LA-U dell'OLIVO
Novembre 01, 2024, 06:31:32 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 18
  Stampa  
Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 145566 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #90 inserito:: Settembre 21, 2009, 04:07:40 pm »

21/9/2009

Ma Barack ci ama o non ci ama?
   
LUCIA ANNUNZIATA


L’elezione di Obama, nonostante i toni di grande riconciliazione, ha inserito una sorta di disagio nelle vene dell’Alleanza atlantica, quale mai sperimentata prima. Con il presidente Bush questi rapporti fra le due sponde erano infatti non idilliaci ma chiari. Con il nuovo inquilino della Casa Bianca, il perfetto contrario: idilliaci ma non chiari. La prevedibilità, la nettezza di posizioni del presidente repubblicano sulla guerra preventiva e la negazione del multilateralismo sono state sostituite dall’amichevolissimo ma illeggibile e per molti versi distaccato rapporto con Obama.

Proprio in questi giorni, due grandi eventi hanno portato a galla l’incertezza. L’accelerazione della guerra in Afghanistan, di cui i morti italiani sono insieme il prodotto e il simbolo; e la cancellazione dello scudo spaziale antirusso, i cui siti sono stati collocati finora in Polonia e in Repubblica Ceca.

Entrambe le circostanze hanno messo in fibrillazione gli europei. Il lutto italiano è solo l’ultimo di una serie che fa ormai parlare i Paesi europei della necessità di rivedere la missione in Afghanistan - ma questi dubbi sbattono contro un’accelerazione dell’impegno in quel Paese decisa dal presidente americano.

Vero è che nel Paese dei Taleban le missioni sono due e separate, quella Nato e quella Usa, per cui tecnicamente gli alleati possono procedere senza necessariamente intersecarsi, ma il raddoppio dei soldati Usa deciso negli ultimi mesi da Obama (nel 2008 erano 32 mila, oggi 62 mila) e il desiderio di ritiro che circola in Europa sono elementi di distanza obiettivi, e creano un ovvio disagio.

Per quel che riguarda l’annullamento dello scudo spaziale antirusso, l’Europa continentale non può che esserne contenta, dopo tanto aver invocato la fine di ogni tentazione di guerra fredda. Ma la cancellazione di ogni difesa antirussa sembra essere andata molto più in là di ogni attesa, e non solo lascia sorpresi gli europei ex occidentali, ma lascia impauriti gli europei ex orientali. La laconica risposta con cui proprio ieri Obama ha cercato di rassicurare tutti noi, più che risolvere i dubbi, è suonata ancora più distaccata: «Bush aveva proprio ragione, questo scudo non è mai stato una minaccia per la Russia. Noi abbiamo preso le decisioni più efficaci per proteggere noi e i nostri alleati. Se poi uno dei risultati di questa decisione è di rendere un po’ meno paranoide la Russia spingendola a fronteggiare con noi la minaccia dei missili dell’Iran, è un risultato in più».

In Italia, va aggiunto, la nuova vicinanza distante con l’America di Obama è stata ulteriormente sottolineata dal molto pubblicizzato cambio dell’ambasciatore Usa nella capitale, Thorne, che, in maniera certo inusuale, ha prima dato un’intervista al Corriere della Sera e poi si è presentato a Palazzo Chigi.

Nasce così, in tutti questi solchi e buche della strada, il dubbio che si sente circolare: e se Obama oggi si sentisse meno vicino all’Europa di quanto (paradosso!) non lo fosse Bush? E se Obama rispettasse di più ma amasse meno questa nuova Europa? La domanda in sé è già un segno dei tempi: l’esistenza stessa del dubbio è una forma di cambiamento. Ma se di diversità si tratta rispetto al passato, forse andrebbe capita non tanto scrutando Obama, quanto noi stessi, europei. Effettivamente, per certi versi il nuovo leader americano è più lontano dall’Europa. Ma il modo e le ragioni non sono parte di una differenza, quanto del significato stesso dell’attuale presidenza. Forse, dunque, siamo noi a non capirlo bene. Obama legge il mondo, inteso come il globo terrestre, con un movimento diverso, strettamente legato ai suoi obiettivi. Davanti a sé ha due compiti storici: salvare l’economia mondiale, per salvare quella del suo Paese, e riaffermare l’egemonia americana.

Entrambe queste sfide le vince o le perde in Asia. Il suo braccio di ferro economico è con la Cina, e le sue guerre di stabilizzazione sono tutte intorno e dentro i Paesi musulmani. Di conseguenza, Obama guarda al mondo ogni mattina, affacciandosi al balcone della Casa Bianca, non più da Ovest a Est, mirando cioè all’altra sponda dell’Atlantico, bensì da Ovest a Ovest, voltato verso il Pacifico, e oltre, la Cina appunto, l’Estremo Oriente, il Medio Oriente. Alle sponde europee arriva solo dopo questo lungo volo di uccello. E prima di arrivare a noi europei dell’Ovest, passa ben prima dalla Turchia e dalla Russia. In questo senso è vero, siamo più lontani di prima dalla Casa Bianca. L’Europa che per anni ha detenuto il centro di quasi tutti gli sviluppi mondiali, insieme con gli Usa, oggi è geograficamente ai margini del centro. Il modo rispettoso ma parallelo a noi con cui l’Amministrazione Usa gestisce tutti i suoi dossier esteri - dall’Afghanistan al petrolio, alle alleanze, alle rogne, come l’Iran - è la prova di questa nuova realtà.

Ma è freddezza? È distacco politico? È un indebolimento dell’Alleanza atlantica? È una sua marginalizzazione? Insomma, Obama ci ama o non ci ama? A tutte queste domande che poi nei vari Paesi rischiano, come in Italia, di ingigantirsi fino a diventare tensioni con gli Usa, la risposta migliore è forse la più semplice: sì, Obama ci ama, ma la geografia purtroppo non è più la stessa.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #91 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:37:08 pm »

30/9/2009

Afghanistan Obama non fa sconti
   
LUCIA ANNUNZIATA


Bisogna dire che gli Europei hanno una strepitosa capacità di autoingannarsi. O forse solo di sognare. La novità costituita da Obama, dalla sua nuova geografia, dai movimenti con cui sta provando a ridefinire i confini e le alleanze nel mondo continuano a non essere compresi a fondo da questa Europa che, attaccata alle sue passate glorie, pretende, pensa, o è forse solo speranzosa, di essere ancora un partner paritario degli Stati Uniti.

Un ottimo esempio di questa ambiguità è la guerra in Afghanistan, finora trattata da questa parte dell’Atlantico esattamente come le guerre americane precedenti. La guerra di Bush in Iraq, continuiamo l’esempio, venne affrontata da europei ed americani stabilendo una forma di «convergenza parallela» (e noi italiani sappiamo bene di cosa parliamo). Cioè con un accordo di fatto in cui gli Usa facevano la guerra, e gli Europei facevano un po’ di guerra e un po’ di opposizione alla guerra, salvando capra e cavoli degli impegni di governo e del dissenso anti-guerra.

Su questa linea di alleanza e dissenso la Francia ha fatto il successo del suo «Orgoglio nazionale», Tony Blair, con abilità molto curiale, è riuscito a tenere fino all’ultimo minuto del suo incarico. Per quel che riguarda l’ambiguità italiana non dovrebbe essere forse necessario tornarci. E, visto che questo atteggiamento ha funzionato, i capi di Stato europei si sono attrezzati a ripeterlo sull'Afghanistan. Ma, signori, Obama non è Bush, come si ripete da un po’ di tempo. E non lo è soprattutto nel senso che le sue prese di posizione sono ben più definite, assolute, convinte, di quelle del Presidente che lo ha preceduto. Obama pensa che siamo entrati in una irripetibile e decisiva fase del mondo. Crede che c’è uno scopo finale che si gioca a partire dal qui e ora. Un senso, se volete, di missione per se stesso, e per gli Usa. Non ha voglia di giocare a prendere il tè, né di salvare la faccia dei suoi interlocutori con vuoti rituali.

Ed ha ragione. C’e un senso di ultimatum in questi nostri tempi che sembra arrivare dritto al cuore della partita di tutti, l’idea che l’orologio non misura più il tempo del piacere, ma quello del dramma. Economia, risorse, occupazione, guerre. Il nodo della storia si è ingarbugliato di nuovo. In questo spirito, pressato e pressante, Obama si muove, e non fa sconti a nessuno, nemmeno alle esigenze interne, elettorali, o mediatiche dei suoi nemici o alleati.

A Pittsburgh alcuni giorni fa, quando è salito sul palco per richiamare all’ordine l’Iran, aprendo un percorso che potrebbe portare alla prima guerra globale atomica, non si è fatto scrupolo di portare accanto a sé solo gli europei di cui si fida di più: Francia, Inghilterra, e la (solo evocata) Germania. L’Italia, la Spagna, ogni altro Paese della Nato o dell’Unione Europea lasciati fuori, senza timore di ferire o umiliare i vari orgogli nazionali. Obama è in questo senso senza scrupoli. Con questo spirito, incurante se non di quello che considera rilevante, è andato ieri all’essenziale di nuovo sull'Afghanistan con la Nato, dunque gli europei. Tirandoli fuori dalle loro cuccette nazionali. Nel corso dell’incontro ufficiale (dunque nessun ammiccamento, nessuna parola sfuggita tra una stretta di mano e l’altra) con Anders Fogh Rasmussen, attuale capo della Nato, ha ricordato che «l’Afghanistan non è una battaglia americana. Ma anche una missione Nato». Ed ha così chiesto altre truppe anche all’Europa.

Possiamo ora dire di no a questa richiesta? Rasmussen e Obama si sono incontrati per discutere del più recente rapporto sulla situazione in Afghanistan elaborato dalle Armate Usa. Un bilancio molto negativo. La ragione per cui il comandante Usa delle operazioni americane nel Paese dei talebani, Stanley McChrystal, ha chiesto altri 40 mila uomini. Il Presidente Usa nei primi mesi del suo lavoro ha già accettato di raddoppiare il numero di truppe, dai 32 mila di Bush ai 62 mila attuali. La richiesta di 40 mila uomini in più gli è ben più difficile da gestire: se concede infatti altri soldati in Afghanistan dovrà fronteggiare l’accusa dei pacifisti; al contrario se dice di no dovrà affrontare il dissenso dei suoi generali, a partire dalle ventilate dimissioni da parte dello stesso generale McChrystal. Una situazione difficile per il Presidente, soprattutto dopo l’accelerazione dello scontro con l’Iran.

