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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 90909 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Ottobre 28, 2013, 09:38:03 am »

EDITORIALI
22/10/2013

Trasparenza contro il Far West
GIANNI RIOTTA

Fa benissimo la Francia a lamentarsi del programma di controllo Big Data, regia della National Security Agency americana, che l’ha investita. Non capita tutti i giorni che l’ambasciatore Usa a Parigi venga convocato dal ministro degli Esteri Fabius per una lavata di capo e quando capita è notizia da prima pagina. Le rivelazioni dell’ex collaboratore Cia Snowden e dell’attivista Greenwald, sul network segreto continuano a imbarazzare la Casa Bianca, e il peggio deve arrivare. Il contrasto che oppone il presidente Hollande a Obama stride con l’intesa che i due capi di Stato avevano trovato sulla Siria e il brutto incidente segue il viaggio mancato negli Stati Uniti della presidente brasiliana Rousseff, anche lei sdegnata per il caso Nsa.
 
La campagna di Edward Snowden, ora rifugiato nella Russia di Putin a gestire la cassaforte di dati trafugata in Nsa, non è finita. L’ex giornalista del Guardian Glenn Greenwald è stato assunto dal miliardario Pierre Omidyar, fondatore della catena di aste online eBay, e il duo intende lanciare nuovi documenti, senza le precauzioni giornalistiche «old media» dei quotidiani, considerate obsolete. La filosofia di Greenwald e Snowden, condivisa dall’ex agente Kgb Putin e ora corroborata dalla ricchezza e diffusione digitale di Omidyar, è opposta a quella del giornalismo professionale, senza controllo delle fonti, ricerca dei motivi per cui certi documenti vengono diffusi, analisi delle conseguenze che la pubblicazione comporta, per esempio sull’antiterrorismo. 
 
Governi e le opinioni pubbliche occidentali sono davanti a una scelta storica e prima l’affrontano, senza ipocrisia o ignoranza, meglio sarà. Il presidente Obama, distratto dal caos al Congresso, shutdown e difficile decollo della sua riforma sanitaria, ha davanti una scelta netta. Gli americani non possono continuare a analizzare i dati online e telefonici di soppiatto, è indispensabile alla sicurezza nazionale la collaborazione con gli alleati, se non vogliono poi essere costretti a scusarsi arrossendo, colti con le mani nel software. Gli apparati dei vari paesi alleati devono concordare strategia e regole comuni, senza inciampare in un «caso» dopo l’altro.
Ma l’opinione pubblica, in America e in Europa, deve maturare. Tutti i paesi, nessuno escluso, conducono analisi Big Data del traffico di informazioni, online e offline. La Francia, che giustamente denuncia l’occhiuta ingerenza dello Zio Sam, ha il suo efficiente Dgse, ufficio di intelligence che usa stessi metodi e software Nsa. Il direttore tecnico del Dgse, Bernard Barbie, si vanta «La Francia, dopo gli inglesi, ha il miglior centro raccolta dati in Europa».
 
Nsa e Dgse negano di ascoltare il contenuto delle telefonate, o di leggere il contenuto delle e-mail sottoposte ad esame. Piuttosto disegnano la rete dei contatti, esaminano «chi chiama e chi scrive a chi e quanto spesso». Quando un numero o un’utenza mail infittiscono i contatti con centrali terroristiche, conosciute o sospettate, vengono pedinati online. Lo Stato, in America come in Europa, utilizza gli stessi algoritmi che i motori del web usano ogni giorno su di noi (paradossalmente eBay, che assume Greenwald come paladino della trasparenza, è pioniera di queste tecniche informatiche…). Ma quel che i cittadini perdonano a Google, Amazon, Facebook, Twitter, studiare e raccogliere i nostri gusti online, perdoneranno anche allo Stato? Secondo gli attivisti digitali, da Assange e Manning del caso Wikileaks, a Snowden e Greenwald del caso Nsa, no: Greenwald non ha obiezioni a lavorare per eBay ma combatte la sicurezza di Washington.
 
Hanno ragione i guerriglieri del web? Solo fino a un certo punto. Come ha detto il capo dei servizi segreti inglesi MI5, Andrew Parker, l’impresa di Snowden «è un regalo immenso ai terroristi». La rete del fondamentalismo, attiva dall’Africa, al Medio Oriente, gli Usa e l’Europa, utilizza gli stessi modelli analitici della polizia e, una volta dedotto l’algoritmo usato per snidarli, può con facilità eluderlo e confonderlo. I Big Data sono arma letale a doppio taglio, chiunque può impugnarli.
 
Il presidente Obama, nei guai con i francesi – «i nostri più antichi alleati» li ha definiti con enfasi il segretario Kerry -, deve meditare e noi con lui. La soluzione non è abolire ogni controllo online per timore del Grande Fratello. Non obiettiamo a posti di controllo e telecamere in strada, a perquisizioni in aeroporto, spesso degradanti, perché ne conosciamo l’utilità. Ma è ora che il Far West online cessi e che gli utenti sappiano fino a che punto, e come, la loro privacy è studiata, da governi e monopoli.
 
Apparati di sicurezza online sono necessari, ma il loro mandato deve essere trasparente, le responsabilità delle agenzie assegnate con precisione, senza setacciare nel mucchio. Come si sta, faticosamente purtroppo, negoziando un’area di libero scambio Usa-Eu si deve lavorare a un accordo Usa-Eu sui dati, con confini chiari e metodi acclarati.
 
Se Washington spera di continuare a fare da sola, se gli europei gongolano quando l’America è colta in fallo salvo poi arrossire a loro volta quando Anonymous tramerà a Bruxelles, il risultato sarà meno coordinamento ed efficacia nella lotta al terrore globale e più slancio per pirati e nichilisti. I quali, malgrado collaborino con caudillos latinoamericani, oligarchi russi e padroni del web, si vestiranno da Robin Hood, sottraendoci utili armi contro terrorismo e criminalità organizzata. Obama deve imporre regole alla Nsa, magari reclutando con più attenzione: letti i curriculum del soldato Manning e dell’agente Snowden ci si chiede quale matto li abbia messi a lavorare con i dati segreti. Le ricerche vanno coordinate con gli alleati europei, con un’Interpol digitale. E, infine, i giornalisti professionisti veterani dovrebbero spiegare al pubblico qual è la posta in gioco, come funziona davvero la raccolta dati, che differenza c’è tra informazione libera e furto di dossier segreti.
 
Gianni RiottaTwitter @riotta 
http://lastampa.it/2013/10/22/cultura/opinioni/editoriali/trasparenza-contro-il-far-west-tDQiOtMu8wrPhnZ3XTXQhI/pagina.htmlDa -
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« Risposta #106 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:39:23 pm »

Editoriali
03/11/2013

Il teatro di ombre
Gianni Riotta

La vicenda dei dati raccolti dall’agenzia americana di intelligence National Security Agency e la reazione dei governi europei nasconde una delicata filigrana. 

L’immagine in superficie divide la pubblica opinione nella contesa politica, mentre i professionisti più accorti studiano, e si contendono, la filigrana occulta. 

Curioso paradosso per una crociata sulla trasparenza.

Il presidente francese Hollande protesta con Obama sulle scorribande Nsa in Francia, ma solo con pacata sagacia. Hollande sa quel che Bernard Squarcini, ex capo dell’intelligence interna Dcri, dice con candore raro in un uomo dei servizi : «Se i nostri leader si stupiscono per le rivelazioni Nsa vuol dire che non hanno mai letto i rapporti che mandavo loro… tutti sanno che gli alleati cooperano sull’antiterrorismo, ma poi si spiano a vicenda, lo fanno gli americani e lo facciamo noi, dal mercato all’industria, nessuno è fesso». Con realismo il ministro del Commercio Nicole Bricq conferma: «Inutile piagnucolare… piuttosto la Francia migliori» la propria rete di raccolta dati.

Distratti dal Teatro di Ombre su sicurezza e dati, non vediamo il vero scontro, indicato dalla Bricq, ed è qui che va invece puntata l’attenzione. Se il Ministero del Tesoro americano, con un attacco di rara violenza, castiga la Merkel e la politica dell’austerità che confinerebbe nella recessione l’Europa, se il presidente dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel minaccia di bloccare il patto di libero scambio Usa-Ue in rappresaglia contro l’intelligence Nsa, è perché i governi, sulle due rive dell’Atlantico, sanno che lo spionaggio continuerà comunque e provano almeno a ricavarne vantaggi sui temi di politica economica in discussione.
Mentre l’ex direttore del New York Times Keller e l’ex analista del Guardian Greenwald dibattono di vecchi o nuovi canoni del giornalismo, gli addetti ai lavori studiano la falla aperta dalla politica sfrenata Nsa. La società contemporanea, politica, finanza, economia, commercio, lotta alla criminalità, si basa su un livello accettabile e condiviso di sicurezza della rete. Se mandate una mail, comprate un biglietto del treno, seguite il vostro conto in banca o la carta di credito online, scommettete su un accettabile grado di privacy. Il codice Swift presiede - ad esempio - domestiche o faraoniche transazioni finanziarie. Ai massimi vertici dell’antiterrorismo, alla guida dei satelliti in orbita, nella protezione dei sistemi complessi, la crittografia che tutela la comunicazione online è preziosa e indispensabile: se accessibile ai Cavalli di Troia di hackers, terroristi, malviventi, spie, mette a rischio ogni passo quotidiano online.

Purtroppo questa è - anche se pochissimi ne parlano - la più nefasta conseguenza della bulimia Big Data Nsa. Secondo gli esperti di crittografia Nadia Heninger e Alex Halderman, la Nsa avrebbe chiesto ai programmatori di lasciare «vie d’accesso» nei software di protezione della comunicazione, per permettere con facilità agli agenti Usa di controllarli e deporre «virus» capaci di registrare il traffico dei siti sotto indagine. Heninger e Halderman temono che annacquare gli algoritmi guardiani della privacy e della sicurezza online sia il vero pericolo: una volta aperta la strada per le spie Nsa, essa può essere ripercorsa da chiunque altro. E se il sistema perde di credibilità, cittadini, aziende e istituzioni lo useranno meno e con minore fiducia.

Da una generazione, garante della sicurezza digitale è il Nist, National Institute of Standards and Technology, agenzia americana che sovrintende agli standard crittografici accettati poi da governi e aziende. I codici AES, le funzioni SHA-3, la crittografia delle «curve ellittiche» studiata da Koblitz e Miller, sono tra gli algoritmi cui il Nist ha concesso autorevolezza. Purtroppo, secondo la rivista «Foreign Affairs», la Nsa avrebbe chiesto al Nist di indebolire i sistemi di sicurezza approvati, così da permetterle più agevoli intrusioni. 

Scricchiola così l’intera tecnologia web. Ancor prima delle rivelazioni sulla Nsa dell’ex agente Snowden, i crittografi Dan Bernstein e Tanja Lange sospettavano che gli algoritmi di sicurezza, soprattutto quelli basati sulle «curve ellittiche», fossero stati allentati dal Nist. L’algoritmo «Dual EC DRBG» a curve ellittiche è sotto osservazione già dal 2006, come i sistemi di sicurezza a «numeri random». Secondo Snowden proprio «EC DRBG» è stato indebolito su richiesta Nsa. È l’architrave su cui il web futuro basa l’architettura, se Nist non chiarisce, con franchezza, fino a che punto lo ha crepato, il prezzo da pagare, in termini politici ed economici, sarà gravissimo. 

