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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 84837 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Giugno 08, 2013, 06:11:04 pm »

Esteri
08/06/2013

Le nostre abitudini che regaliamo con un clic sul Web

Nessuno ruba le notizie, sono tutte già disponibili on line

Gianni Riotta


Tre miliardi di telefonate al giorno, senza contare le e-mail: questa la giungla di dati che la National Security Agency e l’amministrazione Barack Obama sono accusate di avere controllato, con il programma segreto Prism. Il presidente sa di avere la legge dalla sua parte, perché – purtroppo - il vecchio testo Foreign Intelligence Surveillance Act, voluto nel 1978 da Ted Kennedy e Jimmy Carter, è stato così stravolto dal Patriot Act, dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001, da dare alla Casa Bianca perfino un Tribunale segreto che concede permessi di controllo senza contraddittorio. 


La sorpresa politica che un paladino – a parole - della trasparenza come Obama, abbia messo su un gigantesco sistema di controlli, è sorpresa solo per chi non abbia seguito con attenzione la mostruosa macchina con cui la Casa Bianca ha vinto le elezioni 2012, grazie all’analisi Big Data sugli elettori aperta da John Kerry già nel 2004. Raccolti, certo, in modo legale, ma giusto ieri si è scoperto che gli uomini di Obama hanno battuto con un 42% di precisione in più perfino Nate Silver, statistico principe del «New York Times». Chi toglierà di testa ai nemici del presidente, ai Tea Party, al commentatore radio Limbaugh, che la sua campagna elettorale non abbia utilizzato il flusso dei dati, raccolti in apparenza contro il terrorismo, per cercar voti? Nessuno: ma è una posizione ingenua, e se vuole davvero capire cosa sta accadendo, il lettore dovrà fare un passo indietro.

 

È sbagliato dire - come fanno tanti in queste ore, per ignoranza o furbizia - che i «dati vengono raccolti». I dati sono già «raccolti» non appena mandiamo una mail, facciamo una telefonata, postiamo su Facebook o Google +. Paolo Vecchi di Omnis Systems ha spiegato a «The Guardian» come la corrente di dati passi da «Content delivery networks», la «colonna vertebrale di Internet». Compagnie come Cisco guidano il traffico e il contenuto non è schermato. Le aziende spiate negano, con linguaggio burocratico, di avere collaborato con Nsa, Eric Schmidt di Google twitta da @ericschmidt di non avere «una porta posteriore» per dare al governo i dati. È vero, ma Obama non ha bisogno di chiederli, e se lo ha fatto con Google e Facebook, è solo perché l’industria digitale lo ha sempre sostenuto e non vuole irritarla.

Calcola Lori Andrews, giurista autrice del saggio «I Know Who You Are and I Saw What You Did: Social Networks and the Death of Privacy» che Facebook abbia in media sui propri utenti 1600 pagine di informazioni. In Europa possiamo richiederle, negli Usa non possono. 85% del fatturato, 3,7 miliardi di dollari (circa 3 miliardi di euro) vengono prodotti analizzando dati che volontariamente i cittadini affidano a Facebook, Google fattura dieci volte tanto grazie a dati da ricerche e Gmail.

 

Obama si schermisce: se vi sta bene che le aziende si arricchiscano sui vostri dati, non ve la prendete poi se Nsa li guarda per proteggervi dai terroristi, tanto più che non ascoltiamo le vostre telefonate e seguiamo stranieri, non americani. Un sondaggio «Cnn» prova che l’opinione pubblica è spaccata e, per esempio, l’ex direttore di «The New Republic», oggi blogger, Andrew Sullivan suggerisce prudenza: bilanciare privacy e anti-terrorismo.

Prima di gridare al Grande Fratello, dunque, ricordate che se il programma Prism si vanta di controllare «email, chat in video e voce, filmati, foto, documenti di archivio, VoIP (chiamate via web), trasferimento file, teleconferenze, analisi dei social media» quei dati sono «già» archiviati e studiati online. A ridimensionare orgoglio dell’intelligence e paure dei difensori della privacy, guardate al budget di Prism, 20 milioni di dollari appena (15 milioni e mezzo di euro). Per quella cifra, gli studiosi di Big Data lo sanno, controllare «ogni» telefonata Usa, «ogni» mail, è illusione. «The Guardian», uno dei giornali dello scoop con «Washington Post» e «Wall Street Journal», calcola che Twitter generi 5 terabyte di dati al giorno (unità di misura dell’informazione digitale, per esempio l’Enciclopedia Wikipedia supera 9 terabyte solo nel 2011): se la compagnia Topsy spende 6 milioni di dollari l’anno per archiviare i tweet, con 20 e la rete tutta non si va lontano. 

 

Quali sono le prime morali del caso Prism? 1) I dati sono campo di battaglia del futuro, in economia e in politica, chi li controlla e meglio analizza ha vantaggio strategico, su rivali e concorrenti. 2) Obama, a lungo giudicato un libertario filo privacy, è presidente che punta su intelligence e sicurezza, quanto George W. Bush. 3) Nel XX secolo era decisivo il copyright sui contenuti, nei media, in politica, nel lavoro di polizia e intelligence, contava «chi» sapeva «che cosa» e chi più sapeva meglio resisteva, vedi Guerra Fredda. 4) Oggi il vantaggio va a chi meglio analizza il flusso dell’informazione sulla rete, studiandone i nodi e i flussi.

Sono le ultime parole scritte da Italo Calvino prima di morire: la rete è il sapere del futuro, il sapere e il potere.

Twitter @riotta

da - http://lastampa.it/2013/06/08/esteri/le-nostre-abitudini-che-regaliamo-con-un-clic-sul-web-vm5if2RzIyerXzEP5hbL7J/pagina.html
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« Risposta #91 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:06:08 am »

Editoriali
23/06/2013

Le età della protesta

Gianni Riotta


Una generazione fa il comico Marcello Marchesi divertiva dalla tv in bianco e nero con la gag tenera dell’«uomo di mezza età», i suoi tic e le sue idiosincrasie. Oggi siamo un Paese di «mezza età» e la manifestazione di ieri dei sindacati Cgil, Cisl e Uil ne è testimonianza, non solo nei sorrisi e nei volti di tanti dimostranti in corteo – molti già attivi nell’autunno caldo 1969 in blue jeans -, ma anche negli obiettivi.

La segretaria della Cgil Camusso ha chiesto «la restituzione fiscale per i lavoratori e i pensionati, per fare ripartire i consumi e la produzione», primo choc contro l’anemia economica, che non risolverà il ritardo del nostro Paese su produttività, saperi, nuove produzioni.

Il leader della Uil, Angeletti, ha parlato con un linguaggio che avrà ricordato ai dimostranti la gioventù, invocando «un piano per il lavoro» e annunciando che «saranno i disoccupati a staccare la spina al governo Letta» (per mettere sotto carica quale governo, il sindacalista non ha detto).

Per confrontare il pacifico e colorato corteo di ieri con la protesta sociale e politica che in questi giorni ha animato la Turchia e il Brasile, basta esaminare le età medie dei tre Paesi, la demografia è carta di identità di una nazione, fattore importante del futuro economico. Gli assi del calcio che si sono sfidati ieri sera sono entrambi giovani, 1990 per l’azzurro Balotelli, 1992 per il campione della Seleçao Neymar: tra i tifosi tutto cambia. 

Ai nostri 44,2 anni di media (43 gli uomini, 45,3 le donne), il Brasile oppone una media di 30,3 anni, 29,5 per gli uomini, 31,3 per le donne. La Turchia è, di poco, più giovane, media 29,2 anni, maschi 28,8, femmine 29,6. La «coppia media» italiana ha alle spalle matrimoni, scelte di lavoro, figli e riflette già sulla seconda parte della vita. Le «coppie medie» turca e brasiliana hanno appena finito i venti anni, con tutta la vita davanti.

È chiaro come le scelte politiche divergano davanti a questa differenza. Il sindacato italiano difende per i propri iscritti quel che resta dei frutti del boom economico italiano Anni 60, e dei contratti stipulati dal 1969 in avanti, quando il salario reale dei nostri operai aumentò sensibilmente per la prima volta nella storia. Battaglia nobile, ma che non ha al primo posto l’innovazione, la tecnologia, le start up, la additive manufacturing, le specializzazioni che oggi creano nuovo lavoro anche nei Paesi sviluppati. In Turchia e Brasile l’ondata di protesta guarda oltre i successi del dopo Guerra Fredda, e vuole accoppiare benessere sociale a libertà individuale. Come «La Stampa» ha osservato prima delle proteste che hanno acceso Rio, la presidente Dilma Rousseff ha prematuramente frenato sulla crescita del Brasile, 20 milioni di persone entrate nel ceto medio in pochi anni, agendo un po’ sulla falsariga della prudenza degli slogan sindacali di ieri, «Piano per il lavoro», «Democrazia è lavoro». Troppo presto per gestire il successo, in una nazione dove ancora troppi soffrono nelle favelas, passando la vita su impossibili trasporti pubblici che raddoppiano l’orario di lavoro e con criminalità comune feroce.

Un analogo errore di superbia politica ha compiuto in Turchia il premier Recep Tayyip Erdogan, reprimendo le manifestazioni per la difesa dell’amato Parco Gezi. Il suo islamismo soft, che dapprima aveva confortato tanti cittadini, adesso stucca un Paese che chiede di vivere nel mondo contemporaneo, non di sfuggirlo. Che l’Europa della signora Merkel non sappia rispondere se non con un burocratico «No!» ad ogni dialogo con Istanbul, conferma che le rinunce della «mezza età» sono mal comune tra Italia e Unione Europea.

Nei siti populisti italiani si dà dell’ipocrita a chi ha criticato le violenze dei No Tav per mostrarsi invece attento alle richieste della piazza turca e brasiliana. Osservazione mal riposta, perché i «No Tutto» italiani, No Tav, No Ponte, No Muos, No Ogm, No Gronda, No Ricerca, No Vaccini, non sono molla del nuovo in Italia. Sono la versione radicale del conservatorismo, lo Strapaese del Novecento, il mito di un’Italietta autarchica che si illude, magari leggendo di fretta la polemica antimoderna di Pasolini e Nanni Moretti, di vivere nel passato.

Lo Spi, il Sindacato Pensionati della Cgil, ha deciso di incontrare i suoi tre milioni di iscritti non solo nelle Camere del Lavoro, nei patronati, nei classici luoghi del lavoro, ma anche online, sui social media, Facebook, nei siti web, twitter. Ogni giorno cresce il numero di «anziani digitali», lavoratori e professionisti che lasciano fabbrica e ufficio, ma non il computer.

