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Autore Discussione: Giovanni SARTORI. Politologo fuori dagli schemi  (Letto 82865 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 07, 2010, 05:06:37 pm »

NOI E L’ISLAM

Il pluralismo valorizza la diversità

No al multiculturalismo ideologico


A quanto pare il tema della cittadinanza agli islamici è sentito. Il Corriere ha selezionato ieri 11 lettere, ricavate da un totale di quasi 450 accolte su 23 pagine di Internet. Ne ignoro la distribuzione. Ma un mio amico ha calcolato che più della metà di queste lettere sono a mio favore, e che le altre sono per lo più divagazioni ondeggianti tra il sì e il no. Grazie a tutti, anche perché ho così modo di estendere il discorso (seppure complicandolo un po’).

Primo.
Non si deve confondere tra il multiculturalismo che esiste in alcuni Paesi, che c’è di fatto, e il multiculturalismo come ideologia, come predicazione di frammentazione e di separazione di etnie in ghetti culturali. Per esempio la Svizzera è oggi, di fatto, un Paese multiculturale che funziona bene come tale, anche se il lieto fine ha richiesto addirittura una guerra intestina. Invece Belgio e Canada sono oggi due Paesi bi-culturali in difficoltà, specie il primo. Anche la felix Austria fu, sotto gli Asburgo, un grande Stato multiculturale che però si è subitamente disintegrato alla fine della prima guerra mondiale. Comunque, i casi citati sono o sono stati multiculturali di fatto. Il multiculturalismo ideologico di moda è invece una predicazione che distrugge il pluralismo e che va perciò combattuta.

Secondo.
Contrariamente a quanto scritto da alcuni lettori, è il pluralismo che valorizza e pregia la diversità. Ma una diversità fondata su cross-cutting cleavages, su affiliazioni e appartenenze che si incrociano, che sono intersecanti, e non, come nel caso dell’ideologia multiculturale, da affiliazioni coincidenti che si cumulano e rinforzano l’una con l’altra. Pertanto è sbagliato, sbagliatissimo, raccontare che ormai viviamo tutti in società multiculturali, e che questo è inevitabilmente il nostro destino. Invece sinora viviamo quasi tutti, nell’Occidente, in società pluralistiche in grado di assorbire e di gestire al meglio l’eterogeneità culturale. Attenzione, allora, a non attribuire al multiculturalismo pregi che sono invece del pluralismo.

Terzo.
Un’altra confusione da evitare è tra conflitti religiosi e conflitti etnici. Questi ultimi sono purtroppo eterni e ricorrenti. Lo sono anche, tra l’altro, all’interno del mondo musulmano. Per esempio gli iraniani sono etnicamente persiani, non arabi; e la comune fede islamica non ha impedito, di recente, una sanguinosissima guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran degli ayatollah. Le religioni possono invece coesistere pacificamente ignorandosi l’una con l’altra. Si combattono quando sono «calde», invasive, fanatizzate; non altrimenti.

Quarto.
Qual è il vero Islam? Gli intellettuali musulmani accasati in Occidente si affannano quasi tutti a spiegare che non è quello propagandato dai fondamentalisti. Anche io ho letto, ovviamente, il Corano, che è simile all’Antico Testamento nel suggerire tutto e il suo contrario.
Ma il fatto è che gli islamisti contrari al fondamentalismo hanno voce e peso soltanto con gli occidentali. Il diritto islamico viene stabilito, nei secoli, dai dottori della legge, gli ulama. Sono loro a stabilire quali sono, o non sono, gli sviluppi conformi alla dottrina coranica; e anche in Occidente il comportamento dei fedeli è dettato, ogni venerdì, nella moschea dal discorso del Khateb che accompagna la preghiera pubblica. La moschea, si ricordi, non è solo un luogo di culto, una chiesa nel nostro significato del termine, è anche la città-Stato dei credenti, la loro vera patria.

Quinto.
I rimedi. Tutti si chiedono quali siano, eppure sono ovvi. È stato il bombardamento del «politicamente corretto» che ce li ha fatti dimenticare o dichiarare superati. A suo tempo i tedeschi accolsero milioni di turchi come «lavoratori ospiti»; noi avevamo e abbiamo i permessi di soggiorno a lunga scadenza; gli Stati Uniti concedono agli stranieri la residenza permanente. Sono tutte formule che si possono, se e quando occorre, migliorare e «umanizzare». Ma sono certo preferibili alla creazione del cittadino «contro-cittadino» che, una volta conseguita la massa critica necessaria, crea e vota il suo partito islamico che rivendica diritti islamici se così istruito nelle moschee.

Non dico che avverrà; ma se il fondamentalismo si consolida, potrebbe avvenire. È un rischio che sarebbe stupido correre. O almeno a me così sembra.

Giovanni Sartori

07 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 29, 2010, 03:44:03 pm »

GLI INTERVENTI MILITARI DI OBAMA

Il Presidente guerriero

Nel suo primo messaggio sullo stato dell'Unione il presidente Obama ha lasciato la politica estera in sordina ma ha ribadito, a proposito dell'Afghanistan, il progetto che sappiamo: nuove truppe oggi ma inizio del loro ritiro a metà del 2011. Capisco che questa logica distorta (se annunzi che te ne vai perdi più che mai) sia imposta dall’impopolarità della guerra, di qualsiasi guerra.

La guerra è di per sé orribile. L'Occidente (salvo eccezioni balcaniche) lo ha capito e ne è profondamente convinto. Ma non è sempre evitabile. E dobbiamo tutti cominciare a capire che la guerra che resta inevitabile sarà diversissima da tutte le guerre che sono state combattute dall'inizio dei tempi.

Le vecchie guerre venivano combattute da eserciti identificabili per conquiste territoriali e anche per bottino, per saccheggio. È solo da pochi secoli che il bottino è venuto meno, ed è solo dopo le due ultime guerre mondiali che la conquista territoriale ha perduto senso.
Ciò premesso, qual è il senso, oggi, della classica distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta? Mi dispiace per i «ciecopacisti» — i pacifisti accecati dalla loro ossessione — ma un Paese che si difende dall'attacco di un altro Paese combatte una guerra giusta. Però la nozione di guerra giusta non include soltanto la guerra difensiva. Per esempio una guerra che si propone di abbattere un tiranno e di instaurare la democrazia è una guerra giusta? Questa è sempre stata l'ideologia missionaria degli Stati Uniti invocata da ultimo dal presidente Bush jr per giustificare, in mancanza di meglio, l'assalto all'Iraq. Ma è una dottrina che non ci possiamo più permettere; senza contare che in moltissimi casi è destinata a fallire. Nel caso dell'Iraq il successo è stato di abbattere un tiranno sanguinario e pericoloso per tutti; ma il «successo democratico » di quella guerra è molto dubbio.

E in Afghanistan? Anche lì guerra giusta per imporre democrazia? Per carità, scordiamocene. Lì si tratta di pura e semplice guerra necessaria resa obbligatoria ai fini della salvezza di tutto l'Occidente. Per decenni abbiamo temuto l'annientamento nucleare. Ma il pericolo delle armi atomiche è fronteggiabile. E comunque il pericolo maggiore è diventato quello delle armi chimiche e batteriologiche «tascabili». Qui la cattiva notizia è che mezzo chilo di tossina botulinica potrebbe uccidere un miliardo di persone. E l'Afghanistan conquistato (riconquistato) dai talebani, e al servizio di Al Qaeda, pone questo problema. Pertanto scappare non è una soluzione. Ma è anche vero che la guerra come viene combattuta oggi in Afghanistan, la guerra di occupazione e controllo del territorio contro un nemico invisibile, non può essere vinta.

Il problema è nuovo e impone soluzioni nuove. L'alternativa, propongo, è di abbandonare il territorio e di creare una zona militare fortificata (senza popolazione civile al suo interno) in grado di controllare e di distruggere dall'alto, con i droni militari americani, qualsiasi installazione sospetta di produzione di armi chimiche e batteriologiche. Questa «fortezza» dovrebbe essere collocata al confine con il Pakistan. E il punto è, in generale, che la tecnologia per difenderci dalla nuova tecnologia del terrorismo esiste. I generali, si dice, sono preparati a combattere la guerra del passato. Occorrono generali che si preparino alle guerre necessarie del futuro.