Se anche Obama riuscisse - e non sembra sia per ora il caso - a riguadagnare fiducia su Nsa e Nist, come osserva il saggista Misha Glenny, il monopolio del web, dalla nascita gestito in America, emigrerà «in un network confuso, dove le nazioni erigono barriere digitali e i governi alzano il controllo su quello che i cittadini possono, o non possono, fare online». Il web bloccato dai dazi digitali farà rimpiangere la convulsa prateria americana e il controllo online sarà l’esito bizzarro della campagna per la trasparenza. Stavolta però gli Stati Uniti potranno prendersela solo con se stessi. È stato lo Zio Sam a sfiduciare gli algoritmi Nist, complessi ed umili cardini della libertà digitale. Per questo Hollande, saggiamente, tiene i toni bassi: sa che il peggio deve ancora venire e spazzerà via chi oggi si atteggia a cicisbeo.

Da - http://lastampa.it/cultura/opinioni/editoriali
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« Risposta #107 inserito:: Novembre 05, 2013, 06:19:59 pm »

Editoriali
05/11/2013

Eppure la cultura ci può salvare
Gianni Riotta

L’Italia che emerge dai dati europei sui consumi culturali è come un’immagine composta al computer da milioni di pixel, mosaico che, spostando il fuoco, si sgrana e assume diverse fisionomie. Paese impoverito, potremmo dire a prima vista, che taglia su spettacoli e libri perché disoccupazione, cassa integrazione, precariato limano i redditi familiari. È di ieri la notizia che ha visto ridotti quasi della metà gli italiani in lizza per la Maratona di New York: crisi del podismo o risparmi? 

 

Un Paese intimidito, che non studia musica perché preoccupato di quel che la crisi ci butta addosso, magari deciso a investire i risparmi in un corso che si ritiene più utile, «Informatica», «Inglese Commerciale», «Tecniche del Marketing» anziché violino, pianoforte, composizione. Un Paese affaticato, perché niente logora come la vita del disoccupato e del precario. 

 

Da mattina a sera cercando un posto, un impiego, calcolando se i tre mesi di contratto a rischio rinnovo valgano la pena, o se sia meglio restare free lance e non perdere clienti. Incerti se cercarsi una raccomandazione detestata, tornare a studiare, o – per i senza lavoro over cinquanta - tornare con trepidazione a «guardarsi in giro», come si era fatto solo trenta anni indietro.

 

Stati d’animo che poco invogliano a mettersi in coda con i turisti agli Uffizi a Firenze, a meditare sul Cenacolo di Leonardo a Milano o l’Annunciata di Antonello a Palermo, ascoltare le Variazioni Golberg di Bach, un brano jazz di Tristano, l’ultimo spettacolo di Luca Ronconi. I numeri che Marco Zatterin analizza sono i pixel di un Paese depresso, distratto, indaffarato, frustrato, dove un’élite di rango o cultura continua a potersi permettere anche la «Cultura» ma la grande galassia di chi scivola nell’economia post industriale dal ceto medio al disagio taglia i consumi, nobili come La Scala, semplici come pizza e birra con gli amici.

 

I nostri luoghi comuni, il Paese con i tanti (troppi?) siti dell’Unesco, la patria del diritto, il Bel Paese dove il Sì suona, gli elzeviri del solito parruccone, svaniscono davanti a un censimento impietoso, dove conservatori, cinema, gallerie d’arte, restano deserti e ciascuno di noi si isola, detestando perfino la tv.

 

Ci sarà chi, e non a torto, rimprovererà la cultura italiana, specchio depresso di questa deprimente realtà, incapace di dare visione al resto della comunità, con romanzi insieme di eccellenza e popolari, come «I Promessi Sposi» o «Il barone rampante», film come il «Gattopardo» di Visconti, un cult che però ebbe record di incassi nel 1963-1964. Nei ricordi de «L’impronta dell’editore», Roberto Calasso ha ricordato con ironia come «Fuga senza fine» di Joseph Roth, aristocratico romanzo Adelphi della Mitteleuropa divenne nel 1977 lo struggente manifesto di una generazione ribelle: il corto circuito culturale, anima del jazz, produce simili scintille emotive.

 

Oggi troppo appare spento in Italia. La crisi induce risparmio, contrazione, taglio, la paura sociale genera rancore, astio, invidia, oppure frustrazione, solitudine, alienazione. Eppure è giusto in momenti come questi che la cultura salva. Il neorealismo italiano, con il suo De Sica capace di essere eroe per il capolavoro di Rossellini «Il generale Della Rovere» (anche qui tensione cultura-cronaca, l’idea era di Indro Montanelli) come per il bonario «Pane, amore e fantasia» di Comencini, la Loren tragica della «Ciociara», premiata con l’Oscar, e la Loren comica dello spogliarello davanti a Mastroianni al ritmo languido di «Abat Jour», facevano meditare e rasserenare. In America, negli anni terribili della Depressione, Steinbeck racconta l’esodo dei braccianti, il regista Capra conforta con i suoi film, commedie morali. Facendoci riflettere o sorridere, mai annoiandoci però, la cultura è indispensabile negli anni bui. Troppi nostri romanzi, troppi nostri film, troppa nostra tv, riflettono invece opachi la società perduta, che si lamenta, si isola, non vuol combattere né sperare e diserta.

 

Il populismo corrente addebita, a destra, centro e sinistra, questo vuoto alla «Kasta», un totem che ha finito, complice la nostra disastrosa classe politica degli ultimi 20 anni, per assolvere tutte le colpe parallele della leadership italiana, finanzieri e aziende, la Chiesa, la cultura e i media, la pubblica amministrazione, i sindacati. La mancanza di visione, la paura del futuro, lo sterile attaccarsi ai pochi, diffusi, privilegi, ci ha buttati nel pozzo in cui ci sentiamo infelici. Dall’oblò lontano vediamo poca luce e neppure un pezzetto di quella Luna meravigliosa che il piccolo minatore Ciaula di Pirandello, riesce a scorgere una notte uscendo dalla tomba di fatica dove vive.

 

L’Italia – ci dicono i centri studi - non cresce da 25 anni, una generazione. Qualcuno scrolla le spalle, invocando il miraggio della «decrescita felice», ossimoro grottesco. È questo deserto culturale, invece, il panorama maligno della decrescita. Non meno tempo sprecato al centro commerciale a comprare roba inutile trasformato in prezioso seminario a Ivrea, su Signorina Felicita e Gozzano. No, niente shopping, niente Gozzano, restare seduti da soli in tinello sul sofà con la tv o il computer che girano a vuoto e neppure guardiamo, aspettando in silenzio i guai di domani.

 

Twitter @riotta 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/05/cultura/opinioni/editoriali/eppure-la-cultura-ci-pu-salvare-wQhIR6ef1gNyBIkZfRZimK/pagina.html
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« Risposta #108 inserito:: Novembre 05, 2013, 06:21:59 pm »

Editoriali
03/11/2013

Il teatro di ombre
Gianni Riotta

La vicenda dei dati raccolti dall’agenzia americana di intelligence National Security Agency e la reazione dei governi europei nasconde una delicata filigrana. 

L’immagine in superficie divide la pubblica opinione nella contesa politica, mentre i professionisti più accorti studiano, e si contendono, la filigrana occulta. 

Curioso paradosso per una crociata sulla trasparenza.

Il presidente francese Hollande protesta con Obama sulle scorribande Nsa in Francia, ma solo con pacata sagacia. Hollande sa quel che Bernard Squarcini, ex capo dell’intelligence interna Dcri, dice con candore raro in un uomo dei servizi : «Se i nostri leader si stupiscono per le rivelazioni Nsa vuol dire che non hanno mai letto i rapporti che mandavo loro… tutti sanno che gli alleati cooperano sull’antiterrorismo, ma poi si spiano a vicenda, lo fanno gli americani e lo facciamo noi, dal mercato all’industria, nessuno è fesso». Con realismo il ministro del Commercio Nicole Bricq conferma: «Inutile piagnucolare… piuttosto la Francia migliori» la propria rete di raccolta dati.

Distratti dal Teatro di Ombre su sicurezza e dati, non vediamo il vero scontro, indicato dalla Bricq, ed è qui che va invece puntata l’attenzione. Se il Ministero del Tesoro americano, con un attacco di rara violenza, castiga la Merkel e la politica dell’austerità che confinerebbe nella recessione l’Europa, se il presidente dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel minaccia di bloccare il patto di libero scambio Usa-Ue in rappresaglia contro l’intelligence Nsa, è perché i governi, sulle due rive dell’Atlantico, sanno che lo spionaggio continuerà comunque e provano almeno a ricavarne vantaggi sui temi di politica economica in discussione.

Mentre l’ex direttore del New York Times Keller e l’ex analista del Guardian Greenwald dibattono di vecchi o nuovi canoni del giornalismo, gli addetti ai lavori studiano la falla aperta dalla politica sfrenata Nsa. La società contemporanea, politica, finanza, economia, commercio, lotta alla criminalità, si basa su un livello accettabile e condiviso di sicurezza della rete. Se mandate una mail, comprate un biglietto del treno, seguite il vostro conto in banca o la carta di credito online, scommettete su un accettabile grado di privacy. Il codice Swift presiede - ad esempio - domestiche o faraoniche transazioni finanziarie. Ai massimi vertici dell’antiterrorismo, alla guida dei satelliti in orbita, nella protezione dei sistemi complessi, la crittografia che tutela la comunicazione online è preziosa e indispensabile: se accessibile ai Cavalli di Troia di hackers, terroristi, malviventi, spie, mette a rischio ogni passo quotidiano online.

 

Purtroppo questa è - anche se pochissimi ne parlano - la più nefasta conseguenza della bulimia Big Data Nsa. Secondo gli esperti di crittografia Nadia Heninger e Alex Halderman, la Nsa avrebbe chiesto ai programmatori di lasciare «vie d’accesso» nei software di protezione della comunicazione, per permettere con facilità agli agenti Usa di controllarli e deporre «virus» capaci di registrare il traffico dei siti sotto indagine. Heninger e Halderman temono che annacquare gli algoritmi guardiani della privacy e della sicurezza online sia il vero pericolo: una volta aperta la strada per le spie Nsa, essa può essere ripercorsa da chiunque altro. E se il sistema perde di credibilità, cittadini, aziende e istituzioni lo useranno meno e con minore fiducia.

Da una generazione, garante della sicurezza digitale è il Nist, National Institute of Standards and Technology, agenzia americana che sovrintende agli standard crittografici accettati poi da governi e aziende. I codici AES, le funzioni SHA-3, la crittografia delle «curve ellittiche» studiata da Koblitz e Miller, sono tra gli algoritmi cui il Nist ha concesso autorevolezza. Purtroppo, secondo la rivista «Foreign Affairs», la Nsa avrebbe chiesto al Nist di indebolire i sistemi di sicurezza approvati, così da permetterle più agevoli intrusioni. 

