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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 146199 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Gennaio 01, 2012, 06:41:53 pm »

31/12/2011

Casa Bianca, sfida alla delusione

LUCIA ANNUNZIATA

Da tempo la politica europea non si impegna in uno dei suoi giochi di scenario preferiti: «la lezione Americana», cioè l’esegesi in chiave atlantista del destino comune dell’Occidente. Comprensibilmente. Il concentrarsi della crisi nei confini europei sembra aver fatto recedere gli alleati Usa al ruolo di comprimari. Eppure le peripezie di Obama, eletto come uno dei Presidenti più votati della storia degli Stati Uniti e finito oggi a doversi battere per una difficile rielezione, costituiscono in effetti un racconto esemplare di come la crisi economica stia obbligando la politica a cambiare, in tutto il nostro mondo.

Il percorso del Presidente Usa ci racconta intanto che al primo impatto con una realtà pesante, inamovibile, e indiscutibile, qual è il disagio economico, si vanifica, come bolle nell’aria, tutta quella «schiuma comunicativa» di cui tanto si sono nutrite le leadership degli ultimi decenni.
Le teorie sul carisma personale, sul rapporto emotivo-emozionale fra leader ed elettori, su messaggi e community, su simboli e identificazione, si rivelano per quello che sono: materia per tempi grassi.

Quello che è accaduto a Obama nel corso di questi ultimi anni è molto più semplice di quanto lo si immagini. Sotto il vento gelido della crisi le sue doti «magiche» nel sollevare speranze, mobilitare e motivare, si sono rivelate irrilevanti. Come qualunque altro Presidente, nero o bianco, bello o brutto, innovatore o conservatore, anche lui oggi, nei tempi magri, deve rispondere a una sola domanda: che proposte hai per riportarci al benessere?
E’ successo ad Obama, è successo in Italia a Silvio Berlusconi segnatamente ma non solo, sta succedendo a Cameron come a Sarkozy – e se c’è un vantaggio che segna la Merkel è proprio quello di essere sempre rimasta sui «fondamentali» - eppure è notevole come ci si rifiuti di prenderne atto. Anni di McLuhan (mal impiegato) non hanno preparato nessun leader al peggio.

Ma la politica spogliata delle sue arti «comunicative» sta facendo giustizia anche di una serie di concetti che fin qui sono stati l’asse di ogni buon manuale di governo. Anche in questo l’esperienza di Obama ha fatto da battistrada.

La forte polarizzazione economica che la crisi spinge ha nei fatti vanificato in Usa, come sta accadendo da noi, la convinzione che vince chi conquista la classe media, identificata anche con l’area moderata. Un’idea con un saldo fondamento, dal momento che nell’ultimo mezzo secolo nessun candidato democratico ha vinto senza conquistare il 60 per cento dei voti moderati. Ma come si definisce ora una classe media in rapido impoverimento, e, di conseguenza, cosa significa moderazione?

Sono i dilemmi con cui si trova a misurarsi già da parecchio il Presidente degli Stati Uniti. Misure che all’inizio del suo mandato avrebbero tranquillamente potuto passare come atti di riequilibrio sociale - il più importante da ricordare è certo la riforma dell’assistenza medica – si sono rivelate un campo di battaglia che gli ha alienato buona parte proprio della classe media. E, per la stessa ragione, interventi che avrebbero dovuto passare come sostegno alla classe media – pensiamo qui al salvataggio di alcune grandi istituzioni finanziarie, e agli aiuti per superare la crisi della bolla edilizia – si sono rivelati un frutto avvelenato che ha ulteriormente diviso i moderati.

Pochi casi sono più rivelatori di questa nuova atmosfera del complicato rapporto che gli Usa e il suo Presidente hanno sviluppato negli anni scorsi con Wall Street. Durante la campagna «Hope and Change» del 2008 Obama raccolse più contributi dal settore finanziario di tutti i politici nella storia degli Stati Uniti. Secondo dati Reuters, Wall Street fornì ad Obama il 20 per cento dei fondi, e in cima ai donatori spiccavano nomi quali Goldman Sachs, Aig, Morgan Stanley, JP Morgan Chase, Bank of America e Citigroup.

Gli stessi nomi che ritroveremo neppure poche settimane dopo l’elezione, al centro della peggiore crisi economica mai sperimentata in anni recenti. E il cui salvataggio, proprio per mano della Casa Bianca, è rimasto avvolto da allora in una nube di dubbio, divenuta sempre più densa con il focalizzarsi dei malumori dentro il Paese contro quella stessa Wall Street identificata come origine di tutti i mali. Una parabola perfetta per capire come nonostante Obama non sia cambiato, la sua presidenza si sia in buona parte sfarinata.

Il Presidente che affronta la rielezione del 2012 è dunque un uomo che non è più alla testa della trasformazione, ma ne è, piuttosto, al traino. Non è più perfetto alfiere di nessuna causa - è anzi troppo radicale per molti e troppo poco radicale per molti altri. E il Paese che guida è nel suo insieme molto più scontento e molto più radicalizzato dei nostri. Uno Stato in cui i semi del populismo possibile venturo sono molto più sviluppati di quel che si vede oggi in Europa. Di tutti i moniti che possiamo trarre dalla vicenda di Obama, questo è forse quello a cui prestare maggiore attenzione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9599
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« Risposta #181 inserito:: Gennaio 09, 2012, 05:40:44 pm »

9/1/2012 -

NUOVE LEADERSHIP

2012, l'anno delle donne che decidono

LUCIA ANNUNZIATA


Il 2011 si è chiuso su una scena minore ma emblematica del nostro futuro comune. Sull’asfalto di piazza Tahrir al Cairo un gruppo di soldati poco tempo fa si accaniva a calci sul corpo trascinato a terra di una donna che partecipava a una protesta. Noi, cittadini del tempo mediatico globale, guardavamo in diretta e con orrore al salire e scendere degli scarponi, alla nudità esposta della ragazza, al chador simbolo di pudicizia così impudicamente strappato, per altro da uomini di fede musulmana.

Ma l’incredibile per i nostri occhi era in realtà il colore del reggiseno che da tanta nudità spuntava. Un azzurro brillante, vezzoso, che rivelava il segno di una cura tutta femminile evidentemente universale, identica a se stessa, sotto un austero chador come sotto un altrettanto austero tailleur di lavoro.

Molti dei leader nazionali e internazionali per le cui mani passeranno nel 2012 decisioni che avranno rilevanza sui destini di tutti noi, sono donne. E non è un caso. Continuate a leggere, cari lettori uomini, perché qui si parla anche di voi.

L’elenco delle leader si conosce bene. Tre per tutte: Angela Merkel, cancelliera tedesca, Hillary Clinton, segretario di Stato americano, e Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale. Per una volta l’Italia sembra essersi velocemente messa al passo – e non è infatti cosa da poco che in un Paese piagato dai ritardi come il nostro, oggi il più delicato dei dossier sociali, quello del lavoro, sia nelle mani di tre donne: il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il ministro del Welfare, Elsa Fornero.

E che portafogli molto rilevanti, come quello della Giustizia e dell’Interno, siano affidati a Paola Severino e ad Annamaria Cancellieri.

Nel 2011 sembra in effetti arrivata a pieno sviluppo un’onda lunga di riconoscimenti alla sapienza femminile, con l’ingresso generalizzato delle donne ai livelli più alti della gestione del potere. Dal premio Nobel a tre leader africane – il cui lavoro in verità è stato riduttivamente tradotto in impegno «umanitario» – all’economia, alla politica, all’editoria. In Usa ad esempio, nel 2011 si sono affermati tre nuovi editori, Tina Brown, Arianna Huffington e Oprah Winfrey. In un periodo di crisi profonda dell’informazione tradizionale, hanno rilanciato il settore, innovandolo, cambiandone il linguaggio, ma anche risanando bilanci, producendo profitti e, nel percorso, diventando anche personalmente molto ricche, cosa che non guasta.

La portata di queste eccellenze femminili è una buona indicazione del volume di pressione da cui sono state spinte in alto. Negli ultimi anni, ma nel 2011 in particolare, il protagonismo di massa delle donne ha abbracciato il globo e le culture. Con una trasversalità ben più ampia di quello femminista degli Anni Sessanta, che fu limitato ai Paesi più avanzati.

Oggi, a molti mesi dai vari accadimenti, possiamo dare un giudizio più chiaro delle rivolte che hanno scosso il mondo l’anno scorso. Si capisce oggi così che la Primavera chiamata araba, al di là dello scontento mediorientale (che sconterà sicuramente tutti i condizionamenti delle vicende specifiche di ciascun Paese), è parte di un fenomeno più generale. Ha svelato una nuova modalità politica, una richiesta di trasparenza e partecipazione individuale che rompe con la tradizionale intermediazione fra cittadini e governanti. Protesta delle nuove classi colte della globalizzazione, dei figli della tecnologia e dei diritti universali, partita non a caso dalla più repressiva (in tutti i sensi) delle culture, quella araba, eppure, altrettanto non a caso, capace di germogliare anche dentro modelli tra loro agli opposti, come quelli dei due ex imperi, la Russia e gli Usa. Formando un unico circuito che svela le somiglianze che oggi esistono sotto la pelle delle differenze, come, appunto, quel reggiseno azzurro sotto la stoffa del chador.