Giovanni Sartori

29 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 21, 2010, 05:41:41 pm »

L’ESEMPIO AMERICANO NON CI SERVE

Multiculturalismo e cattivo vicinato


L’Europa è caratterizzata da secoli da popolazioni stanziali, stabili, e dotate di una propria identità linguistica e culturale. Dal Settecento il Vecchio Mondo ha generato molti emigrati e accolto pochi immigrati. Il mestiere di come accoglierli e di come incamerarli è un mestiere che non conosciamo. Ed ecco che d’un tratto veniamo inondati da immigrati di ogni sorta in gran parte provenienti da «altri mondi», da mondi che sentiamo estranei.

Il problema è, allora, di estraneità e di vicinanza. L’uomo è un animale sociale che vive raggruppato in tribù, in villaggi, in città. Quindi tutti noi abbiamo un vicino, dei vicini; e tutti noi cerchiamo un «buon vicinato» costituito da persone che sono un po’ come noi, o comunque non troppo diverse da noi. Il troppo diverso, l’estraneo, è scomodo e ci fa anche paura.

Che fare? Come fare? Per i faciloni il problema è semplice: faremo come gli Stati Uniti. Ma l’esempio non ci aiuta. Il Vecchio Mondo è da gran tempo uno spazio pieno occupato, dicevo, da popolazioni stanziali. Il Nuovo Mondo era uno spazio vuoto colmato soltanto da immigrati che nel corso di due generazioni si sono largamente integrati nella loro «terra promessa». Ma anche lì gli inizi non sono stati facili. Pur essendo quasi tutti europei (niente islamici), i nuovi arrivati si sono tutti «ghettizzati» nel senso che si sono messi assieme nelle loro «piccole città» (little Italy e analoghi). In parte era perché non conoscevano la lingua del Paese nel quale si accasavano; ma era soprattutto perché così «stavano assieme», così ristabilivano un vicinato familiare. Queste piccole città etniche si sono in parte dissolte tempo un secolo (salvo eccezioni, come più di tutti i cinesi), ma si sono dissolte abbastanza rapidamente perché gli Stati Uniti sono un Paese di altissima mobilità sociale e di lavoro. Un americano cambia casa e località anche sei-sette volte; e ogni volta si deve rifare un vicinato, collegarsi e legarsi con nuovi neighbours, nuovi confinanti. Il che produce e assicura una miriade di piccole comunità funzionali di vicini compatibili.

Ovviamente il problema è tutto diverso in Europa. Gli europei sono da gran tempo residenti fissi. Hanno cambiato molti sovrani (i territori passavano da un monarca all’altro anche per matrimonio e eredità); ma gli abitanti restavano e vivevano nei loro borghi e città per secoli e secoli. Arrivavano anche a combattersi; ma si conoscevano e si somigliavano. Successivamente le recenti megalopoli hanno semmai creato una «folla solitaria» (così David Riesman) che però non è una folla di dissimili ma semmai di vicini indifferenti. Un primo punto è, allora, che non dobbiamo confondere il problema dell’integrazione politica dell’immigrante con il diverso problema di come e dove accasarli. Una cosa è il «cattivo cittadino» (che per esempio rifiuta la democrazia e preferisce una teocrazia), e altra cosa è il «cattivo vicino» che crea una convivenza invivibile tra chi c’era prima e chi sopraggiunge. Va da sé che il problema è aggravato dal fatto che i nuovi immigrati sono diventati troppo rapidamente troppi (il prefetto di Milano ricordava l’altro giorno che gli stranieri sono aumentati, dal 1980, da 3 mila a 400 mila). Ma è ancor più aggravato dalla confusione delle idee.

Per la teoria-ideologia del multiculturalismo ogni cultura si dovrebbe separare dalle altre creando così «identità mono-culturali». Pertanto questa soluzione produrrebbe ghetti davvero blindati che bloccherebbero qualsiasi integrazione. Ma quel che di fatto avviene negli insediamenti italiani (e anche nelle periferie parigine) è il caos multiculturale, l’ammucchiata di ogni sorta di estranei che sono anche estranei tra di loro. A Milano l’assassinato di via Padova era un egiziano (regolare), gli aggressori latino-americani di Santo Domingo. Ma nei quartieri conquistati dagli allogeni c’è di tutto, ivi inclusi molti africani e tutti— alla prima rissa— l’un contro l’altro armati. Fa ridere, o piangere, che siffatte situazioni di disastrosa disgregazione sociale vengano acclamate come l’avvento di un glorioso futuro multietnico e multiculturale. Che fare? Il primo passo sarebbe di invitare i suddetti laudatori a trasferirsi in via Padova (dove tra l’altro, le case degli italiani sono in svendita: davvero un affare). Poi si potrà cominciare a ragionare.

Giovanni Sartori

21 febbraio 2010
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 08, 2010, 10:26:38 am »

DATI FALSI ED EMERGENZA AMBIENTALE

HIMALAYA BENE IL RESTO MALE


Himalaya bene, il resto male. L'ultima novità ecologica è che i ghiacciai dell'Himalaya non si sciolgono più, che questa previsione
dell’Ipcc (l'organizzazione che studia per l'Onu l'effetto serra) è stata sbagliata di grosso. E molti gongolano. Per l'India gongolo anch'io, perché senza l'acqua dei ghiacciai che alimentano i suoi maggiori fiumi centinaia di milioni di persone rischierebbero di morire di fame e di sete. Ma se anch'io sono lieto per l'India, è esageratissimo ricavare da questo episodio che la scienza «non sa», che vanta un sapere che non possiede, e anche che cerca di imbrogliare. Che esistano ricercatori che falsano i dati per fare carriera è noto a tutti.
Ma di regola le frodi scientifiche sono facili da scoprire perché le scienze sono tali in quanto consentono la replicabilità delle ricerche. Il Signor Tizio ci dica come ha fatto, e il signor Caio farà la riprova. Torniamo all'Himalaya. Qual è stato l'errore?

È stato, in linea di principio, di attribuire una data, una scadenza temporale, a un trend, a un andamento di fondo. Essendo un po' del mestiere, io evito sempre di citare date e scadenze; registro soltanto linee di tendenza. Alcune delle quali sono, in ecologia, certe, anche certissime. Per esempio è certissimo che respiriamo aria sempre più inquinata. È meno certo, invece, se il surriscaldamento della Terra sia lineare e quali siano i fattori che lo possano rallentare. Dico rallentare perché se l'Himalaya tiene, l'Artico è tuttora in rapido scioglimento. È anche certissimo che le risorse naturali, a cominciare dal petrolio, finiranno. Quando? Non si sa, non è sicuro.
Ma è sicuro che la tecnologia le potrebbe rimpiazzare per i 2 miliardi di viventi di quando io nascevo, ma non certo per i 9 miliardi di formiche umane previste dai demografi per la metà di questo secolo.

Senza contare che lo «sviluppismo » frenetico predicato dagli economisti ci prevede anche tutti egualmente benestanti in tutto il mondo. Mettiamo allora che la Cina, diventata opulenta come noi, consumi (è un calcolo che è stato fatto) trenta volte più di oggi. In tal caso il conteggio demografico sarebbe da moltiplicare per la quantità di consumo pro capite. Fantascienza? A questo punto sì. Anche perché a quel punto saremo, o saremmo, tutti estinti. Fantasticherie economiche a parte, il punto serio, e anche certissimo, sul quale tutti sorvolano è la scarsità dell'acqua. Che già manca endemicamente in Africa (specialmente all'Est), ma anche altrove. Come si sa, circa il 70-80 per cento dell'acqua dolce è assorbito dall’agricoltura; un assorbimento che può essere ridotto adottando colture che richiedono meno acqua.
Anche così il problema resta drammatico perché da tempo consumiamo in eccesso acqua di falda che non si ricostituisce.

di GIOVANNI SARTORI

08 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #49 inserito:: Aprile 02, 2010, 08:59:53 pm »

IL TRIENNIO DI BOSSI E BERLUSCONI

Uno scenario complicato


Le elezioni dell’altro giorno pongono parecchi problemi, o anche problemoni, ai tre anni «tranquilli» (senza elezioni) durante i quali Berlusconi continuerà a governare. E’ chiaro che il Cavaliere resta in sella; ma indebolito nei confronti di Bossi, anche perché il suo partito, il Pdl, diventa sempre più un partito «meridionalizzato» e per ciò stesso in inevitabile rotta di collisione contro il federalismo fiscale della Lega. Beninteso, questi non sono problemi che toccano personalmente il Cavaliere. E quindi non sono, per lui, problemi veri, problemi seri.

