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Autore Discussione: FASSINO...  (Letto 23957 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 29, 2009, 10:30:59 pm »

Fassino: «Nessuna riposta alle parole di Fini».

Casini: «Pieni poteri, ma promesse non mantenute»

di Riccardo Ferrazza
 
 

ROMA - Consenso (quasi) unanime al discorso di Silvio Berlusconi dalla sua maggioranza, mentre piovono critiche dall'opposizione che lo accusa di non aver proposto soluzioni alla crisi e aver eluso i nodi posti dal discorso del giorno precedente di Gianfranco Fini.

Per il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto «il discorso del presidente è stato chiarissimo: nasce per la prima volta una formazione unitaria di tutto lo schieramento del centro-destra che copre largamente il centro e lascia pochissimi spazi a destra». Una formazione «articolata» che «ha una leadership chiara, quella di Silvio Berlusconi e in Fini un ruolo di responsabilità di grande rilievo» che metterà tutto l'impegno «sul Governo e la riforma delle istituzioni».

A pensarla diversamente nel Pdl sembra essere solo Roberto Menia, sottosegretario all'Ambiente di provenienza An, critico sui tempi e modi di una fusione tra partiti che non condivide. «È stato un discorso didascalico. Ho apprezzato ieri Fini che ci ha dato delle sollecitazioni alle quali immaginavo il premier avrebbe risposto oggi. Forse - ha aggiunto ironico - lo farà domani...».

Nelle parole del premier, Pier Luigi Bersani (Pd) ci ha visto «molta retorica, molta autocelebrazione, un'ennesima auto apoteosi di Berlusconi, niente di concreto per questo Paese, le parole sulla crisi sono state di una distanza stellare dalla realtà». «Ieri Fini - osserva Piero Fassino (Pd) - ha posto la questione delle riforme istituzionali da fare insieme all'opposizione e ha detto che la laicità non può essere sacrificata. Oggi Berlusconi ha eluso questi nodi che sono rilevanti e sui quali noi incalzeremo il centro-destra».

Molto critiche anche le parole dell'ex alleato Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc che il premier non naconde di voler riportare nell'alveo del Pdl. «Berlusconi - dice l'ex presidente della Camera - è un uomo solo al comando, ha ottenuto tutto il potere che voleva, neanche De Gasperi aveva tanta forza. Ma nei 15 anni precedenti non ha fatto tutto quello che ha promesso e se non serve a risolvere i problemi degli italiani, mi viene il dubbio che il potere per il premier ci sia ma non serve all'Italia».

Il più duro, come gli capita da tempo, è Antonio Di Pietro: «Da Berlusconi - dice il leader dell'Idv - un tipico discorso da vero e proprio ducetto: vuole azzerare la Costituzione e diventare il padre padrone della sua nuova azienda "Italia"».

29 marzo 2009
 
da ilsole24ore.com
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« Risposta #31 inserito:: Aprile 23, 2009, 10:14:11 pm »

Fassino: «No a Pse, in Europa stiamo creando nuovo gruppo»


Il Pd «non è assimilabile a un partito socialista e il nostro impegno in Europa sarà di creare un nuovo gruppo parlamentare che sancisca l'alleanza tra socialisti e democratici». Lo ha detto Piero Fassino, alla partenza del Treno per l'Europa del Pd, con 400 giovani a bordo, simbolico inizio della campagna elettorale per Strasburgo. «Non vivremo quindi in solitudine nel Parlamento Europeo - ha affermato Fassino - ma per unire le forze riformiste e progressiste: non lo faremo aderendo al Pse, ma per creare un nuovo gruppo costituito da socialisti e democratici». Fassino, responsabile Esteri del Pd, ha ricordato «l'importanza del voto in Europa, che coincide - ha sottolineato - con la prima crisi della globalizzazione. Per questo il voto alle Europee questa volta è ancora più importante». «Il ruolo dell'Europa - ha aggiunto Fassino - è essenziale per uscire dalla crisi perchè nessuno Stato, per quanto grande sia, può farcela da solo».