Il punto è che queste proteste non sarebbero quello che sono senza la partecipazione femminile che le anima. Dalle donne viene infatti la più «pesante» richiesta di eguaglianza che scalpita in questo mondo così attraversato dall’impazienza e dalle domande. Loro è la pienezza del diritto individuale: la conquista della cittadinanza piena. E loro è la maggioranza numerica. Dall’Iran alla Russia, passando per l’Europa fino agli Usa, quella che finora è stata chiamata «la metà del cielo» può ormai essere definita tranquillamente maggioranza. Nelle scuole del mondo il numero delle laureande si avvia a superare quello dei colleghi uomini, così come il numero della partecipazione politica. Cito un paio di cifre per tutte: in Usa il 58% degli studenti universitari di tutte le facoltà, scientifiche incluse, è femmina. E donne sono la maggioranza di chi va a votare, cioè il 60%.

Tutto questo significa che, al di là di ogni nozione romantica dello sviluppo di genere, le donne sono oggi il settore più in movimento dentro la globalizzazione, il fattore la cui espansione può diventare il motore effettivo non solo della ripresa ma anche di una diversa organizzazione economica.

Dietro l’influenza delle leader sta maturando, dunque, un vero e proprio nuovo paradigma del rapporto fra donne e potere. Ma questo rapporto è efficace e significativo, come abbiamo tentato di spiegare, se non è concepito solo come movimento di vertice e al vertice. Una questione di «quote rosa» o programmi speciali, per intenderci. Se i governi attuali, incluso quello italiano, affondano con coraggio le mani nel serbatoio di aspirazioni, insoddisfazione, ambizione e talento che ribollono nelle piccole mani e grandi teste delle nuove generazioni femminili.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9629
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« Risposta #182 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:48:05 pm »

25/1/2012

Questa rabbia non è il Cile di Allende

LUCIA ANNUNZIATA

Addirittura, si sta scomodando il Cile di Salvador Allende.

Audacissima citazione di vicende passate, in cui, è vero, affonda radici la mitologia che attribuisce ai camionisti un ruolo di «forza d’urto» delle rivolte sociali, ma la cui storia concreta, probabilmente dimenticata oggi nei suoi dettagli, è quanto di più lontano ci sia dalla rivolta sulle strade italiane oggi.

La prima diversità fra la ribellione in Cile e quella di oggi in Italia è nelle ragioni della lotta: i camionisti cileni si scagliarono contro le nazionalizzazioni, questi italiani lottano contro le liberalizzazioni. Un universo dunque capovolto, che giustifica dal suo impianto la forza di quelli (i cileni) e le debolezze di questi (gli italiani). Le nazionalizzazioni di cui Salvador Allende, presidente eletto in Cile il 4 settembre del 1970, furono un’operazione radicale dentro il Paese e destabilizzante dentro i rapporti internazionali. Contro quelle misure si scagliavano dunque anche le grandi multinazionali, in particolare degli Stati Uniti. Le liberalizzazioni di Mario Monti, specie quelle che toccano I camionisti, sono (almeno per ora) ritocchi che i mercati e le istituzioni internazionali attendono da tempo.

Il giorno 9 ottobre del 1972, lo sciopero dei camionisti, cui si aggiunsero i trasporti tutti, microbus e taxi compresi, non arrivò in Cile come una sorpresa. La Confederación Nacional del Transporte, guidata da León Vilarín (la cui potenza politica secondo un suo collega sindacale «valeva milioni di dollari»), espressione del gruppo dell’ultradestra «Patria y Libertad», riuniva 165 sindacati di camionisti, contava 40 mila iscritti e controllava 56 mila veicoli. Come si è poi scoperto, nel corso della declassificazione dei documenti del governo americano, lo sciopero era parte di quello che un memoriale della Cia definiva «Plan Septiembre», ed era così poco una sorpresa che venne annunciato dall’allora ambasciatore americano in Cile, Nathaniel Davis, con un messaggio segreto indirizzato direttamente a Nixon, con un giorno di anticipo. Il testo, brevissimo, diceva: «Per proteggere gli interessi dell’opposizione, lo scontro può rivelarsi inevitabile». Lo sciopero dei camionisti si prolungò per 24 giorni, mise in ginocchio il Paese, e si concluse, almeno in una sua prima fase, con la decisione da parte di Allende di procedere a un rimpasto di governo facendo entrare agli Interni un militare, e con la promessa di non toccare il settore. Non servì né l’una né l’altra mossa. E i camionisti si affermarono come coloro che avevano segnato l’inizio della fine del governo Allende, fama in verità immeritata ed esagerata. Nemmeno quello sciopero che tagliò in due un Paese strettissimo e lunghissimo, attraversato da una sola strada, avrebbe infatti potuto avere l’effetto che ebbe se non fosse stato per le tante e incredibili condizioni in cui si sviluppò.

E anche di queste conviene forse parlare adesso per capire quanto abissalmente diverse siano le situazioni del mondo negli anni di allora e quello (Italia compresa) di oggi.

Torniamo così su nazionalizzazioni e liberalizzazioni.

Salvador Allende inizia ufficialmente il suo mandato il 4 novembre 1970, Presidente scaturito da una sorta di scherzo della storia: il suo è il primo governo di sinistra che va al potere regolarmente eletto in un pianeta in cui la sinistra tutta pensa ancora che il potere si ottenga con la rivoluzione. L’elezione di Allende diventa così un vero e proprio esperimento nel cuore della Guerra Fredda. La sinistra lo osserverà con scetticismo e passione insieme (per Enrico Berlinguer sarà una tappa centrale del suo percorso di ricollocazione del Pci); per il mondo atlantista, Stati Uniti in testa, è il materializzarsi di un nuovo pericolo per il sistema, dopo l’infezione del subcontinente da parte della Rivoluzione cubana. Un pericolo tanto più insidioso perché legittimato dalla democratica pratica elettorale, coperto da una alleanza con settori moderati, e articolato intorno a un programma economico coerente. A tutto questo va aggiunto un Medioriente che in quegli anni è molto in bilico, già attraversato da guerre e da quella febbre della nazionalizzazione del petrolio che porterà poi alla crisi petrolifera del 1973 causata dalla interruzione dell’approvvigionamento di petrolio proveniente dalle nazioni appartenenti all’Opec.

Le riforme cui Allende mette mano alacremente sono effettivamente impressionanti per audacia ed estensione. A partire dalle «prime quaranta misure di base», fra cui la refezione scolastica per tutti gli alunni della scuola di base, il mezzo litro di latte gratuito al giorno a ogni bambino al di sotto dei 14 anni e alle madri in attesa; l’istituzione di asili nido e scuole d’infanzia per 80 mila bambini, la distribuzione gratuita dei libri di testo nella scuola dell’obbligo; l’aumento delle borse di studio (le iscrizioni al primo anno di università aumentano subito dell’80%); l’apertura di consultori e di nuovi ospedali; un programma di edilizia popolare, l’alfabetizzazione degli adulti, l’estensione a tutti della pensione di vecchiaia, l’innalzamento dei minimi salariali e pensionistici, l’adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi.

Poi ci sono le riforme vere destinate ad intaccare la struttura economica del Paese. Tra il dicembre del 1970 e il gennaio del 1971 il governo prepara in Parlamento la nazionalizzazione del rame, del salnitro, del carbone e del ferro; istituisce l’Area de propiedad social (Aps), la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese statali. Accelera la riforma agraria. E procede all’acquisizione allo Stato delle banche cilene (di cui il 3% monopolizza il 45% dei depositi, il 55% dei profitti e il 44% dei prestiti) e di quelle straniere - fra cui le filiali delle americane First National City Bank e Bank of America - con l’accordo delle banche medesime. Nel 1971 viene nazionalizzata anche la Compañía de Teléfono y Telégrafo, proprietà della multinazionale nordamericana Itt.

Il primo impatto è straordinario:l’utilizzo degli impianti risale dal 75 al 95%, la disoccupazione scende in due anni dal 9 a meno del 4%, la crescita del Pil raggiunge nel 1971 il 7,7%. La ricaduta è altrettanto straordinaria. Le reazioni interne ed estere a questo programma, che di fatto intacca interessi fondamentali delle multinazionali, fra cui innanzitutto quelli del rame, portano a paure, poi a complotti, spostamento di capitali all’estero, speculazioni e manovre politiche. La visita di tre settimane di Fidel Castro nel novembre del 1971, parte di un lungo tour nelle capitali dell’America Latina e in Unione Sovietica, mette probabilmente un chiodo definitivo sulla bara del progetto del socialismo pacifico. Kissinger e Nixon faranno di tutto per accelerare il fallimento di questo governo ed è storia nota, narrata peraltro da tutte le carte declassificate della Cia, pubblicate oggi sul sito ufficiale della Cia stessa.

I camionisti – torniamo a loro – diventano la parte emersa di questo quadro di tensioni. Persino la loro repressione è difficile per Allende perché a quel punto il governo non si fida già di esercito e polizia. E un altro elemento va aggiunto al quadro di «destabilizzazione»: allo sciopero dei trasporti e «dei padroni», come verrà chiamata dalla sinistra tutta la mobilitazione di vari settori che si aggiungono ai camionisti: medici, farmacisti, avvocati, commercianti all’ingrosso e dettaglianti, la sinistra reagisce nei fatti dividendosi. Le organizzazioni di base della sinistra, dei lavoratori, i gruppi più militanti, si mobilitano per annullare le conseguenze dello sciopero che blocca il Cile, e nei fatti cercano di imporre ad Allende di passare a una fase più radicale del suo governo. L’insieme di queste tensioni porta presto il Paese a quello che il Presidente stesso definì «l’orlo della Guerra Civile».

