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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 132231 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Agosto 24, 2008, 06:19:53 pm »

24/8/2008
 
Ritorno al passato
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Se il Partito Democratico avesse uno Scalfari americano o se Graham, fondatore del Washington Post, fosse ancora vivo o se Ted Kennedy non fosse malato: solo una di queste figure avrebbe potuto offrire a Obama una rassicurazione istituzionale maggiore di quella che gli porterà come vice presidente l’appena scelto Joe Biden.

Per il candidato democratico che ha fatto del cambiamento la bandiera della sua campagna, la scelta di Biden, gran navigatore dei corridoi del potere di Washington, è forse la prima vera ammissione di debolezza. Ed è anche il segno della profondità della turbolenza in cui è rientrata la collocazione internazionale degli Stati Uniti.

Fra tutte quelle possibili, Biden è infatti la scelta più convenzionale - più «sicura», preferiscono dire i commentatori americani - che il democratico potesse fare. Di certo, fino a pochi giorni fa non era fra le più quotate. Per mesi Obama ha ragionato intorno a personaggi che in una maniera o nell’altra rappresentavano la sottolineatura della sua diversità dentro il sistema. Uomini come il governatore della Virginia Tim Kaine, cinquantenne, bianco dal fluente spagnolo perché figlio di missionari in Honduras; o una donna, come la governatrice Kathleen Sebelius o la stessa Hillary Clinton. Ciascuno di questi avrebbe rafforzato il cambio, raddoppiandolo o ricucendo una frattura dentro il voto e l’establishment democratico. Che la scelta sia caduta infine proprio su Joe Biden è forse la più chiara, sia pur indiretta, affermazione di una profonda riflessione in corso - e forse di una messa a punto di programma - da parte di Obama.

Biden è un perfetto rappresentante di una delle costituency tradizionali del partito democratico, gli operai, bianchi cattolici (che da anni abbandonano il partito), ma la vera dote che porta al candidato è la sua ultradecennale esperienza fra gli intrighi, le trattative, gli scontri, e gli accordi del più grande «Boys club» del mondo che è il Senato americano. Nella sfera dell’equilibrio dei poteri fra Giustizia e Legge, o fra poteri presidenziali e decisionalità in politica estera, nulla è stato toccato a Washington senza che Joe lo abbia approvato. Per questa esperienza, Obama mette in secondo piano i temi del rinnovamento strutturale o generazionale del sistema (Biden ha sessantacinque anni, fra l’altro, solo pochi in meno di McCain): un cambio leggero ma sicuro di prospettive, che rivela i timori che Obama ha maturato, a questo punto, sulla collocazione internazionale degli Stati Uniti.

Il senatore Biden in politica estera è parte della vecchia generazione, della grande tradizione della politica estera bipartisan; un uomo che sa gestire il mondo uscito dal ’900. Esattamente come McCain. Un mondo che non è quello post razziale e post 11 settembre, che Obama prospettava fino a poche settimane fa. Scegliendo Biden, insomma, Obama in parte torna a guardarsi indietro e sceglie in realtà la persona del partito democratico più vicina al suo avversario McCain, il cui peso è in veloce risalita dopo la crisi con la Russia.

Quattro anni fa, in un’altra corsa presidenziale, Joe Biden se ne uscì con una battuta che fece allora scandalo: il ticket perfetto ai suoi occhi, disse, era composto da John Kerry e John McCain. Oggi quella battuta suona come un’intuizione.

da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Agosto 28, 2008, 11:58:45 am »

28/8/2008 - DEMOCRATICI
 
Grande Hillary
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Finalmente. Finalmente una donna in meno e un politico in più sulla scena mondiale. Hillary Clinton, arrivata boccheggiante alla fine della corsa presidenziale che avrebbe dovuto vederla vincitrice, ha avuto nell’ultimo round l’illuminazione giusta, e ha ricorretto il tiro. In un virtuale striptease si è tolta i fronzoli.

Si è tolta i fiocchi, le lacrime, le tenerezze, i ruoli di mamma e moglie, insomma tutta quella bardatura da «donna» che l’attuale cultura politica l’aveva obbligata a indossare, e alla luce dei riflettori è rimasta scintillantemente nuda, in tutta l’intelligenza, la cattiveria, la capacità di calcolo e di tattica d’un politico di razza. E grazie a questo ha vinto.

Il discorso con cui due giorni fa, dal palco della Convention di Denver, la Clinton ha (forse) salvato il destino del partito democratico (e il suo) in queste elezioni 2008, contiene una morale politica, che a guardar bene è una sana lezione di realismo. «Voglio che voi vi domandiate: avete partecipato a questa campagna solo per me? O per quel giovane marine, o per la mamma malata di cancro che fatica a crescere i suoi figli, o per quel ragazzo e la madre che tirano avanti con il salario minimo?», è il passo più significativo di questo discorso. Domande e risposte retoriche, ma efficaci nel contrapporre l’interesse generale a quel «per me», formula che condensa tutta l’ipertrofia personalistica in cui la politica si è trasmutata nello scorcio di secolo: l’elezione come percorso imperniato su un personaggio più che su una persona, su un’immagine piuttosto che su una linea politica. Complice una cultura dei mass media considerati più nel loro potere di condizionamento che in quello di convincimento. Dalla Thatcher e Reagan, a Blair e Sarkozy, la storia di questi ultimi due decenni potrebbe essere facilmente raccontata nel passaggio da personaggi realmente carismatici, e dunque produttori di immagini, a personaggi carismatici solo attraverso le immagini.

In questo gioco di travestimento della politica, il ruolo di «donna» ha avuto uno spazio sempre più grande: come nella commedia dell’arte, la politica alla ricerca di nuove identità da spingere in scena ha ripescato le maschere meno utilizzate. Le donne, i giovani, poi le minoranze, i nuovi immigrati, i neri. Maschere - diciamocelo - perché mentre il potere reale non si è mai spostato dalle mani in cui è sempre stato, queste nuove identità sono state spesso solo la rappresentazione del nuovo, illusioni ottiche per mostrare un cambio in atto, senza che ci fosse. Il nuovismo, appunto. Dentro le cui vacuità si sta perdendo più di una democrazia (e di un partito) occidentale.

Solo grazie a questa sorta di vacuità politica, del resto, si poteva arrivare, come si è fatto, a descrivere le elezioni della più rilevante carica politica del mondo, quella del presidente degli Stati Uniti, come una competizione fra la Prima Donna e il Primo Nero alla Casa Bianca. In una gara di «mascheramento», in cui i due candidati hanno in qualche modo dovuto autolimitare la misura della propria sfera d’influenza per diventare figurine pubbliche. Con il risultato che in questi mesi una campagna elettorale partita in maniera molto stimolante ha cominciato, agli occhi degli stessi elettori, a perdere senso proprio a causa del suo eccesso di simbolismo.

Essere «nero» o «donna» si sono rivelati ruoli sempre meno convincenti rispetto alle richieste di leadership nate dalla crisi del prezzo del petrolio, dei mutui, o della Georgia. Entrambi questi forti candidati hanno alla fine raggiunto Denver molto più deboli che all’inizio, anche in termini di favore di voto. E la Convenzione nelle prime ore è sembrata, invece che nuova, normalizzata, con le solite figure: da Joe Biden a Ted e Caroline Kennedy, a Gore, a Bill Clinton, fino al discorso di Michelle Obama, ex ragazza ribelle dei quartieri neri, costretta a impersonare, in questo gioco di maschere, la versione nera di Jackie Kennedy, che a sua volta fu costretta a impersonare una First Lady che non era.

Poi, Hillary sembra aver capito. È salita sul palco e ha fatto quello che un politico di razza deve fare: non alimentare il proprio spazietto, il proprio piccolo mito, ma prendersi la responsabilità per tutti e di tutti. Ha smesso i panni della Evita Perón delle femministe di mezza età ed è tornata il politico-avvocato: additando obiettivi e costi necessari a vincere e capitalizzando così in senso vero la scommessa sulla vittoria: aumentando cioè la somma finale non sottraendo i propri voti.

Discorso da politico, ripeto. Crudo, nel senso che in politica conta vincere. Ipocrita, perché dopotutto non ha mai detto le cose che pur avrebbe dovuto dire di Obama: ad esempio, che è inadatto a guidare il Paese in una crisi internazionale. E realistico: Hillary sembra aver capito prima di altri nel centro di Denver quello che è successo nelle ultime settimane. Le tensioni con la Russia hanno infatti avuto un immediato impatto anche in questa campagna elettorale, rovesciandone le logiche: una nuova lacerazione dentro l’Occidente (non più con il nemico «terzo») è cosa troppo seria per essere affrontata con quattro cliché sulla democrazia, due luoghi comuni su donne e neri, e qualche bella immagine su Cnn.

Ma questa parte della vicenda è ancora tutta da scrivere. Per ora ci basta segnalare che, dopo mesi di lagna, Hillary per la prima volta ha fatto un discorso in cui non ha mai detto di essere la Prima Donna che vuole entrare alla Casa Bianca. E per questo la ringraziamo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 04, 2008, 12:15:24 pm »

4/9/2008
 
Donna-panda, addio
 
 
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
C’è qualcosa di liberatorio in quello che sta succedendo alle donne. Hillary, Sarah, Emma. Dai podi delle Convenzioni americane a quelli della Confindustria italiana, le donne arrivate al potere vengono sinceramente e vigorosamente attaccate. Qualcuno ci riprova a evocare il maschilismo, ma, francamente, a quel livello di potere e in questa versione, a destra come a sinistra, possiamo dire con tranquillità che si tratta di un’arma spuntata. Vedo che molte si indignano, ma questa ondata di critiche dovrebbe essere invece celebrata per quel che è: una chiara indicazione che la questione donna non è più nel cerchio magico delle aree protette, nella zona panda, nel circuito delle minoranze, nel dibattito di valori astratti. È divenuta una normale discussione sulla gestione del potere e la capacità di chi lo gestisce. Benvenute, dunque, ragazze, alla maggiore età e all’uguaglianza della lotta politica.