Se gli europei pensavano di poter ancora giocare a nascondino con gli Usa, condividendone le vittorie e distanziandosi dalle sconfitte, questa volta hanno trovato pane per i propri denti. Tramite Rasmussen Washington ci avverte che se l’Afghanistan va male, la responsabilità non è solo sua. Per cui, si muova anche l’Europa. La palla passa ora ai nostri governi. Tocca a loro ora scegliere e decidere se mandare o no altri uomini. Potremo dire di no, allora? Sì, ma stavolta Washington metterà un prezzo su questo rifiuto. Dopotutto, ci ha ricordato Obama, essere alleati è un po’ come essere sposati. Si sta insieme, e insieme significa condividere tutto.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #92 inserito:: Ottobre 02, 2009, 06:00:06 pm »

25/9/2009


Priorità al problema del lavoro
   
LUCIA ANNUNZIATA


A Londra, in aprile, nell’ultima riunione del G20, preparatoria di quella che si tiene oggi a Pittsburgh, Obama si distinse per l’appello rivolto ai grandi del mondo presenti affinché non cadessero vittime del protezionismo, assecondando gli spiriti animali che scattano in ogni governo di fronte a un crollo economico come l’attuale.

Quell’appello è ancora rilevante per la riunione in corso del G20, che vuole definire le regole per una morale del mercato. Il protezionismo ha infatti una forte valenza etica, essendo - concetto che riprendiamo dal Presidente Usa - la chiusura sui propri singoli interessi, a spese di quelli di tutti gli altri. Ma con un livello di disoccupazione del 9,7 per cento negli Stati Uniti, potrà davvero Obama battersi a Pittsburgh contro l’egoismo delle barriere economiche? È una delle tante domande che alimentano scetticismo sui risultati effettivi del vertice.

Dall’appuntamento londinese di aprile molte cose sono cambiate. Allora la riunione avvenne con l’acqua alla gola. L’incontro di oggi si svolge invece nel segno di una ripresa - sia pur non tale da poter brindare. E proprio l’alto livello di disoccupazione svela la fragilità di questa ripresa.

Il peso e il significato della crisi occupazionale sono stati ratificati mercoledì scorso dalla più autorevole delle fonti, la Fed. Dopo un seminario di due giorni, la Banca centrale americana ha dichiarato che non cambierà i tassi di interesse «per un lungo periodo» (i tassi Usa sono di poco superiori allo zero dal 2008, a stimolo di una economia ancora debole). Una decisione che gli analisti spiegano così: «Ci si aspetta per i prossimi due anni una crescita positiva ma molto lenta, non sufficiente a far abbassare significativamente il livello di disoccupazione - che è poi la vera ragione per cui la Fed sarà molto accomodante nei prossimi anni». La scelta di Obama di mettere nell’agenda del G20 il problema del lavoro è dunque perfettamente comprensibile, quasi obbligata. Ma la sua è anche una mossa propagandistica mirata al sostegno di un settore elettorale per lui decisivo: la classe operaia. Il voto operaio in America è tendenzialmente democratico, ma esposto a oscillazioni. Nel 2004 ad esempio, fu proprio il voto operaio a riversarsi su Bush e a far perdere John Kerry.

Per tenere agganciato questo sostegno, il Presidente negli ultimi mesi non si è risparmiato nulla, incluse operazioni contraddittorie con altri suoi settori di consenso. Solo due settimane fa, subito dopo il discorso al Congresso per rilanciare la riforma dell’assistenza medica, Obama ha fatto uno spettacolare giro a tappe forzate del mondo operaio - dalla Gm alla Convenzione del sindacato Afl Cio. Sfoggiando nell’occasione una retorica anti-Wall Street mai ascoltata prima: «Il settore finanziario preferisce la ricchezza al lavoro, pratica l’egoismo invece che il sacrifico, e l’avarizia invece della responsabilità»; e facendo l’occhiolino alla centralità operaia: «Insieme, con le braccia allacciate, otterremo tutto».

Gli atti e gli impegni sottoscritti a favore di questo mondo sono tanti. Intanto, Obama ha messo in atto un programma di rottamazione (4500 dollari per cambiare macchina) a favore di auto a maggior efficienza energetica. L’intervento ha molto beneficiato la Gm, che produce la Chevrolet Cobalts, favorita dai consumatori. Sulla stessa linea, il Presidente si è impegnato a adottare uno standard nazionale per facilitare la costruzione di auto a risparmio energetico. Ha poi promesso di sostenere l’adozione della legge «Employee Free Choice Act», che dovrebbe rendere possibile la sindacalizzazione di ogni posto di lavoro. Un provvedimento visto come «socialista» da molti.

Obama sembra insomma lavorare a una sorta di patto globale tra Stato e operai, come da anni non si vedeva negli Stati Uniti. A rinsaldare questo patto, la violazione del pur tanto celebrato antiprotezionismo viene fatta senza batter ciglio. Nel mese in corso, ad esempio, è stata imposta una tariffa del 35 per cento sulle ruote importate dalla Cina: su richiesta del sindacato United Steelworkers, e contro le opinioni di molte industrie dello stesso settore. Obama è poi rimasto silenzioso quando il Congresso ha appoggiato la protesta del sindacato dei Teamster, che ha bloccato i camion messicani che portavano generi alimentari negli Usa: una chiara violazione del North American Free Trade Agreement. E a tutt’oggi non si è dichiarato contrario all’idea di una parte dei democratici che chiede l’imposizione di tariffe per gli Stati che non accettano restrizioni sulle emissioni di carbone. Prima di concludere, tuttavia, abbiamo una lancia da spezzare a favore di Obama. Si può certamente affermare che non è il solo ad arrivare alla riunione di oggi con qualche contraddizione. Secondo il Centre for Economic Policy Research in London, dall’ultima riunione «i membri del G20 finora hanno violato il loro impegno contro il protezionismo ogni tre giorni». Prova, ove se ne sentisse ancora il bisogno, che la pressione della disoccupazione al momento è l’unica vera emergenza che abbiamo di fronte.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #93 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:13:05 am »

3/10/2009

Olimpiadi 2016: vince Rio, Obama al tappeto
   
LUCIA ANNUNZIATA


Il metodo Obama ha avuto a Copenaghen la sua prima battuta di arresto. Il metodo è quello che ben conosciamo: «Be nice», cioè presentati, offri le tue parole, il tuo carisma, la tua fede, la tua splendida moglie, la tua vita, le tue speranze, e il mondo sarà ai tuoi piedi.

C’è qualcosa di triste, brusco, burbero, ma profondamente reale, nello schiaffone che il Cio ha assestato al Presidente degli Stati Uniti a Copenaghen bocciando (e immediatamente, senza un batter di ciglio) la candidatura di Chicago per le Olimpiadi 2016, per poi dare il proprio voto al Brasile. È una lezione di realismo, sferrata con quei modi da spogliatoio che caratterizza tutte le competizioni del Cio, come ben sa l’Italia. I giudici di quel giro lì sono duri e puri. Nel senso che volano regali, circolano accordi, e per il resto chissenefrega: gli interessi sono tali che quasi sempre, come ripeto ben sa l'Italia, il calcolo fra messe e candele è molto difficile. Ma, proprio perché tutti sanno della durezza della competizione per le Olimpiadi, più acuta è la sorpresa per il no ad Obama, e più imbarazzante è per la Casa Bianca prenderne atto.

Guardandosi indietro, lasciati di stucco dall’eliminazione, è chiaro che nessuno negli Usa aveva anticipato che Barack Obama, il Presidente più seducente e più amato nel mondo di tutti i recenti leaders, sarebbe stato bocciato. Meno di tutti lo avevano capito Obama e sua moglie. Non ci avrebbero certo speso il tempo e le energie che vi hanno dedicato. Ricordiamo che nulla è stato lasciato all’improvvisazione: è stato creato un apposito ufficio presso la Casa Bianca, l’Olympic Office, affidato a Valerie Jarrett, vecchia amica e confidente della coppia presidenziale; per la prima volta una First Lady ha messo la sua faccia sull’evento, e per la prima volta un Presidente Usa si è speso di persona per fare lobby per la propria patria, anzi la propria città, presso il Cio.

È evidente che la Casa Bianca non si sarebbe tanto esposta se non fosse stata almeno ragionevolmente sicura di vincere. Più che una sorpresa, la bocciatura ha avuto infatti a Washington l’eco di una cannonata, scatenando un frenetico attivismo dell’opposizione e delle news che vi hanno subito affondato i denti. Quello di Obama appare così come il primo vero errore di ingenuità su se stesso e le proprie forze. Cosa ha calcolato male? Due elementi. Il primo è geopolitico - termine abusato che possiamo semplificare in questo modo: mai sottovalutare la volontà dei cani da cortile. Il Brasile è lì, nel cuore del continente al Sud degli Stati Uniti, e pulsa, e ha voglia, con le sue riserve energetiche, la sua densità demografica, e la sua volontà, di uscire dal Terzo Mondo, dalla lista dei sottoposti.

L’altro errore è invece solo di Obama - un errore che attiene al suo intimo: la fiducia eccessiva nel suo stesso metodo. Quel «be nice», di cui si parlava prima. La sua certezza quasi ormai inscalfibile, cresciuta nei mesi di campagna elettorale e maturata al sole dell’ammirazione mondiale dopo l’elezione, che gli basti presentarsi alle folle per cambiare le cose. È un sistema che ha funzionato per lungo tempo. Bastava il suo sorriso, le sue bambine, un bacio a Michelle, la sua promessa, e il mondo si apriva. In patria però il metodo comincia a logorarsi - le ore in tv ad esempio non sono bastate a cambiare il voto in commissione del Senato sulla Riforma dell’Assistenza Medica. Da ieri abbiamo la prova che non basta più nemmeno sulla ribalta internazionale. Finché si tratta di Olimpiadi - nonostante la grande quantità di soldi coinvolti - è una sconfitta che si può accettare. Ma il dubbio che lo schiaffo danese diffonde è più insinuante: se il metodo si rivela fragile in una competizione di gomito come quello per le Olimpiadi, reggerà in competizioni a colpi di cannoni come in Palestina, il Caucaso, la Cina, l’Iran?