La Lega lo incalza sul federalismo (non solo fiscale ma anche nazionale)? Berlusconi concederà il concedibile senza alcuna sofferenza. Il Vaticano invade sempre più la sfera del «libero Stato» (in libera Chiesa)? Il Cavaliere è notoriamente persona molto devota (bacia, forse per sbaglio o per lunga abitudine, persino l’anello di Gheddafi); e quindi anche qui nessun problema. Il gran capo si risente solo quando è accusato di non saper governare. Ohibò, questo no. La verità è che i giudici e una cattiva Costituzione che lo intralcia da mattina a sera gli impediscono di governare. Ma ora basta. Ora chiederà (Bossi consenziente) il presidenzialismo, da lui inteso all’ingrosso come il pieno potere di fare quel che vuole, e contestualmente metterà finalmente la mordacchia alle «toghe rosse».

Dopodiché tutti vedranno quale sia la sua statura di uomo di governo. Ma se il capo dei capi prevede per sé una navigazione trionfale, o comunque senza più problemi che lo infastidiscano personalmente, le opposizioni non possono negare di essere nei guai. Sono nei guai in parte perché sono state variamente ammaccate o sconfitte. La sinistra può esibire, è vero, due vincitori: Di Pietro e Vendola. Ma sono entrambi vincitori scomodi, quantomeno per il Pd. Vendola sposta la sinistra a sinistra, mentre alla sinistra occorrono soprattutto elettori di centro-sinistra. Invece Di Pietro carica sempre a testa bassa; e sempre è troppo spesso.

Però la sinistra è nei guai soprattutto perché è gestita da menti confuse. Primum vivere, si è sempre detto. Ma il Porcellum, la legge elettorale vigente, promette di renderla un quasi-defunto perpetuo. Il Porcellum attribuisce un premio di maggioranza del 55% dei seggi a chi ottiene la maggioranza relativa dei voti. Così è già sicuro che nel 2013 Berlusconi più Bossi vincerebbero, con il Porcellum, una comoda maggioranza di governo. Pertanto l’interesse prioritario di tutte le opposizioni è di battersi per un sistema elettorale meno iniquo. Ma Bersani ci fa soltanto sapere, di passata, che lui vedrebbe bene un ritorno al Mattarellum (ricorderete: un sistema uninominale per il 75% dei seggi). Sarebbe, per il Pd, passare dalla padella nella brace. Perché non punta, invece, sul sistema tedesco tenacemente chiesto da Casini? E’ che per Bersani il problema pare che sia di ammazzare il «centrino» di Casini. Invece è, dovrebbe essere, di salvare se stesso. Come dicevo, primum vivere. Poi, sul resto, si vedrà.


Giovanni Sartori

02 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 09, 2010, 09:09:36 am »

PERCHE’ E’ PREFERIBILE IL MODELLO FRANCESE

Presidenzialismi vari e sbagliati


Dico presidenzialismi (al plurale) perché ne esiste più di uno, ai quali si aggiungono poi presidenzialismi fasulli inventati dall'ignoranza dei politici e dal pressappochismo crescente dei giornalisti. Per esempio molti chiamano il regime berlusconiano un «presidenzialismo». No: non c'entra per niente. Altri ritengono che un sistema è presidenziale se e quando il capo dello Stato è eletto direttamente dal popolo. Ancora no: non è così. In Irlanda, Islanda e Austria, per esempio, il capo dello Stato è eletto direttamente ma i presidenti in questione sono «di facciata» (cito il politologo francese Maurice Duverger, che se ne intende).

Il sistema presidenziale fu inventato dai costituenti americani di Filadelfia perché a loro mancava il re, mancava il monarca (e nel Settecento tutti i grandi stati erano dinastici); e per quanto successivamente adottato in tutta l'America del Sud, lì il modello degli Stati Uniti ha funzionato, di regola, maluccio. Pertanto si potrebbe dire che i presidenzialismi del Nuovo Mondo sono due; e la differenza che forse più di ogni altra ha fatto la differenza è il rispettivo sistema elettorale: maggioritario negli Stati Uniti, quasi sempre proporzionale al Sud. Non lo dico per sostenere che al presidenzialismo occorra l'uninominale, ma solo per far presente che con il presidenzialismo (e probabilmente anche con tutte le democrazie che funzionano) il sistema elettorale è parte integrante e costitutiva dell’edificio.

Se il presidenzialismo puro riesce a funzionare solo a Washington, se ne ricava che il semi-presidenzialismo di tipo francese è — nel contesto dei presidenzialismi — l'opzione di gran lunga preferibile. Se Fini ora appoggia davvero questa formula (finora era sempre restato nel vago), e se la Lega — che ha già il placet di Berlusconi — si è davvero convertita al semi- presidenzialismo (alla Bicamerale del 1997 lo votò non per convinzione ma per intralciare il gioco di D’Alema che allora puntava, immagino per sé, al premierato di tipo israeliano), questa soluzione è, ritengo, accettabile e difendibilissima. A condizione, beninteso, che non venga «ripastrocchiata» all’italiana (come si sta già cercando di fare).

Altrimenti l’altra opzione diciamo in grande (perché esiste anche l’opzione di piccole riforme di governabilità nel contesto della Costituzione esistente) è il cancellierato di tipo tedesco. Il rifacimento costituzionale è in questo caso più modesto (visto che restiamo nell'ambito di un sistema parlamentare); ma il sistema elettorale è ugualmente decisivo e dovrebbe restare così come è in Germania: proporzionale con sbarramento al 5% non aggirabile mediante alleanze elettorali truffaldine.

Anche a questo proposito sento da gran tempo ripetere che il «genio italico» non può imitare, non si deve degradare nel copiare. Stupidaggini. Il nostro Statuto Albertino del 1848 fu copiato dalla costituzione belga del 1831; e tutti i sistemi parlamentari europei dell’Ottocento furono ispirati dall’Inghilterra di allora. Se il modello tedesco ci convince, non obietto: ma deve essere tedesco, non rifatto all’amatriciana.

Al Giappone sconfitto venne imposto dagli americani un costituzionalismo di tipo parlamentare; e quando gli americani se ne sono andati, quel costituzionalismo i giapponesi se lo sono tenuto. Smettiamola di essere «geniali». Non solo non lo siamo, ma è inutile esserlo quando non occorre. Se l’ombrello è già stato inventato, occorre davvero reinventare l’ombrello all’italiana?

Finora ho richiamato due presidenzialismi veri e propri, più un semi-presidenzialismo che è tutt’altra cosa (difatti potrebbe anche essere detto «semi-parlamentarismo»), più il premierato parlamentare di tipo tedesco, il cancellierato. Resta l’elezione diretta del capo del governo (non, sia chiaro, del capo dello Stato) inventata in Israele e ivi rapidamente ripudiata dopo le due elezioni mal riuscite del 1996 e del 2001. Dunque il modello israeliano è stato sconfessato dai suoi inventori, e non è stato preso in considerazione da nessun altro Paese. Salvo che in Italia, che lo ha coccolato non solo prima che fallisse ma che continua a coccolarlo a tutt’oggi. Questo coccolamento deriva dal fatto che il grosso dei nostri legislatori, e del personale mediatico che li pappagalleggia, non afferra la differenza tra l’elezione diretta di un presidente (sistema presidenziale) e l’elezione diretta del capo del governo (in un sistema che resta pur sempre di tipo parlamentare).