Prendere o lasciare, questo è l’insegnamento che ci viene da quelle che appaiono, insieme, le due settimane migliori e peggiori nella vita di alcune figure femminili. Un tratto comune lega infatti tra loro vicende apparentemente lontanissime. Della storia di Hillary, così esposta, non abbiamo nulla da ricordare ai nostri lettori/lettrici, se non come è finita. L’essere donna non è bastato nel caso della Clinton a superare i limiti di una piattaforma politica; in compenso la carriera di Hillary è tornata a brillare proprio quando alla Convenzione democratica ha messo da parte il corsetto femminile per divenire il kingmaker di Obama. Ha trionfato cioè quando ha rinunciato a brandire la rivendicazione delle donne, ma ha fatto l’unica scelta responsabile per un politico: unire il partito, unire il voto, diventando così una figura con cui Obama dovrà fare per forza i conti. Dopo quel discorso - come abbiamo già scritto - c’è una donna in meno e un politico in più sulla scena mondiale. Come tale la giudicheremo, e del resto lei stessa ha voluto così.

C’è stata poi Sarah Palin, la cui selezione ha funzionato da prova del nove (se ce ne fosse stato bisogno) del fatto che non si tratta più di una questione donne. Se McCain intendeva mostrare la modernità dei repubblicani e lanciare un ponte al voto femminile rimasto scontento dalla esclusione di Hillary, ha dovuto ricredersi subito: le donne democratiche hanno fatto a pezzi la bella Sarah; la poderosa Maureen Dowd (già aspra critica di Hillary e del femminismo hillarista) l’ha ribattezzata «Trophy Vice» (Trophy Wife è la seconda moglie, più giovane e più bella della prima); i media tutti, inclusa la militante di destra Fox Tv, le hanno scaricato addosso l’esilità del suo curriculum, come del resto già fatto con Obama (che al confronto sembra Churchill, è stato scritto); infine sul New York Times Garry Wills, editorialista principe di tutti i conservatori, alla vigilia del suo discorso alla Convenzione le ha chiesto di ritirarsi: «Forse il Governatore Palin», rendendosi conto della sua inadeguatezza, ma anche «per minimizzare la sua stessa umiliazione, dovrebbe ritirarsi prima di essere nominata, e lasciare libero il senatore McCain di scegliere qualcuno con maggiore esperienza».

Infine Emma Marcegaglia. Su un palcoscenico molto meno visibile, sta anche lei sperimentando una tempesta perfetta: a pochi mesi dalla ovazione che ha accolto la sua nomina a presidente della Confindustria, è aspramente criticata, persino nel suo ambiente, per il conflitto di interessi in cui è caduta accettando come imprenditrice di partecipare alla cordata Alitalia.

Sono forse prova di maschilismo questi attacchi? Al contrario: queste donne vengono attaccate per quello che fanno, cioè per le loro capacità o incapacità. Qualcuno avrebbe accettato un vicepresidente uomo, un Hillaro, che tentava di fare le scarpe al presidente, o un vicepresidente, Saro, che non ha altra esperienza se non quella di gestire uno Stato di 670 mila abitanti? Così per Emma Marcegaglia: un Emmo sarebbe stato certamente criticato di fronte alle stesse scelte di conflitto di interessi; dovremmo scusarla invece perché è la prima donna a capo della Confindustria?

In questo senso, quel che succede è, appunto, il raggiungimento di una maggiore età e di una cittadinaza vera per le donne: essere giudicate non per il fatto di portare una gonna, ma per il merito; per quello che si sa fare, non perché si è rosa.

D’altra parte, questo è un processo avviato da tempo: la Royal ha perso perché era politicamente debole la sua proposta, mentre la Merkel è senza discussione il politico più autorevole d’Europa, in quanto la più abile di tutti, e anche se va a fare la spesa ed è stata colta una volta in costume da bagno a nessuno viene in mente di attribuirle meriti in quanto «donna». Un processo sano, che ha liberato le ingessate relazioni femminili, bloccate dalla vecchia convinzione che le donne in quanto tali si devono sempre difendere tra loro. L’altra metà del cielo oggi ha sviluppato una forte e limpida lotta politica al suo interno: contro Ségolène scese in campo un gruppo di autorevoli donne del Ps francese e le loro critiche si rivelarono preveggenti; negli Statio Uniti donne di destra e di sinistra si attaccano come belve; e anche nella nostra Italia, dentro gli stessi partiti, le donne si sono divise sul merito di una nomina o un’altra, sulla base delle capacità di ciscuna.

Tutto questo costituisce il passaggio dal corporativismo femminile alla cittadinanza completa. Stesse opportunità degli uomini, stesse responsabilità, stesse botte. Ma anche stesso giudizio di merito. Un entusiasmante traguardo di vera uguaglianza.
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 20, 2008, 10:51:24 am »

20/9/2008
 
La scommessa di Epifani
 
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Sono stati scomodati i controllori di volo di Reagan e i minatori della Thatcher per ricordare la gravità dello scontro sull’Alitalia. Non molto è stato detto invece di una partita che rende ancora più rilevante, se possibile, il braccio di ferro intorno alla compagnia di bandiera: il destino e la leadership del Partito democratico. Il Pd non è apparso un soggetto molto attivo nella contesa, ma è possibile leggere nelle decisioni di Epifani il peso del fatto che questo partito è tornato (volenti o nolenti i suoi leader) a dipendere dalla Cgil. Una dipendenza che è lo specchio di un disegno di sfida al Pd lanciato proprio intorno all’Alitalia dall’attuale premier in campagna elettorale, e riproposto nel progetto di salvataggio governativo. In questo senso, se invece di duellare sulle ragioni del mercato accettiamo di prendere atto della totale politicità dello scontro, risultano più chiare anche le scelte di Epifani. A nessun commentatore è sfuggita, ad esempio, la contemporanea (e difficile) discussione in corso in Confindustria per il rinnovo del modello contrattuale.

La Cgil è molto dubbiosa su questo accordo perché ridisegna le relazioni all’interno del mondo del lavoro; lo stesso problema è il vero nodo dell’accordo Alitalia: la convergenza fra piloti, sigle autonome e Cgil non è avvenuta sui soldi, ma sulle regole dei rapporti aziendali. Che questa fosse l’essenza della contesa lo conferma lo stesso governo, quando con il ministro Sacconi continua a ripetere che oggi l’obiettivo per far ripartire il Paese è togliere dal campo gli ostacoli della contrattazione. Poteva davvero il sindacato accettare di far passare una rivoluzione di tale importanza nel mondo del lavoro, il cambio del peso della rappresentanza, senza far sentire la sua voce? Nella soluzione proposta dal governo per l’Alitalia è contenuta anche una seconda essenziale sfida al Pd. Se Epifani avesse firmato, nonostante tutte queste perplessità, ci sono pochi dubbi che l’assenso sarebbe stato spiegato anche come risultato della presenza in cordata di uomini «di sinistra» come Colaninno e Passera: con la conferma del passaggio a una fase di cogestione fra destra e sinistra che nessuno ha ancora né approvato né discusso. Dopo la rottura con la sinistra radicale e quella con Di Pietro, la firma da parte di Epifani di una tale piattaforma - anche se in nome di un’emergenza nazionale - avrebbe significato un ulteriore colpo a quel che rimane dello spazio e dell’insediamento sociale del Pd. La Cgil - su cui pure pesa la responsabilità dei molti no del passato alle varie soluzioni per l’Alitalia - questa volta non si limita al no, ma prova persino a rilanciare una certa egemonia sindacale: la sua posizione oggi non sarebbe la stessa se non segnasse la convergenza della Cgil con sigle autonome o di destra. E proprio questi incroci politici, aggiunti alle condizioni fatte per la Cai, rendono credibile - anche agli occhi di chi non è un economista - la possibilità che qualche nuova soluzione ci sia, magari offerta dallo stesso fronte del no. È un gioco pericoloso quello del capo della Cgil, ma non è detto ancora che sia fallito. Se anche solo questo azzardo riuscisse a spostare su un terreno migliore i rapporti di forza fra sinistra e governo, gli effetti sarebbero immediati. Come si è capito fin da ieri. Al leader della Cgil sono arrivati infatti gli appoggi di Liberazione, Manifesto, Europa, in parte dell’Unità (rifugiata in un doppio commento) e soprattutto della componente ex Ds del Pd: Bersani e D’Alema sono del resto ben consapevoli che i loro rapporti con Colaninno li obbligano a una scelta chiara, pena aggiungere l’accusa di «inciucio» alla sconfitta. Possiamo davvero chiamare tutto questo una resa della Cgil agli interessi della sua area politica invece che a quelli del Paese? Facile dirlo, più difficile dimostrarlo: non si capisce bene infatti con quale forza i molti richiami al mercato vengano proposti in un momento in cui in tutto il mondo lo Stato scende in campo e in Italia il ministro dell’Economia predica «il mercato quando è possibile, lo Stato quando è necessario». La partita è politica da entrambe le parti, rassegniamoci. Ed Epifani è il più adatto a condurla. A dispetto infatti dei numerosi richiami al ruolo avuto nel passato da Cofferati, l’attuale capo della Cgil ha poco del suo predecessore. Guglielmo Epifani, quello stesso che oggi viene accusato dal governo e rimproverato da parte della sinistra riformista, ha dato un grande contributo a cambiare l’orizzonte del sindacato, a portarlo da «Mr No» a protagonista nella ristrutturazione del Paese: o abbiamo già dimenticato l’emarginazione dell’estremismo della Fiom? Epifani è per altro un ex socialista, difficilmente dunque sospetto di simpatie per radicalismi Anni 60 e tradizioni comuniste. Questo suo profilo gli dà una forza nei confronti del sistema che Cofferati non aveva. E se in questo passaggio tattico riesce a dimostrare che la proposta del governo non è l’unica, riesce cioè a ricompattare di nuovo identità di sinistra e capacità di opposizione, questo profilo potrebbe anche essere - perché no? - quello del possibile nuovo leader dello stesso Pd.