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #94 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:27:16 am »

14/10/2009

I giornali e la politica fragile
   
LUCIA ANNUNZIATA


Il punto è, ministro Frattini, se davvero la cultura cospiratoria, irrisolta, opaca con cui guardiamo alla nostra storia - che lei indica, nella sua lettera di ieri a questo quotidiano, come la radice di un giornalismo disfattista - non sia poi una cultura condivisa dalla nostra stessa classe dirigente. In altre parole, potremmo leggere l’equazione che lei scrive invertendo le parti.

Potremmo domandarci se una classe di governo che ha bisogno di incitare i propri giornalisti ad essere «positivi» non sia essa stessa la prima ad essere convinta di non potercela fare da sola. Cioè grazie esclusivamente alla chiara e indiscussa forza dei fatti.

Una persona come Lei, ministro, cui va l’apprezzamento di essere uomo profondamente internazionale, sa bene che buona parte della polemica del governo sulle malefatte dei giornalisti italiani vale solo se la si guarda dentro il perimetro delle Alpi. Tutti sappiamo infatti che la tensione fra governi e stampa esiste da sempre, a tutte le latitudini e al di qua di ogni colorazione ideologica.

Ricorderà di sicuro le bordate amiche (oltre che nemiche) sparate contro (e in alcuni casi seguite da affondamento) i vari governi di sinistra degli Anni Novanta. Ben prima del sesso orale nello Studio Ovale, Bill Clinton ha dovuto fronteggiare le accuse dello scandalo Withewater - che approdò dalla stampa a un’inchiesta in Congresso -, le accuse di finanziamenti illeciti, e il sospetto addirittura che insieme ad Hillary avesse avuto parte nel suicidio\/omicidio di un loro strettissimo amico, Vince Foster. Tony Blair ha dovuto leggere sui giornali delle droghe dei suoi figli, delle spese irrituali della moglie, e anche lui subire il sospetto della responsabilità nella strana morte di un professore che avrebbe potuto denunciare le sue bugie nella scelta di andare in guerra in Iraq.

Prodi e D’Alema negli stessi anni sono stati attaccati, a diverso titolo, per le tangenti Telecom, e\/o misfatti bancari. E tutti ricordano che parte di quegli attacchi vennero sferrati loro anche da gruppi come L’Espresso-Repubblica che oggi il premier considera suoi principali nemici.

I tanti scandali sessuali cui abbiamo assistito negli anni, sono forse il meno - per altro, colgo l’occasione per ricordare a tutti che la prima rete della nostra Tv di Stato, la Rai, ha portato in Italia dagli Usa la Monica Lewinsky appositamente per un’intervista, e che l’evento andò in fumo solo perché la stagista all’ultimo minuto abbandonò lo studio in quanto offesa dai titoli della trasmissione.

Gli esempi sono tanti. E li evoco per dire non solo che Silvio Berlusconi non è in una condizione unica, ma anche per ricordare che i governi citati - di «sinistra» ripeto - hanno reagito in parte come il nostro premier fa oggi: dicendo che i giornalisti sono un ostacolo al governare, che i giornalisti si sostituiscono alla politica, anzi che spesso fanno politica, e a volte la fanno anche per conto di altri. Basta un solo esempio, che non a caso scelgo dal mondo anglosassone: Tony Blair, dopo anni trascorsi a sedurre la stampa, nel suo memoriale finalmente confessa che «se solo non ci fossero stati i giornalisti...».

Sbagliano i politici a lamentarsi? No. Hanno ragione nel dire che se non ci fossero i giornali molte cose andrebbero diversamente. Lo sa bene Bill Clinton che nonostante tutto ha visto il suo ruolo storico e quello dei democratici americani appannato dall’affaire Lewinsky. Quell’affaire ha consegnato per otto anni l’America a una destra che ha vinto sottraendo ai liberal il concetto stesso di etica. Se i giornali non avessero parlato allora della Lewinsky in Usa, come oggi della D’Addario, il bilancio di quel governo e della successiva elezione di Bush, sarebbe stato di sicuro un altro. Come vede, ministro, anche senza citare il conflitto di interessi, il caso Italia non è un’eccezione. Potremmo finire qui. Ma val la pena di riprendere, anche, prima di concludere, il suo argomento più specifico. Lei dice: il giornalismo italiano è unico nel senso che è vittima di una sindrome peggiorativa di una malattia tipicamente italica - quella di una visione oscura, opaca, complottista e dunque di negativa autorappresentazione, della nostra storia. Su questo mi trova d’accordo: c’è questa sindrome, in Italia, ed è materia degna anche di grandi rotture politiche.

Un Paese che ha così tanti misteri, trame e scandali, un’Italia che ha più retroscena che scene, è di sicuro un Paese che confessa di essere nelle mani di tanti. Di mafia, potenze straniere, servizi, Opus Dei, massoneria; di tutti, e comunque, eccetto la propria classe dirigente. Una nazione con tale storia, su questo, ripeto, sono d’accordo con lei, non è una democrazia. E’ un Paese prigioniero. Val la pena di combattere dunque, apertamente, il complottismo come interpretazione storica del nostro passato. Ma, con ogni rispetto, questa interpretazione è la stessa cui il governo fa ricorso da sempre e in queste stesse ore, indicando nella stampa lo strumento di poteri forti, interessi oscuri, complotti internazionali.

Con una differenza, però. I giornalisti possono sbagliare, è parte del loro privilegio ma anche delle responsabilità che davanti alla legge si assumono. Ma un governo che si dichiara in battaglia contro forze oscure, confessa solo la propria fragilità.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #95 inserito:: Ottobre 27, 2009, 07:04:27 pm »

27/10/2009

Quel liberal nordista di Marino
   
LUCIA ANNUNZIATA


Non solo il terzo risultato, il terzo posto. Piuttosto, l’identificarsi di una voce «liberal» all’interno del voto del centrosinistra di domenica.

Supercittadina, giovane, professionale, nordica. Insomma, un voto tipico del settore della modernità. Non dissimile da quello che in Usa è chiamato urban radical, che anche in elezioni sfortunate come quelle del 2004 ha costituito la roccaforte del consenso democratico, e che nel 2008 è stata una delle basi su cui si è innestato il consenso a Obama. Né lontano da quello della classe media dei nuovi professionisti il cui protagonismo negli Anni Novanta decretò il primo successo di Tony Blair.

Sono, mi rendo conto, affermazioni un po’ audaci, e forse affrettate. Ma in questo caso scomodiamo i «sacri» nomi di Obama e Blair non per incoronare un nuovo leader, ma per cercare di trovare termini di paragone per capire nuove tendenze. E se qualcosa di nuovo è emerso nelle primarie, è proprio il voto per Marino, che non appare affatto come un voto residuale, cioè di chi è finito in coda alla lista dei contendenti, bensì un voto «terzo», come ben appare dalle analisi possibili già ieri sera, su 2 milioni e poco più di schede scrutinate, pari a 7176 sezioni su un totale di circa diecimila.

Bersani ha avuto 1.081.532 preferenze, Franceschini tocca quota 697.759 (34,4%), Marino arriva a 249.784 voti (12,3%). Le schede bianche e nulle sono state 33.807 (1,6%). Bersani supera il 50% in tutte le regioni tranne Friuli, Toscana, Lazio, Sicilia e Valle d’Aosta. In nessuna, comunque, Franceschini risulta vincitore. Solo in Puglia supera di poco il 40%. La lista Marino che poi, forse, alla fine dello spoglio si assesterà - dicono gli analisti - intorno all’11 per cento nazionale, non solo ottiene più del previsto, ma in alcuni luoghi fa dei veri e propri exploit , quali il 16,55% in Liguria, il 17,88 in Piemonte e il 18,28 in Lazio.

La localizzazione, cioè il dove si è aggregato, è la prima chiave di identità di questo voto. Su «Termometropolitico.it», un sito molto stimato fatto da giovani studiosi di trend elettorali, era possibile ieri guardare sia in numeri che in immagini l’Italia che esce dalle primarie. A differenza degli altri due candidati il cui voto è molto più a macchia di leopardo (in particolare questo vale per Franceschini), il consenso dato a Marino va dal Nord al Sud in perfetta discesa. Insieme alle citate Piemonte e Liguria, il Trentino dà a Marino il 14,52%, il Veneto il 16,78, la Val d’Aosta il 16,80, la Lombardia il 15,74, la Toscana il 13,11% e il Lazio il 18,28 per cento. Da lì il consenso a Marino va giù seguendo la curva del Sud - toccando in Campania il 5,30, in Calabria il 4,30, in Puglia il 7,62. Alcuni di questi risultati al Sud si spiegano con la solidità con cui (nel bene e nel male) gli ex Ds o ex popolari ancora oggi fanno blocco nelle regioni del Sud. Ma non è del tutto vero: se si guarda ad esempio alle città, si vede come Bersani e Marino convivono perfettamente.

Ad esempio proprio a Milano, a Roma, e a Torino, il voto di Bersani che è ampio in tutte le periferie industriali delle città, tende poi a cedere spazio al voto di Marino mano mano che ci si avvicina ai centri storici.

Questo intreccio si ritrova ben rispecchiato nella disamina del voto sulla base dell’età. Scrive «Termometropolitico.it»: «Marino raggiunge o sfiora il 20% tra i giovanissimi, cioè dai 16 ai 24, per poi diminuire fino al 10 per cento scarso ottenuto tra gli elettori di mezza età e gli anziani. Franceschini è forte nell’elettorato giovanile ma debole nelle fasce centrali, per poi risalire leggermente tra gli ultra 65enni. Viceversa, Bersani soffre tra i votanti sotto i 25 anni, dove è scavalcato da Franceschini, e tocca il suo massimo tra i 45 e i 64 anni, cioè una fascia molto rappresentativa per l’elettorato democratico medio; una sua leggera flessione, invece, si registra nei più anziani».

