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Autore Discussione: FASSINO...  (Letto 26928 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Settembre 17, 2007, 06:37:59 pm »

17/9/2007 (7:49)

Fassino "Sarò nella storia del Pd"
 
«Il Pd, un obiettivo fascinante a cui continuerò a dedicare le mie energie e il mio impegno politico anche dopo il 14 ottobre»

BOLOGNA


Piero Fassino ha salutato il suo popolo, i suoi militanti, gli uomini e le donne che ha guidato alla segreteria dei Ds dal 2001, con l’ultimo discorso da segretario alla festa dell’Unità di Bologna, e ancora una volta si è commosso, come già era successo a Firenze, durante l’ultimo congresso della Quercia. Stavolta però il momento è stato scandito da un vero e proprio passaggio del testimone, «ora tocca a Walter» ha detto, assicurando però che questo «non è un addio» perchè «nella nuova storia» quella del Pd «ci sarò anch’io».

Il ruolo che Fassino assumerà, non è ancora stato definito. Si è parlato di un possibile incarico di governo, forse, in futuro, per il momento Fassino ha ricevuto il tributo del presidente del Consiglio, Romano Prodi. «Senza il suo impegno e lavoro il Partito democratico non ci sarebbe», ha detto il premier, che era a Bologna ma non ha assistito al discorso perchè quest’anno ha deciso di non partecipare a nessuna festa di partito, e mantiene l’impegno. Ma lo ha sentito al telefono e lo ha ringraziato «di tutto cuore per quello che ha fatto in questi anni, soprattutto negli ultimi mesi, per costruire il Partito democratico».

Il sindaco di Roma e futuro leader del Pd, invece, era seduto sul palco, insieme a Massimo D’Alema e Dario Franceschini. Come molti dei dirigenti e dei ministri diessini erano venuti a Bologna per ascoltare l’ultimo discorso del segretario dei Ds. I militanti erano cinquantamila. È stata una lunga relazione, 27 pagine, ma più breve di altre svolte da Fassino davanti ai ’suoì. Le prime parole infatti sono dedicate a loro, a rassicurarli che questa non sarà l’ultima festa dell’Unità, ma è già «la prima festa del Pd».

La relazione è stata come sempre dettagliata nel toccare tutti i temi dell’agenda politica: riforme, legge elettorale, risultati di governo. Un passaggio è dedicato anche al fenomeno del V-Day di Beppe Grillo. Che il leader della Quercia non condivide: «Non è mandando a quel paese i partiti che si salva l’Italia. Né la risposta al disagio dei cittadini può venire dalle caricature demagogiche e dalle denigrazioni populistiche con cui si descrive la politica e chi la fa». Ma serve una risposta al disagio che i cittadini esprimono verso la politica e Fassino ha proposto a governo e Parlamento di mettere subito in campo misure contro sprechi e privilegi che vanno dalla riforma della Rai alla soppressione di enti inutili, evitando lottizzazioni in tutti gli incarichi pubblici.

Una moralizzazione ancora più stretta viene proposta per la costituzione del nuovo partito: la prima regola del Partito democratico deve essere «trasparenza, rigore, moralità. Soprattutto chi ricopre incarichi politici, istituzionali e pubblici ispiri la propria condotta non solo al rispetto formale delle leggi, ma anche alla sobrietà dei comportamenti e al rispetto dell’etica pubblica». Il leader della Quercia ha lanciato poi un appello all’opposizione affinchè rinunci alle «mosse tattiche» e accetti di varare insieme una nuova legge elettorale «che riduca il numero dei parlamentari e riduca la esasperata frammentazione politica che vede oggi sedere in Parlamento 24 partiti». Fassino ha difeso il protocollo sul welfare varato dal governo: «Per la prima volta si mette in campo un pacchettoo al Partito democratico. A ribadirne i tratti essenziali. Essere Democratici - ha scandito Fassino - non è meno impegnativo, significa essere di sinistra, e il Pd rappresenterà una nuova stagione della democrazia« in cui »ciascuno porta la propria storia e i propri valori«, non sarà un partito moderato, ma un partito riformista capace con la sua politica e la sua cultura di governo di parlare ad una platea larga di cittadini, conquistando anche quegli elettori moderati che vogliono un’Italia moderna. Un partito che saprà cambiare anche il riformismo europeo, ha assicurato il leader della Quercia: facendo incontrare il socialismo europeo e i suoi partiti con le altre culture riformiste e progressiste del continente. Un obiettivo affascinante a cui continuerò a dedicare le mie energie e il mio impegno politico anche dopo il 14 ottobre.

Le lacrime sono spuntate sul suo volto quando Fassino ha pronunciato la fatidica formula: Sono l’ultimo segretario nazionale«, e la folla dei militanti ha cominciato ad applaudire e a cantare cori inneggianti il segretario. Sventolando bandiere rosse e cartelli. Applausi per oltre un minuto. Non è un addio - ha aggiunto -, adesso un nuovo grande progetto comincia. E adesso tocca a te, caro Walter«. Al futuro leader del Pd Fassino lascia in eredità il popolo dei Ds, quel popolo al quale ha tributato mille ringraziamenti durante il discorso, quel popolo che ha fatto la storia d’Italia con il suo impegno e la sua passione, quel popolo che anche stavolta »farà la sua parte, per servire l’Italia.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 17, 2007, 06:38:54 pm »

La forza di Piero

Antonio Padellaro


Se, cifre ufficiali, nell´arena della Festa sono arrivati in cinquantamila, allora erano quanti quelli della piazza di Beppe Grillo. Il che semplicemente per dire che pure in questa Italia insofferente e scontenta a nutrire ancora fiducia nella ammaccata democrazia dei partiti son pur sempre in tanti. E se, malgrado tutto, le istituzioni tengono e forse un giorno ce la faranno a tornare pienamente credibili anche per quelli dell´altra piazza, il merito è anche di uomini come Piero Fassino. Piero non ha bisogno di commemorazioni anche se ieri si è commosso e ha commosso perché era l´ultimo discorso da segretario della Quercia alla Festa dell´Unità. Che a partire dall´anno prossimo sarà conclusa dal prossimo leader del Pd: «Adesso caro Walter tocca a te».

La vita politica di un leader come Fassino non finisce certo qui. Ma indubbiamente ,ieri, a Bologna egli ha chiuso una importante pagina, oltre che personale, della intera politica italiana e dunque un bilancio va fatto. Non è stato facile, sei anni fa, prendere le redini di un partito piegato dalla dura sconfitta elettorale subìta da Berlusconi e che s´interrogava incerto sul proprio futuro. Non è stato facile riorganizzarlo, restituirgli un progetto e un´identità e farne la punta di lancia di una coalizione che da quel momento in poi ha vinto tutte le elezioni. Una riscossa che ha riportato Romano Prodi a palazzo Chigi. Che con Giorgio Napolitano ha eletto per la prima volta un «comunista» al Quirinale.

Fassino non ha un carattere semplice, soprattutto quando gli gira male. Ma è un uomo schietto, abituato a dire le cose in faccia e a farsele dire. Un segretario ancora giovane ma vecchio stile, con una visione forse un po´ leninista dell´organizzazione ma con la quale ha rafforzato l´orgoglio dei militanti e il rispetto degli avversari. Senza il lavoro di Fassino non ci sarebbe il Pd, ha detto Prodi. Ma il suo merito maggiore pensiamo sia un altro. Non è facile guidare un partito, il tuo partito, allo scioglimento in un partito ancora da costruire. Non è facile pagare per quell´obiettivo il prezzo amaro di una scissione da parte di amici e compagni con i quali per una vita hai condiviso tutto. Non è facile chiedersi ogni giorno se quella sarà la scelta più giusta o l´errore più grave. E non è stato facile potendo candidarsi alla guida di quel nuovo partito decidere di cedere il passo a un altro candidato in nome di un interesse più alto della propria legittima ambizione. E cioé il futuro del Pd. Questo significa essere classe dirigente. Questa è la forza di Fassino.


Pubblicato il: 17.09.07
Modificato il: 17.09.07 alle ore 10.39   
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 17, 2007, 06:45:35 pm »

Il congedo dei Ds: Una lunga storia d'amore

Giovanni Visone


Le lacrime di Piero Fassino scuotono l’epilogo di un lungo comizio, l’ultimo comizio di un segretario dei Democratici di sinistra ad una Festa de l’Unità. È come un sussulto. Ci voleva. Perché quelli che lo ascoltano sotto una fastidiosa pioggerellina di fine estate, lo salutano con un applauso sincero e affettuoso. Quando mi giro vedo decine di occhi lucidi. Lacrimoni. Veri singhiozzi. «È stata una lunga storia d’amore – scandisce Piero con la voce rotta – lo devo a tutti voi, siete tutti voi che devo ringraziare». Qualcosa oggi finisce davvero. «Siamo arrivati alla conclusione», sospira Fassino. E quel sospiro vale forse più del messaggio carico di speranza che lo segue: «Se oggi mi rivolgo a voi non è per un addio, ma per partire insieme per un nuovo viaggio. Adesso caro Walter tocca a te».

Eccolo, dunque, il futuro. Siede sul palco, fra ministri, dirigenti e ragazzi della Sinistra Giovanile, proprio alle spalle dell’ultimo segretario. Walter Veltroni è arrivato fianco a fianco a Massimo D’Alema e a Dario Franceschini, tutti applauditissimi. Romano Prodi, invece, non c’è: è a Bologna, ma ha preferito restare a casa su. Ci sono, in sua vece, i fedelissimi Ricky Levi e Santagata. E c’è il sindaco Cofferati, non sul palco, ma nella tribunetta laterale, accanto al braccio destro di Veltroni, Walter Verini.

Scene dalla fine di un partito. Non ci sono i 300mila militanti attesi dagli organizzatori, saremo in 50mila. Qualcosa, forse, significa. La Festa de l’Unità è la misura plastica del corpo del partito, termometro dei suoi umori e sismografo dei suoi mutamenti. Cinque anni fa, l’arena stracolma della Festa de l’Unità di Bologna aveva mostrato l’orgoglio di un partito che qualcuno voleva morto e che invece aveva deciso di rialzare la testa («Abbiamo vinto ad Asti, Verona, Gorizia…», ripeteva allora Fassino, elencando le città strappate alla destra e pochi mesi fa riperse). Un anno fa, a Pesaro, avevamo racontato un partito inquieto, incerto sulla meta e presago di scissioni. Oggi quello che si mostra a Bologna è il partito che si scioglie. La decisione è stata presa molti mesi fa.

Il discorso di Fassino, prima di sciogliersi nella commozione finale, è puntuale e pignolo come sempre. Un mix di storia e futuro. La promessa di un partito nuovo e l’orgoglio di quello che si lascia. «La storia siamo noi non è solo una canzone», «la storia siete voi» e «i valori non cambiano con il trascorrere del tempo».

Il lungo elenco delle buone cose fatte dal governo, l’appello al centrodestra per le riforme istituzionali e la nuova legge elettorale, la lunga digressione sulle relazioni internazionali del partito nuovo. Ma forse il passaggio più significativo del discorso di Fassino è la risposta che il segretario dei Ds prova a dare all’onda antipolitica cavalcata del Vaffa Day di Beppe Grillo, lo stesso Grillo che meno di ventiquattrore fa ha scosso anche la Festa de l’Unità, a Milano. La ricetta di Fassino è sempre la stessa: «Raccogliere il disagio». Farsi carico. E per questo chiede trasparenza per il finanziamento dei partiti, limitazione di tutti i Cda a 5 membri, selezione meritocratica dei manager pubblici e riduzione delle consulenze esterne, riforma della Rai, cancellazione degli aumenti numerici dei consigli regionali, riduzione dei parlamentari. E poi norme di comportamento elementari «Andare allo stadio o al cinema pagando il biglietto, fare la spesa al supermercato, accompagnare i figli a scuola con la propria macchina, prenotare le analisi mediche in fila allo sportello».

Per dire no alla «caricature demoagogiche e alle denigrazioni populistiche», Fassino si affida alla memoria di Enrico Berlinguer. La citazione dal più amato segretario del Pci sembra un lascito che Fassino consegna al partito democratico: «La politica è una cosa che può riempire degnamente una vita». Anche nel Partito Democratico Fassino vuole portare subito una nuova tensione etica. Attraverso una sorta di codice di autoregolamentazione che vincoli i membri dell’assemblea costituente. E poi chiedendo apertura alla società civile, conferma del metodo delle primarie ad ogni livello e limite di mandato.

Così, dunque, finisce la Quercia. E ora tocca a Veltroni, che della Quercia è il figlio più amato e popolare. Resta ultimo dubbio. Che fine faranno ora le feste de l’Unità? Fassino rassicura subito i militanti. Tra «le cose buone» da salvare al trasloco e portare nella nuova casa del Pd, le feste ci sono di sicuro. Ricorda che a Firenze si sono già candidati per l’anno prossimo, anche se a dire il vero hanno parlato di una «Prima Festa del Partito Democratico». Non proprio la stessa cosa. O forse sì.