Vedremo che effetti darà l’esperimento online dei pensionati Cgil. Vedremo come maturerà la protesta turca e brasiliana, gente che ha appena intravisto il benessere e chiede anche libertà privata, «Il pane e le rose» rivendicati dai lavoratori del Massachusetts già nel 1911. Perché se era possibile prevedere che la frenata nella crescita brasiliana avrebbe chiuso il miracolo di Lula, altrettanto scritto nella forza della Storia è – per esempio - che anche il miliardo di cinesi, dopo il riso ottenuto con Deng Xiao Ping, chiedano se non le rose, le meihua, i fiori di susino tradizionali.

Ma se in Italia prevarrà il Partito dello Status Quo, lo schieramento Destra - Sinistra che da venti anni paralizza l’Italia, allineando imprese, sindacato, intellettuali che di passato vivono e intendono continuare a vivere, da noi il pane sarà sempre più raffermo e le rose sempre più sfiorite. 

Twitter @riotta

da - http://www.lastampa.it/2013/06/23/cultura/opinioni/editoriali/le-et-della-protesta-wRSv8EzfpT9YmEGO0iDPxI/pagina.html
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« Risposta #92 inserito:: Giugno 27, 2013, 04:04:04 pm »

Editoriali
27/06/2013

Alla fine c’è sempre un Kennedy

Gianni Riotta


C’è una persona che rappresenta, da sola, i cangianti umori di questa America di inizio secolo. 

Una sorta di sismografo umano delle scosse politiche e culturali che squassano la vecchia Repubblica. Questa persona è il giudice della Corte Suprema Anthony Kennedy. In una Supreme Court spaccata a metà tra quattro toghe progressiste e quattro conservatrici, Kennedy è il pragmatico che legge i principi fondamentali degli Stati Uniti come fissati dai Padri Fondatori, alla luce delle nostre turbolenti, digitali, stagioni.

In solo 48 ore la Corte, con Kennedy ago della bilancia, ha precisato che la Costituzione, formale della Legge e materiale del Costume, non obietta in linea di principio al matrimonio di coppie omosessuali e garantisce loro, se lo stato in cui vivono lo permette, gli stessi diritti materiali delle coppie eterosessuali ma ha anche detto basta alla difesa del voto delle minoranze ai seggi elettorali. Un colpo di acceleratore, uno di freno sui diritti.

Quella di ieri è una vittoria legale, sociale ed etica per il movimento gay. La Corte non dice ancora che il matrimonio dei gay è un diritto assoluto e che proibirlo, o regolarlo, è anticostituzionale, ma con sempre nuovi Stati ad ammettere le nozze omosessuali, inclusa presto la California, contano ormai pensioni, eredità, assistenza medica, adozione dei figli, le «normali» questioni dei matrimoni. E la Corte le ha protette.

All’interno delle Forze Armate, che per prime hanno dato un riconoscimento di professionalità alle minoranze afro-americane ma che a lungo hanno discriminato i gay, la sentenza permetterà a soldati e ufficiali gay un trattamento simile a quello dei colleghi etero. Anche se resta da vedere come, se trasferiti in uno Stato che ha solo nozze uomo-donna, il diritto verrà applicato.

I difensori del matrimonio etero hanno visto cadere anche la legge a difesa delle nozze tradizionali firmata, in cerca di voti, da un presidente Clinton insolitamente «all’antica». La loro battaglia continuerà adesso nelle zone più ostili ai gay, al Sud. Dovranno con attenzione portare un caso alla Corte sperando, se non in un bando assoluto, almeno nel diritto degli Stati di dire no locali. Un atteggiamento che sembra condiviso dal Capo della Corte, il giudice Roberts.

Ma se ieri la Corte del «fulcro» Kennedy riconosce che l’America ormai ha detto sì a fiori d’arancio gay, ieri l’altro, in opposta direzione, ha detto che le minoranze etniche e afro-americane non hanno più bisogno delle protezioni al momento del voto, garantite ai tempi duri dei diritti civili con Johnson. Se un nero è arrivato alla Casa Bianca con Obama, uno a capo dello Stato Maggiore con Powell, il percorso è compiuto: sempre più a rischio nel futuro le «quote» a difesa delle minoranze nelle scuole e università.

È il paradosso dell’America ai tempi dell’amletico presidente Barack Obama. La politica tra Casa Bianca, Congresso, media, web e tv sembra all’acme delle ostilità, con presidente e partiti incapaci di compromessi e riforme. Sui siti o nei talk show sembra che ogni americano sia o arrabbiato militante di sinistra pronto a Occupare Wall Street o furioso adepto della destra pronto a servire Tea Party al cianuro a ogni avversario. In realtà, la grande massa degli americani decide ormai caso per caso, diffidente dalle ideologie, lasciandosi guidare dal buon senso, non dal populismo. La Corte fiuta l’aria e si adegua, guidata dal sorridente giudice Kennedy, volto che sembra uscito da un film di Capra o Spielberg, l’Americano Buono.

Twitter @riotta


http://lastampa.it/2013/06/27/cultura/opinioni/editoriali/alla-fine-c-sempre-un-kennedy-SV6JSowCcuf4UIaZNmFp1L/pagina.html
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« Risposta #93 inserito:: Luglio 01, 2013, 11:59:23 pm »

Editoriali
01/07/2013

Chiarezza senza propaganda

Gianni Riotta

In una divertente scena del classico film «Casablanca», cercando scuse per chiudere il bar di Rick-Humphrey Bogart, il simpatico capitano francese Renault sbotta: «Sono scioccato: qui si gioca d’azzardo!», giusto mentre il croupier gli paga il pizzo. Lo stesso choc, ipocrita e imbarazzato, percorre le cancellerie occidentali che fingono pubblica sorpresa, «Scioccate!» nell’apprendere che da parte degli alleati americani ci sarebbero stati controlli su partner europei, ambasciata italiana a Washington inclusa, con il programma Dropmire impiantato sui cryptofax delle sedi diplomatiche Ue.

 

La pratica, resa pubblica dal giornale tedesco Der Spiegel e dal quotidiano inglese The Guardian su informazioni a seguito del caso Nsa, Prism e della talpa Edward Snowden oggi rifugiato nella Russia di Putin, non è né bella, né decorosa e dispiace alla pubblica opinione perbene. Spiarsi tra amici non è carino. Ma come sanno diplomatici, politici e professionisti degli affari internazionali, l’intelligence prova a controllare «tutto» il traffico di informazioni, nemico e amico. Gli inglesi tenevano d’occhio De Gaulle durante la II guerra mondiale. Italia e Germania, alleate, si marcavano in manovre la cui eco arriva nei «Diari» di Ciano.

 

In Guerra Fredda Parigi, Washington, Londra, Berlino, Roma, Tokyo, compagne di barricata, intercettavano, mettevano microspie, leggevano di soppiatto dossier militari e industriali. 

 

Come nei vecchi 007 di Sean Connery, quando il capo dello spionaggio M invita a collaborare «up to a point», fino a un certo punto, con la Cia. Oltre la Cortina di Ferro gli intrighi tra Mosca e Pechino furono sanguinosi, dagli scontri del 1969 all’isola Zhenbao, sul fiume Ussuri, all’aereo precipitato in Mongolia con a bordo il maresciallo Lin Biao nel 1971.

 

Bene dunque fa la signora Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ministro della Giustizia tedesco, a chiedere corrucciata alla Casa Bianca di Barack Obama un chiarimento: ma occorre rapidamente riportare la vicenda alle sue reali proporzioni, evitando che la propaganda, americana, europea, russa o cinese che sia, prenda il sopravvento. E soprattutto evitando che il cruciale patto commerciale Usa-Ue finisca ostaggio della scherma tra spioni. 

È comico che regimi formidabili per l’occhiuto controllo sui propri cittadini e la repressione sui dissidenti, facciano di Snowden un eroe e di Obama il Grande Fratello. Le tv di Mosca, su velina del governo, dipingono l’ex collaboratore Nsa, rifugiato all’aeroporto della capitale, da Robin Hood che rivela al mondo come la libertà di stampa sia privilegio dell’ex Urss, conculcato nel Paese che ha inventato il web.

 

Se gli europei, come sta capitando a qualche leader a caccia di titoli d’estate, cadranno nella trappola tesa da Putin e servizi cinesi per imbarazzare Obama, avranno forse qualche piccolo ritorno di immagine, ma alla lunga pagheranno un prezzo cospicuo nella condivisione delle informazioni e nell’antiterrorismo.

 

Da parte sua Obama dovrebbe seguire le indicazioni del saggio senatore Udall, e – anziché girare il mondo leggendo discorsi sempre colmi di retorica affascinante, fratellanza e giustizia per poi in segreto seguire le politiche del suo detestato predecessore G. W. Bush - eliminare i protocolli segreti del Patriot Act per continuare sì nell’opera di intelligence, ma senza gli aspetti più oscuri ed odiosi, sottratti al controllo giudiziario. Ai tempi della Commissione Church, nel 1975, l’America seppe ripulire in pubblico gli eccessi di Cia, Nsa e Fbi in tempo per la fine della Guerra Fredda.

 

Chi voglia però davvero comprendere il caso Snowden, Prism, Nsa, al di là di ipocrisie e propaganda, deve rimetterlo dove è sempre stato, scontro tra sistemi di spionaggio internazionali, non nobile campagna di giornalismo contro il Potere. La gaffe del Guardian, costretto a rimuovere dal suo sito un’ulteriore accusa, già in edicola nell’edizione cartacea, è la conferma che di buona informazione poco sopravvive in queste ore. Cercando di trascinare l’Italia nel calderone, s’è fatto vivo Wayne Madsen, ex spia che ora vive di complotti e fole, persuaso che Obama sia «un gay, rinnegato africano, impostore alla Casa Bianca». Che la prestigiosa testata anglosassone cada nella sua provocazione, fino all’imbarazzante retromarcia di cancellare l’articolo online senza dare ai lettori spiegazione alcuna (a proposito di «trasparenza»…), prova come Prism rifranga poche «verità», mentre la spudorata propaganda di parte accechi tanti, furbi o ingenui che siano.


Twitter @riotta 

DA - http://lastampa.it/2013/07/01/cultura/opinioni/editoriali/chiarezza-senza-propaganda-PacSccSyonT22KrmGmktwM/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Luglio 13, 2013, 10:43:08 am »

Editoriali
13/07/2013

La capacità di correggere gli errori

Gianni Riotta

Ricorre quest’anno il Cinquecentesimo anniversario della pubblicazione di uno dei capolavori del pensiero mondiale, Il Principe di Machiavelli, opera che rivaleggia con la Divina Commedia di Dante per traduzioni dalla nostra lingua. Se avrete la pazienza di rileggere la fatica del Segretario fiorentino resterete impressionati da come, nella sua visione del Potere, degli Interessi, della Forza e della Strategia nulla sia mutato dai turbolenti giorni delle Corti e dei Principati. Obama contro Putin, Xi Jinping contro il premier giapponese Abe, le manovre navali congiunte Mosca-Pechino, i marines che arrivano in Australia, l’intero nostro tempo ancora si inquadra nel Potere che si fa Leone, Volpe, che si cura di Essere o di Apparire, di far Paura o indurre Amore. 