Mettendo insieme tutti questi dati, è dunque evidente che quello di Marino è un elettorato molto diverso da quello che si raccoglie attorno a Bersani, e al quale dunque non sembra aver sottratto granché di consenso. Molte invece le sovrapposizioni, più o meno marginali, con la base di Franceschini, come abbiamo visto nella città e fra i giovanissimi.

Se la piattaforma dei due può spiegare il risultato finale, è evidente che la competizione che è avvenuta fra i due si è giocata sul ricambio, vigorosamente sostenuto da entrambi, e sui temi della laicità, sui quali invece i due si sono distanziati nettamente. Dovendo indicare lo spartiacque fra loro, possiamo con sicurezza indicarlo nel testamento biologico. Uno dei più controversi temi dei mesi recenti, di cui uno, Marino, è diventato il campione, e su cui l’altro, Franceschini, si è trovato a fare il mediatore fra le varie anime cattoliche.

Nel corso delle primarie, l’identità «laica» di Marino si è accentuata con lo scorrere della cronaca. Dalle unioni civili, all’adozione da parte dei single, fino alla battaglia contro l’omofobia, la sua si è definita come la più netta delle posizioni fra le tre in campo, sui temi dei diritti individuali.

Non pare dunque sbagliato dire che la mozione Marino ha aggregato il mondo delle identità e dell’intellighentia giovanile, femminile, urbana. Un mondo «liberal», come si diceva, che pur già essendo dentro il Pd non ha mai visto ben riflesso il proprio atteggiamento nelle tradizioni ex Ds e ex Popolari che vi sono rappresentate.

Non sappiamo - perché non ci sono gli strumenti di analisi - se questo voto ha allargato o no i confini della partecipazione, come sostengono i mariniani. E’ però credibile dire che questo consenso porta dentro il Pd un nuovo pezzo di piattaforma politica quale finora non era mai così distintamente emersa.

Sarà questa una complicazione, ulteriore, nella futura gestione? Possibile. Come anche è però possibile che questo voto «terzo» sia utile a scardinare il confronto a due che spesso ha bloccato il Pd, preso in mezzo fra le sue anime ex comunista e ex cattolica.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #96 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:14:20 am »

5/11/2009

Voto Usa il fattore non è Barack
   
LUCIA ANNUNZIATA


Più che un voto per due Governatori, le elezioni locali americane, appena concluse, sono state una indagine psicologica sullo stato d’animo del Paese.

Il risultato in numeri segna per i Democratici una secca sconfitta in Virginia e New Jersey, con la piccola consolazione della vittoria per un seggio in Congresso nello Stato di New York. Ma i numeri dicono poco: dopotutto, Bill Clinton nella sua prima presidenza perse tutte le midterms, e rivinse le presidenziali.

La misura vera del risultato ha piuttosto a che fare con il cataclisma economico abbattutosi sulla società americana fra il trionfo presidenziale di Obama un anno fa e questo nuovo ricorso alle urne. Cosa ha lasciato nell’anima dei cittadini quel trauma, quanto è rimasto della precedente America, forte e fiduciosa, in quella attuale? Per dirla, insomma, più chiaramente: oggi verrebbe rieletto Obama?

Senza questi dubbi a fare da sfondo, non si capirebbe bene l’attenzione con cui si sono seguite queste ultime elezioni. E in effetti, il risultato, visto da questo punto di vista, accende una luce su almeno tre luoghi essenziali, in cui l’opinione pubblica sta oscillando, dubitando, e forse cambiando di nuovo.

Il primo di questi luoghi è, ovviamente, la percezione del potere presidenziale. Le motivazioni di voto ci aiutano notevolmente a capire questo punto.

Più della metà dei votanti, sia in Virginia sia in New Jersey, ha detto di aver votato sulla base delle preoccupazioni per la situazione economica. I più scontenti si sono rivelati gli indipendenti, cioè i non iscritti a nessuno dei due partiti. Sono loro ad avere mostrato nei mesi passati il maggior timore per il piano di assistenza medica e per la crescita nella spesa pubblica. Questi votanti sono proprio coloro che, nel 2008, hanno dato la maggioranza a Obama: il 59 per cento di loro (contro il 40 per cento) in Virginia, e il 61 per cento (contro il 38 per cento) in New Jersey, votò per il cambio. Gli analisti così leggono il trasferimento di consensi: le difficoltà economiche di un anno fa vennero imputate a Bush, quelle di oggi vengono attribuite pienamente a Obama.

Questa affermazione sembra una banalità, ma non lo è. In campo democratico infatti la retorica del cambiamento che ha dominato le presidenziali non è mai stata mandata in soffitta. Anzi, Obama è ancora oggi rappresentato come il profeta (più che il presente autore) di un cambio, dopo anni di sfacelo di amministrazione Bush. Nella campagna elettorale appena finita i candidati democratici hanno presentato la loro eventuale elezione come la conclusione del ciclo post-Bush aperto dalla vittoria alla Casa Bianca. Lo stesso Obama ha rinforzato questa idea, recandosi molte volte in New Jersey.

Di conseguenza è l’«effetto Obama» l’elemento venuto meno. Lo si vede anche - ed è bruciante per i Democratici - nell’assenza stavolta alle urne di quella quota di voto in più fra i giovani, i neri, i professionisti, che nel 2008 ha permesso l’alzarsi dell’onda. I votanti sotto i 30 sono stati solo il 10 per cento (la metà dello scorso anno); diminuita la partecipazione dei neri, mentre la quota dei «non diplomati» è passata di quasi 30 punti in Virginia e 15 in New Jersey ai repubblicani.

Cosa significhi la scelta di questo elettorato non è chiaro: che questo voto si mobilita solo per Barack? E’ solo perplessità o è già sfiducia? Di sicuro possiamo leggere anche questa assenza come una indicazione che, da Mito, Obama si è già trasformato in Presidente da giudicare come tale.

Ma non è tutto. E non è tutto contro i Democratici quello che si muove negli umori degli elettori.

Dalle urne è uscito anche un verdetto punitivo per i Paperoni di Wall Street. Il democratico sconfitto in New Jersey è Jon S. Corzine, banchiere, che ha fatto la sua fortuna in Goldman Sachs, da dove uscì nel 1999 con 400 milioni di dollari in tasca. Quasi sconfitto è stato anche l’altro Riccone di questa campagna elettorale, il pur popolarissimo Michael Bloomberg. Il sindaco di New York e imprenditore, che per essere rieletto la terza volta al suo incarico ha fatto cambiare le regole del Comune di New York, ed ha speso 90 milioni di dollari in pubblicità, ce l’ha fatta a malapena contro il suo avversario carneade William Thompson Jr. Evidentemente, il crollo di Wall Street ha lasciato una scia profonda nei cuori degli elettori.

Una terza luce è accesa infine anche per i Repubblicani. La vittoria dei Democratici per il seggio al Congresso nel distretto 23 dello Stato di New York è stata una vera bizzarria, frutto di un’abile manovra di Washington (pare ci abbia messo la manina Emanuel Rahm) che ha sfruttato uno scontro interno ai Repubblicani. La candidata scelta dai Repubblicani, Dede Scozzafava, attaccata per le sue posizioni su aborto e diritti civili dall’ala dura del suo partito, si è ritirata dalla corsa ed ha fatto votare il democratico. Una sconfitta esemplare per i Repubblicani, segno dei tempi. La spaccatura fra i conservatori tradizionali, e i duri e puri alla Palin, non ha smesso infatti di lacerare il Grand Old Party. Lo stesso voto andato ai governatori vincenti è profondamente condizionato dai movimenti di base anti-Obama emersi nei mesi scorsi, quali la Tea Party Coalition in Virginia. Un disequilibrio che non sarà facile gestire per i Repubblicani, e che certo gioca a favore dei Democratici.

Questo è quanto. Finora. Ed è passato solo un anno. Ma di movimento velocissimo è anche fatta l’America nuova.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #97 inserito:: Novembre 09, 2009, 11:29:38 am »

9/11/2009
Democratici e cristiani
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il volto e la sapienza parlamentare sono quelli di Nancy Pelosi, Madam Speaker come recita il suo titolo, che lasciando l’aula dopo il voto ha replicato ai complimenti con quello che appare già come il migliore degli understatement della storia parlamentare americana: «Dopo tutto, è stato facile». In realtà non lo è stato affatto. Pelosi ha messo insieme un successo mai ottenuto da nessuno dei suoi predecessori: una maggioranza risicata, ma maggioranza, di 220 contro 215 a favore dell’assistenza medica universale in America.

Ma questa vittoria non sarebbe stata possibile senza un incredibile, inatteso, e fino all’ultimo improbabile accordo con i vescovi della Chiesa cattolica americana. Senza il loro sì molti dei deputati democratici non avrebbero votato a favore.

Dentro questa prima vittoria in Congresso della riforma medica è nascosta dunque una seconda pepita d’oro. L'accordo trovato fra Casa Bianca e Chiesa ha implicazioni ben più profonde della stessa vittoria parlamentare, perché traccia ora una strada maestra nei rapporti fra il presidente Barack Obama e papa Benedetto. Il compromesso trovato dimostra fin dal suo percorso il valore di cambiamento che contiene.

Da parte democratica è stato il capolavoro, come si diceva, di Nancy Pelosi, capo della maggioranza democratica alla Camera. La Pelosi è essa stessa cattolica (sia pur «da caffetteria» come dicono i conservatori), ma anche, da anni, voce preminente a favore dei diritti delle donne e dunque dell’aborto.

Dall’altra parte, c’è stata la Conferenza episcopale che fino alle ultime ore prima del voto ha tenuto il punto, mobilitando le sue parrocchie in tutti gli Usa, perché la riforma non contenesse un indiretto via libera all’aborto fornendogli copertura medica. L’assistenza finanziaria all’interruzione della gravidanza non è punto irrilevante - il maggior numero di aborti si segnala infatti proprio fra le classi più povere. Argomento questo imbracciato, di converso, dalle molte organizzazioni femminili per dimostrare quanto ogni eventuale compromesso su questo emendamento sia punitivo proprio per le donne più esposte.