da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:35:02 am »

9/10/2008
 
Obama in mancanza di meglio
 
 
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Il paradosso dei paradossi sarebbe che Obama divenisse ora Presidente in mancanza di meglio. Colui che avrebbe dovuto personificare una radicale svolta dell’America, il primo nero alla Casa Bianca, l’uomo del cambio generazionale, eletto alla fine sull’onda d’una semplice deriva. Siamo seri, qualcosa non funziona con il candidato democratico. Ha perso carisma, anche se è sempre gradevole; ha perso appeal, anche se tutti lo baciano; ha perso grinta, anche a parole, ma soprattutto pare non abbia più nulla da dire. Questa distanza non siamo certo i primi a notarla, sebbene i suoi collaboratori abbiano già cercato di rigirarne il segno, definendola «uno stato zen», che pare potrebbe rivelarsi una forma di leadership, rappresentando la calma nel mezzo della tempesta. Può essere. Ma più che zen, Obama appare il cerbiatto abbagliato dai fari. E la macchina è quella della crisi economica che sopravviene veloce.

Nel secondo dibattito con McCain sull’economia, cioè su quel battito cardiaco accelerato che fa pulsare il sangue nelle vene d’America, Barack ha fatto un discorso ripetitivo, senza nessuna originalità di formule, e ancor meno soluzioni.

Di fronte a un crollo inimmaginabile, da lui non è arrivato uno scatto intellettuale, o anche solo l’indicazione di una strada da prendere. Come si salva l’America da questa enorme crisi, può dircelo passo per passo?, chiede il giornalista durante il confronto. Obama risponde, letteralmente: «Io penso che tutto cominci con Washington perché siamo noi, intanto, a dimostrare di avere un comportamento virtuoso... Sono convinto che molti dei presenti soffrono di non poter condividere il proprio peso con altri... Ognuno di noi deve contribuire... Per questo dobbiamo tagliare il bilancio statale usando non l’ascia ma lo scalpello, in modo da non ferire nessuno». Se questa non è la solita generica dichiarazione di buone intenzioni, vuol dire che non ho capito niente (il che è possibile). Ma non mi pare che tali affermazioni abbiano fatto salire la Borsa.

Tutto questo non ha nulla a che fare con la performance di McCain, apparso anche lui debole; ma almeno ci ha provato, annunciando a sorpresa un piano dello Stato per rinegoziare i debiti di una buona fetta di proprietari di casa in difficoltà. Dei piani dei repubblicani l’America non pare fidarsi e la proposta non ha scaldato i cuori. Obama poteva inserirsi qui: ma si è limitato a riprendere il suo filo, dando l’impressione di parlare dal palco come se fosse solo. Mentre McCain prometteva nuove perforazioni negli Stati Uniti per trovare il petrolio, nuove centrali nucleari, Barack rispondeva promettendo alle donne educazione e assistenza medica, in particolare sostegno alla maternità e mammografie. Se McCain tentava di alzare i toni, «i cittadini sono arrabbiati, preoccupati e piuttosto timorosi», Obama rispondeva con il linguaggio del tenero familismo democratico: ha usato la parola «you» o «yours» novanta volte, ha parlato di sua madre, di sua moglie e persino di sua nonna, ed ha usato la parola «classe media» un’infinità di volte, proponendo alla fine il solito, sia pur attento, intervento dello Stato nel sollevare i destini dei cittadini. Insomma, la ricetta usuale in tempi inusuali.

Eppure il Wall Street Journal prevedeva che sei su dieci elettori voteranno guardando alle migliori soluzioni economiche, e che su questa base c’è una maggioranza a favore di Obama. Come è possibile? Davvero offre fiducia una proposta così esile come quella che abbiamo sentita? O a favore di Obama sta forse giocando solo il risentimento nei confronti dei repubblicani, considerati coautori della crisi? Insomma, Barack Obama può vincere allo stato attuale, ma sarebbe una vittoria di deriva.

Non sappiamo che cosa stia succedendo al candidato democratico. Sappiamo però da quando datare questo suo «evaporare». Dopo la Convention che lo ha coronato vincitore, la sua voce non si è sentita quasi più, inghiottita prima dalla stanchezza della corsa, poi forse dai molti patti che ha dovuto fare nel suo stesso partito e poi ancora dalla vitalità di Sarah Palin. Si può capire dunque questa sorta di crisi, ma a pochi giorni dal voto quel che conta non è il suo percorso da candidato, ma quello di futuro Presidente. Se proprio lui, l’uomo nuovo, vincesse più per collasso altrui che per forza propria, non sarebbe molto rassicurante in un momento in cui il prossimo Presidente degli Stati Uniti dovrà riempire il vuoto creatosi con questa crisi al centro stesso del mondo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 15, 2008, 03:54:50 pm »

15/10/2008
 
La politica ai tempi della crisi
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Due storie emblematiche di questi giorni. Berlusconi arriva a Washington, accolto con grandi cerimonie e affetto dal presidente Bush ma, per la prima volta nella sua storia politica, neanche questo viaggio gli ridà quel ruolo da protagonista che da settimane gli ha strappato il suo ministro Tremonti. Veltroni arriva all’anniversario del Pd, pronto a misurare la sua forza con una manifestazione lungamente attesa e preparata contro il governo, ma la coalizione si spacca sull’opportunità di mantenere l’appuntamento: anche questa discussione sa di prima volta.

Disagi impalpabili, impatti ancora non pienamente visibili, ma segni di come la crisi internazionale, tenuta (forse) fuori dagli sportelli bancari, sia comunque arrivata fra noi. Lo tsunami finanziario ha infatti già strappato la politica nazionale dal suo piccolo orto al di qua delle Alpi, obbligandola a misurarsi con il mondo. Gli effetti di questo shock, sono qui per restare. Il primo colpo si è avvertito sulle proporzioni. Dopo anni di prediche contro il «teatrino» italiano, eccolo finalmente scoperchiato. Quanto più immense le proporzioni del crollo internazionale, tanto più insignificanti gli affari cui di solito la nostra nazione s’appassiona. Meschine le divisioni interne ai partiti, frantumate le grida degli studenti, in polvere le piccanti polemiche sulle capacità dei ministri donna, trivialissima l’impasse fra commissione di Vigilanza Rai e Consulta, sospesa nel vuoto persino la riforma della Giustizia: di fronte al panico vero, buona parte della nostra realtà politica ha rivelato di quanta irrilevanza sia fatta.

Ma la caduta di significato, da cui eventualmente usciremo non appena ci sentiremo più sicuri, ha portato allo scoperto, come la caduta di un telo di protezione, anche alcune debolezze strutturali dei due principali leader politici del Paese. Iniziamo dal premier. Berlusconi è stato colto dal crack finanziario nel momento migliore di tutta la lunga carriera: il 67% di consensi, ministri delegati più che comprimari, alleati tutto sommato in riga. Questi primi mesi di governo sono stati in effetti la consacrazione di quella che era stata finora la sua maggiore debolezza, il conflitto d’interessi. Punita alle elezioni del 2006, la commistione fra politica ed economia è tornata in gloria in quelle del 2007: la vicenda più rilevante nel segnare questa rivincita del conflitto di interessi è stata l’Alitalia, non a caso vissuta in maniera così appassionata, quale la resa dei conti che è stata, da tutti gli italiani.

Il Berlusconi che in campagna elettorale era riuscito a smantellare una proposta di vendita già quasi firmata dal governo in carica per prometterne un’altra migliore è il Berlusconi che ha esercitato in pieno il suo doppio peso come imprenditore e come leader politico; una volta al governo, la realizzazione della nuova cordata promessa è stata poi il trionfo della forza di questo doppio ruolo, in cui la parola del businessman rafforza l’agibilità promessa dal politico e viceversa. Un trionfo ben sottolineato dallo sdoganamento della neutralità degli affari anche da parte di grandi banchieri e imprenditori di fede politica lontana dal Pdl. Sfortunatamente per il premier, lo tsunami finanziario si è incuneato di nuovo proprio in questo suo doppio ruolo: non c’è bisogno d’essere economisti per capire che il leader del Paese che nella crisi vede precipitare anche le sue imprese non è esattamente neutrale nel giudizio né nelle proposte (ricordate la gaffe dei consigli per gli acquisti di azioni?).