Ma purtroppo il grosso degli italiani non si interessa di queste astruserie, delle riforme costituzionali, nemmeno quando sono in cantiere. Peggio per loro. Finché sarà così si meriteranno il cattivo governo e il «malservizio» dei quali si lamentano.

Giovanni Sartori

09 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 15, 2010, 03:55:40 pm »

QUATTRO SCENARI PER UNA RIFORMA

Le incognite del federalismo


All’inizio la Lega parlava di secessione, poi è passata al federalismo, e ora dice «federalismo fiscale». L’ultima dizione è uno specchietto per le allodole? In gran parte sì. Il «fiscale» piace al Nord (che lo legge: più soldi da tenere per sé), e inoltre la qualifica di fiscale dà l’idea di un federalismo circoscritto, più modesto. Ma non è così. Se sarà, sarà completo e, temo, micidiale. Il collega Angelo Panebianco, sulle colonne di «Sette» è tranquillo. Per lui le riforme istituzionali saranno chiacchiere che non arriveranno a nessuna conclusione. Io sono meno tranquillo, confesso.

A Berlusconi restano tre anni di governo per i quali non può più addurre il pretesto — anche se continua a invocarlo — di non avere il potere di governare. In realtà nessuno, dopo l’infausto regime, ne ha avuto quanto lui. Si vede che il Nostro non è forte in storia, nemmeno recente. Il fatto è però che Berlusconi non ha soldi (s’intende, soldi pubblici) e che Tremonti non glieli può dare perché, vedi caso, il fisco non piace agli italiani (Berlusconi incluso) e lascia le casse dello Stato a secco. Invece le riforme inizialmente non costano nulla, sono pezzi di carta. Dopo costeranno, ci scommetto, moltissimo. Ma après moi le déluge, dopo me venga pure il diluvio. Tra tre anni Berlusconi medita di insediarsi al Quirinale, da dove il diluvio lo può guardare al sicuro dall’alto. Intanto, ripeto, le riforme sarebbero a costo zero. I problemi sollevati dal nostro rifacimento federalistico esauriscono il mio pallottoliere. Qui li raggrupperò sotto quattro stringatissime voci. Primo, il costo finanziario: nuove sedi, nuovo personale, nuovi stipendi. Questa cosiddetta devolution quanto verrà a costare? Nessuno lo sa, nemmeno all’incirca (come è stato onestamente ammesso da Tremonti).

In passato l’impavido Calderoli diceva: niente. Niente, tra l’altro, perché a suo dire il personale «federalizzato » verrà trasferito da quello statale. Si è visto. Man mano che le Regioni si consolidavano i «trasferiti» sono stati quattro gatti (salvo che da una sede romana all’altra) e contestualmente il personale centrale ha continuato a crescere. Dunque costi crescenti, sicuramente ingenti, e ignoti. In un’altra sua esternazione il faceto Calderoli ha asserito che il problema non esiste perché «tutti gli Stati federali costano meno di quelli centrali». Questa è davvero una perla. Tutti gli Stati federali in funzione, e che funzionano, sono nati federali. Pertanto non possiamo sapere quanto costavano prima quando erano (non erano) centralizzati. Secondo, i costi decisionali: quanto si allungheranno i tempi, e anche quanto aumenteranno i veti, i blocchi sui permessi di fare qualcosa. Di regola, più sono i passaggi di una pratica da una scrivania all’altra, più tempo ci vuole perché arrivi in porto.

Però i costi decisionali sono anche dovuti alla incompetenza e al menefreghismo del personale che gestisce i papelli. E purtroppo il reclutamento del personale regionale è soprattutto clientelare, e anche, man mano che si scende al Sud, sfacciatamente familistico e pericolosamente infiltrato dalla malavita. Comunque sia, il punto è che il grosso delle nuove assunzioni non avviene per merito e capacità ma per alleviare la disoccupazione e allevare clientele elettorali. Federalismo clientelare? Sarebbe un bel risultato. Terzo, il costo della frammentazione localistica. Il mondo reale è sempre più interconnesso e richiede strutture diciamo «lunghe» e allungabili: strade e ferrovie di migliaia di chilometri, oleodotti e gasdotti che traversano i continenti, linee di trasmissione dell'energia davvero globali, e così via. Invece da noi, un comune blocca un traliccio elettrico (spesso solo per farsi pagare, per fare cassa), il grande Nichi Vendola blocca da anni il rigassificatore di Brindisi (per l'Italia una riserva vitale), e Firenze non riesce ad avere un aeroporto decente perché il comune limitrofo nega da sempre qualche centinaio di metri del suo preziosissimo territorio per allungare la pista. Eccetera, eccetera, eccetera.

Il federalismo andrà a spezzettare un paese già troppo spezzettato. Se ne dovrebbe quantomeno discutere a fondo, sul serio. Ma la tv è imbavagliata, e la partita sembra oramai aggiudicata. Dimenticavo: gli italiani sono buoni, il nostro sarà un federalismo «solidale». Vorrei vedere prima di credere. Quarto, e brevissimo. Esiste, o può esistere, una qualsiasi organizzazione senza punizioni? La Sicilia fa da gran tempo tutto quel che vuole, eppure non è mai punita. Altrove esistono ancora i «commissariamenti»; ma andranno a sparire. Negli Stati Uniti (un sistema federale serio) la città di New York può fallire; e proprio per questo non fallisce. Ma in Italia Palermo, Napoli, Catania, saranno libere, come meriterebbero, di fallire? Oppure costringeranno le banche delle quali si andranno a impadronire, a fallire per loro? Sarei curioso di sapere dal ministro Calderoli (Bossi e Berlusconi non lo sanno di certo) se il federalismo leghista contempla sanzioni, e quali. Grazie, se ci sarà, dell'attenzione.

Giovanni Sartori

15 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #52 inserito:: Aprile 24, 2010, 11:32:01 pm »

DOPO SARTORI

Trasferire le funzioni non basta

È il momento del federalismo fiscale

L'intervento del ministro Calderoli

Caro Direttore,

i recenti editoriali di «nonno» Sartori sul federalismo partono da un presupposto sbagliato perché confonde federalismo e federalismo fiscale; non cogliendo minimamente quella che è la situazione. Sartori pone questa domanda: «nuove sedi, nuovo personale, nuovi stipendi. Questa cosiddetta devolution quanto verrà a costare? Nessuno lo sa, nemmeno all’incirca». Se la domanda è radicalmente sbagliata non merita risposta. Ma siccome insiste spieghiamo.
L’Italia ormai da dieci anni è vittima di un’anomalia strutturale: il cantiere federalista è stato avviato solo a metà, trasferendo funzioni e competenze ma rimanendo invece fermo sul fronte del finanziamento, affossato in un modello di «finanza derivata». Anche nella Spagna degli Anni 80, all’indomani della nuova Costituzione con la quale furono assegnati maggiori poteri alle Comunità Autonome, mancava la responsabilità impositiva; questa dissociazione tra spending power e imposizione aveva fatto esplodere i conti pubblici.

Il rimedio— e il successo — del federalismo spagnolo è stato il federalismo fiscale, poi avviato con decisione. Nell’Italia di oggi la spesa pubblica (escluse pensioni e interessi) si divide ormai a metà tra Stato e sistema delle autonomie, ma per queste ultime il potere impositivo è limitato a poco più del 10%. Si è così realizzata una forte dissociazione della responsabilità impositiva da quella di spesa. A pagare per questa situazione sono stati tutti gli italiani. Un sistema di finanza derivata finisce per premiare chi ha creato più disavanzi, favorisce una politica dell’inefficienza, mentre chi ha speso meno— perché è stato più efficiente — deve continuare a spendere e ricevere di meno. Inoltre, ha diffuso il costume dello «scaricabarile» delle responsabilità: il sindaco scarica sulla Regione le responsabilità delle sue inefficienze, la Regione accusa lo Stato di non avergli dato i soldi con una evidente confusione di responsabilità.