 

Tutto, tranne i social media, il web, l’epoca dei personal media che rendono il Potere sottoposto a un caleidoscopio di informazioni, controlli, dibattiti, trasparenza. Se i familiari di Muktar Ablyazov, dissidente kazako, fossero stati deportati dall’Italia al loro Paese nei giorni della vecchia diplomazia e del vecchio potere, secondo la sintassi feroce così genialmente studiata (non difesa, si badi) da Machiavelli, nessuno di noi avrebbe mai sentito parlare di loro.

 

E questo articolo non sarebbe mai finito in prima pagina su La Stampa. Soffrire di nascosto e in silenzio era la pena dei deboli, imporre la loro ferrea volontà a piacimento era il privilegio dei forti. L’esilio, l’oblio, l’emarginazione, condivise da Dante e Machiavelli, venivano comminate dal solo capriccio del Principe. Se oggi il governo di Enrico Letta, Angelino Alfano ed Emma Bonino, dopo una campagna di opinione pubblica guidata da questo giornale, torna sui propri passi e riconosce l’incongruenza di affidare profughi inermi ai loro possibili persecutori si deve al potere morale dell’opinione pubblica diffusa dal web, oltre naturalmente alla loro sensibilità umana.

 

In altri tempi, la regola burocratica poteva essere applicata passando inosservata, magari seguendo alla lettera la legge e il protocollo l’espulsione poteva anche essere comminata, ma il web rende il motto antico «Summum ius summa iniuria» una legge morale più forte di quella scritta. Seguire un diritto la cui conseguenza è l’ingiustizia può salvare la coscienza di un burocrate, ma oggi non è più difendibile davanti a tanti cittadini con in mano uno smartphone e una connessione internet. L’ambasciatore italiano a Washington Bisogniero ha chiesto a dirigenti della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e docenti Usa di dibattere la «cyberdiplomacy» tra Usa e Europa e il risultato è stato sorprendente: il consenso è che il web ha mutato per sempre i rapporti tra gli Stati.

 

Se per i tiranni, delle grandi e piccole potenze, questa è una minaccia che alla lunga potrebbe anche essere fatale, per i leader delle democrazie è insieme una costrizione e un’opportunità. A breve li rende soggetti a valutazioni da fare sotto pressione, come quelle opportunamente prese infine sulla famiglia Ablyazov. Alla lunga però concede un termometro di temperatura etica del Paese, dando ai governi, grazie al web, un dialogo fitto e continuo con la gente. La capacità di autocorrezione degli errori e il dibattito libero sono la vera forza della democrazia rispetto ai regimi autoritari, costretti sempre a restare ingessati nella volontà assoluta del Capo, e blindati ai loro errori.

 

Non si tratta di un antibiotico politico che cancella ogni male, naturalmente e presto i leader, anche studiando l’andamento dei Big Data sul web, riusciranno a manipolare e a guidare la discussione nei loro Paesi. Ma in profondo, oggi, i sistemi hanno una chance di essere davvero «società aperte» come sognava il filosofo Popper, che solo una generazione fa sarebbe stata illusoria.

 

Bene ha fatto dunque il governo Letta a recedere da una scelta non felice, bene hanno fatto tutti coloro che hanno lavorato online perché si arrivasse all’esito positivo. Meglio ancora se, in futuro, l’Italia saprà prevenire incidenti del genere, dandosi carattere da Paese amico dei dissidenti politici e aperto agli esiliati, come ricordano i libri di scuola è nella tradizione del nostro Risorgimento.

 

Quanto a Machiavelli, tornasse oggi tra noi a festeggiare il mezzo millennio del suo capolavoro, non esiterebbe ad includere un capitolo sull’online, indicando con la sua prosa lapidaria al Principe come governare il web da Leone e ai suoi rivali digitali come opporsi da Volpi internet.

Twitter@riotta 

da - http://lastampa.it/2013/07/13/cultura/opinioni/editoriali/la-capacit-di-correggere-gli-errori-Da7ViooZLZNPKLDq2yPIsL/pagina.html
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« Risposta #95 inserito:: Luglio 20, 2013, 06:57:15 pm »

EDITORIALI
19/07/2013

Come uscire dal labirinto

GIANNI RIOTTA

Neppure ai tempi della Guerra Fredda, con gli scontri sulla Nato, la politica estera contava come oggi. Prima il caso dei sottufficiali Latorre e Girone che, arrestati in India durante una missione anti-pirati, sono da un anno e mezzo in incerta attesa di giudizio.
 
Vari paesi, dagli Stati Uniti a Sri Lanka, in casi analoghi, hanno risolto i problemi con l’India senza arresti, noi no. Poi la tormentata vicenda del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, manovrata da interessi e diplomazie che hanno ignorato e irriso il nostro paese, deportando innocenti in condizioni disperate. 
 
A completare l’atlante geopolitico il fermo a Panama dell’ex dirigente Cia Seldon Lady, condannato con un gruppo di 23 agenti americani per avere organizzato a Milano, nel 2003, il rapimento dell’imam Abu Omar. Erano i tempi in cui l’America di George W. Bush, in guerra con il terrorismo, lanciava le sue «extraordinary rendition», sequestri di sospetti in territori stranieri, da giudicare poi nelle corte militari Usa, o deportare in paesi alleati, tra torture e pestaggi.
 
Ora che Lady, l’ultimo dei condannati su cui ancora pendesse mandato internazionale, è fermato a Panama e può essere estradato in Italia, si apre un altro, inaspettato e delicatissimo, dossier internazionale per il premier Letta. Complicato perché, proprio nelle ore in cui i siti lanciavano la notizia dell’arresto di Lady, il nostro paese veniva deprecato a Ginevra dalle Nazioni Unite sul caso dei familiari di Ablyazov, considerato dagli esperti di diritti umani proprio una «extraordinary rendition» come per Abu Omar.
 
Segua il lettore il labirinto in cui siamo finiti: possiamo chiedere l’estradizione di Lady, in nome di una sentenza che lo condanna per avere mandato al macello in Egitto Abu Omar, «extraordinary rendition» che viola il diritto internazionale e italiano, oltre alla moralità innervata alla nostra Costituzione, mentre dobbiamo difenderci dall’accusa di avere perpetrato, ai danni della famiglia di Ablyazov, lo stesso reato, violando a nostra volta norme e etica. Brutte notizie per Enrico Letta, che dovrebbe occuparsi di rilanciare la nostra anemica economia e deve invece districarsi da insidiose trame. 
 
Che fare adesso? In primo luogo è importante che tutti, governo, parlamento, diplomazia, magistrature, opinione pubblica, seguano, nella forma e nella sostanza, leggi e buon senso, senza scorciatoie furbette. Avessimo seguito questa norma elementare non avremmo la colpa Ablyazov.
 
Al tempo stesso i politici a caccia di un titolo di mezza estate, ricordino che stiamo trattando di vicende serie, inutile fare i filo o gli anti americani, ammantati di garantismo o antiterrorismo. Già la collaborazione seria tra la Casa Bianca di Barack Obama e il Quirinale di Giorgio Napolitano spense molti guai con il metodo della grazia, e se la stessa antica e efficace diplomazia tra paesi amici fosse stata usata per i marò la contesa sarebbe stata risolta con reciproca soddisfazione.
 
Usare l’estradizione di Seldon Lady, che al processo irritò con la sua condotta i magistrati ricordando che certi accordi politici segreti tra paesi non dovrebbero finire in un processo pubblico, per propagande petulanti nuocerà al governo Letta ma, soprattutto, agli interessi nazionali dell’Italia e alla sua, purtroppo offuscata, credibilità internazionale. Possiamo affermare il nostro giusto diritto con il tono fermo di paese fondatore dell’Unione Europea, democrazia alleata degli Usa nella Nato e protagonista su ogni fronte di peace keeping con le nostre forze armate.
 
Dobbiamo farlo senza perdere di vista la realtà. L’Unione Europea, che ieri si è limitata a un flebile comunicato di Lady Ashton per condannare Putin sulla persecuzione al dissidente Navalny, ha tuonato contro Washington sul caso dei Big Data e del programma di sicurezza Nsa Prism dopo le rivelazioni dell’ex agente Snowden. Bene, il chiasso – pur giustificato dall’invadenza americana - rallenta, qualcuno perfino teme metta a rischio, il negoziato sul Patto di libero scambio Usa -Europa, accordo necessario alle nostre economie per crescere e al nostro continente per vivere sereno, nei giorni in cui Cina e Russia lanciano le più grandi manovre navali militari congiunte della loro storia.
 
Possiamo dunque, e dobbiamo, chiedere il rispetto del nostro diritto anche sul caso Abu Omar, ma dobbiamo farlo da paese e democrazia matura, cosciente dei propri interessi nazionali e rispettoso degli alleati, in un mondo che è ormai il nostro condominio.
 
Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2013/07/19/cultura/opinioni/editoriali/come-uscire-dal-labirinto-wsCt4VZqNg1UM1u6fGGSpN/pagina.html
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 23, 2013, 04:22:11 pm »

Editoriali
23/07/2013

Un’economia “inclusiva” è possibile

Gianni Riotta


Il discorso di Papa Francesco in volo verso il Brasile su giovani e lavoro ha un valore di fede e pastorale che teologi ed esperti cattolici approfondiranno. Ma ha, in parallelo, una rilevanza per l’economia e lo sviluppo delle nostre società, che tutti possiamo considerare.
Dice il Papa: «Corriamo il rischio di avere un’intera generazione che non avrà mai trovato lavoro…». 

 

Quel lavoro da cui «Viene la dignità personale di guadagnarsi il pane… La crisi mondiale non fa cose buone con i giovani, visto che, sul mercato, un disoccupato ha sempre maggiore difficoltà a ottenere un impiego».

 

Considerate questo ragionamento alla luce dell’inchiesta che il New York Times ha pubblicato il 19 luglio: i laureati dopo la grande crisi finanziaria, dal 2009 al 2012 in America, paese che crea posti lentamente ma con maggiore lena della media Unione Europea, e assai più velocemente dell’Italia, stentano a lavorare perché le aziende penalizzano i loro due, tre anni di disoccupazione, preferendo ragazzi «freschi» di laurea 2013. Un posto in un bar, il lavoro da commessa per pagare l’affitto, non solo non commuovono gli addetti alle assunzioni ma, paradossalmente, li rendono diffidenti. La disoccupazione viene considerata causa di frustrazione, delusione, smarrimenti personali, meglio dare chance a chi esce dall’Università ancora carico di entusiasmo. Tanto più che, dimostrano analisi dell’agenzia Ernst & Young, nessuna grande compagnia offre lavoro più da annunci diretti, preferendo selezionare il personale su raccomandazioni private o tra chi ha già fatto, quasi sempre grazie ad amici di famiglia, stage presso la ditta.