Scricchiola così l’intera tecnologia web. Ancor prima delle rivelazioni sulla Nsa dell’ex agente Snowden, i crittografi Dan Bernstein e Tanja Lange sospettavano che gli algoritmi di sicurezza, soprattutto quelli basati sulle «curve ellittiche», fossero stati allentati dal Nist. L’algoritmo «Dual EC DRBG» a curve ellittiche è sotto osservazione già dal 2006, come i sistemi di sicurezza a «numeri random». Secondo Snowden proprio «EC DRBG» è stato indebolito su richiesta Nsa. È l’architrave su cui il web futuro basa l’architettura, se Nist non chiarisce, con franchezza, fino a che punto lo ha crepato, il prezzo da pagare, in termini politici ed economici, sarà gravissimo. 

Se anche Obama riuscisse - e non sembra sia per ora il caso - a riguadagnare fiducia su Nsa e Nist, come osserva il saggista Misha Glenny, il monopolio del web, dalla nascita gestito in America, emigrerà «in un network confuso, dove le nazioni erigono barriere digitali e i governi alzano il controllo su quello che i cittadini possono, o non possono, fare online». Il web bloccato dai dazi digitali farà rimpiangere la convulsa prateria americana e il controllo online sarà l’esito bizzarro della campagna per la trasparenza. Stavolta però gli Stati Uniti potranno prendersela solo con se stessi. È stato lo Zio Sam a sfiduciare gli algoritmi Nist, complessi ed umili cardini della libertà digitale. Per questo Hollande, saggiamente, tiene i toni bassi: sa che il peggio deve ancora venire e spazzerà via chi oggi si atteggia a cicisbeo.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2013/11/03/cultura/opinioni/editoriali/il-teatro-di-ombre-jNo056OOm0q30OEs3b2i5O/pagina.html
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« Risposta #109 inserito:: Novembre 25, 2013, 04:23:48 pm »

Editoriali
24/11/2013

E dei nuovi guai non sappiamo che cosa dire

Gianni Riotta

Siete preoccupati del futuro? Non siete soli, c’è ansia alla Casa Bianca e al Cremlino, negli uffici delle grandi multinazionali, nei tinelli del ceto medio e nelle favelas povere. Per capire cosa sta succedendo, in preparazione del World Economic Forum che ogni anno a Davos riunisce la classe dirigente mondiale, si sono raccolti ad Abu Dhabi i Global Agenda Council, gruppi di studio che analizzano il presente per intravedere gli sviluppi futuri. 1500 esperti, politici come Carl Bildt, Javier Solana, l’ex presidente messicano Zedillo, intellettuali come la rettrice di Harvard Drew Gilpin Faust o il teorico del «secolo asiatico» Kishore Mahbubani, hanno tracciato la mappa del XXI secolo. 

Al primo posto tra i 10 «top trend» «Tensioni sociali in Medio Oriente e Nord Africa», considerato il pericolo maggiore 2014. «È una battaglia di idee nel mondo arabo e nell’Islam» in cui speranza e tolleranza, violenza e intolleranza, una diversa lettura del ruolo della religione nella società e in politica si riverbereranno ogni sera nei telegiornali. Al secondo posto «La crescente disparità economica», non solo tra «Paesi ricchi e poveri» ma soprattutto nelle nazioni, tra chi ha accesso ai saperi del presente e chi non li possiede e non trova lavoro.

«I nuovi poveri nascono nel ceto medio che perde status e benessere… negli Stati Uniti la crescente disuguaglianza è il problema centrale» perché la grande ricchezza che gli Usa producono non viene redistribuita ma finisce ad una minoranza di cittadini. È difficile per il ceto medio, negli Usa ma anche in Europa, mantenere i figli all’università, molti laureati che stentano a trovare lavoro si frustrano, convincendo i fratelli minori a non finire la scuola. Alla domanda «Nel vostro Paese l’economia favorisce i ricchi?» rispondono «Sì» 95% greci, 60% in Usa e Canada, 64% in Asia e un esplosivo 86% in Italia. 

Nasce qui la terza sfida 2014 «Disoccupazione strutturale», un’economia che non crea lavoro induce nei giovani sfiducia e rancore e alimenta i movimenti populisti (forti di un terzo nei sondaggi per il futuro Parlamento Europeo). I governi accusano «globalizzazione» e «tecnologia» per la scomparsa di posti di lavoro, ma non vedono, spiega S.D. Shibulal di Infosys, che «il lavoro non scompare, evolve» se la tecnologia elimina impiegati e cassieri, crea lavoro nel software e nella robotica ed è lì che serve investire. Nel saggio «La nuova economia del lavoro» (Mondadori) Enrico Moretti indica dove si può creare lavoro, senza perder tempo con i «piani industriali statali» cari alla vecchia sinistra: la Global Agenda 2014 del WEF gli dà ragione, ma chi ascolta in Italia?

Al quarto posto, contraddicendo scettici come Morozov e Rid persuasi che si tratti di esagerazioni, la Global Agenda 2014 piazza «La minaccia cibernetica», guerra e hacking contro stati e aziende. Dall’Esercito Elettronico Siriano ai pirati che hanno messo in ginocchio Twitter e il New York Times, il professore di Harvard Jonathan Zittrain vede un pericolo crescente: in Germania l’azienda N.Runs ha scoperto che le comunicazioni tra le torri di controllo e gli aerei di linea non sono crittate, esposte quindi all’intrusione di ragazzacci e terroristi.
I governi dovrebbero studiare - tra l’altro sono posti di lavoro! - non un impossibile muro impermeabile a ogni assalto, ma un sistema di «rimbalzo» per turare subito le falle quando si aprono. L’Italia ha qui un record negativo, produciamo da soli ben il 2% dell’attività pirata online.

Emergenza numero 5 il cambio del clima, «stiamo facendo tanto, ma non abbastanza» ammonisce Christiana Figueres dell’Onu. Al sesto il tema che lacera ogni democrazia, ma che anche il leader cinese Xi Jinping teme: «Sfiducia nelle politiche economiche». I cittadini non credono più che, con il debito, senza spesa politica e investimenti, e con tasse già alte, i governi possano davvero governare l’economia. Nei sondaggi i giovani tra 18 e 29 anni sono i più pessimisti, persuasi che l’impotenza della politica inneschi per loro povertà. I «sì» alla domanda «La vostra economia va male?» sono una valanga: 99% Grecia, 65% Usa, 83% Gran Bretagna, 71 Giappone e 61 Cina. Per trovare ottimismo, e 90% di «no», dobbiamo andare in Cina. Numero 7: «La caduta dei valori nei leader», non abbiamo John Kennedy o Olaf Palme che ci diano fiducia, detestiamo i nostri governanti: il fascino di Papa Francesco deriva anche da questa amarezza. Il boom della classe media in Asia, oggi 500 milioni di persone, nel 2020 un miliardo e 750 milioni, occupa il posto n. 8. «Non ci sono nella storia - scrive l’economista Mahbubani - precedenti di una simile creazione di ricchezza» con conseguenze positive, il mercato che si apre e una generazione che lascia la fame per il lavoro, e preoccupanti consumi di energia e inquinamento. 

Punto 9 è «L’era delle megalopoli»: nel 2025 Tokyo con 39 milioni di abitanti, e New Delhi con 33, avranno insieme più abitanti dell’Italia. Pechino e Shangai saranno a 23 e 28 milioni, New York 24, San Paolo 23, Città del Messico 20 e Mumbai 27. La stragrande maggioranza degli umani vivrà in città che, come ha osservato il demografo Jeoffrey West studiandone i Big Data, funzioneranno allo stesso modo della diffusione dell’Aids, il numero delle strade, delle pompe di benzina, la criminalità «Le città hanno un Dna comune, sono reti complesse di persone, che alla fine funzionano in modo simile».

Il decimo e ultimo top trend, sorprende: «La diffusione delle false informazioni online». Dalla politica, agli attentati come la maratona di Boston o i disordini a Londra, fino ai disastri naturali come l’uragano Sandy a New York, i social media lanciano false notizie che a volte i media tradizionali raccolgono per superficialità, altre volte tentano invano di correggere. Come garantire un flusso di notizie non taroccate, in buona o cattiva fede, si chiede la studiosa Farida Vis?

Questi sono i dieci temi di cui i leader discuteranno a Davos, questi sono i nodi su cui i migliori cervelli si stanno lambiccando. Altri interrogativi ci sorprenderanno, nuove emergenze ci metteranno allerta, ma questi sono i compiti a casa del Pianeta Terra 2014. Vi pare che in Italia politici, imprenditori, intellettuali, media, cittadini se ne stiano occupando a sufficienza? A me pare di no, temo pagando presto un nuovo prezzo per il nostro narcisistico, indolente, compiaciuto, ingenuo ritardo.

Twitter @riotta

Da - http://lastampa.it/2013/11/24/cultura/opinioni/editoriali/e-dei-nuovi-guai-non-sappiamo-che-cosa-dire-NndmdouxYEVlhHXJfkORHO/pagina.html
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« Risposta #110 inserito:: Novembre 29, 2013, 07:09:45 pm »

Esteri

28/11/2013 - Cina-Giappone. sfida nel pacifico
Sugli scogli di Senkaku si gioca la partita imperiale di Pechino
Una protesta anti-cinese a Tokyo per dire no al controllo aereo sulle isole contese
Il gigante comunista rispolvera le mappe dell’800: in ballo un tesoro minerario e strategico

Gianni Riotta

È una storia del ventunesimo secolo che comincia nel diciannovesimo secolo, storia di Imperi caduti e rinati, potenze che non vogliono decadere, amici e nemici che cambiano fronte ad ogni generazione. 

La disputa sulle isole Senkaku, così le chiamano i giapponesi, o Diaoyu, secondo i cinesi, ha conosciuto un nuovo capitolo nei giorni scorsi, quando la Cina ha annunciato che avrebbe imposto alle compagnie aeree di comunicare i piani di volo sulla zona del Mar Cinese Meridionale, in gergo Adiz, che reclama come propria. 

Le linee aeree hanno subito detto di sì, i rapporti militari tra Tokyo e Pechino, malgrado qualche recente miglioramento, non sono sincronizzati e il rischio di un incidente, un radar mal calibrato, la pressione di un militare falco, terrorizza l’aviazione civile. Ma il premier Shinzo Abe ha fatto subito fare retromarcia ai manager, nessuna comunicazione di rotte alle autorità cinesi, sarebbe un abdicare ai diritti sugli isolotti, disabitati e brulli. 

Gli americani hanno dapprima protestato con i ministri della Difesa Hagel e degli Esteri Kerry, poi mandato i bombardieri B52, simbolo di quel che resta dell’impero Usa, a volare sulle isole, a contestare la sovranità cinese. La reazione di Pechino è stata curiosa, non violenta nei toni, come sorpresa che giapponesi e americani rispondano alzando i toni, non abbassandoli.

Alla vigilia della festa del Ringraziamento, l’opinione pubblica americana è distratta sulle remote isole Senkaku-Diaoyu e l’Europa ignora la frizione. Un errore, perché quegli scogli possono diventare la Crisi di Cuba del nuovo secolo, come l’impasse che vide affrontarsi 51 anni fa Kennedy e Kruscev. 

