata una buona idea, anche perché coinvolge una magistratura bizzarra e già oberata da troppi carichi e troppi arretrati. Davvero un bel pasticcio.

Giovanni Sartori

30 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:33:34 pm »

TREMONTI E LA GIUSTA DIFESA DEI CONTI PUBBLICI

Un paese di poveri lo siamo già


La Camusso, nuovo segretario della Cgil, dichiara che stiamo costruendo «un Paese di poveri». Ma lo abbiamo già costruito. L'Italia esibisce da tempo un debito pubblico colossale, che dopo una lieve diminuzione con il governo Prodi è tornato a salire e si aggira attorno al 120 per cento del nostro Pil, del nostro Prodotto interno lordo. Con un carico di interessi annuale di circa 80 miliardi superiore ai 75 miliardi che evidentemente paralizza il poco che resta da spendere. Perché ci siamo ridotti così male?

La ovvia risposta è che negli ultimi decenni gli italiani hanno speso più di quanto abbiano prodotto e guadagnato. Insomma, siamo vissuti a debito, accumulando debiti. Beninteso, non è successo soltanto da noi. Negli anni Sessanta molti intellettuali, e poi i baldi sessantottini della rivoluzione studentesca, hanno promesso «aspettative crescenti»; una idea che a tutt'oggi eccita gli economisti. Al contempo i sociologi osannavano l'avvento di una «società post industriale» che sarebbe poi stata la «società dei servizi». E così per alcuni decenni siamo andati allegramente avanti incamerando la disoccupazione post industriale in una ipertrofia di servizi parassitari, e confidando (aspettative crescenti) in una crescita infinita.

Quando la bolla di una economia segnatamente finanziaria e speculativa è scoppiata, c'è chi non ha retto (oggi specialmente la Grecia, davvero sull'orlo della bancarotta). L'Italia si è salvata perché il nostro sistema bancario è restato, per fortuna, abbastanza provinciale, e perché gli italiani sino a poco tempo fa hanno risparmiato. Ma ora non sono più in grado di farlo. E così la nostra salvezza finanziaria dipende dalla fermezza di Tremonti nel difendere la cassa dello Stato. So bene che i tagli uniformi sono ingiusti e a volte dannosi. Però vorrei vedere come si fa, in Italia, a negoziare taglio per taglio ministero per ministero.

Ma il quesito sembra sorpassato dagli eventi. Sono ormai una quindicina di anni che vedo Berlusconi in televisione sempre raggiante, sempre radioso. Ma dopo la batosta delle elezioni amministrative l'ho visto più volte nero come la pece (in volto). Quando è volato da Obama alla riunione del G8 per spiegargli che lui era un perseguitato da giudici comunisti (una alzata di ingegno che ha lasciato tutti allibiti) era livido. E l'ho rivisto livido, in questi giorni, anche in altre occasioni. Questa volta abbiamo davvero a che fare con un Orlando, pardon, un Berlusca, furioso.

Non ho mai pensato che il Cavaliere avrebbe mai rinunziato al potere. E se finora ha lasciato fare Tremonti era perché Bossi lo sosteneva e anche perché così poteva scaricare l'impopolarità del rigore fiscale su di lui. Ma ora il Cavaliere fa lui la mossa della popolarità intimando che «Tremonti deve tagliare le tasse». Povero Tremonti e anche poveri noi. A nessuno piace pagare le altissime tasse pagate da chi non le evade. Ma un primo ministro responsabile deve chiedere al suo ministro del Tesoro di far pagare le tasse a tutti, di impegnarsi a fondo nel combattere l'evasione fiscale. Chiedergli invece di ridurre le tasse equivale a far salire il nostro debito pubblico oltre ogni limite di sostenibilità. Come ha scritto su queste colonne Massimo Mucchetti, «questa volta ha ragione Tremonti». Che non deve dare le dimissioni come ha già fatto in passato, ma invece resistere. Per cacciarlo a forza Berlusconi rischia di dover affrontare una crisi di governo. Gli conviene?