 

Il Papa ha detto con semplicità quel che le più sofisticate analisi del mercato comprovano: la disoccupazione è una trappola, sabbie mobili dove una generazione e milioni di giovani non solo rischia di smarrire il proprio avvenire, ma trova solitudine personale difficile da rimontare. L’idea che questa sia una condizione umana da delegare ai singoli cittadini, dando loro magari consigli giusti sul corso post laurea da scegliere, le lingue da imparare, gli skills di cui dotarsi, e non invece un’emergenza globale per le economie sviluppate e i paesi nuovi è pericolosa, e porterà a instabilità, al Cairo e Istanbul, a Detroit e Pechino, a Roma e Parigi. Sintetizza Justin Wolfers, economista all’Università del Michigan: «Abbiamo creato un’economia in cui i giovani laureati cercano lavori svolti un tempo dai diplomati, i diplomati si accontentano di posti per chi non ha studiato e chi non ha studiato resta precario». 

 

Papa Francesco denuncia la cultura del degrado sul lavoro, che non si corregge certo con leggine ad hoc, ma ricreando nuovi lavori e non illudendosi, lo ha scritto il direttore Calabresi qualche giorno fa, di «difendere» uno status quo che si scioglie senza soste, senza che imprenditori e sindacalisti possano fermare la realtà: «Siamo abituati a questa cultura dello scarto: con gli anziani si fa tanto spesso, ed è un’ingiustizia perché li lasciamo da parte, come se non avessero niente da darci, e invece essi ci trasmettono la saggezza e i valori della vita, l’amore per la patria, l’amore per la famiglia: tutte cose di cui abbiamo bisogno. Ma ora tocca anche ai giovani di essere scartati…Dobbiamo tagliare questa abitudine di scartare le persone» proponendo «una cultura dell’inclusione, dell’incontro, e uno sforzo per portare tutti nella società».

 

L’organizzazione industriale classica del Novecento non basterà a salvare la generazione dei senza lavoro, né in Occidente e neppure nei paesi del nuovo sviluppo e chi si ostina ad affermarlo tradisce i disoccupati, non li aiuta. Le autorità di Rio, in Brasile, hanno vietato l’uso di ogni maschera tradizionale agli incontri del Papa, temono che le proteste che hanno scosso il paese si riverberino lungo il viaggio del Pontefice. Francesco non sembra condividere queste preoccupazioni e anticipa il tema sociale ancor prima di metter piede in Brasile. «Questione di credibilità – spiega il teologo Ramon Luzarraga - la gente ormai crede agli esempi più che ai messaggi, quando Giovanni Paolo II predicava contro il totalitarismo era credibile perché lo aveva sofferto in Polonia, Francesco ha visto nelle parrocchie di Buenos Aires la povertà e se parla degli esclusi l’uomo della strada lo ascolta».

 

Il Papa sa anche che la crisi non è solo economica, che nel 1970 il 92% dei brasiliani si professava cattolico, cercando nella fede riparo contro oppressione e povertà, devastanti in aree come il Nordeste. Oggi il 62% dei brasiliani si dice cattolico, mancano all’appello milioni di fedeli passati ai Pentecostali e ai loro riti appassionati, di comunità, capaci di coinvolgere gli esclusi. Paese con più cattolici al mondo, il Brasile vede dunque la sua Chiesa cambiare, padre Marcelo Rossi adotta ritmi, canzoni, cerimonie scatenate dei pentecostali, offrendo un’alternativa ai fedeli. Milioni di dischi e libri venduti, milioni di credenti raccolti negli stadi fanno del Rinnovamento Cattolico Carismatico di Rossi una realtà inaspettata. Il Papa argentino lo sa, ma sa anche che i riti non mutano da soli le realtà. Lancia, nel suo primo viaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù, un messaggio che non risuonerà solo nei luoghi di culto. Parla ai leader politici, agli uomini di azienda e finanza, ai sindacalisti, ai tecnici. Nel XXI secolo è possibile lavorare a un’economia «inclusiva», libera e capace di produrre innovazione e ricchezza, senza tuttavia lasciare indietro - come fossero granelli di sabbia perduta - gli esseri umani che, nella clessidra del presente, scivolano oggi nella sfera inferiore.

 

Twitter @riotta 

DA - http://lastampa.it/2013/07/23/cultura/opinioni/editoriali/uneconomia-inclusiva-possibile-cpdM76iv6EsYv0YlzG9XeO/pagina.html
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« Risposta #97 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:21:13 pm »

ESTERI
14/08/2013

Dalle atomiche allo smartphone

Kim aggiorna i simboli del potere

GIANNI RIOTTA

Nel corso della storia umana, le potenze hanno avuto molti, diversi, simboli di grandezza per intimidire i rivali, elefanti sulle Alpi, parate trionfali e schiavi incatenati, castelli con bandiere al vento, cannoni sugli spalti, ferrovie fumanti, caccia rombanti da portaerei, capsule spaziali a lanciare beep beep che allargano l’Impero sino al Cosmo. Ora lo status symbol del potere diventa uno smartphone, nel caso della Corea del Nord l’Arirang, consegnato nel corso di una visita alla fabbrica 11 Maggio al dittatore Kim Jong-un. 
 
Hitler, Stalin, Mussolini, despoti del Novecento, hanno perfezionato l’arte del sopralluogo in azienda, tra i campi, negli arsenali militari, fotografati accanto a cannoni, camion, putrelle, mucche, campi di grano. Ora l’immagine di vitalità di un regime passa attraverso la maestria nei new media. Pare che il giovane Kim Jong-un, per dimostrarsi all’altezza dei tempi e dei rivali in Corea del Sud dove il colosso Samsung rivaleggia con Apple in California, abbia elogiato i «megapixel» di Arirang, come una volta si scrutava con orgoglio una fresatrice, un toro da monta, l’ala di un aereo.
 
Poco importa che lo studioso di tecnologia asiatica Martyn Williams spieghi che Arirang non è prodotto in Corea del Nord ma, con ogni probabilità, ordinato su misura in Cina, per poi lanciare il colpo di scena per la propaganda: erano infatti presenti sia il capo dell’Ufficio Propaganda che il Direttore dell’Agenzia Stampa Kcna. Già un «tablet» sfoderato in omaggio a Kim Jong-un aveva origine cinese e Williams ne fa risalire il software a studi di Hong Kong. Il software di Arirang, il nome viene da una tradizionale canzone locale, sembra invece un clone di Android Google. 
 
Kim Jong-un invita il pittoresco ex asso del basket Rodman a visitare il paese, il leader di Google Schmidt è uno dei pochissimi occidentali che, di recente, ha potuto condurre una missione privata in Nord Corea. Ora, dopo avere straparlato di guerra nucleare con Seul, di imminente attacco, di arsenale nucleare, il regime che non sa sfamare il suo popolo, con campagne ancora coltivate con metodi feudali, finge di stare lavorando a una Silicon Valley sul Fiume Yalu.
 
Toccherà a chi svolge l’infelice mestiere di North Korea watcher, gli analisti sull’ultimo stalinismo del pianeta, capire (o fingere di capire) cosa stia passando davvero in mente al giovane Kim. Di sicuro possiamo dire che è la tecnologia, ormai, a unire il pianeta. Ieri, in Italia, un tweet critico sulle performances del Blackberry ha scatenato un tifo da stadio, con i fan di Apple, Google, Samsung e i veterani BB a scontrarsi tra loro, come ultras di Juventus, Milan, Inter. Sempre più il tablet che teniamo in borsa, il computer che abbiamo sul tavolo, lo smartphone che ci ipnotizza definiscono il nostro status, come un tempo i jeans Levy’s o Super Rifle, le sigarette Camel o Gitane, l’Alfa Duetto o la Fiat 124 spyder, l’hamburger e patatina contro gli spaghetti al pomodoro, al cinema Hitchcock o Antonioni.
 
I nostri nipoti rideranno, con rispettosa ironia, di queste nostre manie ma, per adesso, va così. Il telefono non è più solo «la nostra voce», esprime la nostra intera personalità, un tablet, un Pc o un Mac ci danno l’illusione di far parte di una comunità, di condividere uno stile, sobrio o elegante, casual o tecnocratico. Illusione per l’appunto, ma che perfino la paranoica propaganda nord coreana si faccia catturare da quello che il critico Barthes avrebbe definito un «mito d’oggi» e lo studioso di strategia Nye«soft power», potere soffice, indica fino a che punto il tic high tech ci tenga in ostaggio dei suoi chip.
 
Twitter @riotta 
 
DA - http://www.lastampa.it/2013/08/14/esteri/dalle-atomiche-allo-smartphone-kim-aggiorna-i-simboli-del-potere-sOijcl9TvdmHDZT8MwvHCL/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Agosto 17, 2013, 08:14:42 am »

Editoriali
17/08/2013

L’equazione sanguinaria di Al-Sisi

Gianni Riotta


La giornata di guerriglia di ieri, in Egitto, ha toccato oltre al Cairo Alessandria, Ismailia, Damietta e le proteste hanno lambito i centri turistici internazionali, dando alla grande crisi del Paese arabo risonanza nelle distratte cronache del mese di vacanze in agosto.

 

La strage di centinaia di morti, il calcolo delle vittime resterà per sempre incerto, conferma che il regime militare del generale Abdel Fattah al-Sisi ha deciso di portare l’orologio politico egiziano ancora più indietro rispetto ai tempi del presidente Mubarak. Allora i Fratelli Musulmani, per quanto perseguitati e incarcerati, avevano però un margine di manovra sociale, lavorando nei quartieri con la loro vasta rete di solidarietà religiosa. Tollerati, purché non alzassero troppo la testa.

 

Ora, dopo il golpe che ha abbattuto il presidente islamista Morsi e la feroce repressione, la giunta militare manda un messaggio chiaro: l’ordine deve regnare al Cairo e in tutte le altre città d’Egitto e lo stato di perenne anarchia seguito alla caduta di Mubarak deve cessare, subito. La protesta del presidente Obama, per quanto flebile e limitata, in concreto, a un semplice stop a manovre militari congiunte che avrebbero visto gli americani fianco a fianco ai responsabili delle stragi, è stata irrisa dai generali. 