Il Giappone fa risalire i propri diritti al 1894, tempi della guerra Sino-Giapponese, ma Pechino replica che già il governo nazionalista Kuomintang aveva disegnato una mappa delle aree di influenza «delle 11 linee» che comprendeva le isole disputate. La Cina comunista rivendica dal 1953 un’area semplificata a «9 linee» che include le isole Pratas, Stratly, Paracel, il Macclesfield Bank come riconquistati dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Molti passaporti di cittadini cinesi sono decorati con l’elegante filigrana della mappa «a 9 linee».


Ma la Storia è più ruvida di una filigrana e gli americani e i giapponesi hanno differenti narrative. Quando il Giappone perde la guerra, gli Usa assumono il controllo del Paese, incluso l’arcipelago delle isole Ryukyu che - secondo l’interpretazione di Washington e Tokyo - comprende le disputate Senkaku-Diaoyu. Pechino, da ancor prima della vittoria di Mao, non si dice d’accordo.

L’8 settembre 1951 tutto dovrebbe andare a posto con la firma del Trattato di San Francisco, Usa, Giappone e 47 Paesi che chiudono la tragedia della guerra mondiale. Tokyo rinuncia a ogni rivendicazione sui territori di Corea, Taiwan (Formosa a quei tempi), Pescadores e Spratly. Quella carta diplomatica reca le tracce della tensione di oggi. Le Senkaku-Diaoyu non sono menzionate, perché, secondo Washington e Tokyo, fanno parte della «Prefettura di Okinawa» e, quando nel 1971 gli Usa restituiscono Okinawa ai giapponesi il patto è chiuso. In realtà né Taiwan né la Cina lo accettano, e l’alleanza militare nippo-americana del 1960 e la scoperta del petrolio nella zona, 1969, piantano a fondo i semi del veleno.

Le isole sono al centro delle rotte commerciali e militari verso il Mar Cinese Meridionale, ricche di banchi di pesca e con il petrolio ormai accertato. I sommergibili le usano come boa e il traffico di superficie è formidabile, 4000 miliardi di merci in euro incrociano dal Mar Cinese Meridionale in un anno, il 23% import-export americano, con 11 miliardi di barili di greggio, 1900 miliardi di piedi cubici in gas naturale. Entro 20 anni il 90% del petrolio medio orientale passerà da quelle acque.

Pechino, Washington e Tokyo e gli altri Paesi che seguono la disputa, Filippine, Malesia, Vietnam, Australia, non hanno come posta isole senza case, che il Giappone ha in parte riacquistate da un proprietario, temendo finissero proprietà di estremisti nazionalisti. Sanno che controllare quel mare, l’autostrada dello sviluppo dell’Asia in un secolo che intellettuali come Kishore Mahbubani a Singapore predicono «Secolo asiatico» significa controllare il Pacifico, il mondo, la pace e la guerra.

La Cina ha varato una flotta d’alto mare, la prima dall’Impero, ristrutturando una portaerei ucraina che in queste ore, sotto le pretese di una «spedizione scientifica», naviga con quattro navi da guerra verso le Senkaku-Diaoyu. Vuol controllare lo stretto di Hormuz e l’imbocco dell’Oceano Indiano. Il presidente Xi Jinping ha avviato, cautissime, riforme economiche e demografiche interne, ma sa che davanti alle forze armate non può rinunciare ad accrescere l’egemonia cinese. La pressione del Drago getta quindi in braccio all’Aquila Usa amici e nemici di ieri, Giappone, Malesia, Filippine, Australia, Vietnam. Obama in Asia, continente al centro della sua strategia, non può sbagliare.

Servirebbe che nessuno facesse mosse precipitose, che Pechino chiedesse un arbitrato internazionale sulle isole e che Tokyo si dicesse disposta ad accettarne il verdetto. La scommessa è purtroppo un’altra: chi comanderà nel XXI secolo come la Gran Bretagna comandava nel XIX e l’America (e solo in parte l’Urss) nel XX? India e Pakistan, ma anche Indonesia, Malesia, Russia, stanno a guardare con interesse come la Cina se la cava. Pechino non è mai la prima ad alzare i toni, butta il sasso e aspetta di vedere come reagiscono i rivali. Se resistono fa marcia indietro, se cedono, avanza. 

Le pittoresche Senkaku-Diaoyu sono un pericolo per i traffici che dominano, perché Pechino non può rinunciarvi e perché dopo il «flip flop» sulla Siria Obama non può sbagliare. In Giappone Shinzo Abe ritiene che la Seconda Guerra Mondiale sia ormai chiusa e che il suo Paese debba potersi difendere dallo storico avversario continentale. Occhio a una possibile guerra dei nostri tempi, eredità di tempi remotissimi, imperi e faide che non finiscono mai.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2013/11/28/esteri/sugli-scogli-di-senkaku-si-gioca-la-partita-imperiale-di-pechino-E7moeP9dYeTnlArllaRPFP/pagina.html
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« Risposta #111 inserito:: Dicembre 08, 2013, 06:10:18 pm »

Editoriali
07/12/2013

Mandela, la magia che il tempo non potrà scalfire

Gianni Riotta

Il Dalai Lama dice di aver perso «un amico». Per Papa Francesco Nelson Mandela era maestro di «dignità, non violenza, riconciliazione». Per il leader Usa Barack Obama, commosso, «l’esempio di tutta la mia vita». Il presidente Giorgio Napolitano assicura: «I suoi ideali sopravviveranno», attento a spostare l’attenzione dall’uomo all’opera.

L’ex premier Silvio Berlusconi considera il premio Nobel «eroe della libertà», con sottile polemica «tanti che ne tessono le lodi hanno da imparare da lui». Per Raul Castro, se ne va «un caro compagno» di Cuba. Il leader russo Putin e il premio Nobel Gorbaciov, la cancelliera tedesca Merkel, la Regina Elisabetta II, il presidente francese Hollande, gli ex rivali per la Casa Bianca Bush padre e Clinton, Bill Gates di Microsoft, il padrone del calcio Blatter, le cantanti Beyoncè, Rihanna e Lady Gaga, tutti rivolgono le stesse parole di rispetto, omaggio e venerazione al profeta della libertà d’Africa.

Nessun leader politico del Novecento ha raccolto un simile consenso. Alla morte del grandissimo presidente americano F.D. Roosevelt fa in tempo a gioire Hitler. De Gaulle e Churchill soffrono nei necrologi le divisioni di Guerra Fredda e post colonialismo. Anche il padre della non violenza Gandhi suscita odio tra i musulmani, la sua idea di castità è giudicata «sbagliata e rischiosa» dal successore Jawaharlal Nehru, mentre il primo ministro dello Stato indiano pre indipendenza Travancore è rude «Gandhi è un pericoloso maniaco sessuale».

Malgrado i non pochi guai familiari, chi oserebbe scrivere frasi del genere su Mandela? Nessuno. Gli elogi toccano il diapason del grottesco quando il dittatore siriano Bashar al Assad, che ha massacrato decine di migliaia di connazionali, disperdendone milioni come profughi, fa scrivere sulla sua pagina Facebook «la storia della lotta di Mandela è ispirazione per tutti i paesi vulnerabili al mondo, nell’attesa che oppressori ed aggressori imparino la lezione: alla fine saranno loro a perdere».

La «contraddizione Mandela» è brusca in Cina. I leader di Pechino paragonano Mandela al fondatore della Cina popolare Mao Ze Dong, il presidente Xi Jinping detta all’agenzia Xinhua un dispaccio tradizionale «Profondo dolore… il popolo cinese ricorderà per sempre lo straordinario contributo alle relazioni bilaterali e alla causa del progresso umano». I commenti ufficiali, commossi, segnalano che Mandela amava leggere il reportage filo-maoista del giornalista Snow «Stella rossa sulla Cina» e «L’arte della Guerra» dell’antico stratega Sun Tzu. Ma ai tempi dell’Urss, quando il Cremlino piangeva un alleato scomparso, nell’immenso Arcipelago Gulag dei campi di concentramento, si festeggiava in silenzio annota il Nobel Solgenitsin

Invece, secondo il blog Sinosphere degli analisti Austin Ramzy e Mia Li, anche i dissidenti cinesi commemorano Mandela addolorati. Lo scrittore antiregime Liu Xiaobo ricevendo il Premio Nobel nel 2010 è paragonato per il suo coraggio morale proprio all’ex presidente sudafricano. Gao Xiaoliang, con addosso sentenze di due e poi nove anni per la campagna democratica del 1989 a Pechino, racconta di essersi ispirato a Mandela per tenere duro in galera: «Se Mandela non s’è arreso dopo 27 anni dietro le spalle, posso io cedere dopo soli 9?». L’attivista Hu Jia apprende in carcere che Mandela è diventato presidente e gioisce, né lo condanna quando poi, al potere, stringe patti diplomatici ed economici con Pechino: «È giusto, deve pensare al progresso del suo paese». Tocca – conclude Sinosphere - allo scrittore He Baoguo irridere il doppio standard del governo cinese: «Se Mandela fosse nato in Cina, l’avrebbero torturato in cella, costretto a confessione forzate, umiliato alla tv pubblica: poi nessuno avrebbe più sentito parlare di lui» scrive sul social network Sina Weibo.

Basta dunque raschiare il consenso e la commozione di superficie per vedere che Nelson Mandela, da morto come da vivo, unisce chi si batte per la libertà e costringe alle corde dell’ipocrisia chi di diritti parla, negandoli poi ai suoi cittadini. Chi oggi riguardi le prime pagine dei giornali nel 1976, alla morte di Mao Ze Dong, resta stupefatto per la glorificazione di un leader che riunisce sì il Paese, ma a costo di milioni di morti e dittatura inflessibile. Pochi ne fecero allora traccia, parlando «dell’ultimo dei Grandi», ora la Storia è con Mao severa.

Ieri invece con i leader piangeva la gente semplice, «l’unico gigante del nostro tempo» diceva a Roma un barista. Ha ragione, gli studiosi registreranno nuove memorie, documenti, interpretazioni, ma la grazia, la riconciliazione, la compassione, la sete di giustizia Nelson Mandela, come dice il presidente Napolitano, resteranno immuni da revisionismi.

Twitter @riotta

Da - http://lastampa.it/2013/12/07/cultura/opinioni/editoriali/mandela-la-magia-che-il-tempo-non-potr-scalfire-pnkaz1lw90Cke2Iij2i6nN/pagina.html
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« Risposta #112 inserito:: Dicembre 16, 2013, 10:58:59 pm »

Editoriali
14/12/2013

Ora attenti a non favorire le lobby

Gianni Riotta

Prima l’elezione di Matteo Renzi a segretario del Partito Democratico in primarie valanga. Poi il premier Enrico Letta che, dal suo account twitter @enricoletta, usa il più popolare social media dell’informazione per annunciare «Avevo promesso ad aprile abolizione finanziamento pubblico partiti entro l’anno. L’ho confermato mercoledì. Ora in cdm manteniamo la promessa». 

La politica italiana si rimette in cammino, come se avesse finalmente sentito gli umori pessimi che arrivano dalla piazza, con picchetti, manifestazioni, scontri, e dalla rete dove crisi economica e frustrazione politica distillano veleni populisti, rancore, risentimento.

Già l’11 giugno del 1978, un’era della geologia politica or sono, in piena emozione per l’assassinio di Aldo Moro, gli italiani avevano chiesto con un fortissimo 43,6% dei voti l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. I partiti che rappresentavano il 97% degli elettori avevano dimezzato i consensi e la pattuglia dei radicali guidati da Pannella, Bonino e Adelaide Aglietta coglieva benissimo l’animo italiano.