Come finì, si sa. Questa ricostruzione serve oggi solo a far mente locale su di noi. Nulla di quella drammatica era è anche solo pallidamente rispecchiata dalla realtà in cui ci troviamo. Diverse le condizioni sociali, ma anche le condizioni internazionali, e i progetti. Noi viviamo oggi in un mondo molto ricco e molto disfunzionale, e i progetti di riforma che abbiamo davanti sono, almeno per ora, ritocchi se comparati alle sofferenze che questo stesso nostro mondo ha già vissuto. Il che non significa che non sia necessario decidere, discuterne, e anche ribellarsi. Ma le parole e i parallelismi hanno un loro perverso modo di funzionare: se evocati, anche se sono solo fantasmi, hanno a volte il potere di tornare reali.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9689
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« Risposta #183 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:34:55 pm »

31/1/2012

L'idraulico che serve a Davos

LUCIA ANNUNZIATA

Se il bagno di Davos è tanto tanto una metafora, e quale bagno non lo è?, il grande evento di leader e sapienti che da anni ci consegna l’oroscopo sul nostro futuro ha definitivamente bisogno di un idraulico. Non quello polacco (mitica figura inventata da un altro sapientone, Fritz Bolkestein, commissario europeo al Mercato Interno, nel gennaio 2004, nel presentare la sua direttiva sulla liberalizzazione del mercato dei fornitori di servizi in Europa), ma di quelli che arrivano con l’architetto e concludono che la toilette in questione non può più essere aggiustata, signora mia.

La Bbc, del resto, l’ha detto senza giri di parole, il World Economic Forum quest’anno è risultato «piatto» – che è poi il termine più cortese per dire «flop».

La Davos di cui stiamo parlando è quella ben raccontata da Federico Fubini, che sul Corriere della Sera del 28 gennaio ci rivelava che nel consesso internazionale a maggior concentrazione di potere e denaro (partecipazione da 25 mila euro a testa fino a mezzo milione di euro per i «partner»), la più semplice delle comodità umane è anche la più scarsa delle risorse, il bagno appunto. Una sola «ritirata» per i duemila partecipanti, «mentre al piano superiore del Centro Congressi c’è un luogo guardato con cura da una hostess, dominato da una grande scritta argentata: Strategic Partners. Sono i bagni riservati alle aziende che pagano circa mezzo milione di dollari l’anno. Sono un centinaio di nomi celebri come Goldman Sachs, Bank of America, Bill and Melinda Gates Foundation, Google, Saudi Basic Industries». Seguendo la più semplice regola di mercato (cioè il controllo delle risorse non importa quali esse siano), basta dunque restringere l’area di accesso ai bagni per ricostruire la piramide umana anche lì dove sono tutti ricchi. Dall’involontario apologo nasce la domanda inevitabile: se un consesso così spontaneamente, ossessivamente, conservatore dell’ordine esistente sia davvero il più adatto ad affrontare la riflessione che gli veniva sottoposta quest’anno, «La grande trasformazione: formare nuovi modelli».

In effetti, in un anno segnato dal «people power», quello delle rivolte arabe o di Occupy, nella stagione del declassamento delle principali economie mondiali, la riunione di 2600 top leaders politici, economici ed intellettuali, è parsa del tutto incongrua nella sua estrema minorità. Non parliamo di numeri – anche se duemilaseicento persone costituiscono lo 0,00004% della popolazione mondiale e preferiamo non contare quanti zeropercentuale di denaro mondiale gli appartiene. Parliamo piuttosto di rappresentanza.

Non si evoca qui il solito sospetto contro il governo mondiale dei banchieri e della finanza – Davos è troppo visibile per rappresentare una agenda segreta. Né si vuole mettere in dubbio l’importanza delle élite, che hanno sempre svolto una fondamentale funzione di stimolo nelle nostre società.

Il dubbio è proprio se queste élite che si riuniscono a Davos siano davvero tali, se cioè siano oggi in grado di esercitare davvero la loro funzione di «avanguardia» del pensiero.

Intanto, possiamo sostenere con certezza che è improbabile che le decine di teste coronate presenti in Svizzera siano capaci di rappresentare i propri sudditi – che dire dell’Arabia Saudita, ad esempio? Ma altrettanto si può dubitare dei leader economici, che siano George Soros o i manager di Facebook e Google. Per non parlare di leader politici attuali ed ex arrivati in massa. Come dimenticare che sono loro che hanno guidato o guidano la nave delle economie in crisi oggi? Possono essere i conducenti falliti coloro che si inventano nuovi modelli?

Mai come a Davos in questi giorni è stato possibile vedere rappresentata la crisi nella sua stessa essenza: in un mondo che è in difficoltà perché non sa rinnovarsi, coloro che chiedono il cambiamento sono proprio quelli che non cambiano, i leader politici, intellettuali ed economici di sempre.

Davos è in verità un importante luogo della nostra storia. E’ cresciuto ed ha rappresentato (dall’anno della fondazione, il 1971) la trasformazione delle nostre economie. In un capitalismo sempre più sganciato dal prodotto, è diventato il tempio della celebrazione del marginale sul sostanziale, del progressivo peso giocato nel capitalismo moderno senza prodotto dalle idee, dalla interrelazionalità, dalle parole. Oggi che quel capitalismo è entrato in crisi, il peso di quelle parole rischia di diventare la zavorra delle chiacchiere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9713
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« Risposta #184 inserito:: Febbraio 11, 2012, 10:05:45 am »

11/2/2012

Lo sfoggio di entusiamo dell'America

LUCIA ANNUNZIATA

Il viaggio di Mario Monti in Usa è andato bene. Forse troppo bene.

C’è stato infatti un innegabile elemento di esagerazione nell’accoglienza americana al premier italiano, e se alcune reticenze nel discorso pubblico e una serie di sorrisi di imbarazzo valgono una dichiarazione, lo stesso premier sembra essersene accorto.
Mario Monti guida il governo da soli tre mesi, ha fatto un forte intervento sulla strada verso il pareggio del bilancio accompagnato dalla riforma delle pensioni («e solo con tre ore di sciopero» ha raccontato di aver detto ai suoi interlocutori alla Casa Bianca, ascoltato «con grande meraviglia»).

Per quanto riguarda le altre riforme, che sia quella del mercato del lavoro (tema molto comprensibile agli americani) o quella (molto più sottile per questo pubblico) della modifica dei rapporti fra Merkel e l’Italia, sono ancora tutte da provare.
La domanda da porsi è dunque cosa stiano cercando di dirci gli americani con questo inedito sfoggio di entusiasmo.

La più maliziosa interpretazione è che il nuovo clima ha a che fare con il passaggio di governo in Italia - e non c’è dubbio che la differenza fra le impacciate relazioni di Washington con Silvio Berlusconi negli ultimi anni, e quelle di oggi con Mario Monti, è inenarrabile. In effetti ha dell’incredibile che il passato governo non sia mai stato citato in questi incontri, e che l’unico a pronunciare il nome di Silvio Berlusconi (come al solito per dirne bene, nella ormai assodata routine istituzionale della continuità formale fra esecutivi) sia stato proprio Monti. Tuttavia l’America, presa da tali e tanti problemi complessi, non avrebbe sprecato molta energia in questo momento solo per sottolineare diversi toni diplomatici.

La chiave di volta della sua ospitalità è iscritta in realtà nelle novità segnalate dalla agenda del premier in questi giorni. A differenza di quanto sempre avvenuto con altri premier in passato, Monti in effetti ha speso molto meno tempo con le istituzioni politiche – Congresso, governo, Onu –, per investire la maggior parte delle energie nel comunicare direttamente con altri luoghi del potere, think tank come il Peterson, i maggiori media, come la Cnbc di Maria Bartiromo, il Time, il New York Times, e gli investitori di Wall Street, che hanno la capacità di influenzare direttamente le opinioni più vaste del mercato. Non è un caso che il più lungo incontro «politico» sia stato delegato al ministro degli Esteri Terzi che ha trascorso con Hillary Clinton più tempo di quanto Monti con Obama. Così come non un caso è che per ricevere il professore italiano a New York siano scesi in campo i big della finanza, da Bloomberg a Soros.

La vera missione di Mario Monti in America, detta in maniera un po’ poco caritatevole, è stata fin dall’inizio dunque quella di «venditore», di un uomo che alla fin fine era lì per convincere della nostra affidabilità quegli stessi mercati che ci avevano condannato.

Si spiega così anche l’entusiasmo profuso nel far sì che la missione riuscisse: un po’ di esagerazione ci voleva per far ben capire a tutti che i vari punti di influenza del potere americano, media, politica e investitori, ci hanno riaccettato. Quell’«Italy is back», in questo senso è risuonato in effetti nelle orecchie tanto entusiasta quanto accondiscendente nei nostri confronti. Ma è stata anche l’eco di una sorta di autocritica del Paese più arrogante del mondo.

«L’Europa è un terreno scivoloso per gli americani, specie in questa campagna elettorale. Se non si fosse visto un miglioramento, non credo che Obama si sarebbe tanto impegnato», diceva alcune sere fa un insider di Washington, un avvocato che lavora per le industrie della difesa. Con tipico spirito pragmatico, i mercati e la politica Usa hanno fatto negli ultimi tempi una rapida marcia indietro, dopo aver capito che per l’America dei prossimi anni l’Europa è ancora più un beneficio che una palla al piede, come la si descriveva nei momenti peggiori della crisi.