Che in questo ginepraio di voci, interessi e fedi, si sia alla fine trovata una intesa è quasi un miracolo. Intesa che, da sola, come si diceva, prova non solo la saggezza politica dei democratici, ma anche quanto importante sia per l’amministrazione Obama un accordo con i cattolici.

La prima ragione che ha indotto Obama a trattare - anche mettendo in conto di perdere, come è successo, una parte di elettorato femminile - ha a che fare con la composizione dell’attuale Congresso. I democratici negli Anni 80 e 90 hanno continuato ad eleggere senza problemi rappresentanti con forti opinioni pro aborto. Ma nelle ultime elezioni Obama ha trascinato con sé a Washington una maggioranza così ampia e variegata da non permettere più una posizione coesa sul tema. Semplicemente, i nuovi eletti hanno una base troppo differenziata per poter votare una rottura radicale con la Chiesa.

La Chiesa, appunto. L’altro grande protagonista di questa battaglia. La Chiesa americana, come si sa, ha vedute sociali molto ampie, ed ha appoggiato con entusiasmo Obama. Non era un appoggio scontato. I democratici sono anche in buona parte cattolici, ma questo voto dei fedeli di Roma negli ultimi anni è stato molto oscillante. Proprio nella rielezione del 2004 di Bush, e proprio sul tema dei valori e dell’aborto, passò in massa ai repubblicani. La riconquista di questo settore di elettori è dunque molto preziosa per i democratici di oggi. La Chiesa Usa, a dispetto di tutte le sue traversie - di cui la più famosa sono gli scandali pedofili - e del diminuire dei suoi fedeli, mantiene infatti una grande influenza proprio nelle aree sociali colpite oggi dalla crisi, le zone ex operaie, ed è rilevantissima fra i latini, unico settore di voto che tende a crescere.

Eppure, in questa ricerca di una sintonia fra Casa Bianca e Chiesa cattolica in America c’è qualcosa di più degli stessi interessi nazionali comuni. Obama è molto amato dai vescovi Usa per la sua piattaforma sociale anche a livello internazionale. Questi vescovi, potente forza anche nella politica del Vaticano, sono dunque forti sostenitori di un rapporto speciale fra Roma e Washington. Fra Benedetto e Obama, ragionano, ci sono grandi interessi comuni: la giustizia sociale, l’Africa, il progetto «verde» per il mondo. Ma finora proprio la posizione dei democratici sull’aborto ha impedito ai rapporti fra Roma e Washington di diventare calorosi.

La Chiesa americana, lavorando per un accordo sulla riforma universale senza aborto, ha inteso dunque lavorare anche a far progredire le relazioni fra queste due grandi potenze che sono gli Usa e il Vaticano. La loro collaborazione, sognano i vescovi Usa, può preparare un ulteriore passo avanti per tutto il mondo.

E’ dunque con questo senso di speranza che dobbiamo leggere l’articolo scritto ieri dal settimanale cattolico «America», fondato nel 1909, gestito dai gesuiti, considerato la più influente voce cattolica del Paese. Il titolo è: «Il voto alla Camera: un grande trionfo per la Chiesa», e vi si riafferma il senso di un passaggio storico, di una mediazione trovata su due temi difficili eppure irrinunciabili. E’ stato un trionfo della Chiesa cattolica. Ma anche per una visione del mondo che la Chiesa ha sostenuto spesso da sola, contro l’individualismo radicale della cultura americana. «Il nostro credo che l’assistenza universale sia un diritto, non un privilegio, ha ieri fatto un gigantesco passo avanti. Ieri ha fatto un gigantesco passo avanti anche l’idea che l’opposizione all’aborto sia un principio su cui non sono possibili compromessi».

Come si vede, sono parole chiare, e impegnative. Soprattutto per Obama.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #98 inserito:: Novembre 12, 2009, 10:07:46 am »

12/11/2009 - IL CASO

Michelle non riscatta Harlem
   
LUCIA ANNUNZIATA


L’America nera di Obama ha alzato la sua bandiera culturale - ma, come il bilancio del primo anno del Presidente, l’evento ha un ambiguo, doloroso, retrogusto. Come il sapore di una vittoria che non ingrana, o forse solo quello di una schiavitù che è più facile combattere che superare.

Parliamo di Precious, cioè di Claireece Precious Jones, sedicenne, obesa, brutta oltre ogni limite di decenza, analfabeta, e incinta per la seconda volta di suo padre. Claireece Precious Jones è nera. Di più, è una adolescente nera di Harlem.

«Precious», il film del regista Lee Daniels, tratto dal romanzo del 1996 «Push» della poetessa Sapphire, ha scosso le acque morte del dibattito sul «cambio» dentro cui da mesi è rifugiata la cultura americana liberal e di colore, riportandovi dentro il dolore, l’angoscia, lo strazio. Presentato a Cannes, e poi al Sundance Film Festival, «Precious» appena uscito ora in Usa nel grande circuito, ha fatto il pieno di incassi e di elogi. Facendo piangere, soffrire, e, non ultimo, indignare. Nemmeno chi ha girato e sostenuto questo film si aspettava probabilmente tali e tante reazioni.

Nella sua infinita bruttezza, trattata nel film senza pietà alcuna, il grasso flaccido che le circonda il corpo come un animale vivo di una sua vita indipendente, la pelle oleosa del viso gonfio, la ragazza parla a se stessa, anzi parla di se stessa - nel linguaggio spezzettato e quasi incomprensibile dell’underclass nera - come di una esistenza per caso. «A volte vorrei non essere viva. Ma non so come morire. Non so come togliere la spina. E non importa quanto sto male, sento che il mio cuore non si ferma, e i miei occhi si aprono comunque ogni mattina».

Quegli occhi si aprono ogni giorno sui muri disadorni, gli angusti corridoi e scale di un palazzo dove vivono coloro che, come Precious e sua madre, sono in Welfare. Una madre violenta, che non intende aprire i suoi, di occhi, sulle proprie responsabilità e quelle del suo compagno, genitore di sua figlia e dei suoi nipotini. Il primo bimbo di pochi mesi, un piccolo fagotto di coperte, e il secondo che cresce nel grottesco ventre di Precious. E’ un mondo senza uomini. Donne che abusano con il loro rancore le figlie perché sono state esse stesse abusate. Donne che passano la vita gravate dall’inutilità di chi svuota l’oceano con un secchiello. Ma anche donne che si accorgono del male e che cercano una soluzione. Per Precious questa soluzione si presenta alla fine come la possibilità di poter andare in una scuola per casi difficili.

Fin qui la storia, tragica, ma del tutto scontata, tante volte già ripetuta - basta guardare la tv, ad esempio allo show di Tyra Banks con le sue confuse adolescenti. Cosa fa di questo film un caso è dunque proprio la sua qualità e l’impatto che questa qualità riflette del momento della società cui parla.

Il rischio polpettone è dietro l’angolo, e per molti versi è scritto nel progetto stesso: troppo denso di simboli e volti. Il romanzo da cui è tratto, «Push», è esso stesso opera cult di una intellettuale cult della società afroamericana, la poetessa Sapphire, nata Ramona Lofton, attivista dei diritti gay neri, e dello «Slam Poetry», movimento situazionista poetico-politico. Al film partecipano come attrici un gruppo di grandi star. La madre di Precious è ad esempio Monique, e l’assistente sociale è Mariah Carey. La solita Oprah Winfrey si è addossata la distribuzione. L’operazione è nata insomma, come si diceva, con l’intenzione dichiarata di essere un omaggio della cultura afroamericana alla propria storia di redenzione, opportunamente coincidente con un anno dall’elezione di Obama. Nonostante tutto ciò, il film non solo non è un polpettone ma fa male. La differenza fra una operazione ideologica, come era stata forse congegnata, e il risultato, è nelle emozioni crude, senza mediazioni che riempiono lo schermo. Anche le star ne sono divorate, diventando fisicamente irriconoscibili, ridotte a facce anonime di anonime donne nere.

Dentro questa intensità, si nasconde però anche il punto critico dell’operazione, il retrogusto di cui si parlava. Come presi alla sprovvista dalla sincerità, molti si chiedono, nella comunità nera, la cui voce passa nei blog, se questa non è la riproposizione proprio di tutti i cliché del razzismo. E molti, più sottilmente, si domandano invece se tutta questa emozione non sia altro che la prova che il passato non è davvero passato. Se insomma, la realtà non divori la speranza che pure il film vuole fornire.

Le implicazioni di questa ondata di lodi e dubbi sono facili da cogliere. Alla Casa Bianca, yes, abita una donna nera - bella evoluta rispettata. La cultura, quella pop e non, è dominata da star di colore. Mai come ora le donne nere sono simbolo positivo. E mai come ora, va però aggiunto, questa loro forza fa a pugni con tutte quelle rimaste indietro. Tutte le Precious d’America, che, ad esempio, nella cronaca recente hanno preso la forma dei cadaveri decomposti nella casa di un serial killer. Un ex marine (nero) di Cleveland (la storia è ancora sulle pagine dei giornali) che ha ucciso nella sua casa decine di ragazze. I vicini ne avevano spesso sentito gli strilli e spesso il vento diffondeva nel quartiere l’inequivocabile odore di morte. Ma la polizia non ha mai dato seguito alle denunce: per la giustizia americana, ancora oggi, le giovani donne nere non scompaiono, ma si dissolvono nel nulla.

E’ attraverso tali processi di vicinanza e distanza simbolica, che il film è diventato il fenomeno che si avvia ad essere. Una sorta di urlo nella notte. Lo specchio in cui ogni mattina Michelle e le grandi star di colore devono per forza specchiarsi.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #99 inserito:: Novembre 17, 2009, 10:44:35 am »

17/11/2009 - LA STORIA

Così il Muro nascose i morti del Salvador
   
LUCIA ANNUNZIATA


Ignacio Ellacuría non era mai solo, in Salvador. Intellettuale stellare, se per stella si intende una luce che brilla in cielo, alto, bellissimo, il prete gesuita, spagnolo di nascita e cittadino salvadoregno di adozione, non era solo nemmeno il giorno in cui incontrò la morte. Venne ucciso insieme ad altri cinque gesuiti, tutti insegnanti come lui, e due donne delle pulizie. Venti anni fa, esatti. Un dramma passato inosservato, allora come oggi, perché avvenuto all’ombra dalla più grande storia moderna dell’Occidente, la caduta del Muro di Berlino.