 

Che hanno spiegato, con sussiego, di dare la caccia agli stessi islamisti che Obama colpisce con i droni in Yemen e Afghanistan. Un’accusa chiara di ipocrisia, tanto più che Washington staccherà puntuale l’assegno annuo di un miliardo di euro, mancia pingue su cui l’esercito basa da decenni il potere.

 

La denuncia europea della repressione, guidata dalla cancelliera tedesca Merkel, dal presidente francese Hollande e dal premier italiano Letta, benvenuta sul piano diplomatico, non avrà però nessun effetto concreto sulla crisi. Da troppi anni l’Europa agisce in Medio Oriente divisa, ciascuna potenza a rimorchio dei propri interessi locali, e l’assenza di una forza militare accanto alle belle parole sui diritti, farà sì che l’UE, per dirla all’italiana, godrà di «una bella figura» all’Onu, che pure sta muovendo, tardi e male, il Consiglio di Sicurezza, ma senza aiutare l’Egitto a ritrovare pace. Israele, che collabora nel Sinai con l’esercito egiziano contro terroristi infiltrati, sta a guardare, ma il bagno di sangue al Cairo rende i «negoziati di pace» israelo-palestinesi, voluti a tutti i costi dal segretario di Stato Usa Kerry, ancor più vacui e velleitari.

 

In Egitto la parola è alle armi, in uno scontro di potere dove la forza schiaccia la debolezza, nel senso più crudele dei filosofi Hobbes e Machiavelli, niente diritti, niente dialogo, nessuna carta civile. Il generale al-Sisi legge il governo di Morsi come prova che i Fratelli Musulmani non accetteranno mai non solo la democrazia, ma neppure un equilibrio di stabilità, il vecchio Egitto, più grande Paese arabo, come boa tra le tensioni in Medio Oriente. La giunta accusa Morsi di non avere mediato con i militari, di avere lasciato che la piazza islamista spaventasse e minacciasse i cristiani copti, i liberali, il ceto dei mercanti e degli industriali. Ha deciso che, fino a quando i Fratelli non saranno annichiliti, ridotti alle corde, terrorizzati, l’Egitto non avrà pace e si comporta di conseguenza, certo che alla fine Usa e Europa abbozzeranno, come in Siria davanti alla piramide macabra di 100.000 morti che Assad ha eretto pur di restare al potere.

 

La noncuranza con cui i militari massacrano i Fratelli Musulmani e fanno spallucce davanti alle proteste occidentali si radica nell’appoggio, sfrontato, immediato e munifico che viene loro dai Sauditi. Terrorizzata dalla cosiddette «Primavere arabe» e dall’insorgenza islamica in Egitto, la Casa Reale saudita è opulento sponsor di al-Sisi. Re Abdullah mobilita con l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti per versare 10 miliardi di euro nelle esauste casse del Tesoro egiziano, 10 volte, calcola il quotidiano Financial Times, più dell’obolo americano e del sostegno venuto al presidente Morsi da Qatar e Turchia.

 

L’azzardo di al-Sisi punta su un’opinione pubblica egiziana stanca di disoccupazione e violenza, poco interessata alla democrazia, determinata a riprendere il lavoro e una qualche forma di convivenza pacifica. A questa stabilità i militari vogliono portare i contadini, i poveri delle città, il ceto medio produttivo e urbano, i cristiani, contando che intellettuali e progressisti accetteranno la mano forte, in cambio di un Egitto laico, odiato da Morsi. Un sondaggio Zogby sembra dare loro ragione, tra la gente comune poca attenzione per i diritti, molto desiderio che il caos finisca presto.

 

L’incognita della sanguinaria equazione è lo spirito di sacrificio e la forza del fanatismo islamista. Che potrebbe non accettare di tornare nei quartieri come ai tempi di Mubarak, occupare tragicamente le piazze, mentre il terrore filo al Qaeda colpisce le spiagge sul Mar Rosso, distruggendo l’industria del turismo. I libri di storia registreranno come insieme liberali, militari e Fratelli Musulmani abbiano sprecato un’opportunità unica per avviare il loro antico Paese verso il XXI secolo.

 

Oggi, mentre in Egitto si muore e nel mondo si parla compunti e presto si penserà ad altro, la sola alternativa sembra una vittoria della repressione di al-Sisi o la guerra civile strisciante. Lo «scontro di civiltà», che nella fallace previsione del professor Huntington avrebbe dovuto opporre occidentali a musulmani, continua invece, dal Nord Africa alla Turchia all’Afghanistan, a dilaniare la umma, la gigantesca comunità islamica.

Gianni Riotta twitter@riotta

da - http://lastampa.it/2013/08/17/cultura/opinioni/editoriali/lequazione-sanguinaria-di-alsisi-aIWzCbemchfBGoBsjdIOKP/pagina.html
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« Risposta #99 inserito:: Agosto 29, 2013, 04:20:24 pm »

EDITORIALI
28/08/2013

Un dubbio machiavellico per Obama

GIANNI RIOTTA

Il 23 ottobre del 1983 una sconosciuta organizzazione terroristica chiamata Jihad Islamica distrusse con attacchi kamikaze la caserma dei marines americani e quella dei militari francesi, in missione di pace a Beirut. I giovani carabinieri italiani di stanza nella capitale libanese ricordano ancora l’orrore dei cadaveri ridotti a pezzi, caddero 241 marines, 58 soldati francesi e 6 civili, oltre cento i feriti. 
 
L’allora presidente americano Ronald Reagan, considerato un falco, viene spinto alla reazione, deve «vendicare» la strage. Reagan ordina alla corazzata New Jersey, che incrocia nel Mediterraneo, di aprire il fuoco con i proiettili da 16 pollici, arnesi che scavano crateri grandi come campi da tennis non più usati dal Vietnam, «Volkswagen volanti» li chiamavano i libanesi. Partono undici cannonate e il raid si ferma. Il 7 febbraio 1984 «il falco» Reagan comanda il ritiro unilaterale dei marines dal Libano e il giorno dopo la New Jersey, per guadagnare titoli sui giornali, spara 300 cannonate – record dai tempi della Corea – sulla Valle della Bekaa, contro miliziani siriani e drusi.
 
Muoiono molti civili, molto odio è seminato, la ritirata è coperta dal frastuono di ordigni da 16 pollici. 
È lo scenario che il pragmatico presidente Barack Obama, premio Nobel per la Pace, ha sul tavolo adesso per la Siria, in punizione per l’uso di gas tossici da parte del dittatore Assad, in palese violazione del diritto internazionale. Reagan, etichettato come «falco» non aveva in realtà nessuna voglia di essere coinvolto nella tragica guerra civile libanese e, salvata la faccia a cannonate, riporta tutti a casa. Obama, etichettato con altrettanta superficialità «colomba», non intende affatto contrariare il 60% degli americani ostili al blitz contro Damasco. Sa però di avere intimato ad Assad di non usare i gas e sa che Russia, Cina e Iran, veri bersagli psicologici del suo raid, lo scrutano. Se il Presidente, intimidito, non mantiene la parola, Mosca, Pechino e Teheran alzeranno il prezzo in ogni trattativa, civile e militare. E la forza americana, nella Grande Guerra Civile che divide l’Islam dal Nord Africa alla Turchia a Kabul, conterà meno di quel poco che conta oggi.
 
Centomila morti civili non son bastati a smuovere Usa, Europa, Onu e Nato, il veto imposto alle Nazioni Unite da Russia e Cina ferma tutto. Ma ora non conta il sangue, conta la credibilità politica e mezzo millennio dopo la pubblicazione del «Principe» di Machiavelli, il cerebrale Presidente americano è cosciente che un leader non temuto è un leader finito, anche nell’epoca in cui la cyberdiplomazia dei tweet conta almeno quanto le cannonate da 16 pollici.
 
Obama colpirà dunque alla Reagan, neanche mirando alle centrali dei gas letali, ma a basi aeronautiche e militari per segnare il territorio, dare una mano ai ribelli (molto divisi sul raid, tra soddisfazione per la botta ad Assad e timore che i civili li considerino servi degli americani) e fare la voce grossa davanti a alleati e nemici. Con lui il conservatore inglese Cameron e il socialista francese Hollande, preoccupati che Washington non appaia sola a difendere i valori occidentali mentre Assad viola Convenzione di Ginevra e ogni trattato internazionale contro le armi chimiche. La Lega Araba parlerà come sempre la Lega Araba a due toni, condannando Assad ma senza autorizzare il blitz. L’Unione Europea, come sempre, non avrà voce comune, ogni capitale impegnata secondo i propri interessi.
 
Il ministro degli Esteri Emma Bonino ha dichiarato che l’Italia non interverrà senza mandato Onu, certa che tale mandato non ci sarà. Il governo Letta è davanti a un delicatissimo passaggio, vitale, ed è comprensibile che, con tanti italiani scettici o indifferenti, non voglia aprire un altro fronte. Forse però si potrebbe almeno seguire la proposta dell’ex consigliere del presidente Carter, Zbigniew Brzezinski: promuovere all’assemblea generale Onu una risoluzione che condanni l’uso dei gas, senza incriminare direttamente Assad, ma facendo uscire le Nazioni Unite dalla pilatesca indifferenza di queste ore, che le dichiarazioni del segretario Ban Ki Moon non sanno scuotere. L’Italia, pur senza partecipare militarmente se non ne ha adesso la forza, potrebbe offrire agli alleati un contesto diplomatico alla reazione anti Assad e non restare inerte, tragicamente, davanti alla strage degli innocenti.
 
Il blitz confermerà lo status quo in Medio Oriente, nessun negoziato Israele-Palestina, guerra civile araba, Europa assente, Stati Uniti concentrati sull’Asia e la crisi economica interna, Obama leader astratto secondo gli amici, distratto secondo i nemici. Ma non sarà senza opportunità e pericoli. Nel suo gioco d’azzardo Putin, che difende in Siria l’ultima base navale di Mosca nel Mediterraneo, potrebbe rilanciare l’appoggio a un Assad sempre meno forte, oppure, come suggeriscono fonti inglesi, ascoltare una proposta saudita, mollare Damasco in cambio di interventi a suo favore nel mercato del petrolio. Conoscendo Putin la prima ipotesi sembra più solida della seconda. L’Iran del nuovo presidente Hassan Rohani ha condannato ieri l’uso dei gas in Siria, mentre il pragmatico ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha ricordato i pericoli di un blitz militare. Entrambi sono consapevoli che Obama, Cameron e Hollande parlano alla Siria perché l’Iran intenda: esistono dei limiti alla violenza, l’irresponsabilità, l’intolleranza, non potete ignorare del tutto le nostre richieste. Vedremo presto se il raid militare del premio Nobel Obama sarà, o no, compreso.
 
Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2013/08/28/cultura/opinioni/editoriali/un-dubbio-machiavellico-per-obama-SO4kYi8wYXQNVAlbDFCcNP/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Agosto 31, 2013, 08:59:48 am »

Editoriali
30/08/2013

Se manca la strategia

Gianni Riotta


Cosa manca al presidente Barack Obama in vista del raid militare contro il regime alawita siriano di Assad? Una strategia: perché colpire, con chi colpire e quale risultato ottenere con il blitz. 

 

Due anni dopo aver parlato di caduta di Assad, un anno dopo avere giurato che l’uso di gas avrebbe scatenato il blitz Usa, il presidente contempla un difficile panorama. Dall’Onu nessun semaforo verde, il flemmatico Segretario Ban Ki Moon attende i suoi ispettori “per fine settimana” e il capo della diplomazia russa, Lavrov, ha già ordinato di bloccare l’iniziativa britannica di una risoluzione alle Nazioni Unite contro l’uso di gas letali, in violazione della Convenzione di Parigi sull’uso delle armi chimiche del 1993.

 

Il premier inglese David Cameron, unico alleato degli Usa con il presidente francese Hollande a dirsi d’accordo sul blitz contro Assad, è guai dopo la storica sconfitta di ieri notte in Parlamento. Per 13 voti, con un’aperta rivolta dei conservatori, i deputati hanno bocciato il loro premier, che pure aveva promesso un secondo voto prima del blitz: No all’intervento in Siria dall’House of Commons. Un evento straordinario che segnala l’acutezza del momento. L’intelligence inglese afferma di avere le prove che i gas sono stati lanciati dal regime siriano, gli americani concordano precisando di non sapere “chi” abbia dato l’ordine diretto. La Camera dei Comuni nega però a Cameron il via libera, memore dei guai del laburista Tony Blair ai tempi dell’invasione dell’Iraq 2003. E il leader laburista Miliband, finora ai margini della scena, spera in una rimonta di immagine sul caso Siria.

 

Anche il Congresso americano, non tanto perché davvero preoccupato della situazione in Medio Oriente, ma perché consapevole, come i colleghi inglesi, che la maggioranza dei cittadini vuole lavoro e non guerre all’estero, rema contro Obama. Liberali e conservatori fiutano il presidente in difficoltà e alzano il prezzo. Lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, scrive a Obama per chiedere quel che il presidente non ha, una chiara strategia in Siria, lamentando la scarsa consultazione con il Congresso. 116 deputati, 98 repubblicani e 18 democratici, scrivono invece alla Casa Bianca intimando che nessun raid parta “senza l’autorizzazione del parlamento”. Insomma, sono finiti i tempi del dopo 11 Settembre quando in nome della sicurezza nazionale il presidente aveva mano libera. Obama, incerto, deve trattare.

 

Paradossalmente il falco numero 1 sembra Hollande, socialista francese, che incassata una cautissima riforma delle pensioni, prova ad usare la forza contro un’ex colonia ereditata dai Turchi, per vellicare l’orgoglio imperiale della nazione, anche se la sconfitta di Cameron lo indurrà a più miti consigli. Ieri, con un tweet da @martadassu la viceministro degli Esteri Marta Dassu ha chiarito la posizione italiana, replicando al Wall Street Journal: dapprima sembrava che l’Italia sarebbe intervenuta solo con un mandato Onu contro Assad, poi nemmeno in questo caso, ora la vice del ministro Emma Bonino conclude che l’Italia interverrebbe con un mandato Onu. Vedremo in che direzione evolverà la nostra diplomazia dopo lo stop di Londra.

 

Obama voleva, in fretta e furia, lanciare qualche missile cruise Tomahawk contro basi militari in Siria per mantenere la parola data “No gas!” e ammonire Russia, Cina e Iran sulle sue intenzioni in Medio Oriente. Si accorge che Damasco è capitale ostica. Alessandro Magno, nel 333 avanti Cristo, la conquistò con tanto bottino da far ammirare gli storici e richiedere 7000 bestie da soma per il trasporto, incluse 55 tonnellate d’oro e l’intera famiglia dell’imperatore persiano Dario. Molto difficile ripeterne l’exploit con Assad.

 

Il regime minaccia, con la solita retorica, rappresaglie, il premier siriano Wael Al-Halqi annuncia la tradizionale “tomba per gli invasori” e l’ambasciatore all’Onu Bashar Ja’afari indica in Israele il bersaglio, sul modello del raid di Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo. Altrettanto truculento il generale di Stato Maggiore iraniano Hassan Firouzabadi: “Attaccano la Siria? Israele brucerà”.

 

Propaganda, ma serve a spaventare Barack Obama, al suo primo, vero, test di politica estera. Un blitz mordi e fuggi, alla Reagan in Libano o alla Clinton dopo l’attacco alle ambasciate Usa in Africa, non sarà facile, la Siria e i suoi padrini, Russia, Iran, Hezbollah, reagiranno in qualche modo.

 

Discretamente, a Gaziantep, in Turchia, ribelli del Consiglio Militare Supremo e del Libero Esercito Siriano consultano agenti americani per concordare i bersagli del blitz. Il regime alawita di Assad ha costruito molte basi militari in quartieri popolosi e i ribelli non vogliono essere accusati di avere diretto il fuoco contro i connazionali. Dall’inizio della guerra civile l’opposizione non è riuscita ad incidere nel consenso della base di Assad, gli alawiti, ma anche i cristiani restano scettici, temendo i fondamentalisti, i salafiti, al Qaeda e gli altri terroristi infiltrati tra i ribelli. La mappa dei possibili siti da colpire include gli aeroporti di Damasco, Aleppo, Homs e Latakia. Gli inglesi hanno già mobilitato due caccia Typhoons a Cipro, per “difesa aerea”, altri quattro arriveranno entro oggi. Ma Putin –che resta in silenzio sulla crisi in Siria, lasciando la parola a Lavrov per tenere sulla corda Obama- ha ordinato che altre due navi russe incrocino nel Mediterraneo, “in chiave anti sommergibile” dicono i dispacci militari: per rendere più difficile la vita ai sommergibili Usa che monitorano e possono colpire Damasco.

 

Il dilemma strategico di Barack Obama è così sintetizzato da Matthew Waxman del Council on Foreign Relations “Il presidente deve fermare le atrocità di Assad contro i civili, mantenere la credibilità internazionale evitando che la sua parola perda di peso, senza però che il raid destabilizzi il Medio Oriente, dalla guerra ad al Qaeda alla crisi nucleare in Iran”.

 

Ci sono momenti in cui un leader non può che giocare d’azzardo, l’“alea iacta est” di Cesare e l’algoritmo del matematico russo Kolmogorov, calcolare quando un semplice rischio è la migliore strategia possibile. Ma nella vita, personale e politica, di Barack Obama l’azzardo non è mai entrato, tutto è frutto di lavoro, talento e pianificazione precisa di ogni mossa, i pro e i contro vagliati al millesimo. Ora non gode più del cerebrale beneficio di “planning”, progettare, deve agire secondo principi, istinto, fiuto, il cervello non basta, servono “guts”, la pancia. Come ne uscirà sarà un capitolo importante del giudizio che la Storia trarrà di lui e non ha troppi giorni, stavolta, per ponderare: aspettare, amletico, tra il sì, il no, il magari, è un modo, forse il meno felice, per decidere.

 

L’incertezza è un lusso che i profughi siriani in fuga dalle aree di Damasco considerate bersaglio del raid non possono concedersi. Devono agire subito, testa o croce, per loro niente calcoli possibili. Migliaia di famiglie hanno raccolto poche masserizie e si avviano al confine libanese. Chi resta ha la cucina colma di cibo in scatola, pane, acqua, carburante per generatori elettrici, pile per le radio, medicine per gli ammalati e aspetta le scelte dei Grandi. 

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/08/30/cultura/opinioni/editoriali/se-manca-la-strategia-ckT9T0EDwuzxiloW9lmsNO/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Settembre 06, 2013, 11:24:14 pm »

Editoriali
04/09/2013

Un mondo senza arbitro
Gianni Riotta


Con i sì del falco senatore McCain, dello Speaker della Camera Boehner e dell’House Majority leader Eric Cantor, repubblicani, e di Nancy Pelosi, leader dei deputati democratici, il presidente Barack Obama fa un passo, importante anche se non decisivo, per uscire dalla trappola siriana. L’ok del Congresso al raid punitivo contro Assad per l’uso dei gas appare, se non scontato, meno appeso agli umori partigiani di destra e sinistra. 

Comunque vada, si conferma una nuova stagione globale: rischiamo di vivere in un mondo senza arbitro, senza poliziotto di quartiere, nessuna superpotenza si farà più garante dello status quo, la Pax Americana, per quanto precaria, tramonta. Durante la Guerra Fredda Washington e Mosca governavano le loro sfere di influenza, con i Paesi non allineati dalla Conferenza di Bandung dal 1955 in poi a cercare spazio. Gli Stati Uniti provavano a contenere l’Urss, sostenendo Berlino durante il blocco russo e accettando l’invasione della Ce coslovacchia, come il Pcus non reagiva ai golpe filoamericani in America Latina.

Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, il presidente Bush padre progetta quello che definisce un Nuovo Ordine Mondiale, democrazia anche a Mosca, garanzia Onu, gli Stati Uniti potenza benefica ad assicurare mercato globale, commerci, libertà. Quando Saddam invade il Kuwait, la coalizione funziona, l’Onu di Perez de Cuellar dà il via libera, europei e arabi si uniscono all’operazione, il Kuwait è liberato. Sembra una nuova strada, ma dura poco. A Mosca la stagione di Gorbaciov e Eltsin cede il Cremlino al nuovo panslavismo di Putin, ostile all’America e alla democrazia. Negli Usa il Nuovo Ordine Mondiale è osteggiato a sinistra dal movimento No Global, che da Seattle 1999 vede nella globalizzazione il nemico, a destra dagli estremisti isolazionisti. Nel 1995, quando il terrorista razzista Tim McVeigh fa saltare a Oklahoma City il Federal Building, la motivazione è il suo odio per il New World Order. Clinton guiderà il mondo contro Milosevic nei Balcani, fermando i pogrom in Kosovo e la guerra ma poi il multilateralismo si insabbia, un mondo senza ordine.

L’attacco alle Torri Gemelle manda gli Usa in guerra a Kabul e Baghdad, ma dieci anni dopo - come dice il segretario Kerry - «l’America è stanca di guerra» come la ragazza Teresa Batista del romanzo di Jorge Amado. Il deputato populista di destra Ron Paul dice: «No alla guerra in Siria, che ce ne importa, non abbiamo i soldi, non dobbiamo perdere soldati, se la vedano tra di loro».