Senza rovesciare questa dinamica e senza reali incentivi all’efficienza non si potranno creare sufficienti motivazioni per una razionalizzazione della spesa pubblica. Il federalismo fiscale è quindi il rimedio. È stato ampiamente condiviso dalle forze politiche, anche di opposizione e dalle autonomie territoriali (tutti ignoranti e irresponsabili, secondo Sartori?). La legge si fonda su due principali coordinate: la prima è quella del passaggio dalla spesa storica al costo standard e opera sul lato della spesa: si passerà dal finanziamento dei servizi in base a quanto si è speso in passato ad un finanziamento del solo costo standard. Il finanziamento in base al costo standard porta per definizione a un risparmio e a una razionalizzazione della spesa pubblica: se un servizio ha un costo effettivo di 10 euro —e fino ad oggi è stato finanziato per 15 — di sicuro risparmieremo 5 euro e in più, garantendo il finanziamento integrale, assicureremo l’esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione su tutto il territorio nazionale, cosa che oggi non avviene. Le maggiori risorse che si renderanno disponibili andranno a ridurre il debito pubblico, la pressione fiscale o a migliorare la qualità dei servizi.

La seconda coordinata sarà l’attribuzione agli enti territoriali di un’autonomia impositiva sufficiente: gli enti disporranno di proprie entrate autonome e saranno obbligati ad essere gli attori principali della lotta all’evasione, grazie alla conoscenza che hanno del territorio. In più, i cittadini avranno a disposizione la «tracciabilità» dei tributi: sapranno non solo quanto e a chi versare, ma anche come saranno utilizzate le loro risorse. Dunque, al momento del voto saranno loro, finalmente consapevoli, in grado di premiare o sanzionare gli amministratori. Ma non solo responsabilità politica ma anche controlli e sanzioni. Gli amministratori che non rispetteranno le regole non potranno assumere personale, si vedranno bloccate le spese discrezionali, dovranno insomma ridurre le spese (perché altrimenti dovranno richiedere risorse aggiuntive ai propri amministrati). Chi causa dissesto non solo andrà a casa, ma non sarà rieleggibile ad alcuna carica. Ecco che cosa intendiamo per fallimento politico, ovvero responsabilizzazione con le buone o con le cattive. Il federalismo fiscale, da solo, però non basta per ridurre i centri di spesa. Una parte di tale riduzione l’abbiamo realizzata con il decreto legge sugli enti locali e il suo completamento si realizzerà con il Codice delle autonomie, all’esame del Parlamento, e con la prossima revisione costituzionale, necessari per definire compiutamente «chi fa che cosa» e garantire che quella cosa sia fatta da un solo soggetto.
Certo è una strada in salita di cui però abbiamo percorso già un bel pezzo. Abbiamo cuore e polmoni per raggiungere la vetta. Infine, chi di Shakespeare ferisce, di Shakespeare perisce: «Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio».
ministro per la Semplificazione normativa

Roberto Calderoli
24 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA



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IL DIBATTITO

Ma resta il nodo dei controlli

La replica a Calderoli

Tira e molla, il «bambino » ministro Calderoli risponde al «nonno» (sarei io) in modo serio e civile. Grazie. La forza di essere nonni, e cioè di avere già molto visto e vissuto, è che io ho insegnato per quasi quarant’anni negli Stati Uniti, dal che consegue che del federalismo Usa so parecchio. Ho anche fatto continue visite e anche consulenze in Sudamerica, e cioè dove il federalismo funziona poco e di solito male. Non sto a chiosare il testo di Calderoli, tanto più che lui si sa spiegare bene. E so benissimo che l’impianto «quadro» del nostro federalismo fu una improvvisata (e improvvida) pensata (per vincere le elezioni) della sinistra. A suo tempo ne scrissi, come scrissi sui costi (tra i quali i costi di riconversione) che si ipotizzarono allora per poi essere abbandonati. Qui mi vorrei soffermare su un solo punto: quello dei controlli, su chi controllerà chi, e con quali strumenti di sanzione.

Calderoli sa come me e come tutti che il nostro Paese è in buona parte clientelare, variamente marcio, molto corrotto e eminentemente corruttibile. Pertanto la normativa che il ministro cita sarà facilmente derogata, rinviata, modificata o anche cancellata. Se il Nostro la prende sul serio è forse perché non è abbastanza nonno, perché soffre di inesperienza giovanile. Secondo lui la lotta all’evasione (di ogni sorta e tipo) si fonderà proprio sulla «conoscenza che gli eletti hanno del territorio ». Ahimè no. Così mi raccontava mia nonna, ma da allora è un’arma spuntata che funziona solo nei piccoli comuni di poche migliaia di abitanti, dove tutti si conoscono e vedono con i loro occhi (non con gli occhiali della televisione di Minzolini e consimili) quel che succede.

Ma prendiamo la Lombardia, tanto per citare un esempio diciamo normale, che è da tempo saldamente in mano di Formigoni. Se io ne fossi il governatore mi studierei bene la geografia elettorale del territorio, individuerei bene le zone e le categorie elettorali da privilegiare per vincere sempre, e del resto, degli altri, mi curerei poco o nulla. Che il voto a livello regionale metta in grado gli amministrati, i cittadini, di «premiare e sanzionare gli amministratori » è sempre meno vero. Per carità, il voto ci vuole, guai se non ci fosse. Ma oggi e sempre più dovrebbe essere integrato da «autorità di controllo» davvero indipendenti, non bloccate da infiniti ricorsi, e munite di poteri di punizione, che davvero spaventano.

L’andazzo è invece (a cominciare da Palazzo Chigi) che sono i controllati che nominano i controllori che li dovrebbero controllare. Berlusconi non nasconde — anzi, lo proclama a chiarissime lettere — che cambierà anche il reclutamento della Corte costituzionale per impacchettarlo di amici suoi, di signor «sì». Tornando alle Regioni, sarebbe davvero carino se fossero i loro rispettivi presidenti a nominare chi dovrebbe controllare l’operato loro, delle loro giunte, e delle consorterie di contorno. Mi scuso con il ministro di sollevare soltanto un punto. Ma è un punto pregiudiziale. Se non viene risolto, tutto il resto sono chiacchiere e fanfaluche.

Giovanni Sartori

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« Risposta #53 inserito:: Aprile 28, 2010, 05:27:43 pm »

LOTTA NEI PARTITI E SCELTE DEGLI ELETTORI

Spifferi, correnti e preferenze


Faccio sempre fatica, confesso, a seguire la mobilità mentale del Cavaliere. D’un tratto scopre che le correnti sono la «metastasi », il cancro dei partiti. Ma di che si preoccupa? Lui non ha mai avuto un partito che si dichiarasse partito. Il Nostro esordì con Forza Italia (esortazione sportiva per le gare all’estero) e poi inventò il Pdl, che vuol dire «popolo » (non partito) della libertà. Un po’ è che un partito vero Berlusconi non l’ha mai costruito né fatto funzionare (in Germania sarebbe da sempre fuori legge, proibito). Ma è soprattutto che i sondaggisti gli hanno spiegato che la parola partito è impopolare. Per la verità anche la sinistra si è buttata per un po’ sulla botanica (la Quercia, l’Ulivo, la Margherita); ma un sussulto di dignità l’ha riportata a chiamare partito quel che partito è.