Pubblicato il: 16.09.07
Modificato il: 17.09.07 alle ore 13.40   
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 19, 2007, 04:36:37 pm »

19/9/2007 (7:29)

"Ora sarò l'uomo del Pd al Nord"
 
«A Walter non chiedo galloni, ma la trincea è qui».

«Grillo? Soltanto un moralista a pagamento»

FEDERICO GEREMICCA


La politica, in fondo, è una metafora della vita. E non esistono vite fatte solo di felicità o solo di delusioni... E così è per me, che faccio politica da quando avevo 16 anni. Ho avuto asprezze e difficoltà, ma anche - le assicuro - gratificazioni e gioie». Piero Fassino si interrompe solo un momento. Sta raccontando i suoi anni «da Papa» ora che, in procinto di lasciare la segreteria Ds, si accinge «a tornare chierico», come ha detto al suo popolo della festa de «l’Unità». Un chierico ingombrante, non c’è dubbio. E con le idee chiare intorno alle prossime missioni. Certamente occuparsi a livello internazionale del Pd, delle sue alleanze e della sua collocazione, facendo incontrare il Partito democratico con il socialismo europeo per creare un campo riformista unito anche in Europa: insomma, l’ambasciatore nel Pd nel mondo, anche perchè Fassino il mondo lo conosce e nel mondo è conosciuto. Ma soprattutto prendere di petto l’ormai annosa «questione settentrionale», diventare l’«uomo del nord» del Partito democratico, l’area dove si decidono i destini del Paese.

«Sono un uomo del nord - spiega Piero Fassino -. So come ragiona la gente che vive lì e credo di poterne capire sensibilità e attese. Quell’area rappresenta una delle frontiere decisive per il successo del Pd, no? Veneto e Lombardia sono ancora governate dalla destra, e nelle ultime amministrative abbiamo visto che in città come Asti e Alessandria, Gorizia, Monza e Verona continua a esserci un rapporto critico con noi. Se il Pd si pone l’obiettivo di essere una grande forza che guida l’Italia in una fase di enormi cambiamenti - dice Fassino - non può non porsi il problema di raccogliere un consenso maggioritario anche nell’area più forte del Paese. Ecco, insieme al ruolo internazionale del Pd, io penso di essere in grado di contribuire, di dare una mano lungo la trincea settentrionale. E senza ricercare galloni o incarichi: se Veltroni riterrà che io debba assolvere a qualche funzione, me lo dirà. In ogni caso la mia parte la farò».

Intanto , signor Segretario, per lei si sta chiudendo una fase. Provi a voltarsi indietro e ripensi ai suoi «sei anni da Papa»: come li vogliamo giudicare?
«Guardi, il mio stato d’animo è di soddisfazione e serenità. Per essere più preciso: sono in pace con me stesso».

Non capita a tutti... E’ un uomo fortunato.
«E’ semplicemente che credo di aver assolto al compito che mi fu affidato sei anni fa, quando mi candidai a guidare i Ds dopo una brutta sconfitta elettorale, col centrosinistra diviso, l’Ulivo battuto e un risultato molto deludente per la Quercia. Per quanto riguarda noi, poi, i Ds, vi erano critici che addirittura consideravano quelle elezioni la fine di una storia, un capolinea. E io passavo per essere una sorta di curatore fallimentare...».

Poi, invece, ha guidato la rimonta: questo vuol dire?
«Certo non da solo. Ma abbiamo ricostruito l’unità del centrosinistra, da Mastella a Bertinotti, riprogettato l’Ulivo e vinto tutte le elezioni dal 2001 al 2006. Questo non l’hanno fatto i Ds da soli, né tantomeno io da solo: ma la Quercia è stata l’architrave, il motore in ognuno dei passaggi compiuti. E’ il lavoro di questi anni che ha creato le condizioni per lanciare il Partito democratico».

Che sancirà, però, la fine dei Ds... Lei sarà ricordato come l’ultimo Segretario: possibile non le dispiaccia?
«Domenica, alla festa de “l’Unità”, ci siamo commossi un po’ tutti: io che parlavo e i compagni che mi ascoltavano. Ma era commozione, appunto, emozione, non tristezza. Sappiamo quel che siamo stati per questo Paese, e poi la sfida - stavolta - è ancor più affascinante di quella dei passaggi dal Pci al Pds ai Ds: allora abbiamo cambiato noi stessi da soli, adesso nel Pd lo facciamo assieme ad altri».

E certo non è una gran fortuna fondare un partito con l’aria che tira, no?
«Si riferisce a Grillo?».

Perchè, non ne vuole parlare?
«Si figuri. Ma se Grillo pensa che distruggendo la politica salva il Paese, si sbaglia di grosso: lo consegna solo ad altri, magari a delle massonerie, certamente a poteri meno democratici».

Però la gente lo segue...
«Perchè nel Paese c’è un disagio vero, reale. Un disagio al quale i partiti devono guardare con più attenzione. Partendo da una premessa: chi fa politica deve sapere che la sua credibilità dipende dalla vita che conduce, se fa la fila agli sportelli, in ospedale, se paga il biglietto quando va allo stadio o prende l’aereo... Se fa la vita di tutti gli altri, insomma, senza privilegi. Altrimenti è chiaro che poi spopola anche un moralista a pagamento come Grillo, perchè ai suoi spettacoli si paga il biglietto, o sbaglio?».

Tornando per un momento a guardare indietro...
«Ma attenti che io non mi sto ritirando dalla politica!».

E si figuri se qualcuno lo pensa. L’accusano addirittura di voler entrare al governo...
«E’ stata scatenata una canea, con espressioni miserevoli, come si io cercassi una poltrona. E allora sa che le dico? Non intendo più affrontare il tema. Chiuso».

Addirittura! Magari un rimpasto sarebbe davvero utile, no?
«Chiuso. Una mia sola parola verrebbe rilanciata nello stesso modo dei giorni scorsi. Non voglio più parlare di questo. Io sono una persona perbene. Chiuso. Non sono alla ricerca di posti e non ne chiedo. Ringrazio Rutelli e gli altri per la stima. Tutto il resto è materia esclusiva del presidente del Consiglio».

Insomma, un’amarezza... Ne ha avute molte altre nei suoi «sei anni da Papa»?
«Guardi, c’è una cosa che mi ha ferito, perchè totalmente falsa: che io con le mie scelte liquidassi la sinistra in Italia. Quando fui eletto a Pesaro, dissi: o si cambia o si muore. Ma cambiare non vuol dire rinnegare i nostri valori, che restano intatti. Significa, al contrario, mutare gli strumenti per affermarli, consapevoli dei grandi cambiamenti che ci circondano».

Da Segretario quali errori si rimprovera?
«Forse si sorprenderà, ma rifarei la strada fatta: i Ds, l’Ulivo, il Pd. Magari qualche piccolo errore...».

Intende di gestione, non strategico.
«Sì, ma quando dirigi un partito con migliaia di dirigenti e decine di migliaia di militanti...».

Ma lei, alla vigilia delle elezioni del 2001, avrebbe scaricato Amato, come decise Veltroni, per candidare a premier Francesco Rutelli?
«Intatta la stima verso Amato, si fece quel passaggio con la speranza che un leader nuovo potesse allargare i consensi ad un centrosinistra che già temeva di perdere. Sembrò in quel momento che fosse una chanche in più».

Dopo le ultime elezioni, invece, era certo che lei sarebbe entrato al governo: poi, invece, fallì la trattativa per eleggere D’Alema alla presidenza della Camera, lui entrò al governo e lei fu costretto a restar fuori. Non si arrabbiò?
«No, perchè la mia scelta di restare al partito nacque dalla consapevolezza che il lavoro di costruzione del Pd avrebbe avuto passaggi anche difficili. E poi i Ds sarebbero stati appunto ben rappresentati al governo da D’Alema. Certo, se Massimo fosse stato eletto presidente della Camera magari i Ds al governo li avrei rappresentati io».

E si arrabbiò.
«No, e le spiego perchè. Vede, ci sono due modi per fare il segretario di un grande partito: o stronchi tutti i possibili concorrenti o li metti tutti in campo per ottenere il meglio dalla squadra. Io ho sempre scelto questa seconda via».

Senta Fassino, quant’è triste finire di fare il Segretario con i fari della magistratura addosso?
«Penso che ci sia molta cattiveria e ingenerosità nel modo in cui vengono utilizzate delle telefonate del tutto innocue. Io posso forse accettare di discutere dell’opportunità di quelle telefonate, ma non costituiscono certo nè un reato nè alcuna forma di illecito. In ogni caso, ormai ci siamo quasi abituati. Già con Telekom Serbia tentarono di colpirci: Cicogna, Ranocchio, Mortadella... e poi finì come finì. Noi siamo persone perbene, la gente ci conosce e lo sa. E’ per questo che, Papa o chierico, sono tranquillo. E la notte dormo sereno, come tanti anni fa».

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 24, 2007, 11:14:04 pm »

«Si deve essere contro la precarietà non contro la flessibilità» «Pronto ad allearmi con Marchionne»

Il leader dei Ds, Piero Fassino: è un vero socialdemocratico.

Giudizio positivo sulle tesi dell'ad di Fiat su welfare e società   


MILANO — «Un articolo importante quello di Marchionne. E con un impianto largamente condivisibile. Lo definirei fortemente riformista: vuole cogliere tutte le opportunità che offre il mercato e la concorrenza ma non chiude gli occhi di fronte ai rischi sociali che questo comporta». Piero Fassino ha appena finito di leggere l'intervento dell'amministratore delegato della Fiat. E sembra quasi considerare Sergio Marchionne un alleato. Un alleato naturale contro quello schieramento trasversale «a destra e a sinistra» dice, che non vuole accettare «il cambiamento e la sfida di una società che non è più quella nella quale la nostra generazione è cresciuta».

Non si tratta tanto di modelli di capitalismo più o meno validi o più o meno in concorrenza tra di loro, «quanto di comprendere che c'è uno scenario tutto nuovo. Averne paura o semplicemente difendersi dal cambiamento, significa condannarsi a subirne solo le conseguenze senza governarne gli effetti e coglierne le opportunità». Se a parole chiunque sembra pronto ad accettare una situazione molto diversa rispetto a qualche anno fa, la novità sta nel fatto che il leader dei Ds individua chiaramente l'asse trasversale e conservatore che si è creato e che frena il potenziale di crescita dell'Italia. È certo a destra. «Quella destra — dice — che ha ingenerato nel Paese negli anni scorsi la paura ad esempio dell'Europa e dell'euro, di un mercato aperto, di confini che dovevano allentarsi, esaltandone invece sempre e solo tutti i rischi e i potenziali pericoli. Una destra, ancora, che vede nell'immigrazione una minaccia più che un'opportunità e una necessità. E che dire di un certo antiscientismo che cavalca la paura delle tecnologie, della ricerca?».

Ma anche a sinistra — aggiunge — «ci sono settori dove è manifesta l'ostilità, ad esempio, alla flessibilità del lavoro. Si fa fatica a capire che se è giusto essere contro la precarietà, è invece sbagliato rifiutare una flessibilità connaturata a un mercato non più racchiuso nei confini nazionali. Il tema non è "flessibilità sì o no" ma come gestirla. È qui che Marchionne coglie nel segno. Quando dice che va accettata la sfida dell'innovazione e del nuovo, senza abbandonare al suo destino chi subisce le conseguenze del cambiamento».

«Una forte impostazione riformista, direi socialdemocratica » come la definisce Fassino. Che non nega si scontri con gli atteggiamenti di «certa sinistra che vede, ad esempio, in un'autostrada, in una grande opera infrastrutturale, solo il peggioramento momentaneo della qualità della vita e non l'opportunità legata allo sviluppo e alla crescita. Pensi all'accordo sulle pensioni e sul lavoro sottoscritto a luglio tra governo e sindacati, è esattamente questo: riuscire a dare tutele sul fronte degli ammortizzatori sociali a quanti dovessero trovarsi in difficoltà a causa dell'innovazione». Anche se è da dentro la maggioranza che quell'accordo dovrebbe varare, che arrivano invece critiche che puntano a smontare l'intesa. Addirittura ben quattro ministri dell'attuale governo hanno proposto la classica politica dei due tempi. «Vedremo con il referendum sindacale di ottobre se passerà la linea della conservazione o se invece, come credo, milioni di lavoratori diranno sì a quell'accordo sconfessando coloro che si arroccano nella difesa del passato. Che sono una minoranza, questo non va mai dimenticato. È certo che coniugare modernità e diritti non è facile. Una linea di semplice resistenza ai cambiamenti come quella ad esempio della Fiom quali diritti veri riesce a tutelare?».