Nel momento della crisi i cittadini hanno posto le loro domande non ai banchieri o ai manager, ma allo Stato come pura rappresentanza politica della società, al di là e al di sopra degli affari. È un caso che nella crisi sia brillata la stella del ministro del Tesoro? È un caso che questo ministro si sia distinto, dentro il governo, contro una concezione spregiudicata degli affari? Amato o meno, Tremonti in questi mesi si è collocato come un politico puro e diverso dal suo premier ed è questo che, prima in Italia e poi a Washington, gli è valso la credibilità di rappresentanza. Mentre Berlusconi nella crisi ha avuto peso decisamente minore. È stata ancora l’ex Alitalia, adesso Cai, a indicare questa debolezza ora, come prima la gloria: la crisi finanziaria ha messo in crisi la cordata che con tanta grazia e persuasione il premier aveva assemblato.

Il caso di Veltroni è più lineare. Schiacciato dai numeri in Parlamento e dalla sua crisi interna, il centro sinistra non ha avuto né gran ruolo né successo nel periodo di trionfo berlusconiano. Eppure, anche su queste forze la crisi finanziaria si è abbattuta in maniera crudele, arrivando proprio mentre il Pd lavorava alla lunga e paziente ricostruzione della sua forza e alla manifestazione nazionale indetta il 25 ottobre prossimo. Un corteo contro il governo, convocato - ironia della furia della crisi - proprio mentre la situazione è divenuta così grave da obbligare tutti a collaborare per fronteggiare il disastro. Da dentro il Pd si chiede ora di cancellare il corteo o almeno di cambiarne le parole d’ordine: persino l’atto più semplice, un rituale ben oleato come una sfilata, è diventato un problema. Se non la debolezza, la crisi ha certo accentuato la confusione del centro sinistra.

Rimpiccioliti dal peso del mondo, i problemi di leadership italiani ci lasciano di fronte a una doppia domanda. Se la crisi in futuro dovesse peggiorare e il premier dovesse sempre più confrontarsi con i danni alle sue imprese, riuscirà a non coinvolgere il Paese nel suo conflitto d’interessi? E la sinistra, così presa dal dipanare torti e ragioni del proprio recente passato, avrà mai la capacità di divenire, come la nuova fase richiede, una parte delle istituzioni?
 
da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:23:37 am »

21/10/2008
 
Mamma li fondi sovrani
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

I servizi segreti fanno capolino nella crisi finanziaria e non riesco a capire se dobbiamo preoccuparci o considerare questa storia un’ennesima esagerazione della politica. Mercoledì 15 ottobre il presidente del Consiglio annuncia che esiste il pericolo di «opa ostili».

Opa ostili, spiega il premier, su «molte validissime imprese italiane», che oggi hanno «una quotazione che non corrisponde assolutamente al loro giusto valore»: «Io ho notizia che i Paesi produttori di petrolio, che hanno molti fondi, stanno acquistando massicciamente sui nostri mercati».

L’annuncio non è di quelli che passano inosservati: evoca la possibilità che l’Italia venga comprata e dunque dominata da altri Stati, in particolare da quelli arabi. I fondi sovrani sono quelli controllati direttamente dai governi, utilizzati per investire il surplus fiscale o le riserve di valuta estera. Ad esempio, la Cina ha massicciamente investito in titoli di Stato statunitensi, creando in Usa molti timori. La dichiarazione di Berlusconi crea un gran trambusto, al punto che il premier reinterviene per precisare che si tratterebbe solo di «speculazione finanziaria», non di «entrate in aziende». Tuttavia, tanto per stare al sicuro, annuncia che l’Italia è pronta a scrivere una norma per tutelare le nostre imprese dalle Opa ostili.

Due giorni dopo, Francesco Rutelli, presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (l’organo di controllo del Parlamento sui servizi segreti, che come da tradizione è presieduto dall’opposizione), ritira in ballo la vicenda: «È da maggio che i nuovi servizi segreti stanno monitorando i flussi d’investimento verso l’Italia e i movimenti di petrolio. C’è un giusto grado di attenzione verso la molteplicità di questi fondi sovrani e le loro strategie che potrebbero non essere più solo quelle di investimento». Il rischio è quello «legato ad interventi poco trasparenti di alcuni fondi sovrani, verso asset strategici per la sicurezza nazionale».

Qualcosa a questo punto si muove: venerdì Rutelli incontra il Presidente della Repubblica e nel colloquio si parla anche (o soltanto?) dei fondi sovrani. Nelle stesse ore il ministro degli Esteri Frattini si reca in missione negli Emirati, regalandoci una nuova notizia: «Finora i grandi fondi sovrani hanno avuto come interlocutori le merchant bank, ora l’interlocutore diretto sarà invece il governo: perché l’Italia è il primo Paese europeo ad aver stabilito, quattro giorni fa, un Comitato strategico per l’interesse nazionale in economia. Il debutto non a caso è qui ad Abu Dhabi». Ieri infine, martedì 21, il Copasir inizia una serie di audizioni in merito a questi pericoli per la nostra economia: il primo ascoltato è il generale della Finanza D’Orrigo.

Tutto pubblico, come si vede. A questo punto sarebbe importante che dal disegno che ci è stato delineato si scendesse nei dettagli. Non c’è dubbio che i fondi sovrani, nati soprattutto nei Paesi forti esportatori di petrolio - Emirati, Qatar, Abu Dhabi, Dubai - ma anche a Singapore e in Cina, fanno in questo momento paura a tutti perché la crisi dei subprime ha fatto emergere il loro peso. Così come non c’è dubbio che il controllo straniero su aziende che assicurano la nostra indipendenza nazionale aprirebbe un problema di sicurezza persino più grave di un attacco terroristico armato: ma siamo davvero al punto da dover impiegare i servizi segreti e formare una task force nazionale?

Da questi primi passi nascono varie domande. La prima: questa attenzione dei servizi segreti sui fondi sovrani significa nei fatti che stiamo spiando le mosse finanziarie di altri Stati. E’ legittimo, è utile e soprattutto non rischia di logorare i nostri rapporti con queste nazioni? La seconda: quali sono i fondi sovrani che si stanno muovendo in Italia? Ad esempio, se i libici che entrano in Telecom vanno bene, sarebbe utile sapere perché non va bene invece il fondo Singapore. Frattini ad Abu Dhabi sembra aver stipulato un accordo bilaterale con un fondo «buono»: che cosa succederà con i fondi «cattivi»? Insomma, se tutto ciò è vero, non cambia anche il quadro delle relazioni internazionali del nostro Paese?

Infine, sulla nostra sicurezza nazionale. Quali siano le aziende che coinvolgono la sicurezza nazionale più o meno si sa: energia, imprese militari, telecomunicazioni. Ma alcune, come l’Eni, sono già blindate contro Opa ostili. Se non l’Eni, allora quali altre? La Finmeccanica, Telecom, piccole imprese che paiono secondarie ma che in effetti, per vari accordi multilaterali, offrono prodotti che vanno a finire in settori strategici? E non pongono questioni di sicurezza anche le infrastrutture? Ricordo che un paio di anni fa fondi sovrani arabi volevano comprare il porto di New York e che l’offerta venne respinta con un intervento del Congresso Usa perché i porti sono il passaggio più esposto nel controllo delle frontiere, data la facile infiltrazione di persone e materiali.

Forse queste sono preoccupazioni eccessive, ma ugualmente, vista la drammaticità della crisi finanziaria e le forze coinvolte, sarebbe meglio avere risposte chiare.
 
da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 23, 2008, 04:44:51 pm »

23/10/2008 - IL SABATO DEL PD. PERCHE' NO
 
Un segno debole
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Ora che Berlusconi flette i muscoli contro la protesta, dovrebbe essere da vigliacchi dire che la manifestazione del Pd a Roma sarebbe preferibile non farla.

Ma dal momento che il dilemma «corteo sì, corteo no» non ha mai riguardato una decisione pratica, è stato semmai solo un buon modo di discutere le pratiche dell’opposizione, penso che si possa continuare a parlarne senza evocare disfattismi.

Ieri a Roma è stata l’ennesima bella giornata di questa stagione. Strade, vicoli, università e piazze piene: in particolare piena era piazza Farnese, ma non di turisti. L’ampio quadrato definito da ristoranti, bar e palazzi storici è diventato per l’intero giorno, dal mattino a quasi sera, la sede all’aperto della facoltà di Fisica della Sapienza. Due lavagne trasportate a mano dall’Università e appoggiate alla base di marmo di una delle fontane hanno fatto da piano di lavoro, mentre centinaia di studenti a ogni ora si sono alternati disciplinatamente seduti a terra, in differenti classi, con diversi professori, per differenti lezioni. Alla fine della giornata il corso era stato rispettato fino in fondo. Venerdì Fisica farà lezione davanti a Montecitorio.

Non è stata ieri l’unica classe all’aperto in Italia, di sicuro non è stata l’unica protesta. Ma qui parliamo della Facoltà di Fisica, un posto con poco più di seicento studenti, un posto dove lavorano aspiranti premi Nobel, come Cabibbo, un posto le cui aule sono intitolate a Fermi e Majorana, e i cui ricercatori lavorano al progetto Cern di Ginevra, per non dire poi che è la stessa facoltà cui si è attribuita la responsabilità, pochi mesi fa, d’aver impedito al Papa di entrare alla Sapienza. Che cosa avreste chiesto - tanto per curiosità - a questi protestatari illustri? La mia prima domanda è stata: a che organizzazione appartenete? La risposta corale: nessuna. Siamo contro l’occupazione, siamo fuori da ogni collettivo, e questo è un modo per farci sentire («contro i tagli che eliminerebbero alcune punte di eccellenza nella ricerca»), ma senza smettere di studiare. Altra domanda: andrete al corteo del 25 ottobre? Risposte vaghe: a quello del 30 che riguarda la scuola di sicuro. Del 25 non ne abbiamo nemmeno parlato.