Fu un piccolo mondo dunque quello che si accorse (e pianse) della morte di questo pugno di «ordinari santi». Un piccolo mondo che però li ricorda ancora oggi.

Quando il gruppo di uomini armati si presentò alle porte del campus della Uca, la Università Centroamericana fondata dai gesuiti e guidata appunto da Ellacuría, nessuno provò a resistere. Fuggirono tutti. Gli uomini armati appartenevano al battaglione Atlacatl, the Yankee Battalion, il primo addestrato totalmente in Usa e reimpiegato in Salvador nel 1981 agli ordini del colonnello Monterrosa. Gente che aveva sulle mani ancora la polvere da sparo usata per alcuni dei più terrificanti massacri di quella guerra civile che durava dalla fine degli Anni Settanta, tra cui la cancellazione totale del villaggio di El Mozote. Nella operazione alla Uca l’Atlacatl non trovò dunque difficoltà. I soldati entrarono con sicurezza nelle stanze al pianterreno del rettore, lo trovarono con i suoi colleghi professori e due signore delle pulizie, tutti stretti in difesa in un angolo. Li trascinarono fuori, li misero distesi, e li uccisero con colpi di mitra. Quella posizione a pancia in giù era il modus operandi, la firma dell’Atlacatl.

Qualche ora dopo, il sangue degli otto cadaveri era già secco. Il prato su cui riposavano era rigoglioso. La struttura di cemento intorno, in cui aveva sede l’Università, era coperta dal solito cielo limpido, fermo, azzurrissimo e indifferente del Tropico. Ellacuría si distingueva per il pantalone e la camicia kaki, la lunga capigliatura bianca, ora sporca di sangue.

Insieme alla gente del Salvador, piansero davanti a quei cadaveri tanti giornalisti. I gesuiti, Ellacuría, erano sempre stati la voce della civilità in un universo di dolore, gli ospiti sempre pronti a fornire una bibita e una spiegazione. Indomiti, senza paura. Senza di loro il Salvador e una guerra civile dominata da torture e machete non avrebbero forse potuto essere raccontati. Ma il Muro di Berlino cancellò nella sua immensità quelle povere morti, i «santi ordinari» come padre Amando López, che si addormentava davanti alla tv la sera, e padre Juan Ramón Moreno, conosciuto per la estrema noiosità del suo modo di parlare.

Non sfuggì però a Noam Chomsky il valore di quella coincidenza e di quella dimenticanza. «I dissidenti dell'Est Europeo erano stati appoggiati dagli Usa e dal Vaticano, a differenza di ogni altro dissidente in altri posti nel mondo». La vittoria contro i «comunisti» in Europa, divorò dunque e in qualche modo sembrò, a posteriori, giustificare l’assenza di scandalo per le morti di alcuni padri gesuiti sospetti di «comunismo», uccisi mentre Usa e Vaticano guardavano oltre il Muro.

Forse, dunque, il doppio anniversario, la caduta del Muro e quel delitto, vanno oggi riletti insieme. Forse, davvero, fu quello il momento in cui il mondo occidentale cominciò a guardare negli occhi un nemico ben più elusivo e feroce del comunismo in tutte le sue declinazioni. Nel 1990 l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, apriva la strada a un nuovo conflitto mondiale e a una inedita guerra di religione e di civiltà che avrebbe fatto sembrare antiche tutte le altre guerre ideologiche.

Non dobbiamo dunque, forse, sentirci colpevoli per aver perso di vista quell’America Latina a cui l’Europa dagli Anni Sessanta agli Ottanta dedicò tanta attenzione. Ma in questo anniversario di venti anni, val la pena di cominciare a gettarci un nuovo sguardo.

Il Salvador, dolce Paese di vulcani e colline, venti anni dopo è in preda a una sorta di nemesi storica. I figli di tutti quei campesinos che fuggirono allora la loro terra per andare a crearsi una vita in Usa, sono tornati nel loro Paese e figli della guerra quali sono, hanno creato oggi in Salvador un nuovo inferno. Su circa sette milioni di abitanti le bande criminali contano almeno 30 mila membri. Maras si chiamano, queste street gang che hanno importato la violenza del ghetto di Los Angeles in Centroamerica. 53,3 uccisioni per ogni centomila abitanti. Le estorsioni, gli stupri, gli incendi, i furti non si contano. Oggi il Salvador è al decimo posto fra i Paesi più pericolosi nel mondo.

L’ultima vittima vicina a noi, noi italiani, si chiama William Quijano, ammazzato mentre usciva di casa. Aveva 21 anni, studiava e lavorava come volontario della Comunità di Sant Egidio. Una collaborazione con uomini di religione, che oggi, come venti anni fa, merita ancora una condanna a morte.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #100 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:50:38 am »

27/11/2009

La crisi di Obama
   
LUCIA ANNUNZIATA

È possibile che la presidenza americana stia attraversando una sorta di crisi di identità?
Un abito sbagliato, una cena fuori luogo, un cambiamento di umori, un viaggio deciso all’ultimo minuto, percorsi decisionali tortuosi e annunci finali esitanti. Le ultime settimane hanno mostrato un presidente Obama imprevedibile. Come se procedesse un po’ a tentoni. O, meglio, come se avesse perso in parte quell’inequivocabile senso di direzione che è sempre apparso come una sua seconda pelle.

L’idea di una crisi di identità - concetto molto impolitico, ma narrativamente efficace - nasce da un episodio minore: il tono scelto per la prima cena di Stato, dalla elezione, offerta pochi giorni fa dalla coppia Obama. Questi pranzi sono molto formali e servono a celebrare il Potere attraverso uno smodato uso dello Sfarzo. Gli Obama hanno interpretato l’appuntamento, già di per sé enfatico, con una enfasi che secondo molti è ormai il loro stile.

Gli ospiti, di solito 130, sono lievitati a 400 e per accoglierli si è dovuto costruire un apposito padiglione di vetro e metallo nel giardino della Casa Bianca. Oro il colore della serata. Oro sui bicchieri, i piatti, le tovaglie, le tende, e sul corpo statuario di Michelle, in abito lungo splendente sulla pelle color ebano. Da mozzafiato. E da mozzadenti. L’enorme sfarzo è stato accolto da un cortese silenzio. L’assenza del solito coro di ammirazione ha riempito le orecchie di tutti. A quattro giorni da un discorso con cui si annuncia il raddoppio delle truppe in Afghanistan, in piena emergenza disoccupazione, nel giorno di un Thanksgiving segnato dal calo di consumi, il colore dell'oro è apparso stridente, una ovvia indelicatezza.

Interpretato come frutto di disorientamento più che di arroganza, lo sfortunato pranzo ha fatto tuttavia emergere l’impazienza che si sta accumulando nei confronti del Presidente, per il trascinarsi di troppi rimandi, per il suo persistente evitare di tagliare i nodi, preferendo un percorso che comincia ad apparire bizantino - cioè l’esatto contrario di tutto ciò che ha promesso. Il caso clamoroso di queste esitazioni, come ormai è chiaro a tutti, è quello dell’invio dei soldati in Afghanistan, cui si è arrivati con incertezza, divisioni, e con una soluzione che, come razionalizza Leslie H. Gelb, presidente emerito del Council on Foreign Relations, «è ragionevole ed è il massimo che si poteva attendere visto gli attuali conflitti interni».

Uguale, se non maggiore incertezza viene suggerita dal percorso dell’impegno degli Usa nel vertice convocato fra pochi giorni a Copenhagen sul cambiamento climatico. Come si ricorderà, Obama in campagna elettorale si è impegnato sulle questioni ambientali al punto da aver dichiarato Kyoto un protocollo superato e inefficace, promettendo un accordo mondiale nuovo di zecca. Ancora un mese fa, questa era la linea, e un universo di fiduciosi governi e ambientalisti si preparava a marciare sul Paese della Sirenetta. Poi però sono arrivati il viaggio in Asia di Obama, le resistenze di Cina e India a qualunque «imbragatura» del loro sviluppo, e il Presidente Usa ha soavemente preso atto, derubricando Copenhagen a «una prima tappa» di un nuovo accordo. Ma due giorni fa, nuovo cambio di scena: la Casa Bianca ha annunciato che il presidente Obama andrà al vertice in Danimarca, sulla strada della Svezia dove ritirerà il Nobel per la Pace.

L’inchiostro delle domande su questo nuovo passo non si era asciugato ancora che è arrivato l’annuncio della Cina, la nazione che produce più inquinamento al mondo, che si impegna a tagliare le sue emissioni del 45 per cento (invece che del 40) entro il 2020. Gli esperti dicono che non è granché, come promessa, ma è segno che forse di Copenhagen qualcosa si può salvare. Ma una domanda maliziosa si pone: quando ha saputo Obama della decisione della Cina? Il curioso rincorrersi in poche ore degli annunci da Washington e da Pechino sembrano indicare una troppo perfetta sintonia per non apparire anche una mossa di facciata per salvare la reputazione dei due Paesi.

Il dubbio alla base di tutte queste osservazioni è che nel suo tentativo di tenere tutto insieme, Obama sfumi piuttosto che chiarire il posizionamento che vuole dare a questo Paese.

Un altro elemento di questa confusione è un certo consumarsi della famosa oratoria obamiana, che ogni tanto è ripetitiva o inefficace. E’ il caso del tradizionale discorso di Thanksgiving, pronunciato proprio due giorni fa. Obama ieri è stato breve, secondo tradizione, ma non convincente. Sul suo invito alla concordia sociale (fra coloni e indiani), un tipico «volemose bene» americano, si sono avventati con grande energia osservatori quali E. J. Dione che sul «Washington Post» ha richiamato la forza della prosa di un discorso di Franklin D. Roosevelt pronunciato per il Thanksgiving del 1934, in tempo di uguale crisi: «Il nostro senso di giustizia si è fatto più profondo. Abbiamo oggi tutti noi una comune visione per come far avanzare il benessere e la felicità delle persone, in uno spirito di aiuto reciproco che ci aiuterà a rendere tutto ciò una realtà...».