Parole che riecheggiano il paradosso evidenziato dal recente libro di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina «Il liberismo è di sinistra», dove la sfida è esattamente accettare la modernità perché permette di tutelare i più deboli. La reazione a sinistra però, ancora una volta, non è stata così favorevole. «La sinistra ha sempre difeso i deboli — dice il leader dei Ds — e chi è più debole se perde quel poco che ha è privo di tutto. Comprensibile una reazione istintiva di difesa che però rischia di essere velleitaria e perdente, non è arroccandosi che si ottengono maggiori certezze». Forse tutto sta nel riuscire a definire chi oggi è più debole. «Non avrei dubbi: sono i giovani. Se il 60% dei matrimoni avvengono tra i 25 e i 35 anni, se 4,5 milioni di persone nella stessa fascia vivono ancora con i genitori è evidente che esiste il problema».

Marchionne lega il ragionamento sul cambiamento ad alcuni principi precisi che sono il mercato, la concorrenza, ma anche il merito che può permettere a un giovane appunto di farsi valere. Ma la sola parola «merito» in Italia è ancora tabù. «Sì, perché si è sempre pensato che il merito fosse un trucco dei ricchi per fregare i poveri, non capendo che è esattamente il contrario. È grazie al merito, al talento che il povero può annullare le differenze sociali e avere le stesse opportunità». Eppure quando Pietro Ichino pone la questione del cambiamento nella Pubblica amministrazione per aprirla ai giovani, per introdurre elementi di giudizio sugli impiegati, arrivando anche al licenziamento dei «fannulloni», la reazione è di totale chiusura.
«Ichino pone problemi veri. Si può e si deve licenziare l'impiegato fannullone. Ma il nodo è appunto l'efficienza, anche lì accettare la sfida del nuovo, fare sì ad esempio che la mobilità nella Pubblica amministrazione non sia una parola ma che si possa attuare superando tutte le resistenze corporative che oggi la rendono impossibile, come dimostrano le barriere immediatamente alzate alle proposte innovative del ministro Nicolais».

Discorsi che però non hanno vita facile nel governo, nella maggioranza. Anzi. «Non è vero. Non credo di essere una mosca bianca. Questi concetti sono scritti nelle tesi del congresso Ds, Veltroni nel suo discorso proprio a Torino li ha ribaditi. Lo stesso Mussi con la sua azione contro i concorsi truccati e le lauree facili dimostra che il processo è iniziato. Basti pensare alle liberalizzazioni di Bersani». Già ma sempre Marchionne citando "Braveheart" dice che gli uomini non seguono gli uomini ma il coraggio... «Ha ragione. Se avesse tenuto la Fiat che c'era, se Marchionne non avesse innovato, non avesse avuto il coraggio di dire che la Fiat aveva un futuro mentre tutti dicevano che doveva essere solo venduta, oggi probabilmente il Paese sarebbe più povero».
Ma accettando la sfida dell'innovazione e del nuovo ha pagato anche dei prezzi, è sicuro che a sinistra si abbia lo stesso coraggio? «Stiamo facendo decollare il Partito democratico per cambiare la politica italiana, per questo obiettivo non abbiamo avuto paura di pagare prezzi anche dolorosi: se si vuole guidare il cambiamento si deve essere i primi a mettersi in gioco».

Daniele Manca
24 settembre 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 28, 2007, 10:50:49 pm »

Piero Fassino: «Smettiamo di farci del male e occupiamoci della gente»

Ninni Andriolo


Onorevole Fassino, crisi alle porte sulla Finanziaria?
«Le drammatizzazioni di queste ore sono eccessive. Siamo in una fase istruttoria di preparazione della legge di Bilancio ed è del tutto naturale che in una coalizione, composta da quattordici partiti in Parlamento e undici al governo, si sviluppi una discussione sulle priorità. La presentazione della Finanziaria è da sempre occasione di confronto fra le forze politiche che compongono la maggioranza di governo. È stato così anche in questi giorni, ed è stato così anche l’altra sera».

Mercoledì, però, la sinistra radicale ha chiesto che la manovra venga riscritta...
«Mercoledì sera i rappresentanti della cosiddetta sinistra radicale hanno sottolineato alcuni punti, che per loro sono prioritari. Il fatto che ci sia stata una discussione aperta ed esplicita, però, non significa che non sia possibile scrivere una Finanziaria in cui tutto il centrosinistra possa riconoscersi».

Fiducioso, quindi, nel lavoro di mediazione affidato a Prodi?
«Lo sforzo che è stato fatto dal Presidente Prodi e dal ministro Padoa Schioppa è quello di realizzare una sintesi da portare al Consiglio dei ministri. La riunione di oggi dell’esecutivo, però, rappresenterà un’ulteriore sede di confronto. Un luogo in cui potranno essere approfonditi quei capitoli sui quali, eventualmente, la sintesi proposta dal ministro non apparisse ancora soddisfacente. La Finanziaria, in ogni caso, non viene varata dal governo. La sede in cui, alla fine, si deve decidere è quella del Parlamento. Sarà lì che verranno definiti gli aggiustamenti e le integrazioni che si renderanno necessari».

Fino a dove potrà spingersi la mediazione di Prodi? Non si rischia di scoprire la coperta dalla parte del centro?
«Quello che non deve andare smarrito è che ci apprestiamo a presentare la nuova legge di bilancio in un quadro economico e di finanza pubblica molto diverso da quello di un anno fa. Nel 2006 presentammo una Finanziaria particolarmente onerosa e impegnativa, di oltre 30 miliardi di euro. E questo per far fronte alla pesante eredità lasciata da Tremonti. Un anno dopo stiamo per varare la Finanziaria in uno scenario del tutto diverso. Il deficit è sceso al 2,7%; il debito pubblico comincia a ridursi; la crescita economica si avvicina la 2%; c’è stato un forte recupero d’introito fiscale; le esportazioni sono in netta ripresa; il tasso di disoccupazione è il più basso degli ultimi trenta anni...»

Tutto questo non basta a creare armonia nella maggioranza. Come trovare la quadra tra Rifondazione e Dini?
«Le cifre dimostrano che questi 15 mesi di governo non sono passati invano. Governo e maggioranza, anzi, sono riusciti a superare l’emergenza di un anno fa, stabilizzare l’economia, rimettere in moto la ripresa. E tutto ciò è talmente vero che presentiamo una Finanziaria più leggera, molto diversa da quella dell’anno scorso. La manovra si pone tre obiettivi: continuare in una linea di risanamento dei conti pubblici; sostenere la ripresa economica; realizzare forme di redistribuzione sociale e di equità fiscale».

Il protocollo sul welfare ne sarà parte integrante?
«La Finanziaria includerà come sua parte integrante l’accordo sottoscritto da governo e sindacati su pensioni, lavoro e welfare. Ma prevederà, anche, una riduzione dell’Ici; agevolazioni fiscali sul fronte degli affitti; alleggerimenti del prelievo sulle imprese e misure a tutela delle fasce di reddito più basse. Una Finanziaria, quindi, che, da un lato, prosegue la nuova politica economica varata dal governo e, dall’altro, comincia a restituire agli italiani lo sforzo economico chiesto un anno fa».

La manovra non prevede nulla per ridurre i costi della politica?
«Al contrario. La Finanziaria dovrà porsi quell’obiettivo, realizzando i provvedimenti che mi sono sforzato di indicare: la riduzione del numero dei parlamentari e delle dimensioni dei consigli regionali, provinciali, comunali e delle giunte; il contenimento dei consigli d’amministrazione di enti pubblici entro le cinque unità; la revisione di tutto il sistema delle indennità per incarichi pubblici; la revisione del sistema dei rimborsi elettorali; l’eliminazione della garanzia a carico dello Stato per i mutui contratti dai partiti politici».

E i fondi per la sicurezza?
«In Italia c’è una percezione di insicurezza molto diffusa tra i cittadini. A questi vanno offerte rassicurazioni concrete. Attraverso misure di rafforzamento della presenza delle forze dell’ordine nel territorio; di repressione del crimine quando viene compiuto; di gestione ordinata del fenomeno dell’immigrazione; di lotta a tutte le forme di illegalità e marginalità, in modo da consentire a ciascuno di sentirsi più sicuro nella propria vita quotidiana. Servono, quindi, risorse finanziarie e umane. Nella Finanziaria, inoltre, è necessario dare una risposta adeguata al mondo dell’Università, della ricerca, dell’innovazione che non fu adeguatamente soddisfatto nella manovra dell’anno scorso. Ci sono le condizioni, oggi, per dotate le università delle risorse necessarie alla propria attività didattica e al rilancio di una efficace attività di ricerca».

Segretario, la sinistra radicale chiede la tassazione delle rendite finanziarie. Prodi non è d’accordo. Come se ne esce?
«La richiesta di innalzamento del prelievo fiscale sui titoli di Stato è del tutto inopportuna. Sappiamo benissimo che i mercati finanziari sono turbati dalle vicende delle società di mutuo americane. Sappiamo che in questi due anni il prelievo fiscale in Italia è stato sufficientemente alto, tanto che la maggioranza dei cittadini chiede un allentamento. Un provvedimento come quello che vorrebbe il Prc e gli altri partiti della sinistra radicale produrrebbe solo l’esito di spaventare i cittadini, di renderli più preoccupati sul valore dei propri redditi e sulla qualità della loro vita. Una misura di questo genere può essere discussa, perché sappiamo che l’aliquota unica sulle rendite finanziarie esiste in molti paesi europei. Ma certo questo è il momento meno opportuno per farlo».

Non pensa che il tema vero sia quello dei rapporti tra sinistra radicale e Pd? Il Prc parla di Partito democratico pigliatutto...
«Questa ansia, questa preoccupazione qualche volta angosciosa di Rifondazione o dei Comunisti italiani di dover manifestare a tutti i costi la loro esistenza, il loro ruolo, il loro peso, mi sembra francamente eccessiva. Perché in un governo di coalizione tutti sono indispensabili. E la sinistra radicale non può pretendere di dettare le sue posizioni alla maggioranza di centrosinistra. Deve tenere conto degli altri partiti. E viceversa, le altre forze politiche della maggioranza, a partire dall’Ulivo-Partito democratico, devono fare i conti con tutti gli alleati, Prc compresa. In un governo di coalizione non c’è uno che comanda e uno che obbedisce, c’è un sistema di alleanze in cui tutti hanno pari dignità. Ci si mette intorno a un tavolo, si ragiona, si discute e si costruiscono insieme le soluzioni. L’importante è partire dal Paese. Sapendo, però, che il problema non è quello di piantare bandiere e vessilli simbolici, quanto quello di fare una politica che corrisponda agli interessi della gente».

Intanto nella maggioranza c’è divisione tra riformisti e radicali...
«Non dividiamoci astrattamente tra riformisti e radicali. Questa distinzione molto spesso dice poco. Partiamo, al contrario, dalle domande e dalle esigenze della società italiana. È a iniziare da lì che dobbiamo insieme costruire le risposte. E io, anche guardando la riunione dell’altro ieri, sento il dovere di dire a me stesso come ai nostri alleati che ciascuno dei noi deve farsi carico delle aspettative che i cittadini hanno nei confronti del centrosinistra. E capire che ogni volta che il centrosinistra manifesta un dissidio, una divisione, un distinguo infondato e immotivato tutto questo trasferisce all’opinione pubblica un’immagine di fragilità che riduce il credito del governo e della maggioranza».

L’assenza di Mastella dal vertice dell’altro ieri non contribuisce a rasserenare il clima...
«Voglio esprimere solidarietà umana e politica a Clemente Mastella. Con Mastella, così come con qualsiasi altro esponente politico, si possono avere opinioni convergenti o dissensi. Ma non può mai venire meno il rispetto per l’uomo politico. Né l’amicizia nei confronti di un alleato che in questi anni è stato leale. Voglio dirlo anche a quei settori di sinistra che spesso hanno un’immagine di Mastella che non corrisponde alla realtà. Clemente è un uomo certamente estroverso, con un carattere qualche volta tempestoso. È uno che le cose non le cela e le dice anche con una certa rudezza. In tanti anni di vita politica, però, da Mastella un atto di slealtà non l’ho ricevuto mai. È un uomo che conduce la sua battaglia. Lo fa con le posizioni che sono proprie del suo movimento, copre uno spettro più centrista in un’alleanza di centrosinistra. E penso che meriti rispetto. Il linciaggio cui è stato sottoposto nei giorni scorsi, quindi, lo considero indecente».

I sondaggi darebbero il centrodestra al 56% e il centrosinistra al 42%. Percentuali spiegabili soltanto con l’effetto Grillo?
«Io non sottovaluto i sondaggi, ma quelli lontani dalle elezioni hanno un’attendibilità meno precisa. È vero, tuttavia, che in questa fase la politica è guardata da una parte dell’opinione pubblica con disagio, sospetto e diffidenza. Si scaricano sulla politica febbri e inquietudini che corrono sotto la pelle della società italiana. L’ansia che c’è in molte famiglie per il futuro dei figli, la preoccupazione per un reddito e un lavoro meno certi e sicuri di un tempo, la paura per la propria sicurezza individuale, il fastidio per un sistema fiscale percepito come troppo oneroso, l’indignazione verso i concorsi truccati all’università, gli appalti guidati, le assunzioni di favore che rappresentano la negazione del merito e della competenza».