Non solo, come viene ripetuto, la miniripresa americana potrebbe essere affossata da qualunque peggioramento dell’economia della Eu. L’Europa si rivela molto importante in prospettiva anche nell’intreccio fra costi e sicurezza dell’Impero.

La crisi economica sta portando gli Usa a una rimodulazione delle spese militari. I (meno) soldi saranno sempre più impegnati da Washington nei teatri asiatici, per tenere d’occhio i contendenti di domani, Cina soprattutto.

La conseguenza è che il peso della sorveglianza sulla Russia (testate nucleari incluse) e la gestione del Medioriente ricadrà sempre più sull’Europa: il modello Libia - quello in cui la Nato opera e gli Stati Uniti appoggiano - è il modello che gli Usa oggi vedrebbero esteso a tutta la zona di influenza europea. Per questo molto si è parlato fra Monti e Obama della conferenza sulla nuova Nato che si terrà a maggio a Chicago. Molto ne hanno parlato, e poco ce ne è stato riferito. Il terreno è infatti scottante per le opinioni pubbliche europee.

La lezione che si trae da tutto questo, è che l’entusiasmo Usa è come un venticello – capace di cambiare rapidamente direzione a seconda delle necessità (o utilità?) del Paese. Ha soffiato molto bene, sulla visita di Monti ma non dovremmo farci molto affidamento. Anche perché, come dimostra il dossier Nato, porta sicuramente con sé un cartellino con il solito salato prezzo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9761
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« Risposta #185 inserito:: Febbraio 19, 2012, 11:35:48 am »

17/2/2012

Valzer diplomatici: nemici a Baghdad alleati in Siria

LUCIA ANNUNZIATA

Se qualcuno ricorda ancora il conflitto iracheno che solo fino a ieri ci ha lacerato, non avrà sicuramente dimenticato il nome di Falluja, cittadina redolente di sangue e polvere, il posto dove come messaggio agli occidentali vennero squartate quattro guardie del corpo americane, il luogo di imboscate e rapimenti, in altre parole il cuore, insieme a Ramadi, del triangolo sunnita che dopo la caduta di Saddam Hussein è stato il centro della resistenza e del terrorismo antioccidentale, e che l’Occidente ha sprecato sangue e uomini per conquistare. Falluja e Ramadi in apparente sonno da qualche tempo, hanno ora rimesso in moto le proprie strutture militari e militanti, in uno sforzo diretto questa volta non contro gli Usa, ma a favore di quella stessa resistenza contro il regime di Assad in Siria per cui si stanno impegnando Europa, Usa e Onu. Il che fa di noi occidentali, oggi, gli alleati di fatto dei «terroristi» che combattevamo ieri. L’ennesimo paradosso, l’ennesimo scherzo della storia che continua a provare che i nostri interessi in Medioriente sono sempre più forti di ogni nostra convinzione politica, e che le fratture etniche e religiose sono per i mediorientali efficaci strumenti di potere prima ancora che di fede.

Non esattamente una posizione comoda in cui stare, all’inizio di un nuovo capitolo diplomatico. Dopo il veto di Russia e Cina alla risoluzione Onu che chiedeva le dimissioni di Assad, gli Stati Uniti si sono concentrati nel creare un nuovo gruppo, «Amici della Siria», che opera fuori dall’Onu e di cui fanno parte Usa, europei, e le nazioni arabe contrarie agli Assad. Il gruppo si riunirà a Tunisi il 24 prossimo, giovedì, e l’Italia vi farà la sua parte, presiedendo per altro il 20 la riunione euromediterranea.

La storia di Falluja – raccontata due giorni fa sulla prima pagina del «New York Times», con il contributo di quasi tutti i suoi corrispondenti dai Paesi dell’area - segnala l’avvio di uno sviluppo molto pericoloso. Come scrivono molti analisti americani in merito alla crescente mobilitazione in Iraq, Libano e Giordania, intorno alla opposizione anti-Assad: «E’ sempre più chiaro che la guerra siriana sta diventando un conflitto regionale». Le indicazioni sono tante le bombe di Aleppo e Damasco, un’ondata di violenza nel Nord del Libano direttamente legata alle tensioni in Siria, e, non ultimi, i recenti appelli fatti sia dai leader di al Qaeda che da quelli dei Fratelli Musulmani della Giordania, ai jihadisti di tutto il mondo perché si mobilitino a favore dei resistenti siriani. Gli analisti americani avvertono che questo è appena l’inizio: «Come l’Iraq e l’Afghanistan prima, la Siria è destinata a diventare il terreno di addestramento di una nuova era di conflitto internazionale».

Noi occidentali appoggiamo dunque ora una rivolta che consideriamo una lotta di liberazione popolare a un tiranno, e ci ritroviamo al fianco dei sunniti pro Saddam, dei Fratelli Musulmani nonché di Al Qaeda. Ma quello che sembra un paradosso è solo l’ultimo illogico giro di valzer di un logicissimo giro di alleanze storiche. Se si segue infatti il profilo delle identità religiose, l’attuale linea di opposizione alla famiglia Assad non è affatto una sorpresa. Anzi. Quando si dice che la Siria è il potenziale gorgo mediorientale, si intende indicare proprio il fatto che al suo interno si ritrovano quasi tutti i frammenti del più grande quadro regionale.

Basta seguire le linee di scorrimento dei rapporti fra sunniti e sciiti nella regione. Val la pena di iniziare ricordando la composizione della Siria: i musulmani sunniti sono il 74 per cento dei 22 milioni di cittadini, seguono gli alawiti con il 12 per cento, i cristiani con il 10 per cento e i drusi con il 3. Gli Assad sono alawiti, una minoranza religiosa considerate eretica dai sunniti, senza essere davvero parte degli sciiti dalla cui tradizione gli alawiti si sono separati molto tempo fa.

Considerati nei fatti una vera e propria setta segreta nella credenza popolare, gli alawiti hanno costruito intorno a questa loro diversità e minoranza la struttura del potere siriano dopo il golpe che nel 1970 portò al potere Assad padre, costituendo il nucleo di comando dell’esercito e dell’apparto di sicurezza. Bisogna dire che non tutti gli alawiti sono con Assad e non tutti sono parte dell’élite del Paese: ce ne sono molti nelle popolazioni più povere sulle montagne, e ce n’è un nutrito gruppo anche in Turchia.

Gli uomini che da mesi sfidano le armi di Damasco sono dunque sunniti, come i sostenitori del regime di Saddam Hussein, che noi abbiamo combattuto. E infatti nella Prima Guerra del Golfo la Siria faceva parte della coalizione contro Saddam, con cui era sempre stata in competizione. Ma contro la famiglia Assad si schierano oggi anche Fratelli Musulmani e qaedisti in odio alla identità secolare e anti-islam radicale che ha sempre identificato Damasco. Il massacro di circa 20 mila musulmani perpetrato ad Hama nel 1982 dall’esercito guidato dal fratello minore di Hafez al Assad non è stato mai dimenticato dalle organizzazioni radicali islamiche.

Le simpatie per l’opposizione siriana in Libano sono altrettanto chiare, ma nel Paese dei cedri spirano direttamente nelle stanze del premier. Un premier sunnita, come da tradizione.

La Siria è sempre intervenuta nel Paese costiero, direttamente o indirettamente – dopotutto, fino al 1926 il Libano è stato parte della Siria post ottomana. Nel 1976 Hafez al Assad intervenne nella guerra civile libanese a sostegno dei cristiani maroniti, poi fece del Libano la sua base nello scontro con Israele, appoggiando nel Sud del Libano la radicale Hezbollah.

Nel 2005 quando lasciò il Paese l’esercito siriano vi contava ancora 17 mila unità. Negli anni recenti l’influenza di Damasco ha protetto la componente sciita, che costituisce il 28 per cento della popolazione ed è al governo sotto la bandiera politica di Hezbollah. Nella continua frizione interna che continua a tenere sull’orlo della guerra civile il Libano, il Paese è tenuto insieme da un fragile accordo che, in nome delle varie componenti religiose, indica che il capo del Parlamento sia sempre uno sciita e il capo del governo sempre un sunnita (come il 28 per cento della popolazione - ma le statistiche ufficiali in Libano non sono sempre quelle giuste). Il Presidente è cristiano. Ma la Siria se ne è sempre abbastanza disinteressata di questi accordi: l’assassinio del premier libanese Hariri pochi anni fa è stato infatti attribuito a Damasco.

Non è dunque strano che la vicenda siriana abbia di nuovo diviso in due la lealtà libanese, facendo di nuovo salire la fibrillazione interna.

La linea dei nostri alleati contro Assad oggi è dunque abbastanza curiosa – i sunniti al governo in Libano e i reietti sunniti pro-Saddam in Iraq, più Al Qaeda e i Fratelli Musulmani. A tutti loro va aggiunto il potente fronte delle monarchie sunnite del Golfo, con a capo l’Arabia Saudita.

Fatte tutte le analisi sugli schieramenti locali, l’ampiezza e la singolarità di questa catena di solidarietà intorno all’opposizione in Siria si spiega con l’identità del grande avversario che si staglia sullo sfondo di questa partita, l’Iran. Il Paese degli Ayatollah è il vero alleato di Assad e il vero nemico da sconfiggere intaccando il potere di Damasco. Quell’Iran che è uscito, senza volerlo, vero vincitore dalla Seconda Guerra del Golfo, grazie alla caduta di Saddam, e che oggi può cavalcare molte delle rivolte arabe. Le stesse cui intendono rivolgersi anche Al Qaeda e Fratelli Musulmani, entrati per questo essi stessi in aperta competizione con la eccessiva influenza iraniana.