Sul treno anche il segretario Pd: «Da Praga a Venezia dormirò in cuccetta, come quando ero segretario dei giovani della Dc». A quei tempi, Dario Franceschini studiava da avvocato a Ferrara e aveva l'età dei quasi 400 giovani che viaggiano sul "Treno per l'Europa". Sull'espresso per Parigi si studia in prima classe: tre vagoni-aula hanno ospitato corsi teorici sull'Europa sociale, sulla crisi finanziaria e sulla Costituzione europea. Franceschini ha voluto salutarli uno per uno, chiedendo da dove venivano, facendosi fotografare, baciare e abbracciare. «Ci sono anche ragazze carine fra i giovani del Pd, anche se noi non le scegliamo con criteri estetici» ridacchia, alludendo alle polemiche sulle candidature per l'Europa.

Ma tra i giovani ci sono stati anche un po' di mormorii: «Il rapporto fra i giovani e i vertici con Franceschini non è cambiato - fa notare un gruppo di giovani toscani - c'è ancora tanta disorganizzazione, abbiamo saputo per caso sul sito del Pd di questa iniziativa». Myriam, 24 anni, studentessa di chimica, però apprezza l'opportunità: «Possiamo finalmente incontrarci, fare amicizia, evitando di litigare come fanno i senior». Francesco, 24 anni, aspirante medico, ha seguito il corso di Europa sociale: «Interessante, ma troppo tecnico. Quando ci parleranno di politica? Noi siamo senza bussola, ci chiedono di formare il pensiero politico, ma ci dicano per favore quando e come».

La «scarsa comunicazione» descritta dal gruppo è forse giustificata dall'impegno in Abruzzo: «In tanti stanno aiutando la Protezione civile», spiegano i giovani. Una trentina arrivano dalla regione del terremoto: «Grazie, segretario, per avere espresso la sua solidarietà con discrezione», ha detto a Franceschini Alessio da Sulmona incrociandolo prima della carrozza ristorante. I giovani si fermeranno a Parigi, poi partiranno per Berlino, da lì per Praga, e la notte del 25 aprile per Venezia: «Non so ancora con chi dividerò lo scompartimento in cuccetta», ha scherzato Franceschini.

22 aprile 2009
da unita.it
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« Risposta #32 inserito:: Agosto 24, 2009, 11:17:05 am »

Intervista a Piero Fassino

Fassino: "Partito forte? Bersani non ha l'eslcusiva..."


di Maria Zegarelli

"Vorrei che il dibattito politico di queste settimane fugasse l’equivoco secondo cui l’unico modo per fare un partito forte e radicato è che il segretario sia Bersani.
Ho diretto per 7 anni un partito che era al collasso, l’ho ricostruito, con me alla guida ha vinto tutte le elezioni, l’ho traghettato nel Pd. Se oggi sostengo Franceschini è chiaro che è proprio perché ho a cuore un partito vero".

Piero Fassino, festa pre-congressuale, lei come se l’aspetta il dibattito?
«Genova è la più importante di 3500 feste in tutto il Paese, che è il più grande momento di contatto dell’opinione pubblica italiana con la politica. E quest’anno assumono un significato particolare perché interagiscono con il congresso. I grandi temi sia delle feste che del congresso sono due: la crisi del paese e le proposte del Pd per affrontarla, partendo dalla consapevolezza che il governo è inadeguato a mettere in campo le strategie necessarie. Il nostro compito è anche di indicare una strada.
Il congresso serve a questo».

Non c’è il rischio che invece il Pd appaia al paese come un partito chiuso in un dibattito interno?
«Noi parliamo di politica e dei problemi reali del Paese, non è colpa dei dirigenti Pd se i media danno una rappresentazione diversa. Capisco che per esigenze mediatiche ai giornali piace molto di più rappresentare il congresso come un continuo rincorrersi tra Orazi e Curiazi, ma non è così. La politica è la capacità di esaminare i problemi e costruire le soluzioni, trovando anche le sintesi necessarie. Il congresso sarà tanto più proficuo se sarà un confronto vero e non una contrapposizione di piattaforme blindate. E anzi, io mi auguro che al termine del congresso su molti punti si possa arrivare a posizioni di sintesi che vadano oltre le singole mozioni».

Il suo appoggio a Franceschini anziché a Bersani, come nasce?
«Si fonda su tre motivi: Franceschini ha iniziato il suo lavoro come segretario sei mesi fa, un tempo troppo breve per considerare esaurita l’esperienza di un leader e non credo faccia bene al Pd cambiare leader troppo spesso. In secondo luogo, in questi mesi ha diretto il partito in modo solido avendo grande attenzione all’unità del partito, gestendo fasi delicate, come la vicenda Englaro e la collocazione internazionale del Pd, facendo scelte chiare. Infine, noi abbiamo voluto creare un Pd dove si potessero incontrare provenienze, culture e storie diverse, che si fondessero intorno a un progetto. Confermare Franceschini è la scelta più coerente con questo progetto».