Ora ci risiamo con le cosiddette «correnti» interne di partito. Il nome viene proibito. Ma la cosa? In latino la parola che precede «partito» è stata per secoli «fazione». Poi la fazione è man mano diventata una componente interna del partito. In inglese si dice ancora faction, i tedeschi dicono Fraktion. I più melliflui democristiani hanno dolcificato fazione in «corrente ». Ma come si fa ad adoperare ancora una parola che ci compromette con un bieco passato? Io stavo meditando di proporre «spiffero». Purtroppo gli eventi mi hanno scavalcato. La sinistra ha scoperto le «fondazioni» — e quasi ogni leader ha la sua — mentre Berlusconi per una volta tanto era impreparato. Siccome sinora ha avuto un aggregato di genuflessi convocati solo per applaudirlo, ha soltanto potuto decretare, su due piedi, che non solo le correnti in casa sua sono proibite, ma che fanno male alla salute. Ma il problema per gli italiani non è questo. Forse sanno che un partito, qualsiasi vero partito, è sempre suddiviso in correnti, «spifferi», o come i sondaggisti vorranno che si dica. Né è affatto male che sia così. Il problema non è, diciamo, di pluralismo interno ma è la virulenza, slealtà e scorrettezza (o meno) con la quale si dispiega. Però il problema che oggi gli italiani più sentono è quello delle preferenze: il fatto che l’elettore non può «preferire» sulla scheda chi preferisce. A loro sentire questa è una gravissima lesione dei loro diritti.

Ora, è vero che nel proporre i candidati i partiti sostanzialmente li impongono ai loro elettori. Resta però il fatto che fino al 1991 noi le preferenze multiple (tre o quattro) le abbiamo avute, e che un referendum Segni-Pannella le ha cancellate (lasciandone una sola) il 9 giugno 1991 con una travolgente maggioranza del 96 per cento dei votanti. E anche la residua preferenza unica venne poco dopo cassata a furor di popolo.

Allora a che gioco giochiamo? Prima le preferenze le aboliamo, ora ci sembrano un salvatutto. Io, a suo tempo, votai contro la proposta referendaria per le preferenze multiple. E torno a spiegare perché, visto che il tema delle preferenze è collegato al tema delle «correnti» che Berlusconi proibisce. Occulti o palesi che siano, qualsiasi organizzazione si organizza in sottogruppi di potere che ambiscono al potere. Io favorivo, quando c’erano, le preferenze multiple perché consentivano accordi tra «cordate» di aspiranti atte a pacificarle.

Ridurre la preferenza a una sola aggrava, invece, il cannibalismo tra le correnti. Ciò ricordato (nessuno sembra ricordarsene) mi chiedo se saremo mai coerenti e contenti.

Giovanni Sartori

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« Risposta #54 inserito:: Maggio 14, 2010, 11:10:54 pm »

UNA CRISI CHE NON PASSERA’ PRESTO

Spendiamo troppo, spendiamo male

Fino a poco fa eravamo abbastanza tranquilli, visto che da mezzo secolo gli economisti ci avevano spiegato che un big crash, un grande collasso come quello del 1929 e anni seguenti, non poteva più accadere. Perché dagli sbagli di allora abbiamo imparato— ci è stato ripetuto a sazietà da chi se ne dovrebbe intendere — a non sbagliare più in futuro. Certo, l’andamento dei processi economici sarà sempre ciclico; certo, ci saranno sempre sbalzi, cali e rialzi; ma catastrofi no, catastrofi mai più. Si è visto. Anzi, come diceva Flaiano, il meglio è già passato. Le falle già scoperte (ce ne sono altre da scoprire) sono state tamponate inondando il mercato di liquidità. Che però sono debiti. Sissignori: sono debiti, e cioè soldi da rimborsare, soldi da restituire. Prescindo dall’ultimo impegno di mettere in campo (Unione europea, più altri) 750 miliardi di euro per fronteggiare ulteriori attacchi degli speculatori. I dati che sono già certi sono che entro il 2014 verranno in scadenza circa 700 miliardi di dollari di junk bonds, di obbligazioni spazzatura. Peggio per chi li possiede. Questi signori non sono stati ingannati, sapevano il rischio che correvano, e non mi fanno nessuna pena. Però anche questo sarà un bel problema. Ci sono poi i debiti di Stato (federali) che hanno dovuto fronteggiare i salvataggi delle banche. Questa è stata una necessità imposta dagli eventi, e può anche darsi che questa partita vada a posto meglio del previsto.

Però gli imprevisti che restano sono due, e sono grossi. In primo luogo ci sono i cosiddetti sub-prime: mutui offerti a profusione dalle banche senza adeguata copertura. Non sappiamo quanti ne salteranno fuori. Certo è che gli Stati Uniti sono costellati di avvisi di vendita (svendita) di beni acquistati, diciamolo pure, per colpa delle banche. Una colpa che risale, nei decenni, alla incosciente dottrina della consumer confidence il cui messaggio è che è proprio il consumatore che compra con carte di credito in rosso che dà slancio alla crescita economica. Così gli americani non risparmiano. E questo nodo è venuto al pettine. Ma l’imprevisto più grosso e più pericoloso è quello dei cosiddetti «derivati »: un marchingegno, una invenzione di due matematici che nemmeno i banchieri hanno capito bene, e che certo non mi provo a spiegare. I derivati in giro per il mondo quanti sono? Non si sa, né lo si vuol rivelare. Ma sono persino finiti nei portafogli di alcune nostre amministrazioni locali. Questa, molto all’ingrosso, la situazione. Perché? Cosa vuol dire? Vuol dire, per l’Occidente, che dagli anni Sessanta in poi abbiamo cominciato a spendere più di quel che guadagniamo, al di sopra delle nostre risorse. Alla consumer confidence noi abbiamo aggiunto le «aspettative crescenti», che poi sono man mano diventate «diritti», diritti intoccabili. Una spiegazione supplementare è che in molti Paesi le finanze pubbliche sono disastrate dall’evasione fiscale. Se tutti pagassero le tasse dovute, il debito dello Stato non costituirebbe più un problema. Vero. Ma il problema è di difficile soluzione.

Le nostre tasse dovrebbero pagare «servizi» e il costo dei cosiddetti beni pubblici (strade, polizia etc.). Ma in molti Paesi (Grecia in primissima fila, ma l’elenco include anche l’Italia) il problema si è incancrenito. Purtroppo, e di molto troppo, il servizio pubblico diventa un «disservizio» e uno spreco usato per assorbire la disoccupazione e per acquisire clientele elettorali. Dunque, non dobbiamo spendere soldi che non abbiamo, e al tempo stesso non dobbiamo «spendere male» i soldi che abbiamo. Visto che in crisi siamo, se non affrontiamo con coraggio e determinazione i problemi nei quali ci siamo infognati, in crisi ancor più resteremo. Speriamo che la necessità porti consiglio.

di GIOVANNI SARTORI

14 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_14/spendiamo_troppo_male_9163c052-5f17-11df-8c6e-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 02, 2010, 12:00:50 pm »

CRISI ECONOMICA, SCENARI POLITICI

I sacrifici necessari


Quando vinse le elezioni due anni fa si dava per scontato che il Cavaliere sarebbe arrivato saldo in sella a fine legislatura.
Io sono stato tra i pochi dubitosi perché prevedevo (il 12 novembre 2009) che il successo di Bossi avrebbe creato un Pdl troppo concentrato al Sud e quindi in conflitto di interessi con il Nord. Nel frattempo gli economisti si sono finalmente accorti — in colpevole ritardo —, di aver allevato una perfetta catastrofe economica. Berlusconi ha fatto il sordo finché ha potuto, ma oramai ammette che la crisi c’è e così si trova anche lui impigliato in problemi che non ama e che non conosce. Sì, l’economia domestica, l’economia della sua «masserizia» (come la chiamava Leon Battista Alberti) il Nostro la conosce a perfezione; ma del resto, dello Stato e del suo bilancio, si deve occupare Tremonti, non lui. Sulla «stangata» si è defilato e se ne chiama fuori adducendo, poverino, di non avere «poteri», quasi fosse il prestanome di chissà chi. Però, bravo.

Finora gli va riconosciuto di essersi mosso con impareggiabile astuzia. Ma siamo soltanto all’anteprima della vicenda. La stangata è stata soltanto preannunziata, ed è ancora materia di trattativa e di ritocchi. A tutt’oggi si discute e basta. Ma i tagli della stangata arriveranno prestino, perché per l’euro e per l’Europa noi siamo importanti. Fino a pochissimo tempo fa l’Italia rischiava di precipitare nel gruppetto dei cosiddetti pigs, la sigla o l’acronimo per Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna: appunto, i Paesi sull’orlo del collasso. Però, salvo uno, Paesi di secondaria importanza. La Grecia ha 11 milioni di abitanti, il Portogallo 10 milioni, e l’Irlanda appena 4 e mezzo. Dei quattro pigs (vuole il caso che la parola significhi in inglese «maiali») il caso allarmante è la Spagna: 45 milioni di abitanti e, da sempre, di alta disoccupazione.