Vero. A fronte, Obama sembra sussurrare invece che gridare. Ma - e qui finiamo con una domanda, come abbiamo iniziato - se è questione di identità, non occorre forse anche ricordare che Roosevelt era un grande aristocratico, e che Obama è ancora (e solo) il primo Presidente nero mai eletto negli Stati Uniti?

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #101 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:12:15 am »

3/12/2009

Obbligati a finire l'opera
   
LUCIA ANNUNZIATA


Per capire la decisione di Obama sull’Afghanistan val la pena di ripassare alcuni numeri. Nel 2000 i paesi occidentali producevano da soli il 55% della ricchezza mondiale - nel 2025 produrranno il 40%. In quella data, l’Asia ne produrrà il 38%, rispetto all’attuale 24. Un sostanziale pareggio. Demograficamente il rapporto fra Ovest ed Est si può raccontare in maniera ancora più spettacolare: nel 2025 la popolazione di America ed Europa insieme costituirà il 9% di quella mondiale (nel 19° secolo, all’apice della sua influenza, l’Europa da sola rappresentava il 22%, cioè quanto la Cina oggi), mentre l’Asia ospiterà il 50% dei cittadini del mondo. Come dire: in quindici anni una persona su due al mondo sarà asiatica.

Leggendo questi numeri, tratti da uno studio della influente Fondazione Notre Europe, di cui è oggi presidente l’ex ministro del Tesoro Tommaso Padoa-Schioppa, c’è una sola domanda cui rispondere: possono davvero Usa ed Europa non impegnarsi a fondo nella guerra in Afghanistan?

Il legame fra quel conflitto e la velocissima ridefinizione in corso dei rapporti di forza internazionali è forse poco apparente, ma fondamentale.

La guerra afghana non è stata iniziata dall’attuale Presidente americano e sicuramente quando è stata avviata era stata immaginata dall’allora presidente Bush nel contesto dell’attacco dell’11 settembre agli Usa. Ma fin da allora la discesa in campo di Washington aveva sullo sfondo l’Asia, e la Cina in particolare. A fronte della rapida crescita di quell’area del mondo, gli Stati Uniti si sono ritrovati in effetti privi di efficaci strumenti di intervento, proprio nella data che ha fatto da spartiacque fra un secolo e un altro.

La Nato, principale struttura del governo occidentale per quasi mezzo secolo, è stata costruita con in mente la minaccia sovietica della Guerra Fredda. Le alleanze mediorientali, un cesto misto di Israele più un gruppetto di Paesi arabi moderati, sono state tirate su con l’idea che Washington potesse agire, in quella area, via controllo remoto. Cioè tirando i fili da lontano, grazie alle molte leve di aiuti economici, interventi coperti, petrolio e lobbismo. Uno schema di lavoro diplomatico-militare applicato d’altra parte dagli Usa in molte altre aree del mondo, tutte quelle più o meno catalogate «in via di sviluppo».

Strumenti vecchi, dunque, per una visione vecchia del mondo. Mentre ancora in Occidente, guardando ai resti del Muro, ci si gingillava con il concetto di Fine della Storia, la Vecchia Talpa era in effetti già riemersa altrove. Senza farla troppo lunga, dal momento che questa è ormai cronaca sotto gli occhi di tutti, la globalizzazione ha espanso la ricchezza di paesi fino a poco prima «in via di sviluppo», ed ha avviato un capovolgimento in poco più di venti anni del rapporto di forze tra nazioni. La Cina, con il suo grande balzo verso il capitalismo, è stata uno dei motori della globalizzazione, come sappiamo. Si è trascinata dietro l’intera Asia, come sappiamo. Le domande poste da questa crescita hanno direttamente alzato la pressione intorno alle fonti energetiche, al potere di acquisto e alla supremazia produttiva dell’Occidente. In questo senso l’attacco terroristico iniziato contro di noi nel 2001 non è l’inizio delle guerre che oggi sono in corso, ma è il frutto e la rappresentazione del potenziale tellurico che c’è in questo cambiamento di rapporti di forza. Anche questo sappiamo.

Quello che meno sappiamo, da occidentali, da almeno un decennio, è come confrontarci con queste nuove richieste di questi nuovi poteri. Bush, dopo l’emergenza del 2001, ebbe una idea. Discutibile, come è stata, ma sicuramente una idea. Avanzare il fronte della presenza americana. Avanzarlo letteralmente - nel senso, cioè, di creare attraverso le invasioni di alcuni paesi nuove roccaforti di presenza Usa, piantate direttamente nel cuore dei nuovi equilibri. Il controllo dell’Iraq, dell’Afghanistan, del Pakistan, che direttamente o meno gli Usa si ritrovano, aggiunto alla solida alleanza con l’India, forma, se guardiamo alle carte geografiche, una lunga fascia di presidio diretto. Una sorta di cintura Gibaud, che abbraccia i paesi del petrolio, amici e nemici; ma, anche, fa da contenimento, sotto la pancia del Caucaso e della Cina.

Le guerre di Bush sono state molto criticate, e si sono rivelate certo meno efficaci e veloci di quel che il Presidente allora aveva promesso. Ma l’idea del «Contenimento» dell’Asia e della Cina in particolare è di sicuro oggi il punto numero uno dell’agenda mondiale. Contenimento nel senso di espansione di influenza, ma anche, e per ora soprattutto, nel senso di accesso alle fonti di energia. Questo è da dieci anni il nuovo potenziale conflitto nel mondo.

Obama non solo lo ha ereditato, ma rischia addirittura di esserne schiacciato: il ruolo che la Cina ha avuto e può avere nella crisi economica americana è oggi infatti il vero tallone d’Achille del presidente Usa.

Certo, Obama non è Bush. Non crede alla guerra come soluzione unica e finale. È arrivato al potere promettendo rispetto e parità nelle relazioni fra nazioni. Si è impegnato a farlo usando tutti gli strumenti che già conosciamo, e se possibile inventandosene di nuovi. Rapporti bilaterali, allargamento delle organizzazioni internazionali, dialogo fra culture. Ma la sua posizione di trattativa non può che passare anche attraverso la riaffermazione del potere militare del suo paese.

Per questo non può abbandonare l’Afghanistan, per questo non può che impegnarsi in un braccio di ferro con l’Iran, per questo non può che consolidare l’influenza Usa in Iraq - insomma, non può che finire quello che Bush ha iniziato. Nel mondo, come dicevamo, l’Occidente si avvia a essere minoranza. È importante - e questo vale anche per l’Europa - che essere minoranza non significhi anche diventare marginali.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #102 inserito:: Dicembre 07, 2009, 11:19:52 am »

7/12/2009

Giustizia incerta e sospetta
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il processo ad Amanda Knox diventa affare di Stato. Il capo della diplomazia americana, Hillary Clinton, si è detta ieri disposta a verificare se davvero ci sono, come afferma la senatrice Cantwell, «seri interrogativi sul funzionamento del sistema giudiziario italiano», e se «l’anti-americanismo possa avere inquinato il processo».

Una inusuale presa di posizione, che pone la vicenda Knox nella lista di altri famosi contenziosi legali tra l’Italia e gli Stati Uniti. Con la differenza che le obiezioni al processo di Perugia toccano il nervo più scoperto del nostro dibattito sulla Giustizia, e, indirettamente, sui processi al premier Berlusconi.

Finora, Italia e Stati Uniti si sono scontrati nelle aule di tribunali per casi politici. Nel 1998 si trattò della tragedia del Cermis, venti vittime nella caduta di una funivia abbattuta da un aereo Prowler dei marines. Nel 2007 si trattò di processare il soldato Usa Lozano, che aveva ucciso in Iraq il nostro uomo del Sismi Nicola Calipari. Infine, il più recente, il processo agli uomini della Cia che avevano rapito Abu Omar. Tutti processi politici, appunto, che ruotavano intorno alle rispettive «sovranità» nazionali dei due Paesi.

Nel caso di Amanda, invece, il Dipartimento di Stato si arrogherebbe il diritto di verificare il funzionamento stesso della giustizia italiana, dichiarandosi disposto ad ascoltare coloro che sollevano l’ipotesi - gravissima - che «non esistevano prove sufficienti per spingere una giuria imparziale a concludere oltre ogni ragionevole dubbio che Amanda fosse colpevole». E, dal momento che la giustizia è uno dei metri di misura del funzionamento di una democrazia, il sospetto va dritto al cuore del nostro Paese.

Quello alla Knox è solo l’ultimo di una serie di processi che hanno lasciato la nostra pubblica opinione con l’amaro in bocca dei dubbi. Parliamo del processo ad Annamaria Franzoni per il delitto di suo figlio a Cogne, di quello contro Alberto Stasi per l’uccisione della fidanzata Chiara Poggi, e infine di questo di Perugia. Tre casi celebri, accomunati da elementi simili. Innanzitutto la confusione delle indagini: prove che vengono raccolte, poi cambiate, e mentre il processo è in corso. Coltelli, reggiseni, pigiami, biciclette, zoccoli e computer che entrano ed escono di scena come fondali intercambiabili invece che elementi certi di accusa. Oggetti totemici per il pubblico che, alla fine, mai si sono rivelati prove indiscutibili.

In mancanza di certezze, il processo italiano si è spesso rifugiato nella costruzione di teoremi: il colpevole non è colui che ha indiscutibilmente fatto il male, ma colui che avrebbe potuto o voluto farlo. Nasce qui l’uso e l’abuso dei «profili» psicologici, la depressione non ammessa di Annamaria a Cogne, le ossessioni nascoste di Alberto Stasi, e la violenza da baccanale fatta esplodere da Amanda. Tutti colpevoli in quanto «inclini ad esserlo», invece che indiscutibilmente provati tali dai fatti.

La psicologizzazione del processo tende a mettere sotto giudizio la personalità (e quanto distante è questo giudizio da quello razziale?), e a creare dunque «mostri». Con la conseguenza di sollecitare nel pubblico una risposta emotiva, una divisione radicale, fra difensori e accusatori. Questa tifoseria del pubblico, è forse, in termini sociali, la conseguenza più devastante del malfunzionamento della nostra giustizia.