Mescolanza riuscita?
«Quando nel 2007 feci la scelta di tenere uniti tutti i Ds nella candidatura di Veltroni qualcuno ci vide il riflesso dell’antico mito comunista dell’unità. In realtà quella era la migliore condizione per far nascere bene il Pd, senza lacerazioni. Oggi scelgo Franceschini perché due anni dopo la priorità, invece, è di non interrompere il rimescolamento delle culture».

La Lega attacca i valori fondanti dell’Unità d’Italia. C’è un pericolo reale?
«Siamo al paradosso: mentre stiamo per celebrare un secolo e mezzo di storia unitaria esplodono in modo acuto e in termini centrifughi, la questione settentrionale e la sempre irrisolta questione meridionale. Uno dei fattori di crisi di questi anni è l’indebolimento del senso di appartenenza comune a una stessa nazione. Credo che abbiano influito tante ragioni, sicuramente anche un certo modo di governare della destra che ha frammentato i valori fondanti per la vita di una nazione, ha depresso l’etica pubblica e lo spirito civico».

Cicchitto vi accusa di antiberlusconismo infantile, per la battuta su i festini del premier.
«Le battute sono battute perché mordenti e irriverenti. Se noi avessimo dovuto offenderci per tutte le volte che Berlusconi ha parlato di noi in termini pesanti e non ironici, non avremmo dovuto neanche prendere un caffè con gli esponenti del Pdl. I ministri vengano alla nostra festa, li accoglieremo come abbiamo sempre fatto: con rispetto e ascoltando le loro opinioni».

Ma lo scandalo delle escort è o no un problema politico?
«Quello che è accaduto è sotto gli occhi di tutti. Gli elettori alle europee hanno già dato la loro prima sanzione: il 42% dei voti che il premier si aspettava alla vigilia non ci sono stati e anzi ha preso due punti in meno del 2008».

24 agosto 2009
da unita.it
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« Risposta #33 inserito:: Agosto 24, 2009, 11:22:09 am »

24/8/2009 (7:24) - INTERVISTA


Fassino: "Assurdo attaccare l'Europa"
 
Piero Fassino è componente della Commissione Affari Esteri

Il leader Pd: «Frattini è stato per 4 anni commissario Ue con delega all'immigrazione»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Colpito dalle polemiche sviluppate dal ministro Frattini nei confronti della Unione europea dopo l’ultimo naufragio nel canale di Sicilia; sorpreso dall’intenzione dei ministri di Berlusconi di disertare la Festa democratica di Genova; perplesso di fronte ad alcune affermazioni di Beppe Vacca, direttore dell’Istituto Gramsci, rilasciate in una intervista al “La Stampa”. Ecco Piero Fassino, pronto ad affrontare un autunno che, per il Paese ed il Pd, si annuncia “caldo” su più fronti.

Onorevole Fassino, cos’è che l’ha colpita delle ultime affermazioni del ministro Frattini?
«Il fatto che, partendo dall’ultima tragedia in Sicilia, abbia puntato l’indice contro l’Unione Europea, accusata di parlare ma di non intervenire. E’ una polemica che mi sorprende».

Perchè?
«Non è stato lui commissario europeo - e per quattro anni - proprio alla sicurezza, con delega in materia di immigrazione? Non solo: è stato ministro degli Esteri in passato e lo è attualmente. Ora punta l’indice contro l’assenza dell’Europa: ma la verità è che il governo italiano ha puntualmente cercato, proprio su queste materie, di evitare ogni confronto con l’Unione europea, forse temendo che venisse loro chiesto di fare cose che non vogliono fare».

Per esempio modulare con più attenzione la politica dei respingimenti?
«Il contrasto del traffico di immigrati, per quanto severo sia, non può significare che si lasciano morire persone in mezzo al mare. Le mie posizioni sono note: verso l’immigrazione clandestina bisogna avere un atteggiamento rigido. Non lo dico da ora, e per aver sostenuto che i respingimenti non vanno demonizzati, ho avuto anche i miei problemi. Ma una cosa è riaccompagnare l’imbarcazione clandestina nel porto da cui è partita, altra è rifiutare il soccorso e abbandonarla ad un destino tragico: e qui non indico solo responsabilità italiane. In più, è agghiacciante che dopo l’ultimo terribile naufragio non si siano sentite parole di pietà, se non da parte della Chiesa».