Giovanni Sartori

04 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_04/sartori_siamo-un-paese-di-poveri_9d65e2ba-8e6c-11e0-a8a9-c25beeea819c.shtml
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« Risposta #73 inserito:: Giugno 23, 2011, 09:50:16 am »

LA POLITICA DEGLI ANNUNCI

Il gioco stanco delle retromarce

Ormai è sempre più evidente che siamo nelle mani di leader penosi, di leader da strapazzo.
A Pontida Bossi si è trovato al cospetto di un popolo, il suo popolo, che gridava «secessione, secessione ». Credevo, o meglio mi illudevo, che oramai la Lega si fosse attestata sul federalismo. Ma la autentica razza padana di Pontida resta indomita, vuole di più. Addirittura secessione, uscita. E sì che il nostro capo dello Stato si è impegnato come più non si poteva nel celebrare la festa della Repubblica e l’unità «indivisibile» del Paese. E Bossi? Bossi ha glissato. Aveva invece le sue richieste che ha presentato come ultimatum.

Prima richiesta: ritiro pressoché immediato dalla malriuscita e malconcepita guerra libica, oltretutto e se non altro perché ci costa un miliardo di euro (cifra che per altri sarebbe di 3-400 milioni). Ora, che l’impresa libica fosse balorda e malconcepita si è visto subito. Che Berlusconi ci sia stato tirato dentro controvoglia è un punto a suo merito. Ma oramai siamo coinvolti. E se Gheddafi restasse in sella, noi il petrolio della Libia ce lo possiamo scordare. Un grossissimo guaio perché i nostri governi non hanno mai avuto una politica energetica, e quindi rischiamo di ritrovarci senza petrolio e anche senza rigassificatori sufficienti per il metano. Bossi e Maroni lo capiscono? Si direbbe di no.

Maroni cerca anche di venderci la favola (se fosse intelligente saprebbe che è una favola) che Gheddafi ci manda profughi per vendetta, e che se «facciamo pace» non lo farebbe più. Al contrario, se Gheddafi vincesse continuerà a vendicarsi con sempre più soddisfazione mandandoci profughi a valanga spediti proprio da lui.

La seconda perentoria richiesta di Bossi è di trasferire alcuni ministeri al Nord. Le voci di corridoio sussurrano che dapprima Berlusconi abbia consentito, ma che poi se l’è fatta addosso (è una parafrasi del più colorito vocabolario bossiano) e ha fatto retromarcia annunziando soltanto traslochi di «sedi di rappresentanza operative ». Di conserva anche Bossi ha fatto retromarcia realizzando che la sua richiesta avrebbe suscitato un vespaio e comunque che era assurda. Sarebbe un costo (anche di disorganizzazione e di confusione) che non possiamo assolutamente sopportare.

Dopo tante marce avanti e indietro, cosa resta? Resta che tanto Berlusconi che Bossi chiedono perentoriamente a Tremonti di ridurre la pressione fiscale, di ridurre le tasse. È la medicina demagogica e irresponsabile di tutti i tempi. Ed è, in questo momento, una richiesta che disonora tutta la classe dirigente che la asseconda. Come siamo arrivati a un colossale debito pubblico del 120 per cento del nostro Pil, del nostro Prodotto interno lordo? Ci siamo arrivati, molto semplicemente, spendendo più di quanto lo Stato incassa. E questo debito pubblico comporta che lo Stato deve oggi pagare circa 80 miliardi di interessi annui ai sottoscrittori dei buoni del tesoro. L’Italia ha assunto l’impegno con l’Europa di ridurre il deficit con una manovra di 40 miliardi. Se non lo facciamo, i conti pubblici peggioreranno, e noi rischiamo la fine della Grecia.

Il dramma è che oramai a Berlusconi basta sopravvivere, e che a Bossi basta fare il padroncino al Nord.

Giovanni Sartori

23 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #74 inserito:: Luglio 17, 2011, 09:33:05 am »

Citrullaggini e confusione sul sistema elettorale


Tra le tante ragioni che impediscono al nostro Paese di rimettersi in piedi c'è anche la citrullaggine elettorale e cioè l'incapacità di adottare un sistema di voto che funzioni e che, di conseguenza, consenta alla politica di funzionare.