I più giovani non ricorderanno forse neppure più che il finanziamento pubblico nacque come norma etica, di trasparenza, per rendere sana la vita politica. Nel dopoguerra i partiti maggiori, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, furono a lungo finanziati dai referenti della Guerra Fredda, Washington e Mosca. Poi i leader di maggioranza ricorrono ai fondi neri e le prime pagine titolano sugli scandali «Trabucchi», 1965, e «Petroli», 1973. Riviste come L’Espresso e Panorama a sinistra, Il Borghese a destra, conquistano spazio denunciando mazzette e tangenti ai partiti. Si pensa quindi che bilanci chiari e fondi in proporzione ai voti liberino la politica dalla corruzione, ma già nel 1978, correttamente, la metà degli italiani dubita.

L’inchiesta Mani Pulite, la fine dei partiti storici, l’avvento di Silvio Berlusconi modificano il Paese, ma i soldi ai partiti rimangono. Finché il boom di Beppe Grillo e dei suoi 5 Stelle, le continue, grottesche, rivelazioni su malversazioni, spese mal gestite, ruberie spicce e perfino rimborsi regionali usati come rubare la marmellata della nonna nelle favolette di un tempo, non fanno capire che è ora di finirla. Va dato atto al M5S che la sua irruenza, che spesso non ci piace, ha però forzato gli altri partiti ad accelerare sul tema.

L’opinione pubblica italiana, disgustata da 35 anni, approverà la scelta del governo. Renzi non mancherà di segnalare la coincidenza con la sua leadership, Grillo alza i toni chiedendo al Pd di restituire 45 milioni incassati, gli uomini del vicepremier Alfano approvano, Forza Italia protesta, ma a mezza voce, si parla di un 2x1000 fiscale come contributo volontario. Era difficile fare altrimenti in questo clima, molti italiani sono persuasi che la corruzione sia «la causa» della crisi economica, e taglio alla spesa può forse soddisfare i moderati, mentre «duri e puri» chiederanno di più.

Dunque scelta ragionevole di Enrico Letta che, in qualche misura, può contribuire, se non a rasserenare il Paese, almeno a non incattivirlo ancor di più. Detto questo, con responsabile serenità, si deve però ricordare che la smodata fame di fondi dei nostri politici ha distrutto il patto tra elettori ed eletti che governa tantissime democrazie. Non dare un centesimo alle campagne non renderà il nostro dibattito più franco e leale ma rischia, in un futuro non lontano, di avvantaggiare cittadini influenti e lobby miliardarie. Non dimentichiamo che all’alba della nostra nazione si andava in Parlamento per onore, senza ricevere uno stipendio, finché le nuove classi, i braccianti, gli operai, gli artigiani, non imposero che i loro rappresentanti, popolari o socialisti, potessero essere eletti ricevendo un salario.

Quando in America la Corte Suprema ha cancellato i limiti ai contributi che singole aziende o lobby potevano offrire alle campagne elettorali, non si è avuta più trasparenza, ma più pressione dei dollari sui voti. Gruppi come la lobby delle armi, Nra, o la famiglia Koch, investono sui candidati vicini alle loro posizioni, ma anche contro i politici a loro avversi e spesso determinano i risultati a tavolino. I Koch hanno speso fino a 200 milioni di dollari (150 milioni di euro) in propaganda elettorale: dovrete faticare in crowdfunding online a 5 dollari a testa per contrastarli. Insomma, senza finanziamento pubblico i ricchi hanno meno ostacoli dei candidati privi di portafogli di coccodrillo.

Ragion per cui forme di rimborso sulle spese elettorali e sostegno alla spesa politica sono diffuse nei Paesi principali. I cittadini, stufi, obietteranno che dal 1978 a oggi hanno, di tasca propria, coperto questo importante principio e sono stati i politici ad averlo tradito. Che solo il No radicale ai finanziamenti possa essere vissuto come ripartenza etica dice molto della triste palude di corruzione, sfiducia, cinismo e amarezza in cui siamo precipitati.

Voglia il cielo che questo taglio e il cambio di generazione al vertice, che oggi coinvolge sinistra e centro ma presto toccherà anche la destra, siano accettati dagli elettori come inizio di una nuova stagione e un nuovo patto tra politica e Paese, senza troppi scontri populisti. Speriamo non sia troppo poco e troppo tardi, e speriamo che nel vuoto scettico e nichilista non avanzino Paperoni furbi e Masanielli spregiudicati. Speriamo sia il primo, di tanti passi umili e sinceri, per un Paese migliore, in Parlamento e tra i cittadini. Perché in una democrazia si torni a essere, davvero, tutti uguali.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2013/12/14/cultura/opinioni/editoriali/ora-attenti-a-non-favorire-le-lobby-sJbJKsyMEs3OrgyBUAAdgO/pagina.html
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« Risposta #113 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:35:08 pm »

Editoriali
17/12/2013

Tassa web, strapaese contro innovazione

Gianni Riotta

Matteo Renzi ha, di slancio, presentato la propria leadership di segretario del Pd come campione dell’innovazione, politico nuovo, capace infine di trascinare la sinistra e il paese nell’era digitale e postindustriale. 

Era digitale e postindustriale dove produzione, cultura, vita non sono più «mass», come nel Novecento, ma «personal», individuali e originali.

Stupisce quindi che il suo messaggio sia, in queste ore, contraddetto dalla battaglia che vari esponenti Pd, Boccia, Covello, Fanucci tra gli altri, ingaggiano in Parlamento a favore di una «tassa web», «tassa Google«, che nega in radice l’impegno di innovazione di Renzi. Vediamo perché.

Nelle intenzioni dei promotori, in testa il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, la tassa web ha nobili intenzioni, da Robin Hood che vuole bloccare gli ignobili sceriffi della Web Foresta di Nottingham, Google, Facebook, Twitter, Amazon. Secondo Boccia si tratta «Soltanto di una misura di equità fiscale: se l’azienda di Brescia o di Catania deve pagare un’imposta per ciò che ha guadagnato in Italia, altrettanto devono fare le multinazionali del web che guadagnano nel nostro Paese e che oggi, incredibilmente, pagano le tasse in Paesi che hanno un’aliquota più conveniente. Si tratta dei principi basilari dell’equità fiscale, sociale e produttiva» e l’esponente Pd è talmente persuaso della sua tesi, che in varie dichiarazioni cita oltre a Brescia e Catania anche Busto Arsizio e Matera. Come dissentire? Perché mai il gigantesco motore di ricerche da cui passa oltre il 95% delle nostre domande sul web dovrebbe non pagare tasse, mentre a Brescia, Catania, Busto Arsizio e Matera si cede ad odiosi balzelli?

Purtroppo, come dimostra Tim Worstall sulla rivista Forbes, la tassa sarebbe illegale, e così la definiscono in America «Italy passes the illegal Google tax». Non vogliamo tediare il lettore con i dettagli fiscali, che già Raffaele Rizzardi, il massimo esperto italiano in materia di Iva, e componente del Comitato fiscale europeo, ha dettagliato con acribia. Basti qui dire che schiaffare l’Iva «italiana» sui prodotti venduti online, e, peggio, costringere virtualmente produttori, grandi e piccoli, ad aprire una partita Iva italiana per fare e-commerce nel nostro paese viola le norme europee. Mai la «tassa web» italiana passerà il vaglio di Bruxelles.

Come, dove e perché si paga l’Iva in Europa, online e offline, è dettagliato con chiarezza dall’Unione, e per di più l’Italia è vincolata da trattati contro la doppia imposizione fiscale con altri paesi. Rimandiamo dunque volentieri Boccia e i suoi colleghi ai documenti di Rizzardi e Worstall, o, ove li ritenessero fonti di parte, al loro autorevole collega parlamentare G. P. Galli, che ha già segnalato come la tassa non funzioni. Imporla è impossibile, l’Ue la rimanderà al mittente, e nel breve periodo in cui il fisco italiano avrebbe la chance di mungere oltre a Busto Arsizio e Matera anche Google e Amazon, i proventi sarebbero grami. Il professor Carlo Alberto Carnevale Maffè della Bocconi li riduce a una scodella di lenticchie, tra 15 e 20 milioni di euro l’anno. Ma questa scodella di lenticchie, come nel caso di Esaù, costerà all’Italia il sogno di primogenitura digitale nel futuro.

È questa la posta in gioco: non i soldi delle tasse, non l’infantile orgoglio di umiliare i giganti del web forzandoli ai nostri dazi, non una ripicca interna alla sinistra tra tradizionalisti e innovatori. Fare dell’Italia un mercato in cui il digitale, l’innovazione è mal vista, male accolta. Da settimana si rumina di «web tax», nel frattempo gli uffici di Milano di Google sono stati attaccati da dimostranti contro la raccolta dei metadati Nsa della Casa Bianca di Obama (Google ha già chiesto all’amministrazione, con altre aziende, di cambiare la legge sulla sorveglianza, detestata dalle corporations) e infine Apple è al centro di un’indagine dalle nostre autorità fiscale.

Renzi sa che, come scrive il professor Enrico Moretti nel saggio «La nuova geografia del lavoro», il web crea, non distrugge lavoro. Gli uomini di Confindustria digitale, diretti da Stefano Parisi, o la McKinsey, calcolano quanto, ogni euro di investimento in innovazione, ricerca, scuola e tecnologia generi occupazione, diretta e indiretta. Perfino Beppe Grillo, celebrato su YouTube per la spassosa gag in cui distrugge computer sul palcoscenico, s’è reso conto della gaffe dei suoi parlamentari 5 Stelle che appoggiano la «tassa web» e li smentisce bocciandola. Con un gioco di parole sul nome del promotore, su twitter gira l’hashtag, la parola chiave, «#Boccialawebtax». E chi si illudesse di ricavare dalla pressione su Google vantaggi sui contenuti giornalistici, sbaglia. Noi non siamo fan dell’accordo che Google ha stipulato con gli editori francesi, ma per quell’accordo s’è mosso il presidente Hollande in persona. Se i giornali italiani ne vogliono uno analogo, o speriamo migliore, deve muoversi il governo, non bastano gli editori.

Vedremo se Renzi, che ha di fronte due gruppi parlamentari in cui i suoi uomini e donne sono in minoranza, terrà duro contro il balzano balzello o se cederà ai luddisti fiscali Pd. La partita dirà parecchio di come intende muoversi nel partito. Per tutti noi dire di no alla «tassa web» vuol dire schierarsi contro i dazi al futuro: davvero li vogliamo? È ovvio che i giganti digitali devono pagare le tasse come tutti. La sede per imporglielo è l’Europa, non una furbata nostrana. Anche in America un regime fiscale per il web è tema cruciale, ma anche lì la risposta è federale, globale, non casareccia. Tocca a noi decidere se vogliamo un’Italia del XXI secolo, o una Italietta da Strapaese.