Secondo alcuni, anche il Pd sarebbe intervenuto con voce flebile, perchè preso dalle sue vicende congressuali.
«E’ una contestazione che respingo. E osservo che nei confronti del Partito democratico viene spesso esercitata una severità che sarebbe forse meglio indirizzare verso il governo. Infatti, dall’immigrazione alla polemica sulle cosiddette gabbie salariali, non c’è questione sulla quale Franceschini, Bersani e io stesso non si sia intervenuti per esplicitare la posizione del Pd».

A proposito di Partito democratico, cos’è che non l’ha convinta dell’intervista rilasciata da Beppe Vacca a “La Stampa”?
«Ci sono due cose che mi hanno colpito. La prima è il sostenere che l’affermarsi in politica di un modello leaderistico sia responsabilità da attribuire al Pds-Ds. Vede, io ho fatto il segretario per sette anni, e l’ho fatto ricostruendo e guidando un partito che ha vinto tutte le elezioni attraverso le quali è passato, riportando il centrosinistra al governo e poi favorendo la nascita del Pd. Ad esser onesti, non mi sembra un esempio di leaderismo senza partito...».

E l’altra cosa che non la convince?
«E’ l’affermazione secondo la quale, per fare un forte Pd, dovremmo ripartire da Gramsci, Intendiamoci: per la storia da cui provengo e per il fatto di essere torinese, mi potrebbe anche star bene. Ma noi stiamo costruendo il Pd. E allora, solo per restare a Torino, dico che affianco a Gramsci dobbiamo citare Angelo Tasca e Piero Gobetti, Noberto Bobbio e Vittorio Foa, Piergiorgio Frassati, don Orione e don Cafasso. E’ così, secondo me, che si rilancia e si radica il Pd: unificando una pluralità di culture progressiste».

Un’ultima cosa, onorevole Fassino: i ministri del governo Berlusconi intendono disertare la vostra festa per la battuta sul “festino” riservata al premier. Non era forse il caso di chiedere scusa e di chiuderla lì?
«Guardi, mi offre l’occasione per rivolgere un appello ai nostri avversari politici: e l’appello è a recuperare il senso della misura. Una battuta è una battuta, irriverente per definizione. Quella in questione può esser stata più o meno felice, ma non giustifica guerre di religione. Non ci si scusa per una battuta: altrimenti dovremmo pretendere che lo faccia Calderoli, per esempio, che ieri ha definito la nostra festa un funerale. Non è un funerale, naturalmente. Vengano e vedano, partecipino ai nostri dibattiti come è sempre stato: saranno ospiti graditi, accolti con cortesia e ascoltati con attenzione. Ma per favore, con i tanti guai che già ci sono, evitiamo di scatenare tempeste in un bicchier d’acqua».

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Settembre 03, 2009, 05:16:07 pm »

Perché io, ultimo Segretario dei DS, sostengo Dario Franceschini


Piero Fassino

Ho scelto di sostenere la riconferma Dario Franceschini a Segretario nazionale del Partito Democratico.
L'ho fatto per più ragioni.
Intanto perché sei mesi sono un tempo troppo breve per chiudere un'esperienza così complessa come la direzione politica di un grande partito. E non credo che accresca il credito del PD l'immagine di un partito che rinnova e cambia i propri dirigenti troppo spesso.

Peraltro in questi pochi mesi Franceschini ha dimostrato di essere un dirigente capace di scegliere, decidere e agire.

Ha tenuto la barra a dritta sulla laicità confermando il profilo chiaro di un credente laico, consapevole delle responsabilità che la politica ha nei confronti delle persone e delle loro scelte di vita. E mi piace ricordare che - nei mesi in cui si discuteva in Italia di coppie di fatto - Dario Franceschini fu tra i promotori di un'importante lettera sottoscritta da 60 parlamentari della Margherita con la quale, di fronte ad un appello della Conferenza episcopale italiana che chiedeva ai parlamentari credenti di uniformare il loro voto alle loro ragioni di fede, si rispose a chiare lettere che l'essere credente non può far venire meno per chi ricopra incarichi istituzionali, il dovere prioritario di essere fedeli alla Costituzione e alle leggi dello Stato.