Il dilemma di oggi è: avremo un mondo senza arbitro, senza superpotenza? Quando la Cina sembra agire con troppa foga nell’Oceano Pacifico, quando vara una flotta verso l’Oceano Indiano e una portaerei, Paesi amici come l’Australia, o ex nemici come il Vietnam, guardano subito agli Stati Uniti come freno. Gli australiani chiedono e ottengono un contingente di marines, il Vietnam condivide esercitazioni con gli americani che ha sconfitto nel 1975, «contro gli Usa abbiamo combattuto 20 anni, contro la Cina 2000».

La posta in gioco oggi è questa divisa di arbitro, di agente del quartiere Mondo: hanno ancora gli Stati Uniti i soldi, le forze armate, il consenso, gli ideali e la visione per fungere da leader nel XXI secolo? Studiosi come Kishore Mahbubani parlano di «secolo asiatico», ma con la Cina ripiegata su una difficile transizione politica e l’India che rallenta la corsa economica, mentre la rupia perde valore, dall’Asia non si annunciano leader. La Russia è chiusa nel cerchio petrolifero e di astio per i diritti umani, dai gay alle Pussy Riot, di Putin. L’Europa, alle prese con una crisi economica e dell’euro che solo da poco dà qualche respiro, non sembra avere una prospettiva comune, Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia e Italia divise da interessi e culture. L’Europa superpotenza è oggi più lontana di quel che si sperava al momento della nascita dell’euro e dell’allargamento alle nuove democrazie a Est.

In America i Tea Party come Occupy Wall Street, destra e sinistra populiste, non vogliono nessuna visione multilaterale, internazionalista, con Washington a creare coalizioni e consenso, tra Onu e mondo. Molti parlamentari sono attratti da questa scelta. Il voto del Congresso avrà conseguenze tattiche sulla guerra in Siria, il no rafforzando un poco Assad, il sì un poco indebolendolo, ma senza mutare alla fine l’esito dello scontro, che resterà incerto e doloroso: ogni minuto 4 siriani scelgono la strada dell’esilio. Ma il voto del Congresso sulla Siria avrà conseguenze strategiche sul mondo. La bocciatura di Obama ridurrà a lungo status, prestigio e credibilità americana. La sua vittoria confermerà a Russia, Cina, Iran, Hezbollah, Corea del Nord, come agli alleati, che Washington non intende abdicare al ruolo di playmaker per la diplomazia e l’economia globale. È evidente che nemici e amici dell’America attendano il voto con opposte speranze e uguale ansia. Come ha detto la senatrice Boxer, «stiamo votando se trasformarci o no in una tigre di carta». Sarebbe bello che gli europei, e l’Italia da due generazioni alleata dell’America, non stessero a guardare, volta a volta inerti, indifferenti, pilateschi o tifosi perbene ma costretti a nascondere la passione. E quando la Bella Addormentata Europa si sveglierà dal sonno domestico troverà un mondo cambiato e senza più principe azzurro o a stelle e strisce.

Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2013/09/04/cultura/opinioni/editoriali/un-mondo-senza-arbitro-p9sPxETcZPL9jGDXkNGMtL/pagina.html
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« Risposta #102 inserito:: Settembre 11, 2013, 05:43:33 pm »

cultura
11/09/2013 - personaggio

Don Giussani, prima la fede poi la politica



In una monumentale biografia curata da Alberto Savorana l’epopea del prete che nel ’68 sfidò la sinistra e i vertici della Chiesa milanese


Gianni Riotta

I più aspri critici dell’esperienza di Comunione e Liberazione, e i più fedeli militanti del movimento, dovrebbero leggere questa straordinaria Vita di don Giussani (Rizzoli), redatta in anni di monumentale lavoro da Alberto Savorana, come se trattasse di un personaggio storico di cui mai abbiano sentito parlare prima. Evitando cioè che i pregiudizi, positivi o negativi che il fondatore di Cl ha attratto a lungo su di sé, impediscano loro di riscoprire un «don Gius», così lo chiamavano i suoi studenti affezionati, inedito, come documentato da Savorana, che è stato vicino ieri a Giussani, oggi al suo successore Julian Carrón. 

 

Un don Giussani che considera il regista Pier Paolo Pasolini «unico intellettuale cattolico italiano», che trova momenti di solidarietà con don Milani, il parroco che si scontra con la gerarchia cattolica per la «scuola di Barbiana». E di scontri con i vertici, quando a Milano la Diocesi è retta dal cardinal Colombo, Giussani ne ha molti, anche rivendicando con orgoglio in punto di morte «Ho sempre obbedito». La sua prima creatura tra gli studenti – è stato professore al Liceo «bene» Berchet, poi all’Università Cattolica – si chiama Gioventù Studentesca, e «don Gius» ammonisce: la centralità non è il lavoro sociale, politico o culturale, ma la radicalità «dell’annuncio» cristiano, la figura di Cristo. Uno studente spagnolo, che per essere vicino a Cl finirà in galera nella Spagna del dittatore Franco, propone di vivere «per Cristo e per i poveri», Giussani con irruenza spiega che Cristo viene prima, «o diventiamo solo marxisti», come obietta a un collega comunista del liceo.

 

Negli Anni 50 della Guerra Fredda, nel 1968 che spazza le università e svuota in un giorno i quadri di Gs, nel 1977 estremista che incendia le sedi di Cl e ne disperde le assemblee con i pestaggi (Paolo Mieli, ex direttore del Corriere, dirà che la sinistra deve delle scuse a Cl per il clima di intimidazione di allora e farà con coraggio le sue personali), come nella stagione in cui Cl e il Movimento Popolare assumono potere nella Chiesa, nella politica italiana, nell’economia e nei media, Giussani tiene un solo orientamento. È la critica, che Giovanni Paolo II porterà al vertice della Chiesa, al «marxismo e del materialismo» del secondo ‘900. Secondo il vescovo Camisasca, don Giussani «Non è stato ossessionato dal problema della modernità. […] Ha sentito l’epoca moderna come un tempo che stava finendo, su cui non era necessario soffermarsi. Occorreva invece ripensare in termini nuovi le questioni di sempre, che la modernità aveva a suo modo reso impensabili… ricominciare da capo, riscoprire le parole fondamentali, riguardare l’uomo in azione per coglierlo nei suoi dinamismi più profondi, nelle sue attese più radicali».

 

Quando Cl diventa fenomeno di massa, le grandi firme accorrono a intervistare Giussani, Giorgio Bocca, Massimo Fini, Giovannino Russo, provando a farlo cadere in contraddizione, gli parlano del suo voto alla Dc, della pillola anticoncezionale, dell’industria, ma il fondatore di Cl li spiazza – e Bocca in una ironica chiusa lo riconosce – insistendo che il suo discorso è altrove, in una fede che la politica non coglie. Il filosofo Althusser critica i comunisti e li vota? Io faccio lo stesso con la Dc, scherza Giussani. È impressionante in una pagina di Savorana, il malumore di Giussani dopo un’assemblea riuscitissima al Palalido di Milano, intorno al 1975. Mettendo in guardia i suoi dalle sirene della «politica», rimandandoli da «pretaccio», come una futura madre badessa di clausura, Monica Della Volpe, lo giudicherà al primo incontro da studentessa, Giussani sembra prevedere la deriva di «materialismo» che toccherà una generazione dopo leader vicini a Cl, e contro cui il suo successore Carron predicherà con energia. La futura badessa Monica Della Volpe ricorda come Giussani trattava i giovani che si avvicinavano a lui spinti anche da ambizione: si infiltra a «un pranzo di capetti con il Gius, al ristorante. Io li vedo tutti lì: piccini, ansiosi di carpirsi una parola, uno sguardo del capo. Insopportabili. Poi vedo Giussani che si fa portare un carciofo crudo, con una salsina. Comincia a staccare le foglie una a una, le mangia ed esclama: “Ah, come è buono questo carciofo! Come è buono questo carciofo!”»…Intanto Giussani «guarda quegli altri, gli lancia battute, zampate fra l’ironico e l’affettuoso, li prende in giro…». 

 

Alberto Savorana, in oltre 1300 pagine, racconta non solo la vita di don Giussani, ma decenni di storia. Anni in cui al Berchet, Giussani «prof» di religione e i colleghi marxisti, dibattono di «fede e ragione» in corridoio, mentre gli studenti ascoltano. Al Circolo Peguy di Milano, un giovanissimo Gian Enrico Rusconi ragiona con Giussani di fede e politica, nasce la casa editrice Jaca Book (dal nome di una specie di albero del pane) che sarà la prima a tradurre il capolavoro di Grossman Vita e destino. Su Rinascita, settimanale del Pci, il futuro parlamentare Fabio Mussi denuncia Cl come misto di integralismo e marketing. La Stampa e il Manifesto accusano – la notizia sarà smentita – Cl di essere finanziata dalla Cia. Padre Davide Maria Turoldo, sul Corriere della Sera, polemizza in un articolo molto duro con l’«integrismo» di Giussani, chiedendosi poi perché Giussani non attacchi il terrorismo di destra, gli scandali, la corruzione. Perfino il mite frate Nazareno Fabbretti, a colloquio con Giussani, gli chiederà come mai quelli di Cl siano così detestati nella Chiesa, non nascondendo di condividere l’antipatia.

 

Più lontano vedono il cardinal Montini, poi papa Paolo VI e Aldo Moro. Montini, quando gli universitari cattolici della Fuci di Fabrizio Onida, che pure aveva diretto a suo tempo, si scontrano con Giussani per un libro sulla Spagna fascista, prende a sorpresa le parti di Gs, persuaso che la fede venga avanti alla politica. E Moro, all’apice del potere, andrà taccuino in mano, nascosto tra gli studenti, ad ascoltare «don Gius» e i suoi. Immaginate l’aneddoto, ricordato dal nostro – giovanissimo – Luigi La Spina, con protagonista un leader di oggi? Savorana non nasconde le critiche radicali rivolte a Giussani, gli abbandoni, le sconfitte, i momenti di depressione, per la precaria salute, o quando il cardinal Colombo lo manda in una specie di esilio on the road in America. Preoccupato di trovare mele cotte per il fegato e la cistifellea che ha a pezzi, Giussani vagabonda da Los Angeles a New York, ma appena i dolori gli regalano un certificato medico ad hoc, si precipita a riorganizzare Gs a Milano.