Se ieri aveste avuto la pazienza di continuare a seguire non tutti ma almeno un po’ di altri appuntamenti della protesta della scuola a Roma, molto spesso avreste sentito parole simili. Non ci vado il 25, non mi unisco alla politica, mettere in mezzo la politica oggi significa rovinare tutto. Questo è il clima prevalente nella scuola (salvo che nei gruppi che fanno riferimento in vario modo al Pd, e ce ne sono parecchi e molto forti in vari istituti, insegnanti inclusi). Vuol dire che il corteo del Pd non rappresentarà nessuno? Non esattamente. Vuol dire però chiedere con una certa precisione che cosa sia il raduno nazionale del 25 e a che cosa serva.

Non mi inoltro nella critica alla ritualità e alla inutilità dei cortei in generale. Da parecchio tempo la sinistra ha imparato a conoscere i limiti dell’uso e abuso di questo strumento. I cortei, ormai lo sanno tutti, sono in ogni caso una rappresentazione. Possono essere giustificati per cause di minoranza da portare all’attenzione generale, o per una specifica vertenza, magari per mettere sotto pressione l’avversario. Quello previsto sabato dal Pd appare invece parte di una diversa tradizione: un corteo come richiamo per contarsi e farsi contare. Che il Pd abbia fatto questa convocazione è comprensibile e condivisibile, nel suo attuale momento politico, ma va anche detto esplicitamente che essa serve a questi due propositi: serve insomma a ridare adrenalina a un corpo elettorale bastonato dalla sconfitta. Cosa che del resto Berlusconi ha sempre fatto per le stesse ragioni nei mesi dopo ogni sconfitta elettorale.

Ma se si pensa a un corteo che possa oggi proporre una piattaforma generale dell’iniziativa della sinistra, allora siamo fuori segno rispetto al problema centrale di quest’area politica. Il centro sinistra è debole perché ha una crisi di rappresentanza dentro il Paese reale. Una crisi di sfiducia, di qualunquismo, di delusione, chiamatela come volete. È sufficiente dire che questa crisi si esprime non solo nella perdita di consenso a favore della destra, ma anche nella distanza da quella che dovrebbe essere la sua base naturale. Operai e non solo: giovani, professionisti, la vasta intellighenzia diffusa che compone le società moderne. Un corteo generale (che auguro al Pd ampio, colorato e appassionato) di sicuro non serve a riprendere a colloquiare con questi strati che di colloquio con il centro sinistra non ne hanno più.
 
da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 27, 2008, 03:46:49 pm »

27/10/2008
 
Gli studenti non c'erano
 

LUCIA ANNUNZIATA
 
Con commendevole sincerità il direttore dell’Unità Concita De Gregorio lo ha scritto ieri (il giorno dopo la manifestazione del Circo Massimo) nel suo editoriale.

Non si lasciano strumentalizzare, gli adolescenti. Federica Fantozzi è andata ieri per noi nei licei occupati. “Siamo l’alba del mondo” le ha detto con qualche enfasi, ma con sincera passione Francesco Begiato, uno studente. Poi ha aggiunto: ”Non lasceremo che i partiti mettano il cappello sulla nostra protesta perché non è né di destra né di sinistra: è in difesa della scuola pubblica”. Infatti gli studenti ieri non sono andati al Circo Massimo. C’erano, ma non c’erano. Erano mescolati, senza insegne, ai genitori e agli insegnanti».

Commendevole sincerità, appunto. Il giorno dopo l’adunata del Pd, la discussione sul numero dei partecipanti è stucchevole, in quanto del tutto non essenziale. Chi non ha mai avuto dubbi sul significato o la necessità di questo appuntamento - e tra questi chi scrive - non ne ha fatto una questione di partecipazione: si temeva forse che fallisse uno sforzo organizzativo tipo quello messo in campo, prodotto, per altro, di una lunga tradizione di raduni di massa? La domanda della vigilia era: questa manifestazione aiuta o meno il Pd a uscire dal suo angolo per parlare ad altri pezzi della società che ha perso? Oggi, due giorni dopo, la domanda è ancora aperta, per nulla risolta dal numero di chi ha marciato. Se il problema del centro-sinistra è quello di non saper più parlare a molti dei suoi tradizionali elettori, la mancanza degli studenti e degli insegnanti al corteo di Roma è il vero segno del limite delle adunate come strumento di lavoro. L’assenza ufficiale (cioè con proprie insegne) di chi protesta in questi giorni è tanto più rilevante perché il 25 ha preceduto solo di pochi giorni la manifestazione nazionale della scuola convocata per il prossimo giovedì: sarebbe stato dunque facile far montare la marea con un doppio appuntamento a rimbalzo. Se distinzione c’è stata, è dunque una separazione voluta, costruita sugli umori ben riportati dalla stessa Unità. «Né di destra né di sinistra», dice lo studente intervistato dal quotidiano: la politica è «un cappello», senza distinzioni, non più un aiuto naturale per chi protesta, ma addirittura un ostacolo.

Qualcuno potrebbe obiettare che dopotutto gli studenti non sono il centro dell’universo. D’accordo. Ma gli umori che si registrano nelle aule scolastiche o universitarie non sono esattamente isolati, se è vero un dato pubblicato ieri dal Corriere della Sera. Secondo un’indagine fatta per questo quotidiano dal noto (e credibile) Renato Mannheimer, la maggioranza del nostro Paese pare essere in fuga sia dalla destra sia dalla sinistra. Il governo Berlusconi a giugno vantava il 61 per cento di consensi, a settembre ne aveva ancora il 60 per cento, oggi, cioè dopo la crisi economica, e dopo le polemiche sulla scuola, è sceso al 42 per cento. Il centro-sinistra va dal 46 per cento di consenso a giugno al 20 per cento di settembre, al 16 per cento di oggi.

Dati bizzarri, che negano per la prima volta (se non sbaglio) la famosa regola dei vasi comunicanti, in base ai quali il consenso perso da una coalizione si riversa nell’altra. La rottura di questa alternanza è certo oggi in Italia il dato più nuovo, ma anche, per certi versi, il più coerente con quello che è successo negli anni scorsi: difficile non vedervi quel distacco dei cittadini dal valore stesso della politica, che aveva alimentato la lunga onda dell’antipolitica, oggi silenziosa, ma che, evidentemente, ha scavato un profondo solco dentro la coscienza nazionale. Atene piange, ma Sparta non ride, è il motto cui spesso ci si è richiamati in questi anni di disaffezione dei cittadini. Il calo di consenso è un danno per l’attuale premier, ma è un danno ben più profondo per la sinistra non essere in grado di attrarre questo scontento. Basta di fronte a questo quadro la consolazione di un bel numero di uomini e donne in marcia? La loro mobilitazione è essenziale (come lo fu per il Pdl quando era all’opposizione), ma appunto è ben lontana dall’essere anche solo l’inizio di una soluzione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Ottobre 31, 2008, 03:56:31 pm »

31/10/2008 - VISTI DA VICINO
 
Il popolo del ghetto che spaventa i bianchi
 
Con la gente dei quartieri poveri a sentire il candidato tra frigoriferi portatili, parasoli e sedie pieghevoli
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 


Tutto questo è straordinario, portentoso, ma capisco. Capisco perché l’America può avere paura della elezione di Barack Obama. Il pensiero arriva laterale, come tutti quelli inconfessabili. Concentro il mio fastidio (la mia paura?) in maniera da analizzarlo. Ma l’analisi è il peggior rimedio.

Sono da ore dentro un’astronave. Non ho altre immagini per descrivere la profonda emozione e la lontananza dal resto del mondo che traspira in questo spazio chiuso. Lo Stadio BankAtlantic Center, lungo la statale 95 che percorre la Florida dal Sud al Nord, da ore ha lasciato la terra per divenire una fonte di «esperienza». La folla pompa, come un motore, odori, rumori, sudore; l’adrenalina è un collante che forma una seconda pelle. E in mezzo a questo battito sostenuto, c’è Barack Obama, intoccabile, liscio, come avviluppato da una membrana. Ha un vestito grigio che cade senza una piega - eppure lo avrà addosso da ore. E’ salito con i soliti brevi balzi sulla scaletta del palco, ma da quando è davanti alla folla non spreca un movimento. Una mano per sottolineare la pause del discorso, un mezzo giro per essere sicuro di risultare visibile a tutti. Le urla della sala non lo scuotono. E’ una pallida, luminosa zona di calma in mezzo a una tempesta di passioni. Voglio uscire.

Negli ultimi ventotto anni ho seguito ogni elezione americana. Ma nessuna delle onde di entusiasmo che periodicamente le precedono, dal 1980 di Reagan al 1992 di Clinton, si misura con quello che si è messo in moto intorno ad Obama. Sunrise, dove siamo, è un posto di nulla, un non-stop su una autostrada, dietro cui si allarga uno dei molti quartieri neri. Non è dunque un comizio per la Tv questo, come quello che fra poco tutti seguiranno sullo schermo, a Orlando, con Bill Clinton; ma forse per questo è più vero.