Franceschini ha tenuto la barra a dritta sulla collocazione europea condividendo la scelta di costruire in Europa un nuovo campo progressista fondato sull'alleanza al Parlamento europeo tra gli eletti del Partito Democratico e gli eletti socialisti e socialdemocratici. Scelta né facile, né scontata e che Franceschini ha praticato e vissuto con coerenza e lealtà.
E in una campagna elettorale difficile e in salita Dario Franceschini ha impresso al nostro agire il profilo di una proposta concreta sui contenuti, sulle esigenze, sui bisogni dei cittadini. Lo ha fatto spendendosi con generosità, passione e stabilendo un rapporto di fiducia e di simpatia con l'elettorato. E ha ottenuto un risultato che, sia pure inferiore all'esito delle elezioni politiche del 2008, non era affatto scontato, alla vigilia del voto.

Ma c'è una ragione ancora più profonda che attiene al PD, al suo carattere di casa comune dei riformisti italiani: il PD e prima l'Ulivo, lo abbiamo voluto plurale, fondato sull'incontro, la reciproca contaminazione, l'intreccio delle esperienze di donne e uomini provenienti da storie e culture diverse. Abbiamo voluto costruire un Partito che riconoscesse il valore delle differenze e, tenendo conto dell'apporto di ciascuno, fosse in grado di creare contaminazione culturale, pensiero nuovo, identità nuova. E pure in mezzo a difficoltà, limiti, insufficienze abbiamo cominciato a costruire quel PD che per questo oggi non può e non deve essere omologato a una sola delle culture originarie che lo hanno promosso.

E Franceschini è il Segretario che offre oggi le maggiori garanzie che il PD mantenga quel profilo largo, aperto e plurale che è essenziale per la funzione nazionale che deve assolvere.

E' un errore pensare che chi viene dai DS e chi viene dalla Margherita debba automaticamente scegliere un Segretario che venga dalla stessa esperienza. Dobbiamo, invece, scegliere un Segretario non guardando alle provenienze di origine, ma al progetto del Partito Democratico e alla sua identità di un partito che mescola, fonde e unisce culture e storie diverse in un progetto per l'Italia che vada oltre il passato e in cui tutti possiamo identificarci insieme.

Peraltro, proprio perché abbiamo scelto in Europa l'alleanza a Strasburgo con i socialisti - scelta in cui io ho creduto con convinzione - è opportuno e necessario che a gestire l'avvio di tale rapporto sia un Segretario che viene da un percorso diverso, garantendo così al PD quel profilo largo e plurale che è la ragione stessa per cui noi abbiamo voluto e fondato il Partito Democratico.

Certo, la scelta che ho compiuto e che compirà chi mi accompagnerà in questo cammino, non è facile. D'altra parte non ho mai scelto nella mia vita per convenienza o per comodità, né mi sono mai chiesto se una decisione fosse facile, ma se fosse giusta e sono convinto che sostenere Franceschini sia oggi la scelta giusta per l'Italia, giusta per il Partito Democratico e il suo futuro.

da Partito Democratico
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« Risposta #35 inserito:: Dicembre 31, 2009, 04:54:00 pm »

31/12/2009 (7:42)  - INTERVISTA

"Bettino fu un capro espiatorio"

Per Piero Fassino «la dimensione giudiziaria in Craxi ha sovrastato la riflessione politica»
   
Fassino: silenzio reticente della classe politica al suo discorso alla Camera

FABIO MARTINI
ROMA


Piero Fassino che da giovane dirigente del Pci, non criminalizzò mai il Psi di Craxi, ora può sobriamente citarsi: «Sette anni fa, in un libro che in alcuni passaggi sembrò eretico, provai ad uscire dagli opposti manicheismi nei confronti di Craxi. Continuo a pensare che dipingerlo come un criminale sia una caricatura sciocca e inaccettabile. Così come descriverlo come la vittima di una congiura».

In Craxi ci sono i prodromi di Berlusconi o restò un uomo di sinistra?
«Non ci sono dubbi. Craxi è stato un politico della sinistra, nel solco della storia del socialismo riformista. Ha rivitalizzato il Psi, ha intuito prima di altri quanto l’Italia avesse bisogno di una modernizzazione economica ed istituzionale, su questo sfidò due grandi forze come la Dc e il Pci ed avvertendo il rischio di non farcela, non sfuggì alla tentazione di un alleanza con i poteri forti, come la P2 di Gelli, terreno sul quale è maturata la degenerazione e la corruzione».