Twitter @riotta

Da - http://lastampa.it/2013/12/17/cultura/opinioni/editoriali/tassa-web-strapaese-contro-innovazione-XKdyF5EcR9o5MAi89x7UFK/pagina.html
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« Risposta #114 inserito:: Dicembre 31, 2013, 12:42:52 pm »

Editoriali
31/12/2013

La stagione delle contraddizioni
Gianni Riotta

L’anno che si aprirà stanotte, il 2014, sarà l’Anno della Contraddizione. Lo sviluppo dell’Asia è da celebrare con i brindisi, negli ultimi dieci anni - secondo la Fao - i poveri sono scesi del 30% grazie al boom di India e Cina, passando dai 739 milioni di disperati di dieci anni fa ai 563 di oggi. 

Anche in Africa il benessere si diffonde e i poveri, che vivono come meno di 90 centesimi al giorno, scendono dalla maggioranza, dal 58% al 48%. Stavolta però niente brindisi, perché - ecco il mondo contraddittorio in cui viviamo - l’aumento della popolazione fa sì che, diminuendo in termini percentuali, gli affamati crescano in termini assoluti, da 175 milioni a 239 milioni. 

Ci lamentiamo moltissimo - e certo non senza ragioni - della classe politica, la consideriamo troppo ricca, lontana dalla gente comune. Ma se cercate il Paese che davvero ha una «Casta» d’oro, prima di arrivare a Roma o a Washington o alle altre capitali del mondo sviluppato, andate a Pechino, ultima trincea del comunismo. I 50 parlamentari più ricchi d’America mettono insieme un patrimonio di un miliardo e 200 milioni di euro, deposito di monete degno di Paperon de’ Paperoni ma casupola da poveracci se paragonata al salvadanaio dei 50 delegati più ricchi del Congresso Nazionale del Popolo, Parlamento cinese. I primi 50 rappresentanti del popolo comunista, infatti, mettono insieme un patrimonio di 73 miliardi di euro. Il politico più ricco d’America, il californiano Darrell Issa, «vale» 275 milioni di euro, da noi Berlusconi ne denuncia 35 l’anno, ma il magnate cinese Zong Qinhou, «delegato popolare» «vale» 14 miliardi e mezzo di euro grazie all’impero delle bevande Hangzhou Wahaha.

In una conferenza del 1992 il professor Samuel Huntington lanciò la tesi dello «scontro di civiltà», «Noi» sviluppati contro «Loro» terzo mondo, soprattutto islamico, poi diventata celeberrimo best seller e popolarizzata da Oriana Fallaci nel pamphlet «La rabbia e l’orgoglio» dopo l’11 settembre 2001. Invece «lo scontro di civiltà» divide la comunità islamica, sunniti contro sciiti, moderati contro estremisti, islamisti contro militari e democratici, fondamentalisti salafiti contro secolari in blue jeans. Dalla primavera araba, alla guerra civile in Siria, all’Egitto dove i militari hanno rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani di Morsi, gli islamici combattono tra loro, a sangue. Come aveva indicato la rivista «Oasi», promossa dall’allora Patriarca di Venezia Angelo Scola, oggi cardinale di Milano, non esiste «un Islam» monolitico, ma molti «Islam», dalla religione, alla cultura, alla tradizione, un «Islam globale» come scrive lo studioso Fouad Allam.

Saluteremo nel 2014 la più grande elezione democratica al mondo, in India, 800 milioni di elettori, solo i debuttanti saranno in 150 milioni. L’India, che lascia la povertà per il software di Bangalore, vive la contraddizione ogni giorno, laureando più ingegneri di America e Europa, ma con l’80% delle abitazioni rurali dove ancora si cucina sul fuoco alimentato da sterco di animali. Così l’India interpreta la stagione da nuova potenza facendo la voce grossa, ormai dal 15 febbraio 2012, con l’Italia sul caso dei due sottufficiali di Marina imputati, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ma poi reagisce animosamente se gli Stati Uniti accusano una diplomatica indiana di falso in atto pubblico. Per riaffermarsi Paese autonomo l’India impone il proprio diritto con mano di ferro contro l’Italia, ma quando gli Usa la ripagano della stessa moneta, la stampa locale parla di colonialismo. Vecchi rancori nel nuovo mondo delle contraddizioni.

Nel 2014 più lavoratori e professionisti perderanno il posto di lavoro, sostituiti da un robot. Secondo l’International Federation of Robotics i «computer di servizio» aumenteranno del 30% in pochi anni, capaci - come scrive Tom Standage caporedattore web dell’Economist - di eseguire sofisticate mansioni: il robot Baxter è in grado di accelerare e rallentare i ritmi alla catena di montaggio, senza le comiche contorsioni di Charlot nel capolavoro «Tempi moderni». Il Michigan permetterà nel 2014 il transito in strada di auto guidate da robot «a patto che un essere umano sia a bordo», Google rastrella start up di robotica sul mercato persuasa che saranno il prossimo boom.

Nel 2014 ricorderemo nonni e bisnonni vittime della grande carneficina detta Prima Guerra Mondiale. Gli storici stentano ancora a capire «perché» sia scoppiata. Nel suo curioso saggio «1913. L’anno prima della tempesta», Florian Illies ricorda come Lenin si lamentasse che né lo Zar, né il Kaiser, volessero «fargli il regalo» di una guerra che avvicinasse la rivoluzione in Russia. Lenin sbagliava, ebbe «il regalo» di guerra e rivoluzione e le contraddizioni della guerra 1914-1918 sono ancora tra di noi, dal Medio Oriente, con la fine dell’Impero Ottomano, ai Balcani, alle frizioni Russia-Ucraina.

Vladimir Putin è maestro pattinatore, da medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sochi, delle contraddizioni, uomo di guerra con Assad, passa per pacifista dopo lo stop al blitz di Obama. E il Presidente americano vede il suo Paese crescere del 4%, recuperare dalla crisi finanziaria 2008, ma non sa come tornare leader del pianeta. A Papa Francesco tocca la contraddizione di essere lodato da tutti, perfino da chi non ha mai messo un piede in chiesa e detesta i valori cattolici. L’America di Internet, regno della trasparenza, è accusata di raccogliere dati in segreto con la Nsa, i paladini della nuova verità, Snowden e Greenwald, rifiutano la trasparenza e non dichiarano quanti documenti e dossier ancora abbiano in mano. L’Europa orgogliosa della propria Unione celebra elezioni in cui voterà il 20% in meno dell’esordio nel 1979 e un elettore su tre sceglierà candidati ostili all’euro.

Nessun Paese infine vivrà di contraddizioni come l’Italia, 9000 miliardi di ricchezza privata, 2000 miliardi di debito pubblico, seconda manifattura d’Europa con disoccupazione in crescita, unico Paese sviluppato che dal 2000 perde competitività, benessere, lavoro. Curvi a discutere di legge elettorale, politica, Casta, populismo, Destra-Sinistra, dimentichiamo che solo competere a testa alta nel mondo globale ci salverà. Prima di rinunciare al brindisi, cari lettori, non dimenticate però: il bello delle contraddizioni è che sanno sorprenderci. «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico, sono vasto, contengo moltitudini» scriveva il poeta Walt Whitman. Anche noi italiani, ciascuno di noi, «contiene moltitudini» e talvolta - come dicono i nostri ragazzi - «facciamo casino». Speriamo di tirar fuori da queste «moltitudini» invece, magari per italico «spirito di contraddizione», il meglio. Auguri 2014.

Twitter @riotta 

DA - http://lastampa.it/2013/12/31/cultura/opinioni/editoriali/la-stagione-delle-contraddizioni-dTEucVQkj8dl94uM6SXefJ/pagina.html
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« Risposta #115 inserito:: Gennaio 04, 2014, 04:37:31 pm »

Editoriali
04/01/2014

L’Italia, i diritti e una destra troppo antica

Gianni Riotta

Il leader della diaspora berlusconiana, Angelino Alfano, ha il difficile compito di dare ai propri parlamentari identità e cultura politica nella stagione che ci separa dalle elezioni. 

Impresa che si è rivelata dura per un veterano come Pierferdinando Casini e, al centro, impossibile per il senatore a vita Mario Monti. Sbaglia però Alfano a pensare – o ad ascoltare chi in tal senso lo indirizza - che schierando il suo movimento su posizioni «dure», demagogiche, «di destra», guadagnerà voti, consensi, attenzione. Al contrario, perderà stime, considerazione, spazio. Chi vuol menare gli immigranti, sbattere tutti in galera, usare la famiglia non come nido ma come spaventapasseri, ha già i suoi riferimenti a destra, e spesso tra i 5 Stelle.

Sperare che il no del Nuovo centro destra alle unioni civili tra omosessuali, proposte dal Partito democratico del neo segretario Matteo Renzi, ringalluzzisca la base cui guardano Alfano, Lupi, Mauro, è illusorio. L’Italia si è rivelata dai tempi dei referendum sul divorzio e l’aborto, mezzo secolo or sono, allergica alla politica dei valori, confermando che l’antico buon senso di casa nostra sa evitare le polemiche che a lungo hanno diviso l’America, per esempio, sull’interruzione di gravidanza. Due grandi regioni meridionali, la Sicilia e la Puglia, hanno eletto, con notevole presenza di voti cattolici e tradizionali, presidenti omosessuali, Crocetta e Vendola.

La destra occidentale ha ormai accettato, dalla Francia alla Gran Bretagna, culture di tolleranza e inclusione. In America, dove lo stesso Ronald Reagan trattò con compassione la morte per Aids dell’attore Rock Hudson fermando gli estremisti, i repubblicani sono divisi da febbri ideologiche, ma perfino le figlie dell’ex vicepresidente Dick Cheney, due conservatrici Doc, si dividono sulle nozze gay, ne parlano, non discriminano o tacciono.

La proposta di Renzi è soft, non si tratta di matrimoni omosessuali – pur ormai routine in tante metropoli da New York a Los Angeles -, ma di unioni civili che cancellano solo le più odiose discriminazioni a danno dei cittadini gay. Bloccarla non rende Alfano e il suo Ncd bastione credibile dei valori tradizionali, ma al contrario palcoscenico petulante, dove risuona la grancassa populista. Il voto cattolico in Italia è stato studiato a lungo, da Mannheimer a D’Alimonte, e non rivela correnti di maggioranza contro l’integrazione dei cittadini.