Dopo un lungo giro, cosi, l’Occidente torna po’ alle vecchie alleanze sunnite (perciò a lungo Saddam era stato nostro alleato contro l’Iran) ma acquisisce anche alleati molto difficili da gestire. Mentre la Russia e la Cina restano paradossalmente ferme alla loro posizione di sempre, accanto all’ex regime socialista siriano e al più potente Stato petrolifero dopo l’Arabia Saudita, l’Iran.

La strada verso una nuova deflagrazione regionale sembra segnata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9782
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« Risposta #186 inserito:: Febbraio 22, 2012, 11:45:23 am »

22/2/2012

Ecco perché pagherà anche il salotto buono

LUCIA ANNUNZIATA


Non si sa se la cosa più grave è che abbia citato la «distruzione creativa» di Schumpeter, o il termine «salotto buono». Avremmo amato capire, ma le cronache non ci hanno illuminato, se chi lo ascoltava è rimasto più sorpreso dalla negazione di ogni sua «deferenza» al potere economico, o dalla riaffermazione del divieto «di sedere simultaneamente nei Cda di banche e assicurazioni».

Mario Monti, due giorni fa parlando alla Borsa di Milano, davanti al Gotha finanziario del Paese, 400 invitati, ha fornito un’altra tessera al profilo del suo governo: e stavolta nel mirino non ha messo il sindacato ma i «poteri forti». Stranamente, le sue parole sono passate quasi inosservate nell’arena politica, specie nell’area di centrosinistra che pure si sta aspramente dividendo sull’appoggio o meno al suo governo.

Vediamole, queste parole, nella versione ufficiale del sito di Palazzo Chigi. «Una cronaca veloce ci attribuisce deferenza verso il salotto buono ma togliere la possibilità di sedere simultaneamente nei cda di banche e assicurazioni, non è stata una cosa molto gradita. Pensiamo, poi, che in passato si sia tutelato il bene esistente e consentito la sopravvivenza un po’ forzata dell’italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana e non sempre facendo l’interesse di lungo periodo».

Colpisce intanto una rottura formale, l’uso di quel termine, «salotto buono», che nel linguaggio comune è carico di significati negativi. Così come colpisce la franchezza con cui il premier, sottraendosi al solito unanimismo, riveli che la sua decisione di cancellare il cumulo di incarichi non è risultata molto «gradita» proprio a quel mondo del potere cui si stava rivolgendo in quel momento.

Il riferimento, ben capito da tutti i presenti, è all’articolo 36 contenuto nella manovra finanziaria, detta Salva Italia, con cui l’esecutivo vieta «ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti». Non è ancora chiaro come verrà applicato, ma le parole alla Borsa di Milano sono la riconferma che il governo intende procedere.

L’intreccio di cariche, è il grande nodo dell’immobilità del capitalismo italiano (la barriera conservatrice levata contro la «creatività distruttrice» di Schumpeter). Il meccanismo che ha permesso che si creasse un «salotto buono», un luogo privilegiato del potere dove tutto converge e tutto si controlla. Insomma il conflitto di interesse seminale del sistema italiano. Basta pensare che Unicredit, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Ubi, Mediolanum e Generali, cioè i maggiori istituti italiani hanno diversi componenti in più poltrone. Nell’elenco delle personalità che sono toccate dalle nuove regole ci sono uomini come Palenzona, e Giovanni Bazoli, il più rispettato banchiere italiano. Nonché Alberto Nagel, che è sia amministratore delegato di Mediobanca che vicepresidente delle Assicurazioni Generali.

La teoria politica più ricorrente è che Mario Monti vincerà la sfida di «cambiare l’Italia» solo se sarà capace di dimostrare di far «pagare» a tutti il sacrificio di questo cambiamento. Solo se, specifica la sinistra, non prenderà di mira solo gli operai e la classe media.

L’intervento di Milano sembra essere la prova che effettivamente il premier non intende lasciare intatto nessun luogo di influenza. Come del resto ha già fatto rifiutando le Olimpiadi del 2020, esponendosi così a uno scontro che pure avrebbe potuto evitare (in fondo sarebbero avvenute in un lontano futuro) con una delle maggiori lobby del Paese.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9801
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« Risposta #187 inserito:: Marzo 02, 2012, 05:33:13 pm »

2/3/2012

Un penoso déjà-vu

LUCIA ANNUNZIATA

La libertà di stampa che per la lunga stagione del berlusconismo è stata la bandiera della definizione della democrazia, può tornare ad essere tranquillamente stracciata? Da quella stessa area sociale che l’aveva impugnata?

Finito Berlusconi, insomma, torneremo alle passate macerie? Alle vecchie diatribe sui giornalisti servi dei padroni?

In Italia esponenti di un movimento che si richiama allo Stato di diritto, insultano poliziotti (quello del casco, di cui non abbiamo nome), magistrati (uno per tutti, Giancarlo Caselli) e attaccano i giornalisti (sappiamo della troupe del Corriere, e sappiamo anche di altre aggressioni che nell’ambiente dei media si evita di denunciare per non attizzare gli animi). Imbarbarimento, si dice. Ma quale? In questi gesti c’è un penoso déjà-vu, un nulla di nuovo, che risulta, alla fine, essere l’elemento più inquietante.

Per il «confronto» fra celerini e manifestanti abbiamo sufficiente memoria collettiva da (iper)citare (come ricorda Adriano Sofri su Repubblica) Pasolini. Ma anche sul resto, le linee di connessione con il passato sono, a dir poco, sorprendenti.

Basta riprendere in mano proprio il caso più discusso di queste settimane, quello del procuratore Caselli. Il magistrato che oggi è conosciuto soprattutto come il servitore dello Stato in prima linea a Palermo contro la mafia, negli Anni Settanta, in un’altra sua vita, era attaccato esattamente come oggi. Anche allora era un Servitore dello Stato, ma in quel caso in prima linea contro le Brigate Rosse.

Ugualmente sorprendenti le somiglianze fra quegli anni e il rapporto che i vari movimenti hanno stabilito con i giornalisti, definiti oggi come allora «spie», «porci», «servi del padrone», espulsi dalle assemblee, ed eventualmente finiti nel mirino. Qualcuno ricorderà quella sfida raccolta a muso duro da alcuni di questi reporter, come il non dimenticato Carlo Rivolta, che per primo scrisse senza remore, per l’ancora nuovissima la Repubblica, delle minacce dei bulli della Sapienza. E nessuno certo ha mai dimenticato quello che maturò poi in quel clima: Montanelli, Casalegno e Tobagi.

Tempo dopo, con qualche anno e qualche lettura in più sulle spalle (nonché qualche incarico pubblico), molti di coloro che avevano sostenuto quell’atteggiamento si fecero alfieri di un ripensamento, ammettendo che quel modo di trattare i giornalisti svelava tutto l’integralismo, il settarismo di una visione illiberale del mondo, secondo la quale il metro di misura della bontà dell’informazione è quanto sia dalla tua parte. L’opinione pubblica del Paese più in generale si è orientata nel corso degli ultimi decenni verso la riscoperta dei valori «anglosassoni» dell’indipendenza dei poteri – magistratura e media compresi. Che l’arrivo di Silvio Berlusconi al potere nella Seconda Repubblica sia stato combattuto dalla sua opposizione sotto la bandiera di «Libera stampa in libero Stato» è sembrato dunque solo una naturale evoluzione dei tempi, una crescita generale della società in una direzione diversa dal passato.

Ma forse ci siamo ancora una volta sbagliati, viene da dire, osservando una nuova sorta di mutismo riemergere dalle macerie della Seconda Repubblica. L’area «democratica» così pronta ad indignarsi nell’epoca di Berlusconi, sembra accettare oggi senza emozione sommarie critiche alla giustizia: il giudizio sui giudici torna ad essere una variabile dipendente della sentenza. L’eroe Caselli torna nelle vesti del cattivo, così come il giudice che difende la Fiat e condanna Formigli, mentre va bene il giudice che condanna la Fiat e dà ragione alla Fiom.

E come non considerare ancora ingarbugliatamente simbolico il caso Celentano?

Un grande artista che davanti a una formidabile platea di quindici milioni (un numero che nessun premier si è mai sognato di radunare) chiede che chiudano dei giornali (Avvenire e Famiglia Cristiana), dà del deficiente a un giornalista del Corriere, e rincara poi la dose nella trasmissione di Santoro chiamando cretini quelli di Repubblica, e sostenendo, senza nessun intento ironico, che la «Corporazione della stampa si è unita per attaccarmi», parole molto care all’ex premier. Il diritto di Celentano a dire quello che vuole è stato difeso, giustamente. Ma quella stessa area democratica che lo ha difeso non ha avuto nessun sobbalzo etico di fronte a quei contenuti. Vero è che Celentano, come si è detto, «non ha il potere di chiudere i giornali». Ma ha quello – non di poco conto – di creare un clima culturale.

Di questo clima vale la pena oggi parlare. La libertà di informazione, brandita come principio assoluto in quasi due decenni di berlusconismo, rischia di tornare esattamente come era prima: identificata solo con il proprio interesse?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9834
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« Risposta #188 inserito:: Marzo 09, 2012, 03:40:05 pm »

9/3/2012

Il peso che ci manca nel mondo

LUCIA ANNUNZIATA

Il premier Monti (e noi italiani con lui) deve preoccuparsi di un imprevisto pericolo: il rischio che una delegittimazione della sua leadership arrivi proprio da quei leader, quegli ambienti, quell’Europa che finora lo hanno lodato, sostenuto, celebrato. L’Italia che sta faticosamente risalendo il pozzo della mancanza di credibilità in materie economiche, viene lasciata amaramente sola, proprio dall’Europa, in due gravissime crisi internazionali in cui si ritrovata intrappolata.