Fin qui il caso Knox. Ma come non vedere che il fallimento di tanti processi penali getta dubbi anche sui procedimenti «politici»? Un Paese che non riesce a dare giustizia certa a due cittadini comuni, con che autorevolezza saprà mai processare il suo premier? L’attenzione del Dipartimento di Stato va presa con molta serietà dunque. Rischia di esporre agli occhi della comunità internazionale una nostra fragilità di sistema, e aprire una serie di scatole cinesi. Magari anche senza volerlo.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #103 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:34:40 pm »

9/12/2009

Il male inevitabile
   
LUCIA ANNUNZIATA


E’ il rimprovero che più spesso ci viene rivolto, la critica, o l’esortazione, che ci accompagna da sempre. «Voi giornalisti sapete solo vedere e raccontare il male». Se queste parole arrivano però da Sua Santità in persona, occorre ancora una volta - e non sarà l’ultima - spiegarsi. Forse.

Confesso, intanto, di non trovare per nulla assurda o esagerata la reazione contro il male che ogni giorno gronda su di noi dai media.

Per un giornalista, aprire gli occhi al mattino e accendere la tv, e scartare il pacco dei giornali, è il primo gesto, una preparazione rituale della professione, la nostra preghiera laica del mattino, secondo Hegel, che da anni ormai io stessa anticipo con una stretta allo stomaco. Qualcuno, nelle ore che abbiamo rubato al generoso oblio del sonno, è morto, qualcun altro ha provocato danni, qualche maggior pericolo - psicologico, politico, pratico - sta scavando nella nostra vita. La tentazione c’è, di prendere la direzione che sembra indicare il Santo Padre: richiudere gli occhi, mettere da parte giornali, tv e avviarsi a un giorno normale, in cui le cose e i rapporti - senza il rumore di fondo dei media - spiccano come gioielli nelle loro scatole di velluto. Nei rari giorni in cui i media, per feste o per scioperi, non ci sono, la vita appare più tersa, e più vivibile. Per questo, quando tanti ci dicono che il nostro mestiere sta avvelenando il mondo e che noi siamo una banda di cinici, ascolto sempre. Nel mio cuore gli do ragione.

Potremmo dunque assumere questa lezione. E potremmo limitarci a voler sapere e raccontare solo di quel che ci rasserena e di quel che ci lega agli altri uomini, piuttosto che quel che ce ne divide. Potremmo ridurre il male a una breve, accennarne e pudicamente subito ammantarlo di veli. Potremmo invocare per questa pudicizia la preservazione dell’innocenza e della fiducia negli altri. Avremmo, ripeto, ragione e, forse, vivremmo meglio.

Ma sarebbe questa una vita piena? Sarebbe questa una scelta davvero positiva? Su queste domande si inciampa.

Che il male esista non credo ci siano dubbi, neppure dal punto di vista religioso. Non è nei media, non è creato dai media, ma è nella costruzione stessa della realtà. Accantonarlo, non guardarlo negli occhi, non dargli nome e cognome, non è segno di maggiore sensibilità e civiltà. E, purtroppo, ignorarlo non ci restituisce nemmeno un nuovo senso di sicurezza.

I media non sempre hanno funzionato come oggi, con la crudeltà quasi da bisturi di penetrare le cose che oggi hanno acquisito.

Nell’Ottocento i grandi giornali del mondo anglosassone, dove di fatto i media si sono sviluppati seguendo l’onda delle espansioni imperiali, erano ispirati dal cristiano senso del pudore e dalla missione di sostenere l’orgoglio della Nazione. Fu grazie a questa ispirazione che il mondo vittoriano poté a lungo non capire i suoi crimini imperiali. Ma fu sempre grazie alla rottura di quel pudore che quello stesso mondo riuscì a capire e correggere vari errori. Fra questi, le incompetenze di generali che il 25 ottobre del 1854 ordinarono la carica di Balaclava, in Crimea. I dispacci dei comandanti britannici dal fronte, che avevano mandato al massacro inutile una forza di eccellenza, e che si volevano tenere riservati, vennero pubblicati in un’edizione straordinaria della London Gazette il 12 novembre dello stesso 1854. Avremmo potuto dunque sorvolare, o seguire differentemente l’Iraq, l’Afghanistan, i Balcani, l’Iran, o la Cina, o l’Africa?

Ma forse il Santo Padre dice altro. Parla probabilmente del modo con cui parliamo di noi, delle società in cui viviamo. Queste società democratiche, che a volte nei media appaiono troppo aperte, troppo democratiche. Indugiamo troppo sui difetti di chi ci governa, seguiamo troppo la violenza sociale, le volgarità, si dice. Al punto da finire con il non farci credere più a nulla. Ripeto, può essere. E la goduria del lerciume è sicuramente il rischio.

Ma, nella sostanza, non guardare al male significa anche dare mano libera a tutti coloro che esercitano il proprio interesse, coloro che perseguono solo la propria individualità. E cosa è meglio, per tutti noi, sapere o no come si usano i nostri soldi, che rischi corriamo, come vengono educati i nostri figli, come vengono scritte o infrante le regole?

E’ vero, fa male vivere così. Ma girare gli occhi non significa vivere meglio, ma solo diventare delle vittime inconsapevoli. La migliore regola del giornalismo, che alla fine credo vale per tutti, è che una notizia buona per uno è una cattiva per un altro.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #104 inserito:: Dicembre 14, 2009, 10:14:17 am »

14/12/2009

La sinistra a un bivio
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il volto insanguinato, sorpreso e spaventato del premier Silvio Berlusconi rimarrà un’icona nella storia di questa Repubblica. Chiunque lo abbia colpito non ha nessuna, e val la pena di ripetere, nessuna giustificazione. Né di quelle che si sono immediatamente sentite: che è stato lui, il premier, ad aizzare la folla, gridando pochi minuti prima «vergogna, vergogna» a chi lo fischiava - come sostiene Di Pietro -, né di quelle che ci potrà offrire la cronaca sullo squilibrio mentale dell’assalitore. Ieri sera a Piazza del Duomo è stata, in ogni caso, passata una soglia.

E’ stato violato il corpo del premier, e qualunque sia l’opinione sulla sua politica, questa violazione costituisce un attacco diretto, fisico, materiale, alla sua carica. In questo senso è un attacco alle istituzioni, e come tale va giudicato: un nuovo strappo dei molti che stanno disfacendo il corpo della Repubblica. In questo senso, è un passo senza ritorno - senza se e senza ma - che anticipa, fa intravedere quanto facilmente l’attuale infiammata situazione possa piegare verso lo scontro fisico.

Del resto è questa la preoccupazione che sembra motivare l’immediato richiamo del Presidente della Repubblica che ha fatto appello a «stroncare ogni impulso e spirale di violenza», usando quelle parole «spirale di violenza» che tante volte abbiamo già sentito negli anni più bui del Paese.

Lo schieramento politico tutto, il governo e l’opposizione, hanno la responsabilità nelle prossime ore di decidere che piega prenderanno ora gli eventi. Al di là della solidarietà, che consideriamo obbligatoria, la vera questione che va ora posta sul tavolo è se davvero la pratica dell’opposizione si sia tramutata in una campagna di odio.

Il premier lo ha sempre sostenuto in questi ultimi mesi e lo ha ripetuto proprio nel comizio milanese. Ora, dopo l’attacco, tutto sembra dargli ragione. Si avvarrà di questa prova per farsi forza nello scontro, per alzare di tono le polemiche, o vi troverà, come lo spavento nei suoi occhi raccontava, una sorta di buona ragione per rasserenare il clima prima che gli avvenimenti comincino a correre? Questa è la scelta che ha di fronte Silvio Berlusconi.

Peggiore è invece la posizione dell’opposizione. Comunque lo si guardi, anche se si dovesse trattare di una persona squilibrata, l’attacco è figlio di un clima di esasperazione dei conflitti? Il centrosinistra si sente in parte responsabile dell’attuale clima, pensa di aver sbagliato qualcosa, o, al contrario, scrollerà le spalle addossando anche questo episodio a Berlusconi, o derubricando l’intero episodio a un dettaglio?

Per l’opposizione, sono domande complicate perché sono già presenti, sia pur in altre forme, nel suo dibattito interno, e già si sono rivelate molto laceranti. Basta ricordare la tensione provocata la settimana scorsa dal semplice rifiuto di Bersani di aderire in forma ufficiale all’anti-Berlusconi day.

Ora che il pericolo di violenza si è materializzato, la discussione su come si combatte il governo dovrebbe invece assumere dei contorni ben più precisi: cambiare molte parole e moduli fin qui usati, rompere con ogni personalizzazione e concentrarsi completamente sugli aspetti politici dello scontro. Saprà o potrà farlo il Pd che già ora è incalzato da un settore politico come quello di Di Pietro, che dell’antiberlusconismo ha fatto la sua unica piattaforma?

Questa è la scelta di fronte a cui si trova il Partito democratico. E tuttavia non è una scelta impossibile. Silvio Berlusconi è oggi un avversario meno forte di quel che lui stesso sostiene. L’aggressore lo ha colpito proprio alla fine di un comizio che tutto è stato meno che un «predellino 2», cioè un rilancio e un rinnovamento della sua leadership. Anzi, il comizio di Milano è apparso soprattutto mirato a rassicurare un elettorato probabilmente confuso dalle tensioni interne.

Il nuovo segretario del Pd, proprio nel rifiuto di aggregarsi al No Berlusconi Day, ha già dato una prima indicazione della identità tutta politica che vuole dare all’organizzazione. Del resto, Bersani e buona parte dell’attuale gruppo dirigente del Partito democratico vengono direttamente dalle file di quel Pci che negli anni bui non temette di stare accanto al suo avversario storico, la Dc, per fermare il terrorismo. Ora non siamo affatto nell’emergenza di allora. Ma, oggi come allora, il perno della politica rimane il principio che la governabilità di un Paese dipende dall’assumersi responsabilità. Anche da parte di chi è all’opposizione.

da lastampa.it
Registrato
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 18
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!