La folla arriva dal mattino a ondate così massiccie che la polizia deve continuare a bloccare il traffico sulla superstrada. Arrivano con impeto. Sono tutti neri. Non i neri della pubblicità e nemmeno quelli di Columbia o Harvard, così perfettamente digeriti dalla nostra estetica. Sono neri del ghetto, che portano con sé il ghetto: frigorifero con il cibo, ombrelli per farsi ombra, sedie pieghevoli. Sono tutte le facce di una integrazione data, negata, limitata, e non tutte queste facce sono rassicuranti: ci sono le commesse, le signore della classe bene, le anziane donne con file di nipotini senza genitori, ma anche i ragazzi delle gang, i lavoratori giornalieri, le ragazzine sfacciate, e il rasta puzzolente e «fatto» ha lasciato il suo angolo di strada per arrivare fin qui. Lontano dalla città, i bianchi sono solo una spruzzatina di diversità, e i Latini non ci sarebbero comunque.

Si materializza così un mondo che è tutto interamente nero. E’ l’America senza i bianchi. Con il suo inglese, le sue abitudini così diverse, un mondo parallelo che finalmente emerge, invece di essere, come ogni giorno, spezzettato nel volto della cameriere, o del giardiniere, o dell’autista. E nell’emergere mostra apertamente qualcosa che abbiamo letto, nei romanzi di James Baldwin soprattutto, ma di cui raramente abbiamo fatto esperienza diretta: l’intensità. Ci possono arrivare i sentimenti circoscritti da secoli di ghetto. Non è infatti una semplice folla elettorale questa, e Obama non è un semplice candidato presidenziale.

Pregano, cantano, ballano. L’intensità della loro certezza è tutta raccoglibile in un piccolo episodio successo mentre tutti si aspettava fuori. Nell’angolo del dissenso (spazio ufficiale) si presenta un repubblicano, giovane, che innalza un cartello con scritto «Obama è il presidente di Hamas». Viene circondato, giovani neri vogliono convincerlo, si passa all’Iraq, alla disoccupazione, si alzano le voci - fino a che dal fondo si stacca un vecchio nero, magrissimo, con le mani spaccate, un lavoratore della terra, che pare uscito da Huckleberry Finn, si avvicina, punta il dito verso il repubblicano, e tuona con la certezza di chi ascolta gli angeli: «Uomo, ho una notizia da darti: il 4 novembre il presidente degli Stati Uniti cambierà. E sarà un nero». Non Obama, non un politico. Non uno qualunque, ma il presidente degli Stati Uniti. E sarà nero. È la voglia, la attesa, la speranza di quasi tre secoli di ghetto. Sempre finite con una uccisione o una delusione. Che si risvegliano oggi di nuovo, e trasformano una elelzione in una preghiera.

Questa preghiera è quello che avverto dentro la navicella spaziale. È così lontana da noi bianchi questa dimensione, è così poco mediato questo rapporto razziale, che la parte istintiva di me si ritrae. Il momento passa, ma quell’attimo (posso dire di “razzismo”?) c’è stato. Sufficientemente lungo per capire la forza tellurica che contiene questa sfida elettorale, e i miasmi di paura che sta spargendo: per i bianchi c’è il timore di essere presto spossessati, per i neri il timore di venire per l’enessima volta ricacciati fuoti.

Capisco anche infine perché al centro di questa navicella ci sia un Obama così controllato, a pulsione così bassa da sembrare lontano. L’Obama-Zen, come tutti i commentatori chiamano la sua calma. Per fortuna che è così. Se alla passione di tutti i presenti aggiungesse la sua, questa sarebbe non un’astronave, ma una scatola di cerini incendiati.
 
da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 07, 2008, 12:23:34 am »

6/11/2008 - IL METICCIO COME METAFORA DEGLI USA
 
Né bianco né nero Obama è il primo "Homo Globalis"
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

NEW YORK

Nera fu la madre di tutti noi, Lucy, nell’Africa dell’Est, dice l’archeologia. E colorati ridiventeremo tutti noi, dice la genetica. Quando le razze saranno divise e poi mixate di nuovo nel grande vortice del mondo, quel color terracotta, quel volto stretto da bianco, la bocca grande da nero, gli occhi sottili da arabo, le mani lunghe da intellettuale e i piedi grandi da contadino di Barack Obama, saranno guardati fra i quadri dei presidenti americani nella Casa Bianca, come il ritratto del primo uomo globalizzato diventato capo degli Stati Uniti. E chissà che (osiamo in queste ore di assoluta imprevedibilità) non succeda che, per allora, gli Stati Uniti saranno formati da un numero di stati ben maggiore dei suoi attuali 50.

Esagerazione mica tanto. Più che uno scenario futuribile da Ursula Le Guin, è il profilo del futuro che possiamo ricavare dalla lettura dei risultati elettorali. Da cui si vede bene che colui che comunemente oggi definiamo «Il Primo Nero alla Casa Bianca» è in realtà il Primo Uomo di Colore Globale che varca quella soglia.

La grande sorpresa dei numeri è infatti che Obama non ha vinto, come si pensava, grazie ai nuovi elettori neri andati alle urne. Questo elettorato è quasi lo stesso di sempre. Barack vince in realtà, come Jimmy Carter nel 1976, la maggioranza del voto Americano. Il voto tutto. E il voto moderato in particolare, di cui i democratici raccolgono il 60%. C’è una trasversalità piena nel consenso al nuovo presidente, che spiega perché i democratici vincano dove da anni non vedevano la luce del sole, (44 anni in Virginia) ma anche dove Bush nel 2004 aveva una maggioranza assoluta, come Nord Carolina, Florida, Indiana e Ohio. Soprattutto, Obama vince nelle aree più economicamente vitali, che sono anche quelle a maggior mescolanza razziale. E se nel profondo Sud tutto rimane immobile, diverso è il quadro nel cosiddetto «Nuovo Sud», o nelle zone dell’Ovest a veloce crescita come le Rocky Mountains, o nelle aree intorno a Orlando, Washington, Indianapolis a Columbus.

Il significato di questo elenco non è solo geografico. Le zone a crescita veloce in Usa sono colorate da un misto di etnie; aree urbane, con gente sotto i 40 anni. Zone che sono più figlie dell'omogeneizzazione prodotta dalle scuole e dai matrimoni misti, che dalle nuove ondate di immigrazione. E’ il profilo di una società e di una generazione in cui la razza è secondaria; persino i giovani latini in queste aree hanno votato Obama, contrariamente a quanto si pensava all’inizio. Cosi come ad Obama è andato il voto di contee tradizionalissime come Fairfax, Virginia, o Orange in Florida. Il partito democratico, sull’onda di Obama, si assicura infatti tanti seggi da suscitare la preoccupazione di una eccessiva maggioranza nel Congresso.

Sono questi voti che fanno di Obama il presidente di «giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, latini, asiatici e nativi americani, gay, eterosessuali, disabili e sani», come li ha elencati lui stesso a Chicago. Una collezione di razze che, così come non definisce più le aree locali, non definisce più territorialmente nemmeno solo gli Usa: da qui l’eco di partecipazione e familiarità che queste elezioni suscitano nel mondo. Lo stesso Obama del resto non è un nero, ma tecnicamente un sangue misto, con un’evoluzione culturale che va dall’Africa agli Usa all’Asia, dove è vissuto. «Noi siamo americani che dicono al mondo che non siamo mai stati solo un elenco di Stati rossi e blu: noi siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America», ha detto ieri a Chicago.

Una vicinanza con il resto del mondo che non sarebbe potuta essere tale se non fosse stata nutrita anche da quella seconda patria di tutti noi che è la tv. I tanto deprecati media, che però hanno formato, tramite video, Internet, sms, mms, il linguaggio di questa rivoluzione generazionale e razziale; oltre che l’anima della campagna elettorale. Raccontandoci in questi anni i disastri economici, le guerre, ma anche le canzoni, i matrimoni e le scuole e le lingue di questa nostra magnifica e orribile interazione.

E’ solo giusto dunque che queste siano state anche le prime elezioni non in visione globale, ma direttamente globali, con la tv americana connessa con tutte le sorelle locali, a formare una sola pelle catodica «live». L’effetto più mirabile di questa nuova era è stato presentato proprio in tv: il «beaming», la possibilità di materializzare in uno studio una persona che invece è in collegamento da un altro luogo. La prima volta è toccato a una giornalista della Cnn che con il virtuale tridimensionale si è materializzata nello studio centrale della rete. Ma domani con questa tecnologia il presidente Obama potrà materializzarsi in un summit mondiale o nella casa di un contadino africano. Diventando il Presidente di tutti. Naturalmente, quel contadino potrà materializzarsi nella sua Casa Bianca. Diventando il cittadino con cui tutti dovranno fare i conti.

 
da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Novembre 07, 2008, 10:06:25 am »

7/11/2008 - IL CASO
 
I comici: "Con Barack addio satira"
 
 
 
 
Armi spuntate per il divertimento politically correct: gli artisti che sparavano a zero su Clinton e Bush risparmiano il neo-eletto per non sembrare razzisti
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Per gli Altri è stato sempre molto facile. Clinton non era ancora Presidente e già lo si presentava circondato da montagne di hamburger e gelati di cui era estremamente ghiotto; con altrettanta facilità, negli anni tardivi del suo mandato, venne rappresentato circondato da ben altre tentazioni. Poi venne George Bush, ed è stata un’autentica manna: nel primo Thanksgiving dopo la sua elezione nel 2000 (cioè quasi due mesi prima che mettesse anche solo piede nella Casa Bianca) venne presentato alla nazione, nelle piume del Tacchino - Turkey in Usa è anche un modo per dire «cretino».