E il centrosinistra quali risposte immediate è in grado di dare?
«Io penso che la politica debba avere l’intelligenza di non volgere lo sguardo altrove, di raccogliere questo stato di disagio e tradurlo in riforme. E anche di questo la Finanziaria dovrà farsi carico. Bisogna dare risposte. La diffidenza dei cittadini si riconquista se la buona politica scaccia la cattiva politica. Non è cavalcando l’antipolitica, ma dimostrando che della politica ci si può ancora fidare, che si rende un servizio al Paese»

Lei, nei giorni scorsi, è stato molto duro con Di Pietro...
«Penso che sia molto pericolosa la linea che sta perseguendo. Quella, cioè, di cavalcare l’antipolitica e di pensare di correre dietro a Grillo per ottenere un punto percentuale in più. Per ottenerlo Di Pietro rischia di produrre una crisi nella maggioranza di centrosinistra che può avere esiti catastrofici. E questo, invece, è il momento di trasmettere al Paese messaggi di coesione, di unità e di forza».

In realtà avviene l’esatto contrario guardando anche dalle parti della maggioranza...
«E bisogna invertire subito questa tendenza. Anche perché un’altra maggioranza non c’è, la Destra non è in grado di proporre un governo alternativo e io continuo a pensare che un esecutivo istituzionale sia molto difficile in una situazione complessa come quella italiana. L’unico governo che può guidare effettivamente il Paese, quindi, è quello di centrosinistra presieduto da Romano Prodi. Se guardiamo ai risultati, questi 15 mesi di governo sono stati molto positivi per l’Italia. Stiamo facendo tante cose di cui il Paese beneficia, ed è paradossale che siamo noi stessi, poi, a offrire agli italiani l’immagine di una coalizione debole, divisa, frammentata, che sembra sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Ma tutto questo dipende da noi, dobbiamo smettere di farci male con le nostre mani. Dobbiamo lavorare tutti anche con il senso di una responsabilità collettiva e anche con l’orgoglio di essere capaci di guidare il Paese e tirarlo fuori dalle secche in cui l’avevano precipitato Berlusconi e Tremonti»

Pubblicato il: 28.09.07
Modificato il: 28.09.07 alle ore 9.27   
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 30, 2007, 04:38:58 pm »

Piero Fassino: «L´integralismo non si batte con i regimi militari»

Umberto De Giovannangeli


«Quel che accade in Pakistan, a migliaia di chilometri da noi, in realtà ci riguarda, ed è l´ennesima riprova che non esistono più conflitti locali. Ogni conflitto locale in realtà immediatamente investe il mondo, la sua sicurezza, la sua stabilità». Piero Fassino analizza, in questa intervista a l´Unità, le gravissime conseguenze dell´omicidio di Benazir Bhutto. Parla del ruolo dell´Occidente e dell´Europa e spiega: «Non sono i regimi militari che possono sconfiggere l´integralismo, ma è solo la democrazia che può farlo. Musharraf ne è la riprova».

Qual è il segno politico dei drammatici eventi che stanno sconvolgendo il Pakistan a partire dall´attentato che è costato la vita a Benazir Bhutto?
«Tutti avvertiamo l´enormità di quello che è accaduto in Pakistan. Intanto perché è stata uccisa una personalità di grande rilievo come Benazir Bhutto, ma anche perché quell´assassinio segna un aggravamento ulteriore sia della situazione interna al Pakistan, ancora più stretto oggi tra integralismo islamico e autoritarismo militare, e sia per l´instabilità e l´insicurezza a livello globale che una tale crisi può produrre. Basta pensare a dove è collocato il Pakistan: in una delle aree-cerniera del mondo, ai confini con quell´Afghanistan dove da sei anni è in corso una lotta durissima contro il terrorismo e contro i Talebani; in un´area segnata dalla guerra irachena e da tutte le sue conseguenze; a pochi passi da quell´Iran che è al centro di una crisi politica internazionale dagli esiti imprevedibili, nel cuore del Grande Medio Oriente, in cui è tuttora aperta la ferita del conflitto israelo-palestinese; alle porte di India e Cina, che sono non solo più colossi dell´economia mondiale ma sempre di più protagonisti della politica internazionale; in quell´Asia scossa nei mesi scorsi dalla crisi birmana. Non solo, Il Pakistan è l´unico Paese islamico a possedere la bomba atomica, quando gli armamenti nucleari tornano ad essere un problema non risolto per la Comunità internazionale...».

Cosa ci dice tutto questo?
«Ci dice che quel che accade in Pakistan, a migliaia di chilometri da noi, in realtà ci riguarda, ed è l´ennesima riprova che non esistono più conflitti solo "locali". Ogni conflitto locale in realtà immediatamente investe il mondo, la sua sicurezza, la sua stabilità. Le immagini dell´assassinio della Bhutto e le drammatiche giornate di scontri di Karachi, di Islambad, sono entrate nelle case di tutti noi ogni giorno attraverso le televisioni, e tutti avvertiamo come quello che accade anche a migliaia e migliaia di clinometri da noi, in realtà investe la nostra vita, la nostra sicurezza, il nostro domani. E di qui deriva una prima conseguenza che va tratta da questa ennesima tragedia...».

Qual è questa conseguenza?
«La stabilità e la sicurezza del mondo, richiedono che ogni Paese faccia la propria parte assumendosi tutte le responsabilità necessarie. Così come sta alle nostre spalle l´idea che i conflitti possano essere confinati nella loro dimensione locale, sta alle nostre spalle anche l´idea che la sicurezza del mondo possa essere delegata a qualcuno. Un tempo, nell´epoca dell´equilibrio bipolare, si pensava che alla sicurezza e alla stabilità del mondo dovevano provvedere Usa e Urss, e quando scoppiava un conflitto in qualche parte del mondo, ci si affidava all´intervento delle due superpotenze per sedarlo e risolverlo. Oggi siamo in un mondo del tutto diverso, in cui non ci sono più super potenze a cui poter delegare sicurezza e stabilità, c´è un pianeta caratterizzato, nella globalizzazione, da un grado di interdipendenza assai più grande. Tanto più dopo la guerra in Iraq, che ha fortemente ridotto l´autorevolezza e la funzione di garante dell´ordine internazionale degli Stati Uniti, diventa essenziale come la Comunità internazionale si assume solidalmente il compito di garantire la sicurezza e la stabilità del pianeta. Non a caso la guerra in Iraq ha segnato la crisi dell´unilateralismo e ha riproposto la necessità del multilateralismo e di istituzioni internazionali legittimate e forti, che possano intervenire nei conflitti e offrire elementi di governo alla globalizzazione. E non è un caso che la Nato da alcuni anni operi fuori di quel Continente europeo per la cui sicurezza era sorta, e che la stessa Unione Europea senta il dovere, la responsabilità, di essere presente con la sua politica e con i suoi soldati in aree molto lontane dal Continente. È compito di ogni nazione partecipare alla produzione di quella sicurezza di cui il mondo ha bisogno. Non possiamo più vivere in un mondo in cui qualcuno produce sicurezza e molti altri la consumano».

Un discorso rivolto anche all´Italia?
«Certo che sì. Dalla vicenda del Pakistan, l´Italia, è direttamente investita, se solo pensiamo che abbiamo duemila soldati in Afghanistan, altrettanti in Libano, quattromila soldati nei Balcani, e che abbiamo mandato a suo tempo i nostri militari a Timor Est: queste nostre presenze militari per realizzare missioni di pace decise dalle Nazioni Unite, esprimono bene il più alto livello di responsabilità a cui l´Italia, come ogni altra nazione, oggi è chiamata».

Tornando allo scenario pachistano ma mantenendo questo sguardo globale, è possibile spiegare il caos in Pakistan, leggere ciò che è avvenuto, solo riferendosi, come da più parti è stato fatto, alla minaccia di Al Qaeda?
« Al Qaeda e il suo terrorismo sono certamente oggi l´insidia più grande per la sicurezza e la stabilità del mondo, e la lotta al terrorismo deve essere condotta senza incertezze. Tuttavia, proprio per vincere, serve anche uno sguardo più ampio, Proprio le vicende pachistane ci dicono che Al Qaeda alligna e il terrorismo può prendere piede laddove si diffonde l´integralismo. Perché l´integralismo, con il suo fanatismo, con la sua intolleranza, con la sua pretesa di imporre come uniche le proprie regole e il proprio credo, crea il terreno favorevole a che le manifestazioni più estreme del fanatismo integralista possano organizzarsi e agire come forze terroriste. E non a caso è stata colpita Benazir Bhutto...».

Perché proprio lei?
«Perché era l´espressione di quella borghesia islamica che rifiuta lo scontro di civiltà, che si è formata in Occidente e rigetta la rappresentazione dell´Occidente come demone. È quella borghesia musulmana che ritiene che Islam e modernità non siano incompatibili ma anzi debbano incontrarsi; è quella borghesia islamica che senza rinunciare alle ragioni della propria identità però la vive con laicità. Benazir Bhutto era tutto questo, era il simbolo di tutto questo. Lei, la sua famiglia, la sua cultura, il modo di concepire la politica. Dalle vicende pachistane di questi anni, di questi mesi, da questa tragedia, dobbiamo trarre ancora di più la convinzione che la lotta all´integralismo è una priorità che non si esaurisce soltanto nella lotta al terrorismo. Il terrorismo è la manifestazione più estrema, più acuta, più drammaticamente pericolosa di un integralismo che se si diffonde crea le condizioni favorevoli al che il terrorismo possa agire. C´è dunque anche la necessità di una specifica iniziativa contro l´integralismo in quanto tale, senza aspettare che diventi terrorismo. Quello della secolarizzazione è un tema non risolto nei Paesi islamici. C´è continuamente la tendenza di una parte di queste società a far coincidere religione, Stato e politica in una identificazione che crea una miscela il cui esito è intolleranza, fanatismo e violenza. È una tendenza che peraltro è contestata e combattuta da ampi settori democratici e laici di quelle società. E noi dobbiamo stare con loro. Ma vi è un´altra questione cruciale che emerge con forza guardando al Pakistan...».

Quale?
«La risposta a tutto questo non sono i regimi militari. Se la vicenda pachistana ci dice che il problema che si pone è lottare non solo contro il terrorismo e le sue organizzazioni, ma anche contro l´integralismo come fenomeno culturale, sociale e politico, la risposta non può esser data dall´autoritarismo, ma solo dalla democrazia. Musharraf ne è la riprova. Musharraf è l´espressione di un potere militare autoritario, che ha disposto del sostegno di tutta la Comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti e anche dell´Europa. Dopo di che questo non ha rappresentato una sconfitta dell´integralismo in Pakistan. Al contrario, ed è stata una delle ultime denunce di Benazir Bhutto, abbiamo assistito e assistiamo ancor oggi alle infiltrazioni di uomini legati all´integralismo anche in gangli nevralgici degli apparati dello Stato e della sicurezza pachistani. E anzi in questi anni, troppe volte abbiamo scoperto rapporti equivoci e occulti, tra regimi autoritari e militari con gruppi integralisti e anche terroristici. Insomma: torna in campo il nodo della democrazia, che oggi in Asia è il vero cuore di tanti processi politici».

Perché proprio in Asia?
«Sta accadendo in Asia oggi, un fenomeno analogo a quello accaduto alla fine degli anni Ottanta in America Latina. Il fallimento di regimi autoritari e militari ripropone la necessità della democrazia. E oggi in molti Paesi asiatici, questa sta diventando la frontiera nuova dell´evoluzione politica. Pensiamo alla Thailandia, dove il regime militare ha dovuto lasciare nuovamente il posto a elezioni; guardiamo all´Indonesia, che ha conosciuto un colpo di stato militare ma che ha poi ha dovuto via via cedere il passo al ritorno della democrazia. Un discorso che investe le Filippine, lì è stata la carta democratica a riscattare quel Paese dalla dittatura di Marcos; pensiamo anche alla Birmania, dove quella crisi ripropone il tema della democrazia come l ‘unica possibilità di uscire da una situazione drammatica. E non è un caso che questo tema si ponga proprio oggi, quando cioè l´Asia conosce il più grande sviluppo economico. Perché c´è una relazione tra l´espansione e lo sviluppo del mercato e della sua dialettica economica e sociale, e l´affermarsi di forme democratiche nella rappresentanza politica e istituzionale. E in un mondo sempre più globale e interdipendente, in cui tutto si tiene, la possibilità per l´Asia di essere non solo un gigante economico, ma di diventare, come sta diventando sempre di più, un soggetto politico primario, passa per l´adozione in tutti i suoi Paesi, dei principi fondamentali che regolano la vita politica internazionale: lo Stato di diritto, il rispetto dei diritti umani, il pluralismo e la democrazia. Ma c´è qualcosa di più che la vicenda pachistana, e non solo essa, ci sta indicando....».