La nostra prima Repubblica esordì con un sistema proporzionale puro (senza sbarramenti) che consentiva all'elettore di indicare tre preferenze tra i candidati in lizza (in lista). Queste preferenze furono eliminate da un referendum a furor di popolo. Dal che risulta che agli elettori di allora le preferenze non sembravano importanti come agli elettori di oggi. Il Sud segnava sulla scheda molti più nomi del Centro-Nord. Ma non era senso civico; era che al Sud il voto clientelare era già vivo e vegeto. E il punto resta che allora nessuno difese le preferenze proclamandole l'essenza stessa della democrazia. Lo potrebbero essere solo se e quando gli elettori si interessano di politica e si informano sui candidati. Ma finché se ne impipano, le preferenze possono fare più male che bene.

Il passo seguente fu la richiesta ossessiva di Pannella, con Mariotto Segni sempre di sostegno, di sostituire il sistema proporzionale con il sistema maggioritario secco, all'inglese. Pannella prometteva e giurava che quel sistema avrebbe prodotto il bipartitismo, e cioè solo due partiti. Mai promessa fu più sciocca e infondata. Ma in gran parte venne accolta nella legge che battezzai il Mattarellum: un sistema elettorale per tre quarti uninominale e per un quarto proporzionale.

Sin dal primo giorno protestai, prevedendo che il Mattarellum non avrebbe ridotto ma anzi moltiplicato i partiti (i miei editoriali sono tutti raccolti in volumi, chi non mi crede può controllare). Così fu: quando il Mattarellum venne abolito, i partiti, partitelli e partitini erano diventati tanti che era difficile contarli. Ma al male è seguito l'ancor peggio. Dopo la caduta del secondo governo Prodi il governo Berlusconi-Bossi impose un sistema elettorale che dissi il Porcellum, visto che il suo stesso estensore, Calderoli, lo aveva dichiarato una «porcata».

Lo sfaldamento del centrodestra offre l'opportunità e segnala l'urgenza di una riforma elettorale che almeno elimini la maggiore orrendezza del Porcellum: premio di maggioranza assegnato alla maggiore minoranza. Un 35% dei voti che può ottenere il 55% dei seggi in Parlamento, è una intollerabile e vergognosa distorsione del processo democratico, senza precedenti in nessuna democrazia. E se in queste condizioni una opposizione chiede nuove elezioni senza almeno tentare di eliminare questa distorsione, allora è una opposizione che vuole il proprio male. Ed è proprio così.

Il professor Passigli, già senatore del Pd, si è mosso proponendo un referendum abrogativo del Porcellum. E si è trovato mezzo partito contro. Il professor Ceccanti, il costituzionalista prediletto da Veltroni, lo attacca asserendo che «il ritorno alla proporzionale segnerebbe la fine del bipolarismo». Ma quando mai, ma perché? Quasi tutta l'Europa occidentale usa la proporzionale ed esibisce al tempo stesso una struttura bipolare.

Inoltre non sarebbe il ritorno alla stessa proporzionale di prima, visto che ora avremmo una proporzionale con sbarramento del 4 per cento. Il professor Ceccanti ricorda anche che il partito è sempre stato per il sistema maggioritario a doppio turno di tipo francese. Ma non ricorda bene. Proprio Veltroni, quando era segretario del partito, lo cancellò dall'agenda. L'altra idea è di tornare al Mattarellum. Come se avesse funzionato bene, come se fosse degno di riesumazione. E in ogni caso mi sfugge come un sistema maggioritario possa essere ricavato da un referendum abrogativo che può soltanto cancellare ma non sostituire. A prescindere dalla proposta Passigli, che mi sembra già silurata dal suo stesso partito, mi ha colpito che anche Bersani, tra le tante stramberie, ne abbia detta una anche lui: che la proporzionale è da respingere «perché non dice come sarà composto il governo». Ma, di grazia, come potrebbe? Le elezioni (mi si perdoni l'ovvietà) eleggono, punto e basta. I governi, quali saranno e da chi composti, li stabilisce il Parlamento. Nei sistemi parlamentari è così. E il nostro è pur sempre un sistema parlamentare, per quanto malconcio e tartassato.

Giovanni Sartori

16 luglio 2011 08:24© RIPRODUZIONE RISERVATA
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