Craxi, che non era un santo, ha finito per diventare un capro espiatorio? «Probabilmente sì. Intendiamoci. Tangentopoli non è stata un’invenzione della magistratura, le tangenti, le corruzioni e le concussioni c’erano e sono state provate e non si poteva chiedere ai magistrati di guardare dall’altra parte. Ma al di là delle responsabilità penali, la dimensione giudiziaria ha finito per sovrastare la riflessione politica».

L’intervento alla Camera col quale Craxi chiamò tutti i partiti a confessare le proprie colpe, cadde in un silenzio ipocrita che si traformò in odio anche da parte vostra... «Rivisto oggi, non c’è dubbio che ci fu un silenzio assolutamente reticente e ambiguo da parte di tutta la classe politica davanti al discorso che Craxi fece alla Camera e nel quale disse con parole crude che il problema del finanziamento illegale non riguardava soltanto il Psi ma l’intero sistema politico».

Sostanzialmente era così?
«Difficile negarlo, anche se c’era e c’è una differenza tra finanziamento illecito e corruzione. Ciò non poteva significare assoluzione giudiziaria, ma neppure rimozione politica. In ogni caso quel che allora mancò fu una seria riflessione sul finanziamento della politica e su come renderlo trasparente».

Lei la intitolerebbe una strada a Craxi? Il nome di una via non è qualcosa che dovrebbe essere «sentito» dai cittadini e non imposto a maggioranza?
«Non mi pare davvero utile infilarsi adesso in un referendum pro o contro la proposta della Moratti. Deciderà il Consiglio comunale di Milano, ma nei panni del sindaco, avrei colto l’occasione del decennale per proporre un impegnativo convegno sulla figura di Craxi, chiamando politici, economisti, giuristi, sindacalisti, per riflettere seriamente su un uomo che, tra luci e ombre, è stato un protagonista della politica italiana».

Uomo di Stato lo fu oggettivamente. Ma fu anche statista, uomo di governo con forte senso dello Stato?
«Lo fu quando si assunse la responsabilità di decisioni difficili e conflittuali come, per fare un esempio, l’intervento sulla scala mobile. Ma anche quando fece significative scelte internazionali, da Sigonella alla strategia dell’attenzione verso l’Est europeo alla vigilia della caduta del Muro».

Uno statista può sottrarsi alla giustizia del proprio Paese?
«Certamente no, anche se, quando un uomo si trova nella bufera, intervengono fattori di natura umana e personale sui quali penso che occorra avere prudenza di giudizio».

Sarebbe simbolicamente giusto che una delegazione del Pd partecipasse ad una delle manifestazioni programmate ad Hammamet?
«Sono tanti i modi per rendere esplicito un nostro giudizio più meditato, ma le forme più opportune sarà Bersani a deciderle». Craxi non ebbe complessi di inferiorità verso Dc e Pci né paura di avere nemici a sinistra: una lezione per il Pd? «Sì, Craxi ebbe queste caratteristiche ma sul piano della cultura politica si tratta di “complessi” che la nostra tradizione ha oramai superato».

da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 25, 2010, 09:57:26 am »

25/1/2010

In Medio Oriente il tempo di agire è adesso
   
PIERO FASSINO*


Sono settimane di intensa attività della diplomazia americana in Medio Oriente. Prima Hillary Clinton, poi Denis Ross e il generale Jones, in queste ore l’inviato speciale Mitchell, si sono susseguiti nella regione nello sforzo di convincere israeliani e palestinesi a riavviare i negoziati di pace.

Nessuno ignora le difficoltà e le differenze di vedute che tuttora sussistono tra le parti. Gli israeliani dichiarano Gerusalemme unica e indivisibile capitale dello Stato di Israele e i palestinesi, invece, chiedono che sia capitale di due Stati. I palestinesi chiedono il blocco totale degli insediamenti di nuove colonie, mentre il governo di Israele ne ha disposto un congelamento parziale, che non include gli insediamenti già autorizzati, né il territorio di Gerusalemme. Alla richiesta dei palestinesi di riconoscere ai rifugiati il diritto al ritorno, Israele oppone di non poter accettare soluzioni che mettano in discussione l’equilibrio demografico e la ragione stessa dell’esistenza di Israele, nato per dare una patria al popolo ebraico. Israele chiede, per la sua sicurezza, di esercitare il controllo di confini e spazio aereo del futuro Stato palestinese, mentre Abu Mazen è disposto ad accettare che tale garanzia sia affidata ad una forza multinazionale di pace. E, infine, nessuno può ignorare la frattura che contrappone Hamas e Abu Mazen e la criticità della situazione di Gaza, dove le condizioni di vita sono sempre più drammatiche e si pone urgente la necessità di riaprire i valichi di accesso e consentire l’inoltro degli aiuti umanitari.