Qual è questa indicazione?
«Questa nuova frontiera della democrazia come il terreno nuovo su cui si ridefinisce il destino di grandi nazioni in Asia, ha come protagoniste le donne. Cory Aquino e l´Arroyo nelle Filippine, Indira Gandhi ieri e Sonia Gandhi oggi in India, Aung San Suu Kyi in Birmania, Benazir Bhutto in Pakistan, Sherin Ebadi in Iran. Non è un caso, perché la lotta per la democrazia non può non coincidere con la battaglia per il riconoscimento pieno della soggettività delle donne, dei loro diritti, della loro uguaglianza, della loro parità. Una delle forme attraverso cui l´integralismo da un lato e l´autoritarismo dall´altro, si manifestano è quella di una forte oppressione sul piano dei costumi, di cui le prime vittime sono le donne, spesso costrette a una condizione di subalternità e di disconoscimento».

Anche di fronte a tutto questo c´è una nostra responsabilità?
«Certo. Di fronte ad una tragedia come quella del Pakistan, noi non solo dobbiamo esprimere indignazione per un attentato atroce, dolore e cordoglio per la morte di una leader politica che sentiamo come nostra. Occorre fare di più...».

Cosa fare?
«È compito di tutte le forze democratiche non lasciare solo il Pakistan, e soprattutto non lasciare solo le forze democratiche di quel Paese. Siamo alla vigilia di elezioni, di cui in questo momento è in dubbio perfino lo svolgimento; in ogni caso, quale che sia la decisione sulle elezioni, che si svolgano o no, il Pakistan può uscire dal caos di oggi soltanto se intraprende la strada democratica, quella che Benazir Bhutto voleva percorrere. Benazir è caduta sul campo, e la sua bandiera non può essere lasciata per terra, va presa nelle mani delle forze democratiche, certamente quelle pachistane ma non solo. Abbiamo il dovere, tutti, di sostenere in Pakistan come in tutti gli altri i Paesi asiatici, chi si batte pr la democrazia. Abbiamo il dovere di sostenere Aung San Su Ki e le forze democratiche in Birmania, così come abbiamo il dovere di sostenere in Iran coloro che si battono contro il fanatismo e l´integralismo religioso. Abbiamo il dovere di batterci in ogni Paese perché prevalga il rispetto dei diritti umani e della democrazia. Perché proprio la vicenda pachistana ci dice che questi sono valori universali, di cui c´è bisogno in ogni Paese, per garantire maggiori condizioni di sicurezza, di stabilità, di prosperità, ai cittadini di quella nazione e al mondo intero».


Pubblicato il: 30.12.07
Modificato il: 30.12.07 alle ore 10.24   
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« Risposta #22 inserito:: Febbraio 11, 2008, 05:09:27 pm »

Il leader dei socialisti vede Veltroni e poi dichiara: «Nessuno può chiederci di scioglierci»

Bonino e Boselli dicono "no" a Veltroni

L'ex ministro boccia la proposta di una sua candidatura nel Pd formulata da Fassino: «Non sono un'accattona»


ROMA - C'è fermento all'interno del Pd, all'indomani del discorso-candidatura di Walter Veltroni al Spello. Il leader del Partito democratico deve fare i conti con i paletti posti dai «piccoli».

Da un parte il leader dei Socialisti, Enrico Boselli. «Nessuno può chiederci un accordo che preveda lo scioglimento del nostro partito.

Noi non abbiamo nessuna intenzione di scioglierci né di essere annessi» ha detto Boselli al termine dell'incontro con il segretario del Pd, teso proprio a valutare se ci sono i presupposti di un accordo per le elezioni del 13 aprile. Presupposti che, a questo punto, non sembrano essere all'orizzonte: Boselli spiega infatti che la proposta avanzatagli dal Pd è di confluire nelle liste dei democratici senza che compaia il simbolo dei Socialisti.

Per contro, i Socialisti hanno proposto al Pd «liste collegate». «Ci hanno chiesto di entrare nelle loro liste - spiega Boselli - ma noi ci saremmo aspettati un accordo sul programma riformista. Invece l'alternativa è stata "o vi sciogliete o nulla"». E anche se Pd e Socialisti si sono dati 24 ore per una risposta definitiva, Boselli ha già annunciato che i Socialisti «andranno con loro simbolo. Faremo nostre liste e vedremo se ci saranno accordi con altre forze».

«NON SONO UN'ACCATTONA» - D'altra parte Veltroni deve prendere atto del netto "no" di Emma Bonino a una sua possibile candidatura nel Partito democratico: «Non se ne parla proprio, non sono un'accattona» ha detto l'ex ministro delle Politiche europee, bocciando così la proposta formulata da Piero Fassino in un'intervista a «La Stampa».

Bonino ha aggiunto: «Quelle di Fassino sono parole offensive e sconcertanti per le menzogne adottate nelle sue argomentazioni. Spero che questo crei delle reazioni anche sdegnate nel Pd».


11 febbraio 2008
da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Febbraio 29, 2008, 06:27:52 pm »

Fassino: le liste degli evasori siano rese pubbliche

Eduardo Di Blasi


«Nessuno di noi ha interesse di perdere per la strada nulla». Nel disegnare il futuro delle Feste dell’Unità e del quotidiano che state leggendo, il segretario dei Ds Piero Fassino lancia un messaggio chiaro. Intervistato da Antonio Padellaro, nello spazio pubblico del proprio blog (www.pierofassino.it), Fassino usa parole nette: «Le feste dell’Unità sono un pezzo della storia della sinistra e del movimento democratico italiano. Non rappresentano solo una raccolta di fondi», anche se, ribadisce, hanno il valore aggiunto di restituirci l’immagine di una politica «pulita», fatta con i soldi di chi volontariamente affida i propri contributi al partito attraverso un momento di incontro, pubblico, politico. «Sono il più grande appuntamento politico che la politica offra ai cittadini, uno strumento della partecipazione dei cittadini». E, anche per questo, ricorda come nell’imminenza della campagna elettorale il circuito delle feste si sia rimesso in moto. «Strumento fondamentale prima del Pci, del Pds, dei Ds, possono essere strumento come sono le feste della Margherita e di Europa». Così come usa parole nette sull’attualità del Liechtenstein: «Se il ministero delle Finanze ha le liste, occorre che l'amministrazione finanziaria accerti se i depositi sono tali in rispetto delle leggi o no. Per quei nominativi che sono in condizione di illegalità, credo che sia giusto che la lista sia pubblicata anche per evitare veline e veleni, quel gioco al massacro che è già cominciato».

Perché, per il segretario della Quercia, il processo di creazione del Pd solo «gradualmente fonde le esperienze, le storie, le culture». Perché, appunto, «nessuno di noi ha interesse di perdere per la strada nulla». È lo stesso discorso che Fassino propone sul nostro quotidiano: «È un grande giornale che non solo deve andare avanti ma essere più forte. C’è tutto lo spazio editoriale perché ciò avvenga». Ribadisce: «L’Unità, come le feste dell’Unità, è un pezzo della storia della politica italiana, della sinistra, della democrazia di questo Paese. Non è ma mai stato “solo” un giornale di partito, ma anche un grande giornale di informazione. Un giornale vero». Per tali ragioni, auspica: «Tutti dobbiamo lavorare perché continui ad esserlo». Promette, dal punto di vista politico, «tutto l’apprezzamento, il sostegno e l’impegno pieno di tutto il Pd a sostenere l’Unità nella sua vita». E da quello squisitamente economico sottolinea: «Siamo pronti a compiere tutti gli atti che possano favorire questa stabilità. Il Pd ha due quotidiani di riferimento. Credo sia importante che in un grande partito possano entrambi vivere». Anche sui principi, si direbbe, nessuno lascerà per strada nulla: «Ciascuno tiene ai suoi principi - spiega Fassino - I principi non sono negoziabili. Ma la politica non deve negoziare principi, deve trovare soluzioni. La 194 - esemplifica - è una buona legge per questo. Non mette in discussione valutazioni personali sull’interruzione di gravidanza. Non obbliga nessuno a cambiare il proprio pensiero su questo tema. Ma risolve un problema». Proprio per questo bacchetta la lista di Ferrara («modo sbagliato di enfatizzare un problema che andrebbe trattato con più equilibrio»). Nell’intervista Fassino paragona le primarie democratiche alla campagna del Pd: «Si diceva che Barak Obama non ce l’avrebbe fatta. Che quando si arrivava ai grandi Stati avrebbe perso. Invece ha vinto nei grandi Stati, e poi ha continuato a vincere. Questo vale anche per noi». Come Berlusconi fermo nei sondaggi perché «non ha un messaggio, un progetto per il Paese» e non ha nemmeno un’immagine appetibile anche perché «fatto unico in Europa, si presenta per la quinta volta per la guida del Paese».

Pubblicato il: 29.02.08
Modificato il: 29.02.08 alle ore 13.06   
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« Risposta #24 inserito:: Marzo 26, 2008, 04:32:39 pm »

2008-03-26 14:48

LIECHTENSTEIN: 390 INDAGATI, ATTI A 37 PROCURE


 ROMA - Sono stati iscritti nel registro degli indagati della procura di Roma i 390 nominativi della lista di titolari di conti correnti in Liechtenstein. Sulla vicenda indagheranno 37 procure, compresa quella della capitale.

Gli atti sulle posizioni delle procure di competenza sono partiti oggi. La maggior parte delle posizioni, oltre 100, riguardano Milano, seguono Roma (circa 60), Bolzano (40) e Firenze (20). Pochissimi casi di persone residenti nel sud Italia, tranne due che sono a Napoli. I reati ipotizzati nei confronti degli indagati sono la infedele e la omessa dichiarazione dei redditi, espressamente previsti negli articoli 4 e 5 della legge n.74 del 2000 in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. I fatti presi in esame risalgono ad un periodo che termina nel 2002 e sono a rischio prescrizione. Tali reati decadono, infatti, in sette anni e mezzo. Le somme depositate nel Liechtenstein variano da un minimo di 200 mila euro ad un massimo di 400 milioni di euro.

COINVOLTE ANCHE DUE FONDAZIONI
Tra i presunti evasori fiscali indicati nella lista di titolari di conti nel Liechetnstein ci sono anche due fondazioni. Gli altri, secondo quanto si è appreso, sono soggetti fisici e soltanto una ventina non sono stati ancora compiutamente identificati. Le indagini sono coordinate dal procuratore Giovanni Ferrara, dall'aggiunto Pierfilippo Laviani e dal sostituto Mario Dovinola. Gli accertamenti sono stati svolti dal nucleo di polizia tributaria di Roma comandato dal colonnello Vito Augelli. La procura di Roma, per gli indagati di competenza, ma altrettanto faranno anche le altre procure coinvolte, si attiverà ora con il ministero della Giustizia per chiedere una rogatoria internazionale alle autorità del Liechtenstein per avere riscontri sui depositi e l'autenticità della lista.

Gli accertamenti sono stati svolti dalla guardia di finanza vagliando le posizioni della lista, acquisita dall'Agenzia delle entrate. I controlli, una volta identificati i presunti evasori, sono confrontati con il patrimonio informativo di ciascuno di loro con le banche dati come ad esempio quella dell'Anagrafe tributaria. Non risultano, al momento, posizioni di persone che abbiano denunciato, come da norma di legge, il trasferimento di denaro all'estero tranne una o due persone, che però hanno fornito dati inesatti sulla quantità di denaro trasferito e sulla destinazione dello stesso. Oltre alla posizione penale, c'é un profilo tributario all'attenzione dell'Agenzia delle entrate. I titolari di conti esteri potranno dimostrare all'erario che hanno eventualmente usufruito del cosiddetto 'scudo fiscale' che consentiva di sanare eventuali violazioni di norme tributarie. Oltre all'indagine della procura di Roma e delle altre procure italiane coinvolte, è in corso un'inchiesta della procura nazionale antimafia e dello Scico della Guardia di Finanza. L'inchiesta dovrà accertare eventuali profili di riciclaggio di denaro sporco, la presenza di eventuali prestanome, dietro l'apertura dei conti in Liechtenstein.

20 SOTTO INCHIESTA IN FRANCIA
Il fisco si accinge a lanciare nei prossimi giorni un'inchiesta approfondita su 20 delle 200 persone o gruppi familiari che figuravano sulla lista di francesi con conti bancari nel Liechtenstein. Lo ha annunciato oggi il ministro del bilancio Eric Woerth. L'inchiesta, ha aggiunto, si concentrerà soprattutto sull'imposta sui redditi e la patrimoniale delle persone o gruppi familiari che potrebbero essersi resi colpevoli di evasione fiscale. Le autorità francesi avevano ricevuto alla fine del 2007 una lista che comprendeva i nomi di 200 persone riunite in 64 gruppi familiari. A fine gennaio Londra ha poi trasmesso, ha detto Woerth, nuovi elementi su 20 persone o gruppi familiari che sono ora quelli presi di mira dall'inchiesta. 

da ansa.it
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 13, 2008, 04:24:08 pm »

Piero Fassino: io dico che possiamo farcela

Ninni Andriolo


«Non dobbiamo fermarci, dobbiamo convincere gli indecisi, gli ultimi minuti sono importanti». Piero Fassino lancia il suo appello dopo una lunga («e bellissima») campagna elettorale.
«È stata una bellissima campagna elettorale e anche queste ultimissime ore sono decisive per raccoglierne i frutti». Piero Fassino batte da settimane il Nordovest e Nordest. Instancabile quest'anno come nel 2006. Decine di migliaia di chilometri macinati come sempre, «Oltre centocinquanta iniziative in 45 giorni». L'ultimo segretario della Quercia è stato protagonista della nascita del Partito democratico e con lui traiamo le somme della prima campagna elettorale del Pd. Che, premette, «è stata condotta in modo straordinario e generoso da Walter, che si è confermato la scelta giusta e ha trascinato tutto il partito a combattere una battaglia appassionata».