 

Ratzinger ne celebrerà i funerali, condividevano la denuncia di totalitarismo, materialismo e relativismo, la fede nella parola. Agli studenti del ’68 Giussani spiega che se i cristiani non predicano il Vangelo, allora il messaggio più rivoluzionario è Marx. Divertente a tratti, dal padre di Giussani vecchio socialista vicino ad Anna Kuliscioff, a «Gius» che si lagna di «essere brutto» perché i giovani si distraggono in classe, La vita di don Giussani è un capitolo del dopoguerra che tocca tutti noi. L’incontro in Spagna con don Carrón meriterebbe un saggio a sé. Perché con Vita di don Giussani, Savorana compie il lavoro di storico, attingendo ad archivi e documenti inediti. Ma il suo è anche un libro «politico», che parlando del fondatore di Cl ne indica la strada futura, contro le possibili «deviazioni», come i Fioretti di San Francesco nel dibattito medievale. 

 

Contro il timore di Emilia Cesana, carissima a don Giussani sugli altri leader del movimento, «Speremm desfen no quel che don Giussani el fa», speriamo non distruggano quel che ha fatto don Giussani, una citazione spesso ripetuta dal cardinale di Milano Angelo Scola. Un pericolo contro cui lavora Carròn e che ha così esorcizzato il giorno dei funerali di Giussani: «L’unità tra di noi è il dono più prezioso che nasce dall’accogliere questa iniziativa. Chiedo la grazia, per la responsabilità affidatami da don Giussani, di poter servire questo dono dell’unità». Un libro da leggere per capire una figura chiave del nostro Paese, un manifesto di guida politica per chi in Cl militerà. 

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/09/11/cultura/don-giussani-prima-la-fede-poi-la-politica-dCQ0nKyumkgIcLbM907G7M/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Settembre 14, 2013, 07:40:10 pm »

EDITORIALI
13/09/2013

Barack finisce in un vicolo cieco

GIANNI RIOTTA

Forte delle sue lauree da primo della classe a Columbia e Harvard, il presidente americano Barack Obama ha paragonato il presidente russo Vladimir Putin «allo studente pigro che ciondola all’ultimo banco». Imagine efficace, ma non di rado lo studente scarso a scuola le suona poi nella vita al secchione in classe. Sulla tragica vicenda della Siria, Putin surclassa, in politica, diplomazia e comunicazione il rivale Obama. E se Arafat e Kissinger hanno vinto il Premio Nobel per la Pace, magari a qualcuno verrà in mente di concederlo anche a Putin. 
 
Il leader Usa s’è contraddetto a ripetizione, chiedendo via via il cambio di regime contro Assad a Damasco, poi imponendo un ultimatum sull’uso dei gas, infine preparando il blitz dopo la strage di civili innocenti uccisi dalle armi chimiche, infine, in extremis, chiedendo un voto al Congresso, dopo che il suo vice Biden e il segretario di Stato Kerry avevano dato per certo l’attacco. Il caos della Casa Bianca ha prima costretto all’umiliazione l’alleato premier inglese Cameron alla Camera, poi isolato il presidente Hollande, rimasto a fianco degli americani contro Assad. Mentre Kerry parlava, in termini che facevano inorridire lo stato maggiore militare Usa, di «un attacco incredibilmente minuscolo», un raid bonsai, Obama annunciava invece che non si sarebbe accontentato di «colpi di spillo». Un pasticcio che ha confuso alleati come l’Italia e screditato il Presidente in casa. I deputati e i senatori, in privato, siano democratici o repubblicani, si dicono più incerti di due settimane fa. E i falchi, come il senatore McCain, sono sbigottiti che l’attacco venga condotto in questo modo grottesco. Alle Nazioni Unite da decenni gli Stati Uniti non erano tanto malmessi, almeno ai tempi di G.W. Bush e dell’Iraq c’era un pacchetto di paesi amici, da Londra a Roma a Madrid a Varsavia. Oggi sorrisi educati e battute dietro la schiena.
 
Che poi l’iniziativa diplomatica sia passata a Putin, e al suo esperto ministro degli Esteri Lavrov, manda al tappeto Obama. In pochi giorni il Presidente russo ha dipinto il premio Nobel Obama come uno spione che perseguita la libera informazione incarcerando Chelsea Manning su Wikileaks e braccando Snowden sui dati Nsa, mentre viola la legge internazionale minacciando di colpire un paese indipendente come la Siria: altro che pace, un guerrafondaio. Con l’editoriale sul New York Times, nell’anniversario dell’11 settembre, Putin cita Papa Francesco, invoca Dio e si atteggia a statista difensore degli equilibri contro l’America «che milioni nel mondo vedono non come una democrazia» perché «punta solo sulla forza bruta».
Per uno «studente pigro dell’ultimo banco» un successone. Chi ricorda, leggendo le righe nobili di Putin sul pacifista New York Times, che, sulla stessa pagina delle opinioni, nel 1999, il presidente russo si vantò della sua guerra di aggressione in Cecenia con un editoriale dal titolo «Perché dobbiamo agire», in cui spiegava che «comunque vada purtroppo in guerra ci sono vittime civili»? Nessuno. Chi chiede a Putin come mai la «legge internazionale» e le Nazioni Unite non gli sembrarono importanti quando decise di bombardare la Georgia? Sotto il suo governo giornalisti sono stati uccisi, innocenti incarcerati, dissidenti assassinati all’estero dalle spie, intellettuali trascinati in tribunale, omosessuali chiusi in un clima di odio. Ma grazie agli errori di Obama, Putin ha ripulito la sua immagine e quella del Cremlino.
 
«Scoiattolo cieco» definisce ora Obama, il saggista David Rothkopf su Foreign Policy, confessando «di averlo votato due volte» ma di condividere lo sgomento della base democratica per Amleto-Barack. Se il negoziato che ora Putin propone, dare all’Onu il controllo dell’arsenale chimico di Assad, diventasse realtà, sarebbe una vittoria diplomatica fantastica per i russi, la prima vera dalla fine della Guerra Fredda, ridimensionando per sempre il mito che tanti entusiasti avevano, con ingenuità eccessiva, creato intorno a Obama. Senza opposizione, Putin può chiedere insieme la trattativa sui gas di Assad e scrivere sul Times che ad usarli sono stati i ribelli, non il regime siriano: dunque a che serve mai il controllo Onu a Damasco, il fronte anti Assad potrebbe ancora fare strage di civili! Colum Lynch, blogger del Washington Post rivela che le Nazioni Unite hanno le prove della responsabilità di Assad, ma il segretario generale Ban Ki-moon poco potrà fare, bloccato dai veti di Russia e Cina: altro che Onu «garanzia della pace»…
 
L’opinione pubblica americana che, come ha detto Kerry, è «stanca di guerra», vede nel Presidente un evanescente leader, incerto. Se ora Obama comanderà il blitz, Putin e i suoi avversari avranno buon gioco, anche in un’Europa del tutto indifferente alla tragedia siriana, senza marce per la pace, bandiere, slogan, a dipingerlo da «guerrafondaio». Se, disperato, acconsentirà alla proposta russa, entrerà in un labirinto come quello della trattativa sul nucleare in Iran, anni di inutili riunioni, mentre il programma atomico di Teheran prosegue. Assad, consigliato e guidato da Putin, tratterà e si terrà per anni i gas, mentre sul campo la strage e le sofferenze dei civili, già 100.000 morti e 7 milioni di profughi, la metà siriani, continueranno.
 
Obama ha rivinto la Casa Bianca nel 2012 grazie al guru Michael Slaby e ai suoi Big Data. Ma nessun computer, nessuna banca dati, viene in soccorso davanti alla guerra, alla pace, ai diritti, quando un leader democratico è solo con la sua coscienza, e la forza, le idee e l’energia per una condotta giusta ed efficace deve chiederli al proprio animo, non a un algoritmo.

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da - http://www.lastampa.it/2013/09/13/cultura/opinioni/editoriali/barack-finisce-in-un-vicolo-cieco-q22LygYyPglWtC1foKPcJM/pagina.html
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« Risposta #104 inserito:: Ottobre 15, 2013, 05:17:51 pm »

Editoriali
13/10/2013

Sfida rock a Grillo

Gianni Riotta


Vestito e cravatta scuri da Reservoir Dogs di Tarantino, camicia bianca, microfono da conduttore di talk show, luci rock e palcoscenico rotondo con freccia. 

 

Tutto perfetto al lancio della corsa verso la segreteria di Matteo Renzi ieri a Bari. Già gli analisti politici studiano la Fenomenologia del Look, opponendo «Matteo hot» a Enrico Letta cool», secondo la vecchia, fallace teoria di McLuhan. In realtà il sindaco di Firenze sa benissimo – riascoltatene il discorso come prova- che non gli basterà l’immagine per vincere la difficile partita in corso.

 

Il «look» colpisce infatti l’opinione pubblica, ma alla fine sono le idee, gli interessi, la realtà ad assegnare la vittoria. Credere che Berlusconi abbia vinto «grazie alla tv» è errore teorico, cocktail di ignoranza e presunzione, costato alla sinistra italiana venti anni di guai. Renzi ha ora davanti gli elettori che dovranno votarlo, militanti e simpatizzanti Pd. Ha concesso loro la critica alla legge Fornero, ha parlato di temi cari a Vendola. Consapevole che il «Matteo» Gian Burrasca fiorentino degli esordi non piace all’apparato, ai dirigenti tradizionali del sindacato, al Pd ortodosso, Renzi modula i toni: conta vincere bene, senza strappi.

 

Ma un Renzi mellifluo come un doroteo e grigio come un apparatchick del Cremlino farebbe ridere. Piaccia o no, la personalità del sindaco è insofferente perfino ai consigli dei suoi spin doctors, spinto da una foga che può creargli guai, ma piace agli elettori. Ieri le scelte Pd erano nitide. Un Letta di governo che alla Festa di Repubblica dialoga col direttore Mauro e con il socialdemocratico tedesco Schulz. A Roma Cuperlo e Civati a cercare spazio. A Bari Renzi «formato Pd». Gianni Cuperlo dice, con serietà, di volere «bucare le coscienze» e non il video. In meno di 60 giorni Renzi deve dimostrare di saper bucare le coscienze, oltre al video, cosa che fa egregiamente.

 

Perché tra «immagine» e «sostanza» non c’è contraddizione, nel mondo web la sostanza «è» immagine, l’immagine «è» sostanza. La tenuta del centrodestra nei sondaggi malgrado l’impasse di Berlusconi ne è prova. La sfida di Renzi è semplice e dura: restare se stesso, non truccarsi da statista corrucciato, ma ascoltare voci e bisogni dei militanti Pd alle primarie e dei cittadini alle politiche. Ci ha provato ieri parlando contro la Fornero, ma anche contro l’amnistia, non polemico contro il Quirinale, ma attento agli umori moderati, centristi e perfino ai populisti che dovrà contendere a Grillo.

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/10/13/cultura/opinioni/editoriali/sfida-rock-a-grillo-vRNZx63hepmu9HsnpnVNZM/pagina.html
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