L’Italia, allora. Come reagirà il Paese quando la mannaia comincerà davvero a decapitare? Con ragionevole, seppur dolentissima rassegnazione, oppure con un crescendo di ribellismo? Beato chi lo sa. Nelle emergenze la dottrina prevede tre soluzioni. Primo, un «governissimo», detto di solito governo di unità nazionale, un governo con tutti dentro. Secondo, una grosse Koalition alla tedesca, un governo dei partiti maggiori, o comunque di una larga maggioranza compatibile, e cioè in grado di mettersi d’accordo, di volta in volta, sui provvedimenti necessari e urgenti. Infine, terzo, un governo tecnico (pur sempre sottoposto, s’intende, al controllo del Parlamento) i cui dicasteri sono affidati a tecnici invece che a politici di mestiere.

Queste soluzioni sono ovviamente molto diverse, ma sono legate da una logica comune. Se tutti i governanti impongono decisioni impopolari, e anzi le stesse misure impopolari, l’elettorato non sa più chi punire. O il castigo popolare si distribuisce più o meno a caso, oppure si attenua: se la stessa stangata viene appioppata da tutti, può darsi che sia davvero inevitabile. La formula tedesca della più larga coalizione possibile è la più razionale ma resta esposta ai ricatti degli estremisti che ne restano fuori. È pertanto la più rischiosa per chi governa.

Giovanni Sartori

02 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_02/sartori_f0c5b9aa-6e04-11df-b855-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 25, 2010, 11:40:39 am »

L’ECONOMIA DI CARTA E I LIMITI ALLO SVILUPPO

Quei soldi maledetti


L’ultima stima di qualche anno fa che ho sott’occhio contabilizza il Pil, il Prodotto interno lordo, del mondo in 54 trilioni di dollari, mentre gli attivi finanziari globali risultano quattro volte tanto, di addirittura 240 trilioni di dollari. Oggi, con i derivati e altre furbate del genere, questa sproporzione è ancora cresciuta di chissà quanto. E questa sproporzione non solo è di per sé malsana ma modifica la nozione stessa di sistema economico, di economia.

Semplificando al massimo, da un lato abbiamo una economia produttiva che produce beni, che crea «cose», e i servizi richiesti da questo produrre, e dall’altro lato abbiamo una economia finanziaria essenzialmente cartacea fondata su vorticose compravendite di pezzi di carta. Questa economia cartacea non è da condannare perché tale, e nessuno nega che debba esistere.
Il problema è la sproporzione; una sproporzione che trasforma l’economia finanziaria in un gigantesco parassita speculativo la cui mira è soltanto di «fare soldi », di arricchirsi presto e molto, a volte nello spazio di un secondo. Gli economisti «classici » facevano capo all'economia produttiva; oggi i giovani sono passati in massa all’economia finanziaria. È lì, hanno capito, che si fanno i soldi, ed è in quel contesto che l’economia come disciplina che dovrebbe prevedere, e perciò stesso prevenire e bloccare gli errori, si trasforma in una miriade dispersa di economisti «complici» che partecipano anch’essi alla pacchia.

È chiaro che in futuro tutta la materia dell’economia finanziaria dovrà essere rigorosamente regolata e controllata. Ma anche l’economia produttiva si deve riorientare e deve cominciare a includere nei propri conti le cosiddette esternalità. Per esempio, chi inquina l’aria, l’acqua, il suolo, deve pagare. Vale a dire, tutto il sistema di incentivi va modificato. La dissennata esplosione demografica degli ultimi decenni mette a nudo che la terra è troppo piccola per una popolazione che è troppo grande.

Ma anche su questa sproporzione gli economisti non hanno battuto ciglio. Anzi, per loro stiamo andando di bene in meglio, perché tanti più bambini tanti più consumatori e tanti più soldi. Il loro «far finta di non ricevere», di non vedere, è così clamoroso da indurre Mario Pirani a chiedersi (su Repubblica) se gli economisti abitino sulla terra o sulla luna. Io direi su una luna che è due volte più grande della terra. Ma qui cedo la parola a Serge Latouche, professore alla Università di Parigi, economista eretico ma anche lungimirante. Latouche ha calcolato che lo spazio «bioproduttivo » (utile, utilizzabile) del pianeta Terra è di 12 miliardi di ettari. Divisa per la popolazione mondiale attuale questa superficie assegna 1,8 ettari a persona. Invece lo spazio bioproduttivo attualmente consumato pro capite è già, in media, di 2,2 ettari.

E questa media nasconde disparità enormi. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti; e se tutti vivessero come gli americani ce ne vorrebbero sei. La morale di questa storia è che già da troppo tempo siamo infognati in uno sviluppo non-sostenibile, e che dobbiamo perciò fare marcia indietro. Latouche la chiama «decrescita serena». Serena o no, il punto è che la crescita continua, infinita, non è obbligatoria. Oramai è soltanto suicida.

Giovanni Sartori

25 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_25/sartori_4973e336-8018-11df-85d3-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 16, 2010, 09:23:42 am »

LA POLITICA DELLO STRUZZO SUL CLIMA

IL COLLASSO ECOLOGICO

Estate rovente o piogge torrenziali, siccità o diluvi un po' dappertutto. In Italia il caldo è stato soffocante per gran parte di giugno e di luglio. Ed è stato aggravato, nelle grandi città, dall'ozono troposferico, che ha impoverito l'ossigenazione dell'aria che respiriamo. Ma l'estate è stata torrida in tutta Europa, negli Stati Uniti, Cina, Russia. Soprattutto, e per la prima volta, in Russia, colpita da un'ondata di calore mai raggiunta nei 130 anni di registrazioni ufficiali. Gli incendi spontanei dei boschi che lambiscono anche Mosca non hanno precedenti. Altrove, invece, abbiamo avuto alluvioni devastanti, inedite soprattutto in Pakistan.

Allora, è proprio vero che il clima sta cambiando? Io credo di sì; ma di per sé il gran caldo così come i grandi freddi non costituiscono prova sufficiente di niente. Anche se una frequenza crescente di oscillazioni climatiche estreme rafforza i nostri sospetti. Ma molti governi, Italia in testa, non fanno nulla per creare un'opinione «verde» né per affrontare seriamente il problema del collasso ecologico. La crisi economica è e resta grave, ma il problema della crescente invivibilità del nostro pianeta è molto, molto più grave. Eppure da noi è fiorita soltanto l'industria dell'eolico, dei mulini a vento. Ed è fiorita quasi soltanto perché fonte di tangenti e di intrallazzi. Perché l'energia prodotta dal vento è largamente un imbroglio, visto che la nostra penisola non ha abbastanza vento per giustificarla.

Anni fa il portavoce per eccellenza, di fatto, degli interessi petroliferi e di gran parte della grande industria è stato il danese Bjorn Lomborg, che con il suo molto reclamizzato libro L'ambientalista scettico negava la stessa esistenza del problema ecologico e anche la crescente scarsità delle risorse energetiche e dell'acqua. Ma Lomborg ora dichiara che «il riscaldamento globale esiste, è provocato dall'uomo, e che l'uomo deve fare qualcosa per porvi rimedio». Bene. Alla buon'ora. Lomborg soggiunge, però, che «la tattica consistente nell'incutere timore, per quanto abbia buone intenzioni, non è la soluzione giusta». D'accordo. Ma quale è la soluzione giusta?

Gli scienziati che oggi studiano il clima, la rarefazione delle risorse naturali e, in ultima analisi, il problema della nostra sopravvivenza, sono migliaia. S'intende che possono sbagliare. Ma la scienza procede provando e riprovando. E noi già disponiamo di un enorme patrimonio di dati e di conoscenze che però vengono bellamente ignorate dai più.