Onorevole Fassino, si respira ottimismo nel loft democratico di piazza Sant'Anastasia. Anche lei dal Piemonte pensa che un successo del Pd sia a portata di mano?
«Il nervosismo di Berlusconi parla da solo. Il Pd ha allargato oltremodo i propri consensi. Bisogna convincere gli indecisi che si aggirano ancora intorno al 20%. Anche in queste ultime ore non dobbiamo risparmiare le energie di cui disponiamo per raggiungere il bellissimo risultato che tutti auspichiamo».

Grazie ai brogli che ventila Berlusconi? Ci sarebbe anche Dell'Utri nell'inchiesta di Reggio Calabria sul voto degli italiani all'estero.
«Berlusconi vaneggia da giorni su fantomatici brogli della sinistra, facendo finta di non sapere che a Palermo sono stati arrestati due presidenti di seggio, accusati di aver favorito Forza Italia alle amministrative dell'anno scorso».

Berlusconi non ha risparmiato perfino attacchi al Capo dello Stato..
«Ha cercato di trascinare Napolitano nel gorgo della campagna elettorale. Una cosa francamente sconcertante che dimostra che dimostra uno scarsissimo senso dello Stato. Cercare di utilizzare la presidenza della Repubblica come merce di scambio è umiliante per le istituzioni e rappresenta una incredibile mancanza di rispetto nei confronti di una personalità come Napolitano, che è stato eletto da un Parlamento sovrano, e che assolve ad una funzione di garanzia essenziale per la vita del Paese, e gode di prestigio, stima e fiducia straordinari».

Attacca il Colle perché vorrebbe ipotecare il dopo elezioni in caso di pareggio?
«Non ha altra preoccupazione se non quella di vincere le elezioni in qualsiasi modo, senza avere un progetto per l'Italia. In queste ultime settimane la destra ha fornito molti esempi di come considera le istituzioni della Repubblica e la democrazia. Bossi che si rivolge agli avversari chiamandoli "canaglie", Dell'Utri che ripropone un revisionismo storico che riscriva la Resistenza…».

È lo stesso Dell'Utri che riabilita Mangano…
«Sì, ha qualificato come un eroe una persona giudicata dai tribunali della Repubblica perché collusa con la mafia. E, alla luce delle notizie che giungono da Reggio Calabria, i destinatari di quelle incredibili parole appaiono adesso più chiari. Da ultimo, la stessa proposta di Berlusconi di scambiare la presidenza della Repubblica con quella del Senato è la riprova di quanto il berlusconismo appartenga al passato. La destra, in realtà, non è più in grado di interpretare le domande, le aspettative, le ansie di un Paese che chiede altro alla politica».

Alcuni descrivono questa campagna elettorale più noiosa delle altre. Colpa dei mancati confronti tra Veltroni e Berlusconi?
«Non è stato certo Walter a sottrarsi. Berlusconi, in realtà, temeva il confronto perché Veltroni ha da spendere argomenti più seri e credibili, rispetto ai suoi soliti vecchi slogan del passato. Al di là di questo, però, la nostra campagna elettorale è stata tutt'altro che noiosa, perché è stata fatta tra la gente, tastando il polso al Paese, parlando un linguaggio chiaro, comprensibile a tutti».

Che impressione ne ha ricavato? Come sta l'Italia che lei ha visitato?
«Ho girato i mercati, le piazze, le strade di città grandi e piccole di questo meraviglioso Paese. Ho incontrato pensionati che non ce la fanno a tirare avanti con cinquecento euro al mese, donne i cui mariti hanno stipendi che non superano i mille-millecento euro, mamme che parlano con angoscia del futuro dei loro figli, giovani che fanno i conti con una precarietà lavorativa che non ha precedenti. Ho incontrato un'Italia preoccupata che, però, non si dà per vinta. Pronta a ripartire, a ritrovare fiducia, a darsi una missione. Il Partito democratico è nato proprio per questo».

Ed è stato percepito il messaggio del Pd?
«Questa campagna elettorale ha avuto un unico protagonista: il Partito democratico. Il Pd si è sforzato ogni giorno di rispondere alle domande dei cittadini. L'agenda di queste settimane è stata scandita dalle nostre proposte: da quella per rivalutare le pensioni a quella per contrastare la precarietà del lavoro, da quella per la sicurezza dei cittadini a quella per dare efficienza alla Pubblica amministrazione, da quelle che rispondono alle domande del Nord e del Mezzogiorno a quelle che servono a rimettere in moto uno sviluppo che garantisca equità e crescita. I salari, innanzitutto. Perché bisogna garantire alle famiglie maggiori certezze di reddito e di vita quotidiana. Ecco di tutto questo abbiamo discusso con gli elettori, mentre la destra cercava ossessivamente la rissa».

C'è chi ha storto il muso, però, esortando Veltroni a replicare all'avversario colpo su colpo.
«Il Pd ha saputo fare emergere le contraddizioni e i giochi di prestigio della destra conducendo una campagna elettorale pacata, legata alla proposte concrete per il Paese, cercando di non dare sponda alla spinta continua allo scontro venuta dal fronte opposto. Gli italiani sono stanchi di liti e di polemiche. Ed è proprio perché abbiamo condotto la campagna elettorale a modo nostro che abbiamo potuto raccogliere lungo la strada un numero crescente di consensi».

È possibile fare un raffronto tra le campagne elettorali dei Ds e quella del neonato Pd?
«Questa campagna elettorale ha dimostrato quanto sia stato giusto fondare il Partito democratico, che viene percepito come una novità capace di restituire speranza, di creare fiducia, di rimettere in moto energie. E che vede protagonista il popolo delle primarie sceso in campo il 14 ottobre. Abbiamo visto accanto a noi moltissimi giovani, a dimostrazione che il Pd ha dato a tanti di loro la possibilità di intercettare la politica. Abbiamo incontrato tantissime donne, incoraggiate anche dall'impegno di portare in Parlamento il 35% di candidature femminili. Ho incontrato non solo militanti ed elettori dei Ds e della Margherita, ma anche tanta nuova gente. E ho riscontrato interesse in ambienti che tradizionalmente sono stati attratti dal centrodestra. Un imprenditore di Treviso mi ha detto una cosa significativa: "Fino ad oggi noi avevamo una sola possibilità", si riferiva evidentemente al voto per Berlusconi, "Ora con il Pd di possibilità ne abbiamo due"».

Sarebbe stato diverso senza la scelta di andare "liberi al voto"?
«Sì, sarebbe stato diverso. Basti pensare che il Parlamento che ci lasciamo alle spalle era costituito da 39 partiti, mentre quello che eleggeremo sarà costituito da 5 o, al massimo, da 6 partiti. Questo non è avvenuto per caso, ma perché noi - mettendo in campo un grande partito a vocazione maggioritaria - abbiamo spinto Berlusconi e Fini a unirsi, così come si è unita anche la Sinistra Arcobaleno. E abbiamo innescato una riforma politica che consegna agli italiani un sistema parlamentare capace di rappresentarli meglio, libero dal cancro della frammentazione. E questa novità ha permesso di produrne un'altra…».

Quale?
«Questa volta non si presentano davanti agli elettori due coalizioni larghe, costituite per prendere un voto in più piuttosto che per avere la forza che serve per governare il Paese. Questa volta ciascun partito chiede i voti presentandosi davanti agli elettori con il proprio programma. E chi voterà per il Pd sa che, se questo partito vincerà le elezioni, Veltroni sarà il Presidente del Consiglio, il governo sarà formato da ministri indicati dal Partito democratico e, soprattutto, il programma sarà quello votato dagli italiani».

E un governo Veltroni è già dietro l'angolo, secondo lei?
«Dobbiamo continuare anche in queste ultimissime ore lo sforzo straordinario profuso in campagna elettorale. Ci sono 43 milioni di elettori. Possiamo suddividerli in due enormi cerchi. Nel primo possiamo mettere tutti coloro che si occupano di politica, che partecipano alle manifestazioni, che guardano la Tv e leggono i giornali. In questa parte dell'elettorato già oggi noi siamo maggioranza, perché abbiamo conquistato un credito maggiore dei nostri avversari. Nel secondo cerchio ci sono coloro che hanno un minore coinvolgimento diretto con la politica ed è lì che uno slogan facile o una suggestione del centrodestra possono fare breccia. Noi dobbiamo vincere anche in questo elettorato. E per farlo abbiamo bisogno di mettere in campo tutta la mobilitazione della nostro popolo».

Il Pd come i partiti di massa di una volta che facevano appello ai militanti perché si spendessero a urne aperte per racimolare consensi?
«Abbiamo deciso di fare un partito moderno che vive della partecipazione dei cittadini. Le campagne elettorali si vincono se tanta gente parla con altra gente ed è per questo che, anche in queste ultime ore, fino alla chiusura dei seggi, dobbiamo mettere in campo una grande mobilitazione. Non dimentichiamo che il Partito democratico noi lo abbiamo fondato con tre milioni e mezzo di cittadini in una domenica di ottobre. E quella gente, poi, l'abbiamo chiamata nuovamente in tutti i comuni italiani per fondare 8000 circoli. La marcia in più che abbiamo rispetto all'avversario è questo popolo generoso che si spende con entusiasmo e che si mobiliterà anche in queste ore, per questa volata finale».

L'Unità partecipa alla "volata finale" promovendo la diffusione straordinaria di oggi. Naturalmente acquisterà anche lei una copia in più da regalare agli indecisi...
«Ne comprerò molte di più. L'Unità si è rivelato uno strumento prezioso che, come sempre è avvenuto, ha accompagnato la nostra campagna elettorale fornendo ai suoi lettori e alla nostra gente informazioni, argomenti, spunti. L'Unità è una grande voce della democrazia italiana, è parte della storia della sinistra e della Repubblica. Ogni volta che l'Italia si è trovata di fronte a passaggi politici decisivi, l'Unità è stata in campo da protagonista. E io confido che anche grazie allo sforzo che l'Unità - chi la dirige, chi la scrive, chi la diffonde e chi la legge - compie in queste ore, il 14 aprile potremo avere quel successo nel quale speriamo con così tanta determinazione».

Pubblicato il: 13.04.08
Modificato il: 13.04.08 alle ore 11.56   
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 18, 2008, 11:06:40 pm »

Fassino: salari, Rai, sicurezza, niente sconti al governo

Ninni Andriolo


Sì al dialogo con Berlusconi per cambiare le regole istituzionali, ma nessun annacquamento dell’opposizione. Così Piero Fassino giudica il confronto che Veltroni ha aperto nei confronti del governo del centrodestra. Quanto al Pd spiega che «non possiamo rassegnarci a essere solo una larga minoranza».

Onorevole Fassino, soddisfatto del confronto Berlusconi-Veltroni o si attendeva «qualcosa in più»?

«Si è trattato di un primo incontro per verificare se esistono davvero le condizioni per realizzare le riforme istituzionali di cui ha bisogno il Paese. Anche in Parlamento, tra l'altro, abbiamo sottolineato che a toni più civili, che abbiamo apprezzato, devono corrispondere atti concreti, sostanziali e coerenti. L'incontro ha avuto sicuramente una utilità. Ma, come era prevedibile, non poteva essere risolutivo. Noi auspichiamo che il confronto continui e porti a scelte condivise sulle questioni istituzionali. Partendo dalla bozza elaborata dalla Commissione presieduta da Violante, che indicava priorità intorno alle quali si era registrata un'ampia convergenza».

Berlusconi glissa sulla riforma della Rai che per il Pd costituisce una sorta di banco di prova…

«Nella concezione di una moderna democrazia rientrano, naturalmente, anche le modalità con le quali si garantisce un'informazione libera, pluralista e non invasa dalla politica. Ed è questa la ragione per la quale continuiamo a chiedere che il rinnovo del Cda della Rai avvenga riformando i criteri di nomina e recuperando una maggiore autonomia dai partiti».

Cosa risponde a chi ritiene che l'obiettivo vero di Berlusconi sia quello di depotenziare l'opposizione?

«Il confronto ha riguardato, e non poteva che essere così, le materie di natura istituzionale e costituzionale. Per ciò che riguarda i temi propri dell'azione di governo, infatti, è chiarissima la distinzione dei ruoli. Berlusconi e la sua coalizione hanno vinto le elezioni e quindi hanno il dovere e il diritto di governare. Da parte nostra, non verremo meno ad una funzione di opposizione democratica. Non miope, non ispirata da pregiudizio, ma determinata e ferma nel battersi per risolvere i problemi del Paese».