Ieri l’italiano Franco Lamolinara e il britannico Christopher McManus, ostaggi sequestrati il 12 maggio 2011 a Birkin Kebin, in Nigeria, sono stai uccisi nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi per liberarli. Mario Monti non era stato informato di questa operazione militare, né dai servizi segreti inglesi, ma nemmeno dal suo grande amico, in altri momenti sempre generoso di apprezzamenti nei suoi confronti, il premier Cameron. Palazzo Chigi non ha nascosto di essere stato aggirato, e nel comunicato ufficiale scrive che l’operazione per liberare i prigionieri «è stata avviata autonomamente dalle autorità nigeriane con il sostegno britannico, informandone le autorità italiane solo ad operazione avviata».

Potremmo archiviare (e comunque non dobbiamo farlo) il caso come un incidente di percorso se questa mancanza di «rispetto» da parte delle autorità inglesi non avvenisse contemporaneamente a un altro grande «affronto» che ci viene dall’Europa. Su certe questione val la pena di parlar chiaro, ed è abbastanza ovvio che l’Europa non ci sta dando un grande aiuto nella serissima questione dei due marò prigionieri in India. E’ dal 16 febbraio che l’Italia prova a disincagliarsi da uno scontro con l’India sul destino di due nostri fucilieri arrestati in quanto sospettati di aver ucciso due pescatori. Il nostro Paese ha provato in ogni modo a disinnescare la mina, prima di rivolgersi all’Europa. E quando lo ha fatto si è sentito rispondere da Catherine Ashton, commissario Ue per gli Affari esteri che «il problema è di competenza esclusivamente italiano». Nelle ultime ore si sono moltiplicati gli appelli e i malumori dei rappresentanti italiani a Bruxelles e solo con una certa condiscendenza ci è stato assicurato che «l’Europa si impegnerà».

Solo l’ignoranza di quello che è in gioco nell’Oceano Indiano ci può permettere di non capire quanto grave sia la situazione avviatasi con le accuse ai due fucilieri. La storia dei pirati, che dal nome appare una sorta di gioco fra il militare e il letterario, con tutte le sue evocazioni salgariane, è in effetti la nuova frontiera di una guerra non dichiarata che va avanti, da un decennio almeno, fra le due maggiori potenze del mondo attuale: la Cina e gli Usa.

Il controllo della sicurezza dell’Oceano Indiano è il «great game» dei nostri tempi, in cui le rotte commerciali che vanno verso l’Estremo Oriente sono la nuova «Via della Seta». In questo senso, l’intervento sulla pirateria in quel mare è una guerra indiretta fra Usa, Cina (e noi europei fra gli altri) per assicurarsi il controllo dell’espansione dell’Estremo Oriente. Che ci siano pirati è fuori discussione. Chi siano e a cosa servano, è tutto da vedere. Un solo esempio basta per illustrare di cosa stiamo parlando. Nelle Isole Seychelles (si proprio quelle delle vacanze esotiche) alla fine di dicembre 2011, i cinesi sono riusciti ad ottenere una base a supporto delle unità navali di Pechino impegnate nella lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano. La cosa ha preoccupato l’India e gli Usa. L’India si sente «circondata» da Pechino nell’Oceano Indiano e gli Usa hanno dovuto prendere atto dell’ennesima «spartizione» di spazi con la Cina, visto che gli Stati Uniti alle Seychelles dispongono di un aeroporto agli ordini dell’Us Africa Command (Africom), dotato di droni - anche armati - per il controllo delle coste orientali del Corno d’Africa e per colpire le milizie fondamentaliste somale. Va aggiunto che la Cina ha altre basi nell’area, a Gibuti, in Oman e nello Yemen. Inoltre, Pechino ha costruito e sta ampliando nell’Oceano Indiano e dintorni altre sue postazione, a Sittwe in Myanmar, a Chittagong in Bangladesh e a Hambantota nello Sri Lanka.

In questo quadro è evidente che i nostri marò sulle navi non sono esattamente lì solo per una difesa delle navi. Sono parte di una iniziativa internazionale. Il cosiddetto accordo sui Vessel Protection Detachement è nei fatti una nuova frontiera di guerra non dichiarata.

Che l’Europa faccia finta che la questione sia solo italiana è ridicolo e offensivo. E anche se le questioni di politica estera nel nostro Paese sono sempre sottovalutate, questo è esattamente il caso di prestare il massimo di attenzione. Il rischio è quello di esser presi in giro. Lodati quando siamo virtuosi sul nostro debito e soli se abbiamo degli incidenti. Presidente Monti si faccia sentire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9861
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« Risposta #189 inserito:: Aprile 20, 2012, 11:24:38 pm »

20/4/2012 - FRANCIA AL VOTO

La Sinistra italiana aspetta il vento di Hollande

LUCIA ANNUNZIATA

Nelle urne francesi che si aprono domenica avvertiremo anche un assaggio di elezioni in Italia.

François Hollande, unico leader di sinistra rimasto in Europa a dire «qualcosa di sinistra», è ufficialmente l’occasione che la sinistra italiana aspetta, il movimento del pendolo che fa cambiare gli equilibri di forza, una nuova locomotiva europea, cui molti Paesi, a iniziare proprio dall’Italia, potrebbero attaccare i loro vagoncini.

Con il suo programma di vigorosa spesa pubblica e ridistribuzione delle risorse, partendo da una patrimoniale ad ampio spettro, Hollande è oggi la speranza per il Pd, ma anche per il Sel e molte altre forze, di poter fare in Europa, coperti dalla Francia, quella battaglia che la sinistra non può fare in Italia, per senso di responsabilità e per timore di dividersi.

Solita illusione (e quante volte la sinistra italiana l’ha coltivata nei confronti dei colleghi francesi)? O stavolta qualche spazio c’è perché si apra effettivamente un nuovo gioco in Europa?

Le risposte sono molteplici, e dipendono da molte componenti, non ultime le evoluzioni possibili dentro il governo Monti, arrivato a dover scegliere, pressato dagli eventi, un profilo più politico di quanto abbia tenuto nei suoi primi cinque mesi.

In effetti con Hollande rientra sulla scena della sinistra un candidato come non si vedeva da tempo: figura per nulla di rottura, anzi figlio delle strutture di partito, parte integrante delle élite del suo Paese, ma anche di «sinistra». Il suo programma rompe con trent’anni di programmi liberisti come uniche formule possibili per far marciare l’Occidente. Rompendo così anche l’incantesimo che per altrettanti anni la stessa sinistra ha subito nei confronti delle ricette liberiste. Una conversione che il candidato socialista ha, per così dire, in casa: ha ricevuto l’ investitura anche della sua ex moglie Ségolène Royal, che solo nel 2007 sfidò Sarkozy impugnando «l’idolatria fiscale» e «l’ossessione per le regole» di cui soffriva una parte secondo lei minoritaria della sinistra.

Oggi è un po’ fuori moda ricordarlo, ma la famosa terza via che segna il periodo d’oro della sinistra in Occidente, negli anni Novanta, con Blair in Uk, Clinton in Usa, Jospin in Francia, Gerhard Schrö der in Germania e Prodi e D’Alema in Italia, fu costruita proprio sullo sdoganamento del mercato a sinistra.

Così oggi si potrebbe dire che con Hollande si immagina una terza via al contrario. Del resto, i risultati elettorali in Occidente tendono ad avere una loro onda lunga. E sicuramente un cambiamento di posizioni della Francia, costituirebbe una forte novità negli assetti europei attuali. Il programma di Hollande è un bel chiodo piantato nell’asse Merkel-Sarkozy su cui si sostiene l’equilibrio europeo.

Alla obbedienza rigorista della Merkel, alla sua piena osservanza dei dettami della Bundesbank, Hollande oppone lo scontro frontale con le banche considerate una delle cause del crac finanziario internazionale: nella sua proposta alle banche francesi sarà vietato operare nei paradisi fiscali, le stock option potranno essere date solo dalle imprese nascenti, l’imposta sui profitti degli istituti di credito crescerà del 15% e sarà introdotta la tassa sulle transazioni finanziarie, la famosa Tobin Tax. Una forte tassa patrimoniale (il 75% sui redditi oltre il milione di euro) completa un quadro di ridistribuzione della ricchezza sociale, in cui il denaro per aumentare la spesa sociale in vari campi viene dai redditi più alti e dalle rendite. Tra le altre cose cui le nuove risorse dovrebbero essere dedicate è un piano per regolare il mercato degli affitti, anche attraverso la costruzione di due milioni e mezzo di alloggi popolari, promesse che, siamo sicuri, colerebbero come miele di questi tempi nelle orecchie degli elettori di sinistra italiani.

Il punto è proprio questo. Le promesse di Hollande sono esattamente quelle che vorrebbero/dovrebbero fare i democratici. Quelle su cui otterrebbero più consensi, su cui potrebbero meglio unirsi. Ma che non possono pronunciare per la scelta di sostenere Monti, per l’obbligo di responsabilità nazionale, e per la paura di non avere la stessa capacità dei colleghi francesi.

E se però vincesse Hollande, non potrebbe essere lui una sorta di nuovo leader indiretto, un papa nero straniero, che rimetta in moto un movimento che da soli gli altri non possono fare?