Il fatto è che gli esseri umani non si muovono «a freddo» guidati dalle ragioni della ragione. Gli umani si attivano «a caldo», se hanno paura o se mossi da passioni (ivi incluse la passione per il potere e per il denaro). E così la scienza ricorre, per farsi ascoltare, a proiezioni con date ravvicinate di scadenza. Ma noi siamo in grado di prevedere un percorso, dei trends, non il «quando». Dunque predire scadenze è sbagliato; ma non farlo rende la predizione inefficace. Come uscire da questo circolo vizioso? Non lo so. Ma so che la politica dello struzzo dei nostri governanti è la politica peggiore.

Giovanni Sartori

15 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_15/sartori-collasso-ecologico_93258b4c-a83b-11df-94a2-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Settembre 01, 2010, 09:05:52 am »

Il potere di chi vota


Che la legge elettorale in vigore sia una «porcata» è stato detto proprio dal suo estensore, il ministro Calderoli. È lui che mi ha dato l’idea di battezzarlo Porcellum. Ed è una porcata nel senso che è una legge elettorale truffaldina: tale perché assegna un premio di maggioranza alla maggiore minoranza. Per esempio, se Berlusconi conseguisse alle prossime elezioni il 30 per cento del voti, e se nessun altro partito o coalizione arrivasse a tanto (al 30 per cento), Berlusconi otterrebbe alla Camera il 55 per cento dei seggi.

Ora, un premio di maggioranza è lecito se rafforza chi consegue la maggioranza assoluta dei voti (il 50 o più per cento); ma non se trasforma una minoranza elettorale in una maggioranza di governo. Su questo punto credo che anche i fautori del sistema maggioritario «secco » (all’inglese) siano d’accordo. Eppure anche quel sistema trasforma spesso e volentieri, per esempio, un 40 per cento dei voti in una maggioranza di seggi in Parlamento. In questo caso non c’è, beninteso, un premio di maggioranza; ma è il meccanismo del «primo che piglia tutto» dei sistemi uninominali che opera, di fatto, come un premio. Questa stortura viene invece eliminata dal sistema maggioritario a doppio turno. Non riesco pertanto a capire come mai i nostri fautori del maggioritario si ostinino a sostenere il sistema inglese invece del maggioritario a doppio turno del sistema francese. Il primo è distorcente, il secondo non lo è. E allora? Le radici di questa ostinata anglofilia risiedono, credo, nell’errata persuasione che solo il maggioritario secco porti alla creazione di un sistema bipartitico. Ma questa persuasione è sicuramente sbagliata e ampiamente smentita dai fatti.

Già negli anni Sessanta correggevo le «leggi» di Duverger sull’influenza dei sistemi elettorali asserendo, sul punto, che i sistemi maggioritari a un turno «proteggono un sistema bipartitico che c’è, ma non trasformano in bipartitico un sistema multipartitico». La nostra esperienza con il Mattarellum, la legge elettorale per tre quarti maggioritaria che ha preceduto il Porcellum, ha abbondantemente confermato la mia tesi. Con il sistema proporzionale della prima Repubblica i partiti rilevanti sono stati 5-6; con il successivo Mattarellum si sono triplicati. Perché?

La ragione di questa frantumazione l’ho spiegata (invano) non so quante volte. È che nei collegi uninominali i partitini acquistano un potere di ricatto che altrimenti non hanno. Sanno di non poter vincere, ma nei collegi «insicuri» dove lo scarto tra i maggiori partiti è piccolo, sanno che il loro voto è decisivo. Nasce così il sistema delle «desistenze»: io non mi presento, mettiamo, in dieci collegi e tu, in contraccambio, mi assicuri un collegio ogni dieci. La frantumazione del nostro sistema partitico nasce così. Sì, ripudiare il Porcellum è essenziale e doveroso. Ma tornare al maggioritario secco è tornare a una esperienza fallimentare. Ecco perché non posso firmare l’appello promosso dal professor Pietro Ichino. Ma sarei prontissimo a sottoscrivere un suo appello per un sistema elettorale maggioritario a doppio turno.

Giovanni Sartori

01 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_01/sartori-politica-voti-potere_b92c3df0-b587-11df-89bc-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Settembre 09, 2010, 09:16:53 am »

DEMOCRAZIA PARLAMENTARE (E DIRETTA)

Populismo costituzionale


Lo spettacolo della politica italiana è caotico e disperante. In tanto caos l’unico punto fermo che ci resta è la Costituzione.
Ma anche la nostra Costituzione viene sempre più «forzata» da letture che la distorcono.

Cominciamo da un dato incontestabile: le democrazie moderne non sono democrazie dirette. Tali furono la democrazia ateniese (che già Aristotele riteneva una forma cattiva del «governo dei molti »), nonché le piccole democrazie fiorite, e presto sfiorite, nel Medioevo; e tali restano le democrazie cittadine di piccole comunità. Ma la democrazia «in grande» degli Stati territoriali non sono mai state, né possono essere, democrazie dirette. Sono invece democrazie indirette fondate sul principio della rappresentanza, e perciò democrazie rappresentative. Il loro meccanismo è che il demos, il popolo, elegge in quanto titolare del potere assemblee di rappresentanti che a loro volta esercitano il potere tra una elezione e l’altra. E la rappresentanza in questione viene configurata, in tutte le costituzioni liberal-democratiche, così: che l’eletto rappresenta la nazione (non i suoi elettori) «senza vincolo di mandato ». Questa formula risale alla rivoluzione francese del 1789 e stabilisce la differenza tra rappresentanza di diritto privato (per esempio, il rapporto tra me e l’avvocato che mi rappresenta) e rappresentanza di diritto pubblico, e cioè la rappresentanza politica.

I vari parlamenti medievali e delle monarchie assolute erano, appunto, parlamenti di delegati che trattavano con il sovrano sulla imposizione fiscale. Il noto principio no taxation without representation, niente tasse senza rappresentanza, si fondava ancora sulla rappresentanza di diritto privato e non prefigurava in nessun modo una democrazia rappresentativa.

Eppure oggi Berlusconi, Bossi e tanti altri ancora invocano un mandato che la Costituzione espressamente vieta. Perché? A monte la colpa è del Presidente Ciampi che lasciò passare, senza fiatare e senza capire il problema, l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Il che è servito soprattutto a Berlusconi per rivendicare di essere scelto direttamente dall’elettorato. Questa rivendicazione non è comprovata dalla contabilità elettorale, visto che i voti per il suo partito ammontano, più o meno, a un terzo dell’elettorato. Ma il punto è soprattutto che la cosiddetta «scelta» del premier non è, assolutamente non è, una scelta. Una scelta presuppone che l’elettore abbia una alternativa, e quindi richiede che il nome del candidato premier stampato sulla scheda possa essere approvato oppure disapprovato (prevedendo due caselle del Sì o del No), dal votante. Il che non è.

L’idea del mandato si trasforma poi nella tesi che il governo e la maggioranza di governo sono stabiliti dagli elettori, e pertanto che il parlamento non possa creare o sostenere governi diversi da quello indicato dagli elettori. Ma allora a cosa serve il sistema parlamentare? La sua forza risiede proprio nella sua flessibilità, nella sua capacità di auto-correzione. È vero che questa flessibilità può essere abusata; ma questo abuso può essere impedito, per esempio, dal voto di sfiducia costruttivo del sistema tedesco. Altrimenti si cade in un sistema di «rivotismo continuo » che è il peggiore di tutti. E che nemmeno è consentito— sia chiaro—dai sistemi presidenziali o semipresidenziali di tipo francese. Dicevo che l’unico punto fermo che ancora ci resta è la Costituzione e un sistema costituzionale.
Che oggi è insidiato da un infantile populismo costituzionale e da un «direttismo» sconfitto da duemilacinquecento anni di esperienza. Sarebbe l’ultima sciagura.

Giovanni Sartori

09 settembre 2010
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