Ma ora con Obama? Dove sono le imitazioni di Barack? Mai visto il candidato nella veste di Zio Tom, e neanche in quella, magari meno offensiva, del primo della classe. Mai visto Lui preso in giro, né durante la campagna elettorale, né ora, che pure è ormai Presidente. Né mai toccata è la sua famiglia - e dire che la statuaria e felina Michelle potrebbe ben competere con la risatina folle che i comici fanno fiorire periodicamente sulle labbra di Hillary. Niente. Anche perché la prima e l'ultima volta che su di Lui e Michelle della satira è stata fatta, con la famosa copertina del New Yorker in cui entrambi venivano ritratti come ribelli neri, divenne uno scandalo nazionale. E il New Yorker dovette fare un gran passo indietro.

La satira americana, dunque, batte colpi. Anche la suprema irriverenza americana tace ammutolita davanti a un Presidente Nero, bello e di sinistra? Eccessi di «correttezza politica», visto che Obama è nero? O persino in America la satira sa attaccare solo la destra? Ferve dibattito. Un prosperoso e amato settore culturale e mediatico è arrivato probabilmente al picco della sua influenza e notorietà proprio durante questa ultima corsa elettorale, con la parodia di Sarah Palin fatta da Tina Fey, o il Bush di Will Ferrell, o le battute su McCain che rifiuta l'intervista a David Letterman.

Un fenomeno che lo stesso John Stewart conduttore di «Saturday Night Live» ha definito come l'affermarsi del «complesso satirico industriale», parafrasando il «complesso militare industriale», cioè uno dei famosi poteri che nel linguaggio sinistrese vengono identificati come le forze oscure della destra, e di Bush in particolare. Ma ora che Washington è dominata da un serissimo clima e da tanta correttezza politica, si chiede il pepato Salon, pubblicazione on line cultural- progressista, «chiuderà il complesso satirico industriale»?

Ma al dunque, al netto di tutte le discussioni più «colte» il discorso ritorna il più semplice possibile: perché nessuno, neppure i più sofisticati comici come Letterman, appunto, sono finora mai riusciti a ridere di Obama? E, per il futuro, ci riusciranno mai? James Downey, uno degli autori di «Saturday Night Live» ha recentemente ammesso, durante il New York Festival, che «sarà difficile» ridere di Obama. Intanto perché «i media sono innamorati folli di Obama», e poi perché «è così perfetto che davvero non offre mai molte occasioni cui attaccarsi». Ma al fondo, ha confessato Durst, c'è l'imbarazzo della razza: «All'inizio sarà sicuramente difficile perché sono un bianco, e bianca è anche la maggioranza di coloro che seguono il nostro tipo di satira».

Una situazione autenticamente delicata , dunque. Cui però si sta già cercando di mettere riparo. Un primo rimedio potrebbe venire già nella prossima stagione dalla Abc, dove Jonathan Collier, lo stesso della fortunata serie dei Simpson, sta lavorando a una nuova serie «The Goode Family», che rappresenta l'elettorato obamiano. Per ora Obama è così «perfetto» che le uniche battute su di lui se le è fatte da solo, scherzando con i giornalisti: «Contrariamente a quanto è stato detto non sono nato in una stalla».
 
da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Novembre 18, 2008, 09:22:25 am »

18/11/2008 - PAROLE E POLITICA
 
Bamboccioni, fannulloni
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
La carriera del ministro del Tesoro Padoa-Schioppa sbatté sul termine bamboccioni. Quella dell’attuale ministro Brunetta rischia di sbattere su fannulloni. Curioso parallelismo, in cui - con tutte le differenze, e a dispetto di ogni magnifica intenzione dei due - si misura il paradosso di come alla fine nella vita pubblica splendidi curricula possano essere messi in ginocchio da un dettaglio. Specie se questi dettagli sono efficaci: bamboccioni infatti ha perfettamente definito lo spirito di una generazione, così come fannulloni ha perfettamente colto una malattia italiana.

Questa osservazione porterebbe a parlare dei media e del loro potere. Ma in questi incidenti (volontari o no che siano) viene svelata una storia infinitamente più affascinante: quella di quanto complesso sia, in Italia, l’inserimento di outsider nella grande scena politica. Sono certa che anche solo evocare questa lontana somiglianza fra i due personaggi nominati può scontentare molti, e sono ancora più certa che gli stessi due chiamati in causa non saranno contenti della compagnia in cui li si mette. Padoa-Schioppa e Brunetta non potrebbero infatti essere più distanti per modi di essere, pensare, parlare; per scopi, abitudini e vezzi.

Su un solo terreno si muovono all’unisono: sulla scena politica entrambi sono spericolatamente coerenti nel dire quello che pensano. Il primo, Tommaso Padoa-Schioppa con la lenta e distante parlata del professore, il secondo con l’irruente e costante fiume di parole di un uomo che vuole lasciare il segno. Eppure sono entrambi scopertamente sinceri. Nessuno dei due, una volta inciampato sulla propria formula, vi si è mai sottratto, rivendicandola, ripetendola, espandendone il significato nei luoghi e nel tempo. Entrambi in qualche modo sorpresi e scandalizzati a loro volta della sorpresa e dello scandalo altrui.

La peculiarità di questi incidenti di percorso impartisce sicuramente una lezione. Se si va a guardare nel passato dei due personaggi, vi si trova una caratteristica comune: provengono dal mondo degli «esperti», cioè dal mondo delle accademie, dei consiglieri. Con diversi titoli, certo, e diverse distanze. Padoa-Schioppa la politica non l’ha mai direttamente frequentata e i suoi incarichi sono sempre stati superistituzionali. Brunetta invece in politica circola da parecchio, ma anche lui vi è sempre vissuto soprattutto come consigliere, economista, esperto appunto.

Non possiamo così considerare un caso se l’inciampo arriva quando entrambi si trovano nello stesso passaggio. Buttati nell’arena della politica pura, la funzionalità dei due tecnici si ingrippa. Eppure, nulla cambia nel loro approccio, fra il prima e il dopo. Arrivano ai ministeri con le loro carte, i loro studi, i dati statistici e le curve di andamento. Fanno proposte sulla base di grafici e previsioni credibili. Sviscerano con sistematicità il corpo della nazione, ne mettono a nudo la struttura, e vanno all’essenziale. Fanno esattamente quello che la politica li ha chiamati a fare. Padoa-Schioppa dice che le tasse sono «bellissime», dopo aver parlato di bamboccioni. Brunetta aggiunge la parola tornelli (che evoca macchine da tortura all’orecchio di chi non sa) a quella di fannulloni. È un nuovo linguaggio, immaginifico, efficace, che arriva a tutti. Perché allora queste definizioni suscitano enormi tempeste? Non si tratta di errori di comunicazione, come dicono gli esperti di media: al contrario siamo di fronte a due strepitosi esempi di comunicazione politica, come prova il fatto che sia bamboccioni che fannulloni raggiungono la stampa internazionale (rispettivamente sul Times di Londra e sul New York Times) diventando una lampante sintesi, finalmente traducibile presso gli stranieri, del nostro dibattito politico.

Ne è una spiegazione la loro durezza. Entrambe suscitano una quota di forte dissenso, per la radicalità della proposta che trasmettono. Ma proprio in questa legislatura abbiamo un esempio di proposte radicali di non minore durezza che pure non suscitano scandalo: il ministro Tremonti, ad esempio, ha riscritto il credo sociale del suo partito, ha rivisitato Marx e ha abiurato al liberismo sfrenato, mietendo, al contrario, lodi per la sua immaginazione e per la sua profondità.

Se scartiamo la battaglia politica e l’errore di comunicazione, allora, cosa ci rimane come spiegazione per gli inciampi pubblici di alcuni ministri? La spiegazione - ecco la piccola morale di questi aneddoti - è probabilmente nell’asciuttezza del linguaggio non politico. I tecnici che usano le curve e i dati per leggere la realtà spesso non li sanno definire, non hanno aggettivi per farli lievitare in progetto, sicuramente non ne vedono la traduzione a pelle scoperta, che è quella dell’elettore. La politica, alla fin fine, rimane l’arte del consenso, del palpito, di un’aspirazione o, se volete, oggi che siamo in epoca obamiana, del sogno. Ed è così che molto spesso, nella storia del nostro Paese, ma non solo, alcuni dei migliori uomini chiamati a governare da fuori della politica non hanno avuto grande successo: amati, riveriti e detestati; divenuti a volte, nell’infinita tela che è la politica, più uno strappo che un ago. Messi così alla porta - sia pur con tutti gli onori - più dagli amici che dai nemici. Una lezione che, fra gli altri, ha subito e ha ampiamente meditato e fatto fruttare il ministro Tremonti. E che oggi non è detto che non dovrà subire lo stesso Brunetta.
 
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« Risposta #43 inserito:: Novembre 22, 2008, 12:16:58 pm »

22/11/2008 - LUCIA ANNUNZIATA
 
Il premier tagliafuori
 
 
Scontro frontale con il Partito democratico, ma apertura ai sindacati, alle fasce deboli della società, agli operai in pericolo di licenziamento. E se il governo Berlusconi si stesse preparando a gestire i provvedimenti anti-crisi in modo da rilanciare il suo consenso popolare, isolando ulteriormente - magari dalla sua stessa base - il Pd già in preda agli spasmi d’una violenta crisi interna? E’una domanda che offre forse una lettura troppo esile di fronte alla tensione in cui ogni giorno la nostra politica sembra affondare. Ma che un «progetto intelligente» sia in corso, cioè che una trama logica emerga dall’apparente caos di questi giorni, val la pena segnalarlo. Nelle ultime settimane, a dispetto delle profferte continue di dialogo, il premier Berlusconi si è concentrato sul tentativo di spezzare la forza del centrosinistra. A questo scopo erano mirati i due più rilevanti episodi recenti: la convocazione separata di Confindustria, Cisl e Uil a Palazzo Grazioli e l’elezione di un senatore del Pd, Villari, a presidente della Commissione di vigilanza Rai, con i voti del Pdl. Le esplosioni di quel poco di unità interna al fronte sindacale e di quel poco di accordo interno al Partito democratico provocate da queste mosse, sono stati indubbi successi per il governo, che così riconferma, nonostante un certo calo di popolarità e alcune crepe interne, la sua capacità di unico soggetto politico effettivo nel Paese. Certo si tratta di successi soprattutto «gestionali», cioè dimostrazioni di forza nei confronti dello schieramento avversario. Ma, se la vera messa alla prova per il governo è la crisi economica in arrivo, forse queste dimostrazioni di forza non sono estranee alla linea scelta da Berlusconi per fronteggiare i prossimi passaggi.