Nel suo libro «Il ventennio», l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini riflette con amarezza sulla strada aspra che la destra italiana deve compiere per diventare definitivamente occidentale e liberale, amarezza tanto politica quanto esistenziale. La disattenzione di Silvio Berlusconi ai temi etici, l’accordo meccanico tra centrodestra e gerarchia della Chiesa italiana nel recente passato, hanno seminato confusione e opportunismi. Oggi il clima è diverso, dal Vaticano, alla Cei, alle parrocchie, ai movimenti, Comunione e Liberazione di don Carron in testa. Papa Francesco incanta il mondo restando saldo sulla strada maestra della Chiesa, ma ammonendo che essa va percorsa da «tutti i peccatori», senza barriere o protezionismi dell’anima. Il grido neo francescano «Chi sono io per discriminare quel peccatore…?» commuove le anime, ci parla di fratellanza per chi non condivide la nostra etica, la nostra condotta personale. Insomma la scommessa di Alfano è perdente nella tattica della politica e disastrosa nella strategia dei valori. E – se ci possiamo permettere - stride anche con la sua personalità, che non ha rivelato finora il difetto dell’astioso settarismo.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/01/04/cultura/opinioni/editoriali/litalia-i-diritti-e-una-destra-troppo-antica-HCd4ExjQ7u6f3LigPSb45M/pagina.html
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« Risposta #116 inserito:: Gennaio 22, 2014, 06:54:28 pm »

Editoriali
22/01/2014

Le immagini che cambiano il destino dei conflitti

Gianni Riotta

Ci sono foto che diventano icone di un conflitto, il miliziano della Repubblica spagnola ferito di Robert Capa, la bimba Phan Thi Kim Phúc ustionata dal napalm in Vietnam di Nick Ut. E ci sono invece foto che riproducono le divisioni di una guerra. Il reporter americano Eddie Adams, il primo febbraio 1968 scatta mentre il capo della polizia vietnamita Nguyen Ngoc Loan, con il revolver spara alla tempia del guerrigliero Vietcong e crea il simbolo del terrore a Saigon. Nessuno ricorda però che, a lungo, Adams provò invano a raccontare il contesto della tragica foto «Il generale Loan uccise il Vietcong, io uccisi il generale con la mia foto. Le fotografie sono le armi più potenti al mondo. La gente crede nelle immagini, ma le fotografie mentono, anche senza alcuna manipolazione. Sono solo mezze verità. Quel che la mia fotografia non dice è “Cosa avreste fatto voi, al posto del generale Loan in quel posto e in quel momento di un giorno terribile, se aveste preso il presunto colpevole dopo che aveva ammazzato a freddo uno, due, tre soldati americani?”».

 Scusandosi con Loan, Adams non lo giustifica, ammette con onestà che la sua foto storica è «una mezza verità», senza contesto. La stessa cautela può essere usata davanti alle terribili fotografie che la rete tv americana Cnn, il quotidiano inglese «The Guardian» e l’agenzia semiufficiale di stampa turca Anatolia hanno diffuso di prigionieri siriani torturati, uccisi, affamati dal regime di Assad. Un ex fotografo delle forze di sicurezza di Damasco, detto Cesar, le avrebbe trafugate e tre esperti internazionali, Sir Desmond de Silva, pubblico ministero per i crimini in Sierra Leone, David Crane, pubblico ministero nei processi per le violazioni dei diritti umani perpetrate dall’ex presidente liberiano Taylor, e Sir Geoffrey Nice, ex pm nel processo al despota serbo Milosevic, le hanno convalidate come «Prova certa». L’opposizione siriana parla di «genocidio evidente» e di 11.000 giustiziati.

Damasco reagisce e paragona «Cesar» a «Curveball», la fonte che si rivelò poi non attendibile, sulle armi di sterminio di massa di Saddam Hussein, segnalando la coincidenza tra il rapporto sulle sevizie e la Conferenza sulla Siria che si apre a Ginevra. Che infine l’inchiesta sia organizzata dal Qatar, vicino ai ribelli contro il governo alawita, sarebbe segno ulteriore di non credibilità. Come il povero Adams comprese solo tardi, non serve però a nulla guardare le immagini come fossero fuori dal mondo, senza tempo e spazio. Illudersi che un fotogramma ieri, un mosaico di pixel oggi, ci restituiscano la verità, senza la fatica, il dolore, il tempo passato a studiare, informarsi, riflettere, pensare, decidere, giudicare induce ad errori.

La guerra civile in Siria ha fatto 130.000 morti civili e ha seminato milioni di profughi in Medio Oriente. Lo scorso ottobre l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch, nel rapporto «Dentro il buco nero» (http://goo.gl/JZOl6w) ha denunciato «sistematiche violazioni dei diritti umani e torture che sono crimini contro l’umanità» di Assad. Secondo uno studio di Amnesty International «lo stato di polizia di Assad si macchia di colpe che ammontano a crimini contro l’umanità» (http://goo.gl/V1cI7f).

 
Le foto di «Cesar», validate dai magistrati internazionali, non cadono dunque nel vuoto. Non sono «un fotogramma», sono «il film» dell’orrore che Assad sta compiendo, nell’indifferenza della comunità mondiale persuasa quasi che, fermato il blitz minacciato da Obama, in Siria ci sia «pace». Che Russia e Iran appoggino il regime siriano complica sia la Conferenza di Ginevra che un possibile intervento umanitario dell’Onu, impotente per i veto in Consiglio di Sicurezza.

Giudicate dunque come volete il dossier atroce di «Cesar», pesatelo contro le violazioni dei diritti di cui anche l’opposizione si macchia, con i rapimenti e le rappresaglie comminate dall’ala vicina ad al Qaeda: il verdetto non cambia. Assad è colpevole di crimini contro l’umanità, ma non sarà processato come Milosevic o condannato come Taylor. Debole nel 2012, tornato in gioco grazie alle divisioni dei ribelli e all’inanità occidentale nel 2013, è oggi saldo in sella per l’astuta diplomazia di Putin. Nei campi profughi si spera solo che da Ginevra esca almeno una tregua, un cessate il fuoco, mentre i siriani fedeli al regime – compresi i cristiani terrorizzati dalla vendetta dei fondamentalisti - non immaginano nemmeno più che, come Gheddafi e Mubarak, anche Assad possa finire nella polvere.

Chiunque siano le vittime innocenti delle foto, chiunque siano le migliaia di torturati senza un volto e che mai vedremo, in Siria al più possiamo sperare anche noi in un «cessate il fuoco», che limiti i danni e plachi gli orrori. Pace e giustizia sono parole che da Ginevra tanto sentirete, ma che in Siria non hanno traduzioni.

 Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/01/22/cultura/opinioni/editoriali/le-immagini-che-cambiano-il-destino-dei-conflitti-8kjQkRsL60K9mrENpcVpSI/pagina.html
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« Risposta #117 inserito:: Gennaio 24, 2014, 05:57:44 pm »

Editoriali
24/01/2014 - il summit

A Davos la faccia nuova del vecchio Iran

Gianni Riotta

Invano i filologi della politica internazionale cercheranno nell’intervento del presidente iraniano Hassan Rohani al World Economic Forum di Davos parole che rompano, in modo radicale, con la recente tradizione del suo Paese e che quindi, rilanciate con veleno dagli ayatollah conservatori, gli mettano contro il Leader Supremo Ali Khamenei. Rohani segue alla lettera il protocollo condiviso a Teheran.

Ma lo sillaba con accattivante bonomia e simpatia, includendo gli astanti nella gentile risata, l’elegante turbante, il mantello senza una piega. Pronunciato così il messaggio muta di senso. Dopo anni di virulenta foga populista del suo predecessore Ahmadinejad, il colto, flemmatico, garbato Rohani invoca l’essenza di quel che c’è di antico, sofisticato nella cultura millenaria dei Persiani, il carisma che rende la potenza non minacciosa, affascinante.

Quando il fondatore del Forum di Davos, Klaus Schwab, gli ha proposto con forza l’invito «Allora l’Iran è pronto a intrattenere relazioni normali con tutti i Paesi?», Rohani ha assentito con cortese gravità mentre la platea dei manager e uomini di stato ruggiva felice la propria approvazione. Purtroppo qui tocca fare i pedanti e segnalare che Rohani intende solo «i Paesi che Teheran riconosce», escludendo quindi Israele, oggetto segreto dell’ovazione. Questa è la «filologia diplomatica» con cui il presidente si scherma dai falchi di casa: il messaggio di simpatia umana prevale, ieri, dalla Svizzera, al web, alle Cancellerie.

Celebre per il suo handle twitter @hassanrouhani, con 170.000 lettori-follower, Rohani ha ammesso con candore di non scrivere i messaggi da solo, aiutato da collaboratori ed amici. La e-diplomacy, la diplomazia digitale dei social media di cui il nostro ambasciatore a Washington Bisogniero giusto in queste ore discuteva con l’ex vice Segretario di Stato Usa Anne Marie Slaughter, ha conosciuto ieri un giorno di gloria quando, all’offensiva social media di Rohani a Davos, ha replicato secco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Non da un’affollata conferenza stampa o con un forbito comunicato di agenzia: no, dalla sua pagina Facebook, come un teen ager, Netanyahu denuncia «la campagna di falsità» di Rohani, a cui la platea internazionale presterebbe ascolto, ricordando che su nucleare, Medio Oriente e Siria, la posizione di Teheran non muta.

Vero, si ripete solo che la «colpa» della guerra civile di Damasco non è del regime di Assad ma «di terroristi feroci», non si spiega bene a che cosa serva il nucleare in un Paese che galleggia su giacimenti di petrolio, a Israele non si porge nessun ramoscello d’ulivo. Ma Rohani sembra tentato da una versione sciita della comunicazione cattolica di Papa Francesco, non mutare un rigo di teoria e tradizione pregresse, ma declinarle con dolcezza, affabilità, cordialità. E non ha forse ieri il Papa definito Internet «un dono di Dio»?

 
L’Italia, che con gli uomini dell’Eni ha una storica presenza in Iran dai giorni di Enrico Mattei a Paolo Scaroni oggi, a Davos era guardata, per una volta, con invidia. Tanti politici e businessmen sperano che, se la trattativa sul nucleare e quella sulla Siria procederanno senza troppi intoppi, e Khamenei lascia spazio a Rohuani, Teheran ritorni mercato strategico. Italia ed Eni godrebbero di un vantaggio prezioso, perché Rohani annuncia già il nuovo modello di investimenti per i contratti internazionali sul petrolio per settembre 2014, preceduto da un seminario a Londra, in estate, per illustrarne le modalità. A Davos i dirigenti francesi della Total marcavano infatti stretto gli iraniani. 

«È il tono che fa la musica» dice un antico motto e Rohani annuncia suadente di volere l’Iran tra i primi dieci Paesi al mondo per benessere, si dichiara pronto a collaborare con tutti - dell’ambiguità su Israele s’è detto - se le sanzioni internazionali verranno allentate e poi cancellate. Messaggi per il presidente Obama e il Congresso Usa dove non mancano i dubbi sul nuovo corso di Teheran.

Finita la Guerra Fredda il web nascente, il mercato internazionale aperto, lo sviluppo dei Paesi poveri fecero sperare che il XXI secolo fosse di pace, intese, prosperità. Poi crisi finanziaria e dell’euro, guerre locali, fondamentalismi, autoritarismo in Russia e Cina, «globalizzazione e mercato» sono diventate parolacce. Ascoltando Rohani proporre cooperazione e lavoro, dal web a Davos tornava in mente che le sole alternative al mercato, con tutti i suoi difetti, alla democrazia, con tutte le sue demagogie, alla cooperazione internazionale, con tutte le lungaggini burocratiche (a proposito: rilanciamo in fretta l’area di libero mercato Europa-Usa!) sono guerra, odio, intolleranza. O lavoriamo, commerciamo e cresciamo insieme o ci scanniamo come in Siria e prepariamo le armi come India e Pakistan sul Kashmir, o Cina, Usa e Giappone nel Pacifico.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/01/24/cultura/opinioni/editoriali/a-davos-la-faccia-nuova-del-vecchio-iran-P0nSgMvCAUeNtOMRw4sRmJ/pagina.html
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« Risposta #118 inserito:: Febbraio 03, 2014, 04:37:40 pm »

Editoriali
03/02/2014

I grillini vogliono caos non riforme
Gianni Riotta

Dal 2012, con la vittoria di Beppe Grillo in Sicilia, fino alla scorsa primavera, l’opinione pubblica di sinistra ha coccolato i Cinque Stelle. Dopo il successo grillino alle elezioni di febbraio un manifesto di intellettuali spingeva perché il Partito democratico formasse un governo con Grillo e Gianroberto Casaleggio, con giornali, riviste, case editrici fiancheggiatori del movimento mobilitati perché l’ex attore andasse al potere. Analogo fermento si raccolse attorno alla candidatura di Stefano Rodotà al Quirinale: ignari che il costituzionalista aveva, in un’intervista, paragonato con severità Cinque Stelle alla destra oltranzista ungherese di Orban, i grillini ne scandivano il nome in strada. Né l’infatuazione era solo italiana: l’autorevole «New Yorker», in un rapito ritratto di Grillo, concludeva con l’ex attore che, al cadere della sera, chitarra in mano, canta ai pescatori sardi una ballata, «con la rauca voce di Ray Charles». 