Il "dialogo", tuttavia, provoca disorientamento nel popolo che si è avvicinato al Pd…

«La convergenza sulle questioni istituzionali, non metterà la sordina alla nostra iniziativa politica che sarà fermissima. Ci siamo dotati del governo ombra perché la nostra opposizione sia ancora più incisiva ed efficace. I banchi di prova che ci consentiranno di verificare le reali intenzioni della maggioranza non mancheranno, anche nel brevissimo periodo. La soluzione della vicenda Alitalia, dopo che la destra ha sbarrato strumentalmente la strada Air France, è uno di questi».

Veltroni ha chiesto misure efficaci per affrontare l'emergenza sociale, prioritarie anche rispetto alla riduzione dell’Ici…

«La politica dei redditi è un altro banco di prova per misurare la volontà del governo di onorare le promesse. Bisogna offrire maggiore sostegno ai redditi, alle pensioni basse, a quell'80% di lavoratori dipendenti che vive con stipendi che non superano i 1200 euro. È urgente un intervento efficace per elevare il potere d'acquisto degli italiani. A breve, tra l'altro, il governo dovrà portare in Parlamento il Dpef che conterrà le linee guide della Finanziaria. Questa dovrà garantire crescita, senza compromettere la politica di risanamento imboccata dal governo Prodi».

Sulla sicurezza è vero che la propaganda elettorale del Pdl e della Lega sta lasciando posto a un maggiore realismo?

«Si dimostra come fossero velleitarie molte delle dichiarazioni fatte su questo tema, che evocavano demagogicamente misure difficilmente praticabili. Valga per tutte la proposta di Frattini di modificare il trattato di Schengen e che ha provocato l'immediata risposta negativa di Bruxelles. La stessa ipotesi di definire un apposito reato per l'ingresso illegale è stata riposta nel cassetto. Non avrebbe risolto il problema e, in più, avrebbe fatto scoppiare le carceri in pochi mesi, obbligando proprio questo governo magari a un nuovo indulto. Si conferma, quindi, che c'è una differenza significativa tra vincere le elezioni e governare il Paese».

La maggioranza, in ogni caso, ha i numeri per andare avanti da sola, sulle riforme istituzionali come su altro. Lo scoramento che si avverte nel popolo dei gazebo non è figlio anche dell'illusione di una vittoria elettorale «a portata di mano»?

«Noi dobbiamo intrecciare la nostra iniziativa politica a una riflessione ampia e profonda sul voto. Nel coordinamento nazionale del Pd c'è stata già una buona discussione, nella consapevolezza che dobbiamo fare i conti con una sconfitta elettorale dura. Abbiamo perso alle politiche e a Roma. E in Friuli, con un candidato che non poteva certo essere considerato parte della casta. E abbiamo perso a Brescia, nella stessa provincia di Foggia, in insediamenti storici come San Severo o Cerignola».

C’è chi rimprovera alla leadership del Pd un ritardo nell'avvio della riflessione sul voto…

«Al coordinamento abbiamo avuto una discussione vera e fortemente unitaria. A dimostrazione di quanto siano lontane dal vero "rese dei conti" o scontri tra questo o quel dirigente politico. Tutto questo non attiene né al nostro stile, né al nostro modo di concepire la politica. Dobbiamo estendere la riflessione sul voto e dobbiamo mettere il Pd nelle condizioni di espandere il proprio consenso. Questa analisi deve partire da un dato: da 15 anni Berlusconi sta sulla scena e raccoglie, intorno a lui, un centrodestra che è diventato punto di riferimento di un blocco di forze ampio. E questo mentre, da 15 anni, il centrosinistra non riesce ad avere - anche quando vince le elezioni - un consenso piu' largo di quello del centrodestra».

Il Pd era nato anche per sfondare al centro…

«La costante con cui fare i conti è che la principale forza riformista, che si caratterizza come progressista e democratica, fino a oggi, sul piano nazionale, non è riuscita a valicare il muro del 33% ottenuto dal Pd. Tra il 2004 e il 2006 l'Ulivo raccolse tra il 31 e il 34%. La somma dei voti di Dl e Ds nel 2001 si attestò tra il 31 e il 32%. Questo dato strutturale può essere visto perfino andando indietro nel tempo. Il 33% delle ultime elezioni rappresenta la stessa percentuale che ottenne il Pci di Berlinguer nel momento di massima apertura riformista e di maggiore cultura di governo, con la moderazione sindacale della politica dell'Eur, con il compromesso storico, con la lotta al terrorismo e con il riconoscimento del ruolo della Nato. In Italia si ripete quello che avviene in Europa, dove gran parte dei partiti socialisti e socialdemocratici oggi non supera la rappresentanza di un terzo del loro paese».

Questo assolve solo in parte, visto che le elezioni a volte si vincono anche in Italia…

«Certo, ma quel muro non è invalicabile e noi non possiamo rassegnarci ad essere soltanto una larga minoranza. Tra il 2001 e il 2006, ad esempio, in tutte le elezioni regionali e locali, il centrosinistra è riuscito a rastrellare un consenso maggioritario in tanta parte del Paese e l'Ulivo a superare spesso il muro di un terzo. D'altra parte anche il 14 aprile noi abbiamo avuto città come Torino o come Roma dove il Pd ha superato il 40%, oltre ad avere raggiunto percentuali molto alte nelle tradizionali regioni rosse. E se si guarda al voto delle città con oltre 100mila abitanti si vede che siamo il partito di una maggioranza relativa molto ampia. Il problema è di riuscire a mettersi in sintonia con il Paese».

Appunto, le risse nel centrosinistra non hanno aiutato…

«C’era questo, sicuramente. E l'azione del governo Prodi è stata fortemente logorata e messa in crisi da una coalizione spesso divisa e rissosa. La lista Arcobaleno è stata sconfitta da questo e non solo dal voto utile. Ma il dato elettorale ci mette di fronte a un cumulo di disagi: ai pensionati che vivono con 500 euro, ai lavoratori dipendenti che non arrivano alla fine del mese, alla preoccupazione di tante famiglie per il lavoro precario e insicuro dei figli, agli artigiani o ai commercianti che si sentono vessati dal fisco, alle nuove paure ingenerate dall'immigrazione. Queste inquietudini di segno diverso hanno trovato un punto di unificazione in un sentimento di ostilità, di fastidio, di insofferenza per tutto ciò che è Stato, politica, istituzioni».

E allora?

«Allora dobbiamo guardare con chiarezza i terreni sui quali è maturata l'avversione nei confronti dello Stato e della politica, e la diffidenza verso di noi. Io ne indico alcuni. Primo: dobbiamo fare i conti con una diversa percezione dell'Europa che si è fatta strada in vasti settori dell'opinione pubblica. Noi abbiamo alle spalle passaggi sottovalutati nella loro portata e che i referendum olandese e francese sulla Costituzione europea avevano già evidenziato».

Le elezioni il Pd le ha perse anche perché chi si attendeva dal centrosinistra condizioni di vita migliori è rimasto deluso…

«Noi ci siamo posti l'obiettivo giusto di ridurre il debito pubblico e il deficit dello Stato e di risanare i conti. Guai se non lo avessimo fatto. Ma non è sufficiente governare bene le variabili "macro" dell'economia - debito, pil, avanzo primario, ecc - se non ti chiedi anche cosa succede nella dimensione "micro" della vita quotidiana».

Sbagliata, quindi, la politica dei due tempi, prima i sacrifici dopo l’equità e lo sviluppo?

«Bisogna mantenere un rapporto tra risanamento e politiche sociali e di sviluppo. Noi, però, abbiamo pagato anche le inefficienze di pezzi fondamentali dello Stato, dei suoi apparati e delle sue imprese. La crisi dell'Alitalia, che si trascina da tantissimi anni anche per responsabilità del centrodestra, è apparsa come la crisi di una politica incapace di affrontare i problemi. La stessa immondizia di Napoli è diventata l’emblema dell’incapacità dei pubblici poteri».

Anche la sicurezza è un nervo scoperto del centrosinistra, non crede?

«La società è pervasa da una sensibilità molto più elevata di un tempo sul tema della sicurezza. Il problema dell'immigrazione si pone con una pregnanza superiore al passato. Attenzione, qui c'è un'emergenza nuova che non riguarda solo i clandestini. Ma gli stessi immigrati regolari che cominciano ad essere percepiti, dallo strato più modesto della popolazione, come dei competitori: per il lavoro, per l'assegnazione di una casa, per un posto nell'asilo nido, ecc. Se non siamo in grado di affrontare il problema con una strategia forte rischiamo una guerra tra poveri che può devastare una società... ».

Il Pd quali rotte dovrà seguire per recuperare?

«Nonostante la sconfitta elettorale il Partito democratico è una realtà che rappresenta un terzo del Paese, ha contribuito a riformare il sistema politico e può diventare il punto di riferimento di una parte larga della società italiana, che vuole un’Italia più dinamica, più aperta, più giusta. Per farlo il Pd deve muoversi su tre fronti. Dotandosi di una cultura politica e di un programma autenticamente riformista che lo mettano in sintonia con il Paese e le sue tante inquietudini. Dandosi radici profonde e diffuse nella società, con una organizzazione capace di rappresentare i tanti territori e i tanti interessi che caratterizzano la società. Consolidando la semplificazione del sistema politico bipolare con alleanze che rendano il sistema politico italiano analogo a quello degli altri paesi europei, dove centrosinistra e centrodestra sono guidati da due principali forze politiche, a vocazione maggioritaria, che si candidano a governare avendo anche forze minori come alleate. Di tutto questo dobbiamo discutere. Negli 8000 circoli del Pd e aprendo un grande confronto con la società italiana».

Pubblicato il: 18.05.08
Modificato il: 18.05.08 alle ore 15.00   
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« Risposta #27 inserito:: Agosto 29, 2008, 06:55:22 pm »

Birmania, un anno dopo

Piero Fassino


Un anno fa, di questi giorni, entravano nelle nostre case le immagini di migliaia di monaci buddisti, scalzi e a mani nude, nelle loro tuniche color zafferano, in corteo nelle strade delle città birmane. Protestavano contro un violento rincaro dei prezzi che rendeva ancora più penose le condizioni di vita quotidiana di una popolazione già frustrata dalla povertà e dall’oppressione della dittatura. La protesta dilagò per settimane in tutto il paese. Fino a che la giunta militare - inizialmente sorpresa e incerta di fronte a quel moto di popolo - lo soffocò con la violenza.

L’indignazione fu enorme. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu condannò la repressione. Il Segretario generale Ban Ki Moon nominò un Rappresentante speciale, Ibrahim Gambari, con il compito di promuovere e favorire una stagione di riconciliazione nazionale e di transizione democratica. Stati Uniti, Unione Europea e altre nazioni occidentali adottarono sanzioni. L’Asean - l’associazione regionale dei Paesi del Sud-est asiatico - e i principali Paesi della regione, pur non adottando sanzioni, chiesero la fine della repressione e l'avvio di un dialogo tra Giunta e opposizione democratica guidata da Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e leader di quella Lega Nazionale per la Democrazia (Ndl) che nel '90 aveva ottenuto una schiacciante vittoria elettorale, subito soffocata dai militari.

Nelle settimane immediatamente successive alla repressione la Giunta - consapevole e preoccupata dell’assoluto isolamento internazionale in cui era precipitata - fece qualche timida apertura: Gambari potè visitare il Paese, ottenendo la liberazione di gran parte degli arrestati, incontrando Aung San Suu Kyi e promuovendo l’avvio di colloqui tra un rappresentante della Giunta e la stessa Aung San Suu Kyi, che ebbe anche la possibilità di riunirsi - per la prima volta dopo anni di isolamento - con i pochi dirigenti della Nld ancora in libertà. Sembrò, e questa era la speranza del mondo intero, che si aprisse quella fase di dialogo che, coinvolgendo tutti gli attori del Paese - Giunta militare, opposizione democratica, minoranze etniche, autorità religiose - consentisse alla Birmania di realizzare una transizione democratica e di farlo nella stabilità, aspetto quest’ultimo a cui sono particolarmente attenti i Paesi asiatici, in primo luogo Cina, India e Thailandia che in Myanmar hanno rilevanti interessi economici. Le cose in realtà non sono andate così e il decorrere del tempo ha via via smorzato e frustrato le speranze di una rapida soluzione della crisi.

Mentre, infatti, i colloqui tra Aung San Suu Kyi e la Giunta - cinque tra novembre 2007 e febbraio 2008 - non andavano al di là di una vuota formalità e le proposte avanzate da Gambari venivano rifiutate, la Giunta ha accelerato unilateralmente la sua road map in sette tappe per lo stabilimento di una “democrazia disciplinata”.