Il primo punto di questa marcia, partita da mesi, con un accordo fra François Hollande, il presidente dell’Spd tedesco, Sigmar Gabriel, e
l’italiano Bersani, passa per una serie di elezioni in Europa, nazionali ed europee che dal 2014 potrebbero portare a un «cambiamento»
dell’Europa, come dicono i leader, con al primo posto del programma la revisione del patto di stabilità. Il simbolo stesso della gestione
dell’Europa, oggi è, a seconda dei punti di vista, la sua prigione o la sua salvezza.

C’è davvero spazio per uno scenario del genere oggi?

Non sarà facile (forse) né vincere, né continuare a vincere per Hollande. Il mondo anglosassone (quello che spesso si chiama «mercati») ha già inviato i suoi avvertimenti. La Francia entrerebbe subito nel mirino. Come ha fatto capire in una interessante intervista a La Stampa Richard Haass, presidente del più autorevole think tank d’America, Council on Foreign Relations. Ma è anche vero che l’opinione pubblica di altri Stati europei, e l’Italia per prima, potrebbe essere affascinata da questa riapertura politica, e magari davvero spingere per un cambiamento di equilibri a Bruxelles.

In questo senso un segnale di possibili cambiamenti, sia pur molto esili, si avverte persino nel governo Monti. Il Professore premier è nato letteralmente battezzato dall’Europa di Merkel e Sarkozy. È la sua stessa identità. Non che il nostro premier non faccia i dovuti distinguo, ma l’affermazione di questi è sempre rimasta dentro le regole conosciute, e come processo di accreditamento più che di sfida. Ma nello stesso governo italiano, e tra le figure italiane in Europa, non c’è necessariamente lo stesso atteggiamento nei confronti della Germania. Mario Draghi, governatore della Bce, non è certo benvisto dalla Banca centrale tedesca, la Bundesbank. In marzo Der Spiegel scriveva: «C’è una crescente divisione all’interno della leadership della Banca centrale europea su come gestire la crisi europea, per non parlare di quelle fra la Bce e la Bundesbank. Mario Draghi è molto contento di aver allagato i mercati con moneta a poco prezzo, mentre il presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha invece avvertito dei pericoli che questa operazione comporta». Il riferimento è alla decisione di Draghi di fornire liquidità al tasso dell’1 per cento alle banche europee per stabilizzarle.

Contro la Bundesbank si è però di recente schierato – con sorprendente chiarezza, durante un’intervista – il più forte ministro dell’esecutivo Monti, Corrado Passera, lui stesso con un passato da banchiere: «Il problema non è la Merkel ma la Bundesbank». Parole che indicano che questo governo, di fronte al disagio del Paese, potrebbe voler affrontare sfide politiche che non sono per ora nella sua carta fondativa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10017
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« Risposta #190 inserito:: Maggio 03, 2012, 07:26:41 pm »

3/5/2012 - IL CASO DEL DISSIDENTE

Cina e Usa alla prova delle libertà

LUCIA ANNUNZIATA

Dai baci alle accuse, dai festeggiamenti ai sospetti, dai brindisi alla virtù che si afferma al caos delle doppie versioni: gli Stati Uniti sono inciampati ieri in Cina in un confuso incidente di percorso che rischia di esporre al sospetto di incompetenza o superficialità il vertice stesso della diplomazia di Washington. E non è assolutamente un caso che materia dell’inciampo siano, ancora una volta, i diritti umani, l’eterno terreno di frizione fra gli Stati Uniti e la Cina.

Il Segretario di Stato Hillary Clinton è arrivata ieri nella capitale cinese insieme al ministro del Tesoro, Timothy F. Geithner, per un giro di colloqui importantissimi su Iran, Corea del Nord, Siria, e su accordi per rilanciare l’economia mondiale. Ma, come sempre più spesso avviene, la questione dei diritti umani ha preso il sopravvento su ogni negoziato. Una settimana fa, infatti, un dissidente cinese molto famoso, l’avvocato cieco Chen Guangcheng, che dal 2005 conduce una battaglia contro l’aborto, si è rifugiato nell’ambasciata americana, sfuggendo agli arresti domiciliari cui è costretto da anni. Il caso è diventato così troppo grave per essere evitato, il rifugio concesso dall’ambasciata troppo coinvolgente per essere gestito dai soliti canali diplomatici.

Gli osservatori attendevano dunque con attenzione l’arrivo del Segretario di Stato per vedere come gli Usa avrebbero gestito questa ennesima frizione con la Cina sul gravoso tema delle violazione dei diritti umani. Hillary non ha smentito i suoi metodi decisionisti ed è intervenuta direttamente sul governo di Pechino, ottenendo che l’avvocato potesse tornare a casa e continuare in futuro la sua battaglia civile in tutta libertà, sotto tutela degli americani.

Chen è stato liberato e portato, sotto gli occhi di tutti, all’ospedale cittadino. Fra Hillary e l’uomo ci sarebbe anche stata una telefonata conclusasi, secondo i testimoni con un «vorrei baciarla» di Chen al Segretario Usa.

La crisi si è chiusa così in maniera spettacolare, visibile, e indiscutibile. Con un accordo del tutto nuovo (di solito i dissidenti vengono buttati fuori dal Paese, se liberati) valutato come un incredibile passo avanti da parte della Cina. Ma la narrativa pubblica è durata poche ore. Il tempo di arrivare in ospedale e l’avvocato Chen Guangcheng ha sostenuto che non esiste accordo sulla sua permanenza in Cina e che gli Stati Uniti lo hanno lasciato solo di fronte alle minacce di morte ricevute appena fuori dall’ambasciata. Gli Usa hanno replicato gelidi che «rimanere in Cina, per continuare la battaglia e cambiare le cose» è sempre stata la linea del dissidente.

In verità, dubbi sulla soluzione trovata erano filtrati fin dall’inizio. Ci si chiedeva soprattutto come fosse stato possibile che la Cina lasciasse a un dissidente libertà di azione nel Paese. E ci si chiedeva come potessero gli americani farsi garanti di diritti su cui chiaramente non avrebbero avuto nessun controllo.

Il contrasto ha assunto alla fine toni amari. Le smentite reciproche hanno dato la sensazione di una vicenda provocata da superficialità e incompetenza. O, forse, da un gioco delle parti portato all’estremo, da un errore di calcolo finito male, fra due potenze impegnate da anni in un doppio binario di relazioni, fra bisogno reciproco e obblighi politici.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10059
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« Risposta #191 inserito:: Ottobre 14, 2012, 03:54:21 pm »


Il Nobel all'esattore delle tasse

Pubblicato: 12/10/2012 15:47

Lucia ANNUNZIATA

Quando venne dato il premio Nobel per la pace a Barack Obama appena eletto presidente, nel 2009, commentarono i Cinesi: "E' come aver dato l'Oscar a un trailer...". Parafrasando, oggi si potrebbe dire che il Nobel per la pace all'Unione Europea è come aver dato il premio della generosità all'esattore della tasse.

Il comitato norvegese per il Nobel, ormai lo abbiamo imparato, è molto sensibile al suo ruolo politico nel mondo. Sa di pesare sugli avvenimenti in corso, è consapevole di poter spostare la bilancia della pubblica opinione nel mondo della esposizione mediatica globale, e ogni anno si conferma sempre più accorta nell'esercizio del suo "soft power". Nulla di male. Salvo il rischio di arrivare a passare l'esile filo che divide l'esercizio dell'influenza intellettuale dalla megalomania.

Che è poi quel che è successo nel premio Nobel per la pace alla Unione Europea. Capiamo il ragionamento degli accademici norvegesi. L'Unione Europea è effettivamente la prova vivente della fine delle divisioni che portarono alla seconda guerra mondiale e poi alla guerra fredda. Oggi, nella crisi economica mondiale, il governo centrale del continente sta facendo sforzi di progettualità e coordinamento per evitare cadute dei governi nazionali che potrebbero sfociare in esperienze populiste e/o autoritarie.

In questo senso, immagino, sia da leggere il contributo alla pace nel mondo della Ue, cui la Norvegia aggiunge ora di suo tutto il peso di un Nobel. Eccetto che questa è la foto ufficiale, la proiezione di quello che la Unione Europea vorrebbe essere e che ancora non è chiaro che sarà. Nel frattempo - avventure neocoloniali a parte - come ignorare lo stato reale di questa Unione? La strada che l'Europa sta percorrendo è lastricata di sacrifici enormi dei cittadini più deboli, di rivalità fra leader, tentazioni egemoniche di alcuni stati su altri, una diffusa rapacità economica ed egoismi finanziari nazionalistici.

E' così difficile da vedere che questa crisi è nata in Europa, nel seno di quegli stessi governi che formano l'Unione attuale? Persino la lontana Norvegia non dovrebbe avere difficoltà a percepire quel certo senso di disperazione che pervade i nostri paesi.
 
da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/il-nobel-allesattore-dell_b_1961136.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #192 inserito:: Ottobre 17, 2012, 04:15:24 pm »


Veltroni, un segnale per tanti mondi, non solo per Il Pd

Pubblicato: 15/10/2012 18:56

Lucia Annunziata

La realtà sembra spesso così pesante da essere inamovibile. Ma spesso basta smuovere un solo mattone per far crollare l'intera casa. E' più o meno quello che è successo con la decisione di Walter Veltroni di non candidarsi più alle prossime politiche.