Nasce qui il sospetto - o la possibilità - che l’indebolimento del centrosinistra sia in realtà funzionale proprio al progetto che il governo ha sul pacchetto anti-crisi che dovrebbe approvare la prossima settimana. L’allerta su questo intreccio lo ha fatto suonare ieri un’intervista del ministro del Welfare Sacconi, nemico di ogni compiacenza per le cosiddette istanze sociali. Sacconi, proprio lui, ha annunciato che l’esecutivo si prepara a incontrare lunedì sindacati e imprese sulle misure anti-recessione, che il massimo sforzo verrà fatto per le categorie più deboli - quelle cioè che perdendo il lavoro non hanno ammortizzatori sociali -, che 600 milioni saranno spesi per la cassa integrazione e la mobilità in deroga. Soprattutto, ha fatto sapere che il suo dicastero, insieme con le Regioni, sorveglierà su licenziamenti o sospensioni di lavoro non giustificati. In definitiva, Sacconi propone che la gestione della crisi sia fatta con una triangolazione fra Stato, Regioni e istanze sociali: è una formula che può tranquillamente essere descritta come il lancio di una nuova concertazione che va direttamente ai cittadini, attraverso alcune istituzioni come gli organi locali e varie organizzazioni del lavoro. Il controllo della mobilità, del tipo di licenziamenti, non possono infatti che essere il prodotto finale di una collaborazione con il territorio, a partire dalla Regione per finire alle singole fabbriche. Solo una concertazione molto forte consente di gestire questa crisi economica e gli scarsi interventi possibili per alleviarne le conseguenze. Ma il modello proposto è nuovo perché visibilmente esce dal confronto politico nazionale e va direttamente al Paese. Nel passaggio vengono infatti escluse, o aggirate, l’opposizione e la Cgil che è dentro il confronto ma nella condizione di non poter essere determinante dopo gli ultimi scontri. Lettura troppo sottile? Può essere, se non fosse per due altre prese di posizione che segnano gli avvenimenti recenti. Se il governo avesse voluto coinvolgere l’opposizione nella gestione della crisi, avrebbe accolto l’offerta messa sul piatto da Veltroni: il Pd aveva chiesto nei giorni scorsi un summit a Palazzo Chigi fra governo, opposizione e parti sociali. Ma il summit non è stato concesso. L’esclusione non è casuale. D’altra parte, Epifani sembra aver capito che l’aria è cambiata, se è vero che, dopo tante accuse al governo, proprio in una tv di cui è proprietario il presidente del Consiglio, si è dichiarato disponibile a riprendere un discorso sulla crisi sociale, mettendo in campo anche la possibilità di ridiscutere lo sciopero generale. Da buon sindacalista sta forse rimuginando - a differenza dei politici - sulla possibilità che un’esclusione dalle decisioni sia peggio della cancellazione di una protesta? C’è infine da segnalare una dichiarazione attribuita al nostro premier a Washington per il G20 la scorsa settimana. Le parole sono ripetute in varie versioni, perché non ufficiali. Ma il senso è più o meno lo stesso: se devo sopportare il peso della crisi, allora non voglio nemmeno dividerne il minimo merito con nessuno; non faremo nulla con il Pd. Naturalmente, tra il piano e la sua attuazione ci sono vari ostacoli: il reperimento del denaro o i conflitti di competenze nello stesso governo. Eppure non va sottovalutata l’intelligenza tattica del premier. A mettersi nei panni di Silvio Berlusconi, un progetto del genere appare sicuramente interessante.

da lastampa.it
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 28, 2008, 05:50:27 pm »

28/11/2008
 
Il senso del denaro
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Un po’ di conti: se una famiglia guadagna 500 euro al mese, un dono mensile di 40 euro costituisce quasi il 10% di aumento del suo reddito.

Sputateci sopra! Molto fastidiosa, perché molto snob, la discussione sollevata dall’introduzione della Social card. Si è sentito di tutto: «Umiliante elemosina», «tessera annonaria», «beffa». «Misura irrisoria e paternalista». Definizioni eccessive, e perfetto esempio di come la polemica a tutti i costi spesso non fa bene all’opposizione e non lede il governo.

Provo a partire dalle critiche fin qui mosse al pacchetto anticrisi che il governo dovrebbe approvare: si dice che 80 miliardi sono pochi per un vero intervento, sono ancora tutti sulla carta e in più i soldi realmente disponibili sono in parte già impegnati, come quelli per il Sud (i fondi Fas). Più sostanzialmente il pacchetto è criticato tuttavia per il suo approccio: esaminate da vicino, le sue misure sono più di difesa contro il peggio che un vero stimolo economico. La mancanza di un intervento diretto sulle tredicesime, per far sì che davvero i consumi vengano rilanciati nel critico periodo di Natale, è un buon esempio simbolico di tutti questi limiti.

Sono critiche condivisibili, che per altro sembrano avere un’eco nello stesso governo, se è vero quel che si legge delle tensioni dentro l’esecutivo intorno a un intervento prima di Natale, e se si leggono bene le dichiarazioni del premier sulla necessità di avere più risorse a disposizione, grazie anche alla leggera flessibilità sui parametri arrivata dall’Europa. Ma - ecco la vera domanda - perché respingere (ridicolizzare) le misure che contiene di una qualche efficacia? Ad esempio: lo spostamento del pagamento dell’Iva al momento in cui si incassa non è certo un forte intervento di detassazione, ma non è anche un piccolo sollievo? Ancora: se gli ammortizzatori sociali vengono estesi anche a lavoratori precari e irregolari, si può dire giustamente che questi fondi non sono sufficienti per tutti coloro che si troveranno in difficoltà, ma bisogna per questo respingere quelli che arriveranno a pochi?

Lo stesso vale per la Social card. Non mi è chiaro che cosa ci sia esattamente da criticare. È dedicata specificamente «agli ultimi degli ultimi», a quel milione e mezzo di poveri irreversibili - vecchi, donne sole con bambini, famiglie prive d’ogni prospettiva - gli stessi la cui esistenza Prodi denunciò, facendone la base dei suoi interventi più immediati. La Card è per definizione un piccolissimo gesto di sostegno sociale e se anche fosse la piccola carità dei capitalisti compassionevoli, non sarebbe per questo da respingere. Su qualche giornale (centrodestra e centrosinistra) si sostiene che questi interventi deludono la classe media, ma i fondi dedicati a questa assistenza avrebbero avuto ben piccolo impatto su quel che serve per la classe media. Mentre per i veri poveri, per chi guadagna 500 euro al mese, anche 40 euro in più fanno una differenza.

L’impressione è che al centro della discussione sulla Social card ci sia un vuoto di consapevolezza su che cosa sia la povertà. Non la povertà «percepita» di una società che diventa progressivamente più immobile, né quella della classe media che deve ridefinire il suo stile di vita, e neanche quella di una classe operaia che deve drasticamente ridurre anche i consumi essenziali. Parliamo di poveri veri, che per metà vivono con quello che hanno, per l’altra metà vanno alle mense pubbliche; di coloro per cui a Natale andare a mangiare un pasto decente (e servito) alla Comunità di Sant’Egidio fa tutta la differenza del mondo. Questa la gente che a volte ruba una mela nei supermercati o che nei supermercati con dignità compra una mela e una scatola di pelati a prezzi scontati. E anche chi sta meglio di loro - e che non avrà la Social card - non vive con molto di più: la pensione di un operaio che ha lavorato quarant’anni è fra 700 e 800 euro, e uno stipendio nel nostro Paese è di 1200-1500 euro.

Questo è il senso del denaro che hanno i cittadini comuni. Per ognuno di loro 40 euro sono un mese di carica per il telefonino del figlio o una sera fuori a cena, o la spesa di una settimana. Per quelli davvero poveri 40 euro sono il consumo mensile di elettricità, la differenza fra riscaldarsi o meno. Inoltre, queste persone non hanno vergogna di avere nelle mani una carta che ne attesti la condizione di povertà: i veri poveri sanno di esserlo e conoscono già l’umiliazione di mettersi in fila alle mense, o di chiedere ai figli qualche lira in più. Una carta probabilmente porta loro almeno un senso di considerazione da parte degli altri. Sono poi stati così terribili i «food stamp» kennediani? Erano certo più dei 40 euro della nostra carta, e come questa sono stati discussi: i neri d’America ne sono stati umiliati ed esacerbati, ma ne sono anche stati aiutati in uno dei peggiori passaggi della loro storia.

Attenzione, dunque, a non parlare per chi non ha la nostra stessa condizione e la nostra stessa voce. Quelli che «con 40 euro si comprano tre caffè e le sigarette» probabilmente non si rendono conto dell’ammontare di privilegio che è contenuto in questa frase.
 
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