Ha fatto approvare una Costituzione, redatta soltanto da esponenti del potere; l’ha sottoposta ad un referendum svoltosi senza effettive garanzie democratiche; ha annunciato elezioni per il 2010 insediando una Commissione preparatoria in cui non siede alcun esponente dell’opposizione. Contemporaneamente ha prolungato gli arresti domiciliari a cui è sottoposta da anni Aung San Suu Kyi. E, infine, ha eluso qualsiasi risposta alle proposte nuovamente avanzate da Gambari nella sua visita di qualche giorno fa. Al punto che Aung San Suu Kyi ha reso pubblica la sua profonda esasperazione, non incontrando Gambari e rifiutando gli approvvigionamenti alimentari inoltrati nella sua residenza coatta.

Di fronte a questo scenario è doveroso chiedersi quali margini ci siano per l’azione di mediazione politica messa in campo dall’Onu e come si possa sbloccare l’impasse. Una indicazione ci viene da quel che è accaduto a maggio, quando la Birmania è stata colpita dal ciclone Nargis, la cui violenza ha causato decine di migliaia di vittime, centinaia di migliaia di sfollati, la devastazione delle aree più fertili di un'agricoltura peraltro povera e spesso di pura sussistenza. Anche in quell’occasione all’immediata e vasta solidarietà internazionale, le autorità di Yangoon risposero con un atteggiamento di chiusura, impedendo a buona parte degli aiuti di entrare tempestivamente nel paese e non consentendo a equipes mediche e di assistenza di soccorrere la popolazione. Di fronte ad un atteggiamento così gravido di conseguenze drammatiche, il Segretario Generale dell’Onu - con decisione inusuale e coraggiosa - decise di recarsi in prima persona a Yangoon e di mettere quei generali di fronte alle loro responsabilità. Un atto forte che ottenne importanti risultati: l’apertura del Paese ai soccorsi e al personale internazionali; una maggiore libertà di azione per Agenzie Onu e Ong; l’accettazione da parte della Giunta di un ruolo di Coordinamento degli aiuti da parte dell’Asean; la convocazione a Yangoon di una Conferenza dei donatori.

Quell’esperienza può essere utile anche oggi. La tessitura paziente messa in opera da Gambari e la intensa azione diplomatica dell’Unione Europea e degli altri soggetti internazionali possono non essere vane se a questo punto - con un salto di qualità - è il Segretario Generale dell’Onu, direttamente e in prima persona, a entrare in campo, recandosi in Myanmar per ottenere l'apertura effettiva di quel dialogo che è ineludibile se si vuole dare una soluzione stabile e condivisa alla crisi birmana. Un atto forte che, per avere possibilità di successo, richiede il sostegno pieno di tutta la comunità internazionale e in particolare dei paesi asiatici, a partire dai più influenti - Cina, India, Giappone, Indonesia, Vietnam, Thailandia - che devono rendere chiara alle autorità di Myanmar la necessità di una svolta. E l'ASEAN - forte del ruolo assunto nell’assistenza umanitaria - può essere altrettanto preziosa nell’accompagnare e assistere una fase di dialogo. E l’Unione Europea è pronta a sostenerla. La ripresa di una iniziativa per la democrazia in Birmania richiede, al tempo stesso, che non si allenti l’attenzione delle opinioni pubbliche del mondo. E questo chiama la responsabilità del sistema mediatico: così come un anno fa furono le immagini dei monaci in corteo a suscitare la solidarietà internazionale, anche oggi c’è bisogno di una informazione attenta e tempestiva, capace di accompagnare ogni giorno la battaglia per i diritti umani e per la democrazia in Birmania.

Inviato speciale dell’Unione Europea per Myanmar/Birmania

Pubblicato il: 29.08.08
Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.34   
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 12, 2008, 04:45:26 pm »

Eterna vittima. Ora a coinvolgerlo è la volta dell 'accusatore di Del Turco

Salvate «Fassino-Paperino» dai faccendieri

L'ex segretario ds sempre tirato in ballo e poi «scagionato»


Fassino traffichino? Fassino birichino? O magari Fassino come Paolino Paperino? Che è papero iracondo eppur gioviale, malmostoso, spesso vittima.

Piero Fassino viene sempre tirato dentro altrui beghe; che vengano da zio Paperone- D'Alema, da Gastone Paperone- Veltroni, da Paperoga-i giornalisti che lo maltrattano come non riuscirebbero a fare con altri leader. Più altri. Da dieci anni e rotti, molte storie strane che coinvolgono il Pds-Ds-Pd e il centrosinistra lo vedono coinvolto.

Lui, bisogna capirlo, si arrabbia. Si infuriò per Telekom Serbia. C'era un faccendiere di nome Igor Marini, ex attore e stuntman. Accusò Fassino insieme a Romano Prodi e Lamberto Dini (nomi in codice Cicogna, Mortadella e Ranocchio) di aver preso tangenti da Milosevic. In seguito Marini indicò anche Veltroni, Rutelli, Mastella, e i cardinali Ruini e Martini. Alla fine risultò «teste non credibile». Fassino disse che Marini era stato manovrato da Berlusconi (è stato assolto dall'accusa di calunnia; Fassino, non Berlusconi). Poi c'è stato il caso Unipol. Nel 2005, mentre ci si chiedeva se Anna Falchi allora in Ricucci sarebbe stata al Corriere quel che Katharine Graham era stata al Washington Post, Fassino parlava al telefono. Con l'ad di Unipol, Giovanni Consorte, che combatteva per conquistare la Bnl.

Al di là della storica frase «abbiamo una banca?», le intercettazioni mostrarono come Fassino era forse informato dei fatti ma certamente non ne capiva granché (Fassino: «Quindi le comprate voi». Consorte: «No, le comprano quattro banche italiane»… F.: «Ma comunque fate una società». C.: «No, no. Loro comprano il 27 per cento». Ecc.). Più rapido fu il chiarimento, quest'estate, dopo le accuse di Giuliano Tavaroli, ex sicurezza Telecom. Secondo Tavaroli, Fassino e il deputato Ds-Pd Nicola Rossi erano titolari di conti esteri intestati all'Oak Fund (Fondo Quercia, originalissimo). Ambedue hanno facilmente smentito.

Ora un'altra accusa, meno internazionale, altrettanto pesante: Vincenzo Angelini, accusatore di Ottaviano Del Turco, parla di un cartello di sanità privata in Abruzzo che, via Del Turco, «avrebbe come punto di riferimento politico Piero Fassino ». Lui ha subito querelato. Sua moglie Anna Paperina Serafini poi nel 2001 in Abruzzo non è neanche stata eletta. E Fassinik è di nuovo da solo a difendersi; unica colpa sicura, il non aver formato degli svegli e fedeli Qui, Quo e Qua che ora lo sostengano. D'altra parte «non c'è nessuno che fa niente per te, Piero, a 'sto mondo. Siamo rimasti in pochi, secondo me», gli diceva Consorte in un'intercettazione, magari per buoni motivi.

Maria Laura Rodotà
12 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 21, 2009, 06:37:52 pm »

Intervista a Piero Fassino


La partita è aperta. L’Assemblea Costituente è sovrana.

Può eleggere il nuovo Segretario, convocare il Congresso, indire le Primarie. Nessuno sa quale sarà la decisione dei 2800 chiamati oggi alla Fiera di Roma. Piero Fassino si augura che il partito esca dall’oceanica riunione con un segretario: «Un segretario vero, non un reggente. Un segretario che costituisca subito organismi dirigenti nuovi e che ci porti al Congresso di ottobre senza perdere di vista i problemi che abbiamo di fronte. Una crisi economica gravissima, passaggi parlamentari cruciali - il testamento biologico, il federalismo fiscale, la giustizia solo per citare i primi -, le elezioni amministrative ed europee per le quali entro 70 giorni dobbiamo depositare le liste. Sento e capisco molto bene il senso della richiesta di primarie: è una spinta sana, mostra una forte volontà di partecipazione e di rinnovamento che parla di un elettorato grande e vitale. Tuttavia non possiamo avviare ora una discussione solo sui nomi: si innescherebbe un meccanismo plebiscitario scollegato dal progetto politico. Al di là delle nostre migliori intenzioni, rischieremmo una discussione tutta interna che ci allontanerebbe dai problemi sul tappeto nel paese».

L’esperienza del Pd ha un futuro o è l’ora di tornare alla ’casa madre’?
«Indietro non si torna. L’interrogativo sul futuro del Pd è legittimo: il momento è difficilissimo. Ma le ragioni per cui abbiamo costituito il Pd sono tutte valide, ancor più di due anni fa. Lo abbiamo fatto per costruire un pensiero riformista adatto ad affrontare il nuovo secolo. Abbiamo fondato il Pd per creare un soggetto politico capace di riformare il sistema politico: con la nascita del Pd i gruppi parlamentari sono già passati da 17 a 6: dobbiamo continuare con una nuova legge elettorale, con le riforme istituzionali. Abbiamo fatto il Pd per dare un contributo italiano al rinnovamento del riformismo europeo. Nei 27 paesi dell’Unione i partiti progressisti che raccolgono un terzo dell’elettorato sono 5. Con 12 milioni di voti ce ne sono 2: l’Spd e noi. Abbiamo creato il PD, infine, per rinnovare il modo di fare politica, tant’è che lo abbiamo fondato con le primarie. E’ un progetto in cui credono milioni di persone: abbiamo in mano un patrimonio straordinario».

Che rischia di impoverirsi, però, in assenza di una indicazione di marcia chiara e di un gruppo dirigente coeso.
«È vero, ma dire che il partito è prigioniero di dieci oligarchi è una rappresentazione distorta. Questo è un grande partito di popolo. Il limite di questi mesi è stato non essere riusciti a costruire un radicamento sul territorio. C’è stato poco partito, non troppo».

D’Alema dice che Veltroni ha cercato il consenso di popolo senza dedicarsi agli organismi dirigenti.
«So per esperienza quanto sia difficile guidare un grande partito. Veltroni ha speso con passione tutte le sue energie alla guida di una organizzazione complessa, fatta di molte personalità. Non si possono scaricare le colpe su uno solo. Credo piuttosto che abbiamo sottovalutato il rapporto fra proposta politica e partito. Ci è mancata la costruzione di un soggetto organizzato nella società: le radici. La presenza sul territorio è decisiva per comprendere le ragioni dell’Italia che cambia e dei motivi per cui Berlusconi vince. Non è solo la corruzione, non sono solo le tv. Dobbiamo capire i cittadini e dar loro risposte non ideologiche. Il tema dell’immigrazione per esempio, è complesso e cruciale. Così la sicurezza. Il lavoro per molti non è più certezza di vita . Temi che non possiamo liquidare in modo sommario. Giro molto il Nord, respiro con preoccupazione un senso di estraneità ad un’Italia che sta tornando ad essere quella dei decenni passati».

Per radicarsi nel territorio serve una organizzazione forte.
«Certo. Dobbiamo ripensare il modo di far funzionare il gruppo dirigente. Dario Franceschini ha la forza e la qualità per caratterizzarsi come un segretario di innovazione e puntare sulla discontinuità. Consideriamo esauriti il Coordinamento politico e la Direzione di 200 persone. Credo che serva una Direzione molto agile, di 40 persone al massimo, di cui 20 espressione dei territori: segretari regionali, sindaci e presidenti di regione. Poi una Segreteria esecutiva vera: snella, fatta da dirigenti politici forti alla guida dei settori di lavoro cruciali. Ci sono dirigenti anche giovani in grado di farlo. Quanto alle personalità storiche - che sono riconosciute nella società non in quanto oligarchi, ma per quello che hanno fatto - bisogna che si mettano a disposizione, con generosità e senza invadenze. Franceschini deve essere libero di attingere alla loro esperienza, ma senza condizionamenti o patteggiamenti. E serve una solidarietà umana, oltre che politica, superiore a quella vista in questi mesi. Poi bisognerà subito riprendere il tesseramento».

Senza il quale, diceva Anna Finocchiaro, è assurdo andare al congresso. Un terzo delle tessere sono concentrate in Campania.
«Il Pd deve avere una base associativa molto larga. Il tesseramento deve essere trasparente. È un lungo lavoro da fare, ma le energie ci sono».

Chi vuole le primarie dice che un segretario eletto da duemila persone è meno legittimato di uno votato da tre milioni.
«È senz’altro vero, ma la forza di un segretario non è data solo dal modo in cui viene eletto. L’autorevolezza deriva da come si dirige e Franceschini ha le capacità per dare respiro alla collegialità e ai territori. E poi le primarie per le primarie rischiano di portarci a una discussione tutta sui nomi. Al Congresso, fissato per ottobre, bisogna arrivarci con un partito strutturato e col tesseramento completato. Poi le primarie».

Lei ricorda le leggi da votare: il malcontento dell’elettorato dipende anche dall’incapacità del Pd di dire una parola chiara sui temi etici, del lavoro, sul rapporto col sindacato. La politica dell’orientamento prevalente non basta.
«È vero, e anche per questo dobbiamo andare agli appuntamenti con una leadership che consenta di scegliere. Un grande partito non funziona solo con l’orientamento prevalente. Un partito discute, cerca finchè possibile la sintesi, poi decide. Quando è necessario anche a maggioranza».

21 febbraio 2009
da unita.it
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