E tuttavia, l’unico modo per dirimere anche le questioni più delicate è dialogare, discutere e negoziare. L’esperienza di questi decenni ci dice che il tempo non lavora per la pace. Al contrario, nel tempo sono cresciute la frustrazione e la sfiducia e oggi è responsabilità di tutti riavviare i negoziati per giungere finalmente ad una pace stabile e sicura per entrambi i popoli.

Nonostante le tante difficoltà ci sono, infatti, anche segnali che consentono di tornare a credere nella pace. L’accettazione del Primo ministro Netanyahu della soluzione «Due Stati per due popoli» rimuove ogni ostacolo di principio alla nascita, accanto allo Stato di Israele, di uno Stato palestinese indipendente sulla base dei confini del ‘67, modificati con eventuali scambi concordati di territori che tengano conto dei cambiamenti di questi 40 anni. E la decisione del governo israeliano di sospendere nuovi insediamenti in Cisgiordania, anche se parziale e se non include Gerusalemme Est, costituisce un primo passo, a cui potrebbero seguirne altri.

Peraltro anche dalla Cisgiordania vengono segnali positivi, come la riduzione dei checkpoint e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la crescita economica, la presa di controllo del territorio da parte della polizia palestinese. Fatti che dimostrano la capacità del presidente Abu Mazen, del Primo Ministro Fayyad e dell’Anp di esercitare con efficacia e credibilità l’autorità di governo.

C’è poi la ripresa di un impegno forte della comunità internazionale. Non solo la determinazione di Obama - che dal discorso de Il Cairo in poi ha fatto della questione israelo-palestinese una priorità della sua agenda - ma anche la dichiarazione dell’8 dicembre dei ministri degli Esteri dell’Ue; il Piano arabo di pace e il ruolo attivo che stanno giocando Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Turchia; il ritorno sulla scena della Russia con la proposta di una nuova Conferenza internazionale a Mosca: sono altrettanti segnali della consapevolezza che il tempo di agire è adesso. Tanto più di fronte alla ripresa di iniziativa di Al Qaeda, che dimostra quanto le organizzazioni terroristiche siano determinate a far saltare la strategia di apertura di Obama al mondo islamico. Così come rimettere in moto il processo di pace è essenziale per contenere e contrastare le posizioni islamiche radicali che, guidate dall’Iran, fanno dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese una bandiera per la loro azione destabilizzante.

Dunque decisivo è tornare a negoziare e al più presto. Certo, nulla è scontato e facile in Medio Oriente. Soprattutto dopo i troppi fallimenti di questi anni. E però - come mi ha detto un interlocutore nella visita che ho compiuto in questi giorni in Israele e a Ramallah incontrando i tanti protagonisti di quel conflitto - «il ponte è traballante, ma non ce n’è un altro per attraversare il fiume».

*Rapporteur sul Medio Oriente per il Consiglio d’Europa
da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Aprile 30, 2010, 11:01:17 pm »

30/4/2010

La Germania non parli solo tedesco

PIERO FASSINO

Caro direttore,
«In un’Europa senza leader, la Germania è l’unica a esercitare una leadership: e, dunque, non si può che accettarne le condizioni».
Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 28 aprile) con esercizio di crudo realismo dice certamente una scomoda verità, che tuttavia non è priva di conseguenze.

A preoccupare non è il richiamo duro e severo della Merkel perché ogni Paese rispetti puntigliosamente le regole che presiedono alla stabilità dell’euro. Tutti, infatti, siamo consapevoli di quanto sia necessario evitare che la moneta europea sia travolta dalla bufera che da mesi investe le economie e i mercati finanziari.