Conosco Walter da giovanissimo, come parte dello stesso giro che ha fatto della nostra generazione (si parla di '68, sì) quella permanente "festa mobile" durata una intera vita. Una festa che ha fatto di noi tutti, degnamente e meno, protagonisti inamovibili, ombelico del mondo, di tutto quello che passava sugli schermi, nelle piazze, negli uffici, nelle scuole. O anche solo nei nostri tinelli.

Oggi quella festa mobile appare eccessiva, e ingombrante. Il processo a quel che siamo stati è infatti, credo, buona parte del fastidio con cui oggi, giustamente, generazioni di esasperati giovani chiedono con tanta foga il rinnovamento nel nostro paese. Sicuramente il predominio di questa generazione si avverte pesantemente nell'area politica di sinistra, e nel Pd in particolare, dove negli anni è rimasta la parte più attiva di quella militanza che ha radici negli anni sessanta. In questo senso, la domanda di rinnovamento intorno a cui ruotano oggi le primarie credo possa essere ampiamente definito come un conflitto emotivo prima ancora che di potere.

Non sbaglio, forse, se immagino che tutto questo sia stato ampiamente presente nelle considerazioni che Walter Veltroni ha fatto nel prendere la sua decisione di farsi da parte, e non ricandidarsi. Una posizione che è stata valutata soprattutto per il suo impatto interno al Pd. Ma che in realtà ha implicazioni che toccano un po' tutto il sistema. Non va sottovalutato infatti il ruolo che ha ed ha avuto nel nostro paese l'ex segretario del Pd. Veltroni ha vissuto collocato da sempre su alcuni degli snodi centrali fra settori che fanno molta opinione in Italia.

Uomo politico e di comunicazione, scrittore, sindaco di Roma, vicepremier, ha rapporti personali che contano nell'editoria e nella cultura, in Rai come fra registi e attori, con la comunità ebraica (cui ha sempre dedicato viaggi ad Auschwitz) e con gli Usa, con cui grazie alla sua passione per i Kennedy si è rapportato già quando la sinistra italiana si muoveva su un anti-americanismo di maniera. Veltroni è anche stato dialogante con i cattolici, ha ammiratori dentro la intellighentia berlusconiana (fa testo per tutti il favore con cui l'ha sempre guardato Giuliano Ferrara) ed ha sempre avuto una attenzione "giovanilistica" per le mode e i modi della modernità.

La sua decisione di sfilarsi dalla competizione elettorale ha dunque smosso qualcosa in tanti luoghi, è stato un messaggio inviato a vari mondi. L'eco che ha avuto è spiegabile solo grazie a queste tante interconnessioni. In questo senso, la sua è stata una presa di posizione molto politica.

Politica secondo la interpretazione più efficace di questo termine. Il rapporto fra mossa e impatto è stato infatti altissimo. La capacità, come si è visto da quel che ne sta seguendo, di muovere una intera casa smuovendo, come si diceva, un solo mattoncino è la riprova di una sensibilità che solo i migliori politici sanno avere. Che è poi la ragione per cui Veltroni non scomparirà dal nostro orizzonte, ma solo da quei tristissimi scranni parlamentari.
 
da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/veltroni-un-segnale-per-t_b_1967534.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #193 inserito:: Novembre 26, 2012, 05:35:30 pm »

 Lucia Annunziata: "Difficile, dolorosa ed efficace: la sfida che sta cambiando il Pd"

L'Huffington Post  |  Di Lucia Annunziata Pubblicato: 24/11/2012 21:00 CET Aggiornato: 24/11/2012 21:02 CET


Non ci giro intorno. Alle primarie ho simpatizzato per due degli sfidanti, Renzi e Vendola.
Il primo, a forza di proteste, provocazioni e calci nel muro ha ottenuto le primarie e vi ha portato uno spirito critico, alternativo, arrabbiato e determinato a vincere.
Il secondo, Vendola, vi ha invece portato il fattore umano, un percorso a pelle scoperta fra fragilità, vittorie, paure, superamenti, amore, restituendo un po’ di calore a un universo la cui comunicazione è da tempo congelata.

Ho simpatizzato perché proprio grazie agli strappi, alla diversità e, anche, agli errori di questi due le primarie sono diventate una cosa vera.

Che Bersani vinca questa sfida non ci sono mai stati, a mio parere, dubbi. E’ un uomo che ha la storia e la statura per essere (ed essere avvertito come) il leader del partito. Ma la forza politica che guida è un gigante da tempo malato di burocrazia, di intrecci con funzioni amministrative sul territorio, di opacità e lentezza nella selezione della classe dirigente e nel ricambio generazionale interno. E la cui base elettorale è ampia ma anziana – dunque spesso conservatrice nella visione del futuro.

Problemi che le primarie hanno in parte fatto emergere, rivelando anche il costo in dolore di tale presa d’atto.
Sono state infatti settimane dense di sospetti, accuse, insulti. E di alti prezzi pagati – persino leader come Veltroni e D’Alema, cioè due delle più forti figure del partito, hanno accettato di farsi coinvolgere, e, in parte, travolgere.

Il risultato finale è però senza alcun dubbio positivo. Le primarie hanno rianimato il partito, hanno cambiato il clima nel centrosinistra, abbassando le barriere fra politici e persone, aprendo un varco nella cortina di pessimismo e sprezzo che circonda la politica oggi.

In questo senso, il merito assoluto di Perluigi Bersani è quello di aver permesso questa competizione e di averla alla fine capita, come ha detto in dirittura finale: “ Tutto questo ci fa bene. Più confronti facciamo meglio stiamo in salute ”. Non era scontato che il Segretario si mettesse in gioco, né che lo facesse con l’intensità con cui lui l’ha fatto. E più ricorderà e preserverà della sincerità e della passione emerse da questo processo, più forza avrà la sua ambizione di fare il Premier.

da - http://www.huffingtonpost.it/2012/11/24/la-sfida-che-sta-cambiando-il-pd-annunziata_n_2185082.html
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« Risposta #194 inserito:: Febbraio 09, 2013, 10:47:58 am »


Il realismo di Bersani contro il rischio ingovernabilità

Pubblicato: 05/02/2013 18:52


Lucia Annunziata
Direttore, L'Huffington Post


Il principio di realtà ha rifatto il suo ingresso nella campagna elettorale. Pier Luigi Bersani e Mario Monti si sono scambiati segnali di pace, dopo settimane di tensioni. Un cambio di clima destinato a durare o semplice "cortesia istituzionale" da parte del Segretario del Pd, che oggi è a Berlino, la patria spirituale della presidenza Monti?

Escluderei il gesto di "cortesia". Impegnato nello sprint finale di una competizione dominata da grandi spinte a sinistra, e da una vasta platea di scontenti e potenziali non votanti, per Bersani non deve essere stato semplice rilanciare la collaborazione con un Premier, quale ancora è Monti, contro cui, a torto o a ragione, si stanno scagliando sia la destra che la sinistra.

Ma il segretario del Pd ha una dote che è molto sua - e di cui oggi ha dato ennesima prova: il realismo, appunto.

Negli ultimi giorni Piazza Affari, trainata verso il basso da Mps, Saipem, Seat pagine gialle, ha fatto di nuovo tremare i mercati internazionali. Il Wall Street Journal, JP Morgan, e le borse europee hanno immediatamente riacceso i fari sul pericolo italiano - reintroducendo nell'orizzonte politico nostro un termine "ingovernabilità" che sembrava sparito. La possibilità che dalle urne non esca una vittoria limpida per nessun partito, è stata ampiamente assegnata, sia in patria che all'estero, alla rimonta nei sondaggi di un Silvio Berlusconi ormai chiaramente antieuropeo.

Ma il segretario del Pd sembra stavolta non aver abboccato alle facili consolazioni di chi preferisce scaricare tutto sugli avversari, specie se questi sono "gustosi" come il Cavaliere. Nella idea di una ingovernabilità italiana c'è infatti una verità che vale per tutti: una nazione che si definisce ingovernabile è un paese potenzialmente fuori controllo.

La crisi di Piazza Affari degli ultimi giorni in questo senso è stata rivelatrice di una fragilità economica del sistema italiano in buona parte indipendente anche dalla crisi internazionale; un disvelamento di quel mix di cordate di interessi, incapacità, furbizia e pura e semplice corruzione che da almeno un decennio ha trasformato in bad company le migliori aziende italiane. Questo aspetto tutto nazionale, interno, delle turbolenze economiche ha immesso nel dibattito elettorale una urgenza che, a dispetto delle molte parole fin qui spese, non si era ancora avvertita.

Un partito grande come il Pd, su cui pesano forti aspettative dentro e fuori delle nostre mura, può sottovalutare il rischio una possibile catastrofe, non importa quanto buone siano le sue intenzioni sul futuro governo? Rinsaldando il rapporto con Monti oggi Bersani ha preso la strada della prudenza, ha riaperto un dialogo che lo aiuta presso i moderati, e presso le opinioni pubbliche internazionali, che ancora vedono in Monti un garante.

Non deve essere stato facile, si diceva. La decisione di riallacciare con Monti lo espone alle critiche della sinistra dentro e fuori la sua coalizione. Ancora di più, è una implicita ammissione dei limiti in cui si muoverà il prossimo governo. Infine (se mai ci fosse bisogno di consolazione o incoraggiamento) val la pena di ricordare a Bersani e ai suoi elettori che un partito è grande non per numero di voti né per senso della propria importanza, ma solo per quanto bene riesce a servire gli interessi comuni.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/il-realismo-di-bersani-contro-il-rischio-ingovernabilita_b_2623898.html?utm_hp_ref=italy
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