In politica però un anno può essere più struggente di un vecchio blues e la cotta della sinistra per Grillo sembra svaporarsi. Ora che si bruciano i libri del decano Corrado Augias, e il parlamentare 5 Stelle Roberto Fico inquadra il gesto nella «rabbia incontenibile», ora che la presidente Boldrini viene sottoposta a uno stupro mediatico aizzato da Grillo via blog, è impossibile rivedere nei parlamentari di Grillo gli illuminati riformatori che si volevano al governo un anno fa con queste parole «Mai, dal dopoguerra a oggi, il Parlamento italiano è stato così profondamente rinnovato dal voto popolare. Per la prima volta i giovani e le donne sono parte cospicua delle due Camere. Per la prima volta ci sono i numeri per dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato. Sarebbe grave e triste che questa occasione venisse tradita, soprattutto in presenza di una crisi economica e sociale gravissima». 

Ora con disinvoltura si taccia Grillo da «fascista», l’amico nobile si muta in nemico spregevole. Poco da meravigliarsi, il trasformismo narciso non è mai mancato nella storia intellettuale del Paese. Ma è invece importante capire perché all’errore di incenso 2012-2013 si sovrappone l’errore di vetriolo 2014, senza trovare equilibrio analitico davanti non al «fascismo» che nulla c’entra, ma al populismo 5 Stelle.

La ragione del primo fenomeno è semplice, Grillo veniva visto da tanti come un apriscatole che poteva infine far saltare l’ermetico nemico Berlusconi, la cui tenuta per due decenni beffava le teorie «del partito di plastica». Chi abbia studiato il blog e la letteratura politica di Casaleggio e Grillo sa che non c’è stato in loro alcun cambiamento di toni o contenuti. Dal primo Vaffa Day, al voto di febbraio, Grillo ha sempre considerato la democrazia italiana, le istituzioni repubblicane seguite al referendum del 1946, la classe dirigente tutta, una rovina. Ha sempre postulato di volere agire da solo per rompere il sistema, senza compromessi, alzando il tiro, dentro il 5 Stelle e in Parlamento, niente compromessi, niente negoziati. Il risibile impeachment contro il presidente Napolitano era già scritto nella gita al Quirinale di Grillo un anno fa.

Jacopo Iacoboni ha, in un bell’articolo, rievocato i lontani giorni in cui al tempo dell’adesione dell’Italia alla Nato il Partito comunista fece ostruzionismo e le Camere ribollirono. In altre occasioni furono i radicali di Pannella, storico l’interminabile discorso di Marco Boato, a far ricorso al filibustering. La differenza tra allora e adesso è quanto raramente Pci e radicali siano ricorsi all’ostruzionismo, consapevoli che fosse un «mezzo», da utilizzare solo in casi estremi – come la collocazione internazionale dell’Italia nella Guerra Fredda. Per Grillo bloccare la Camera non è invece un «mezzo» per ottenere qualcosa, con il 25% dei voti avrebbe da incassare risultati politici ogni giorno. Fermare il dibattito democratico in Parlamento, e poi a cascata nel Paese, è il «fine», la «meta» nella, evidentemente illusoria, persuasione che il caos «manderà a casa la Casta», dando il governo a Grillo e Casaleggio. Si tratta di rompere, non ricostruire.

Aver creduto che si potesse lanciare un programma di riforme per il XXI secolo su queste basi è abbaglio su cui meditare. Ma altrettanto grave sarebbe ora per il Pd e la sinistra duplicare l’errore degli ultimi 20 anni, quando gli elettori di Berlusconi sono stati branditi come «fascisti, mafiosi, evasori fiscali». I milioni di italiani che hanno votato per Grillo vengono – rileggete i flussi disegnati da Roberto D’Alimonte - da destra, centro e sinistra. Lo hanno scelto, e in gran parte ancora dichiarano di volerlo votare non per bruciare libri, dire lepidezze orrende sulla Boldrini, parlare nell’italiano maldestro del parlamentare medio 5 Stelle, o perché depressi dalle scie chimiche. Lo votano perché sommano il disgusto per la corruzione e l’inanità della classe dirigente italiana tutta, con la fatica di sbarcare il lunario oggi. Molti di loro compiono l’errore intellettuale – comprensibile per l’angoscia sociale che lo genera - di credere che il lavoro manchi per colpa della corruzione, che il figlio sia precario «Perché Quelli rubano». Non è così, anche quando «Quelli» smetteranno di rubare, senza innovazione, tecnologia, mercato, cultura, ricerche, laboratorio, scuola, il lavoro in Italia non si troverà, Electrolux non è un caso, è l’ultimo sintomo della deindustrializzazione che da 50 anni trasforma l’Occidente.

Di queste riforme Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sono, e resteranno, nemici giurati. Saranno sempre schierati per il caos, via carta, tv, web, convinti che serva a spezzare il sistema. Queste riforme sono insieme salvezza per il Paese e sconfitta certa per 5 Stelle. Come non bisognava ieri flirtare vanesi con Grillo, non si devono adesso insultare e isolare i suoi elettori perbene. Va detta loro, con onestà e senza frivolezza, la verità sulla tempra morale dei fondatori di 5 Stelle. Va loro mostrata un’etica pubblica lucida, con tagli alle spese politiche severe, ma poi serve un piano di crescita coerente, logico e sostenibile. Solo la crescita azzittirà il Pifferaio ligure in fretta. Avrà allora tempo per show di successo o per leggere qualche libro, magari non flambé.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/02/03/cultura/opinioni/editoriali/i-grillini-vogliono-caos-non-riforme-xK1S88C0eIgoszYOUgLX8K/pagina.html
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« Risposta #119 inserito:: Febbraio 06, 2014, 04:43:01 pm »

Editoriali
06/02/2014

Burocrati e moralisti a Palazzo di Vetro
Gianni Riotta

Che la Chiesa Cattolica abbia gestito in modo errato, fino alla tragedia, la vicenda della pedofilia nei propri ranghi, ai vertici, nei palazzi, nelle parrocchie e nei seminari, è verità storica assodata. 

Ho visitato a Washington un ritiro-casa di cura in cui venivano ricoverati i preti pedofili, curati, sottoposti a penitenze e controlli. 

Ricordo il senso di angoscia orribile che gravava in quelle stanze, il vecchio monito evangelico di legarsi una macina da mulino al collo, punizione per lo scandalo dato ai bambini.

Il Rapporto della Commissione Onu per i diritti dei minori (testo integrale a http://goo.gl/L4zPuh) arriva dunque opportuno a stigmatizzare il grande scandalo, i ritardi della gerarchia nell’escludere i colpevoli, l’ipocrisia nel lasciare le vittime in silenzio, la vergogna, l’omertà, la folle scelta di rimandare i pedofili peggiori nelle parrocchie, tra famiglie impotenti e piccoli terrorizzati. Un’intera generazione di cattolici, ovunque nel mondo, si è sentita estraniata dalla fede per questa condotta da sepolcri imbiancati e lunga sarà la Quaresima di espiazione.

Quel che non persuade nel testo delle Nazioni Unite non è dunque la condanna delle colpe dei pedofili nella Chiesa, da tempo condivisa e diffusa. È nel tono superficiale da magazine alla moda, dove con nonchalance questioni controverse come aborto, contraccezione, identità sessuale uomo-donna, vengono gettati nella stesso canovaccio con la pedofilia. Come se un piccolo parroco di provincia, immaginate un pretino come nel vecchio romanzo “Diario di un curato di campagna” di Bernanos, che dal pulpito condanni l’interruzione di gravidanza e raccomandi prudenze con le contraccezioni, sia per questo, d’istinto, sospettabile di pedofilia, da tenere lontano dagli scolari del Catechismo.

Suor May Ann Walsh, portavoce della Conferenza Episcopale americana, commenta con sagacia il testo Onu: “Chiunque porti attenzione sul problema (degli abusi sessuali) contribuisce a risolverlo…”, ma mischiarlo con aborto e contraccezione rischia di far caos, “Purtroppo hanno gettato tutto nel lavandino e indebolito il rapporto. Aborto e contraccezione sono temi che scatenano guerre culturali, gli abusi sessuali non son temi da scontro culturale, sono un peccato e un crimine”.

C’è, tra mille verità, un eccesso di giacobinismo moralistico che indebolisce il rapporto Onu. Come se si dovessero pagare pegni al Codice del Politicamente Corretto reso particolarmente rigido dal linguaggio burocratico da Palazzo di Vetro. I polemisti diranno che la stessa Onu non riesce a dire granché sui bambini gasati in Siria, pena il veto di Putin in Consiglio di Sicurezza, adorna le sue bacheche, ieri sui muri oggi online, di comunicati sui diritti umani, civili, culturali e religiosi dell’uomo e del cittadino, salvo farli firmare da governi che violano ogni giorno, in modo orrendo, quei diritti. I critici osserveranno che altre religioni o confessioni, che hanno stati membri pronti a difenderle con energia, raramente subiscono questo tipo di scrutinio, attenzione e condanna. Infine confusa appare l’identità tra Chiesa Stato Sovrano e Chiesa religione, come se un parroco pedofilo americano, italiano o brasiliano rispondessero solo al Papa delle proprie colpe, e non anche ai tribunali del proprio paese.

Conta soprattutto che l’Onu, con la lentezza etica che spesso la aliena da tanti, non colga il clima nuovo nella Chiesa dopo l’elezione di Papa Francesco, il lavoro già avviato prima di lui per guarire la piaga infetta della pedofilia, degli abusi sessuali e del sistema che li ha protetti e perpetuati. Non valuti le differenze tra paese e paese, tra le culture diverse del mondo cattolico sul pianeta, tra paesi ricchi e poveri. Fa la morale richiamando a una data di controllo, il 2017, che nessuno avrà il potere di riconoscere. La Chiesa ha collaborato con il Rapporto al massimo livello –con il Procuratore Capo nei processi contro la pedofilia fino al 2012, il vescovo Charles J. Scicluna- sperando servisse da stimolo esterno all’opera di riforma morale. La gelida prosa Onu ha tutti i timbri della burocrazia contemporanea a posto, ma priva di calore e rispetto, si rivela purtroppo poco utile contro i mali che, a parole, intende combattere.

Twitter @riotta 

Da - http://lastampa.it/2014/02/06/cultura/opinioni/editoriali/burocrati-e-moralisti-a-palazzo-di-vetro-nLkJlBJpmQcoe8xG5EgQ5J/pagina.html
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