Né è motivo di stupore la fermezza con cui Berlino chiede ad Atene l’adozione di provvedimenti strutturali drastici e incisivi, onde evitare che l’aiuto prestato dall’Europa sia vano. Sollecitazione più che fondata, visto che al severo piano di austerità proposto coraggiosamente dal primo ministro greco Papandreou si sono contrapposti vaste proteste popolari e uno sciopero generale il 5 maggio.

Quel che colpisce sono gli argomenti offerti all’opinione pubblica tedesca e soprattutto la traduzione popolare che se ne è data: «Non saremo noi tedeschi a pagare i debiti e le bugie dei greci, che - come i portoghesi, gli spagnoli, gli italiani - hanno il vizio levantino di lavorare poco e spendere troppo». Basta scorrere i titoli e gli articoli di gran parte della stampa tedesca - in testa la popolare Bild, più di 5 milioni di copie giornaliere - per rendersi conto di quanto la vicenda greca faccia riemergere vecchi pregiudizi, dannosi stereotipi e stolidi luoghi comuni.

Insomma: quel che colpisce nell’atteggiamento tedesco è il ripiegamento, culturale prima ancora che politico, su una concezione miope e velleitaria dell’interesse nazionale. E se è assolutamente vero che l’integrazione europea non fa venire meno l’esistenza e lo spessore degli interessi nazionali, è altrettanto vero che l’Ue è stata pensata e voluta per collocare quegli interessi in un orizzonte più ampio, con la consapevolezza che il comune destino delle nazioni europee richiede che a problemi comuni si diano risposte comuni.

Peraltro è curioso come in Germania governo e opinione pubblica abbiano dimenticato che l’unificazione tedesca si poté realizzare grazie a una forte solidarietà - non solo politica, anche finanziaria - dell’intera Europa, che accettò la forzosa parità 1 a 1 tra marco occidentale e marco orientale e assecondò la politica di più alti tassi di interesse praticata dal Tesoro tedesco per raccogliere le risorse necessarie all’enorme sforzo di integrazione della ex Ddr. Politiche che ebbero non piccola incidenza sulla finanza pubblica degli altri Paesi europei e sui loro deficit.

Ma a parte questa considerazione, davvero le autorità tedesche pensano che la stabilità dell’euro e del mercato unico si difenda abbandonando al proprio destino i Paesi in difficoltà, oggi la Grecia e magari domani il Portogallo o la Spagna? Tanto più se si considera che lo sforzo richiesto alla Germania a favore della Grecia - un prestito di 8,4 milioni di euro - è di dimensioni certo non insostenibili per la forza della principale economia del continente.

Per questo non può non allarmare che a Berlino ci si arrocchi nella convinzione che dalla crisi ci si possa difendere meglio da soli o in pochi. E’ quel rischio di «rinazionalizzazione dell’Europa» di cui abbiamo avuto molti segni in questi anni: il cammino lungo e sfibrante del Trattato di Lisbona; il netto prevalere nella gestione della crisi della dimensione intergovernativa sulla dimensione comunitaria, plasticamente evidenziato dalla sostanziale marginalità della Commissione a vantaggio della centralità del Consiglio Eurozona e dell’Ecofin; e lo stesso piano di salvataggio ipotizzato per la Grecia, in cui l’Unione Europea è semplicemente la cornice di un intervento del Fondo Monetario Internazionale sostenuto da prestiti bilaterali di singoli Stati europei.

Peraltro, che in Europa tiri una brutta aria per l’integrazione europea ce lo hanno detto gli esiti elettorali che, negli ultimi anni, hanno visto in ogni Paese del continente crescere i consensi per movimenti e partiti antieuropei e nazionalisti (e spesso xenofobi). Ultimo esempio i 48 (!) seggi conquistati nelle elezioni ungheresi di domenica scorsa dal movimento populista Jobbik.

Nessuno naturalmente può ignorare le inquietudini e le paure suscitate nelle opinioni pubbliche europee dalla «globalizzazione sull’uscio di casa», rese ancor più acute da una crisi che ha accresciuto condizioni di precarietà nel lavoro, nel reddito, nelle opportunità di vita di milioni di famiglie. Ma è una mera illusione, gravida di conseguenze negative, pensare che si rassicurino le paure assecondandole o cavalcandole. E se a farlo è il principale e più forte Paese dell’Unione, i guai possono essere davvero grandi per tutti. Insomma: se a Berlino si torna a parlare solo tedesco, è l’intera Europa a rischiare. E la stessa Germania, sola, rischia di più.

da lastampa.it
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