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Autore Discussione: VITTORIO ZUCCONI,  (Letto 44258 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 04, 2009, 10:26:04 am »

Vittorio Zucconi


3 Gen 2009

Legittima difesa
Secondo le fonti citate dalla CNN, che sono Tzahal, le forze armate israeliane, e l’ospedale di Gaza al-Wafa, la cosiddetta guerra fra Israele e Hamas ha fatto 435 morti palestinesi e 4 israeliani in una settimana, un rapporto di cento palestinesi per ogni israeliano. A parte ogni considerazione morale, politica o strategica, è evidente che esista una certa sproporzione fra l’efficacia dei razzi di Hamas e l’efficacia delle armi israeliane come i micidiali missili americani antiuomo M26, nella foto. La domanda rimane dunque sempre la stessa: la difesa è legittima, ma come si definisce la legittima difesa? Che cosa significa “vincere” se il tuo nemico non soltanto non teme, ma al contrario cerca la propria morte come segno di vittoria e più ne ammazzi, più si considera vincitore?

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3 Gen 2009

Alice nel Paese di Tremonti
I conti di chiusura del 2008 “sono ragione di fiducia per i cittadini e di orgoglio per il governo” ci informa il Minculpop televisivo, citando il ministro Tremonti. Oh, alè, evviva, si comincia bene l’anno. Poi uno va a guardare oltre lo specchio e scopre che il buco nelle casse dello stato per coprire le spese, il “fabbisogno”, è di 52,9 miliardi, vale a dire 102.000.000.000.000 di lire come amava dire proprio Tremonti quando gl faceva comodo pompare gli zeri. E’ il doppio, ripeto, il doppio dei 26 miliardi del 2007 e addirittura peggiore di 7 miliardi rispetto alla cifra negativa di 45 miliardi prevista dal governo. Ma l’impatto di questa frana sarà - attenzione alla formula deliziosamente surreale ai limiti dell’ossimoro - “sostanzialmente marginale”, cosa che non significa assolutamente nulla (provate a invertire i fattori: “marginalmente sostanziale”). Si raccomanda, ai soli adulti, la lettura o rilettura di “Attraverso lo specchio e che cosa Alice vi trovò” di Lewis Carroll. Un mondo di puro “nonsense”, accreditato da quelle patetiche Regine di cuori che sono i TG maggiori.

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3 Gen 2009

E poi buttate la chiave
Sarebbe il caso di aggiungere una fondamentale premessa  al solito ritornello sulla “certezza della pena” ripetuto da ogni politicante di provincia con l’occhietto fisso verso l’obbiettivo della telecamera come gli insegnano alla scuola di comunicazione per corrispondenza Radio Elettra Segrate : che prima della “pena” è necessaria la “certezza della giustizia”. Tutti i tirannelli sono capaci di sbattere dentro la gente e buttare la chiave. Una nazione civile si sforza di accertare che l’imputato sia colpevole del reato e poi, soltanto poi, lo mette sotto chiave nei tempi previsti dalla legge.


da zucconi.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 19, 2009, 03:11:32 pm »

Il trasloco del vecchio inquilino che ha portato via mille metri cubi di carte e documenti.

Da domani a mezzogiorno Bush sarà un semplice pensionato

L'ultima notte da re di George W. nella casa Bianca dei fantasmi

di VITTORIO ZUCCONI

 
WASHINGTON - Nella città sospesa fra due epoche, si consuma un funerale che è insieme un battesimo. Queste ultime 24 ore a Washington sono il tempo dei facchini, degli scatoloni, dei sacrestani laici che officiano la morte e la rinascita di una democrazia costituzionale che ha sempre saputo sopravvivere alla miseria e alla grandezza degli uomini.

Dietro la retorica e le danze, nell'ultimo giorno che diventa il primo, la verità è il rito. Sta in quei furgoni bianchi e gialli con la scritta "Security Storage", l'impresa di traslochi, parcheggiati nelle strade dietro il portico sud della Casa che cambia inquilino (mai padrone) per la 44esima volta. Nei 54 impiegati ancora in servizio e nel 250 soldati comandati al facchinaggio che vanno e vengono, ben contenti di portare scatoloni piuttosto che stare in Iraq. Hanno portato via dalla Casa Bianca finora mille metri cubi, il volume di un discreto appartamento, di carte e documenti, sotto lo sguardo occhiuto della vice direttrice degli Archivi Nazionali, che quattordici camion e due aerei della US Air Force hanno recapitato nella cristianissima Southern Methodist University di Dallas dove George Bush costruirà la propria biblioteca, accanto alla casa da 2,1 milioni di dollari acquistata per la pensione.

Dal mezzogiorno di domani, tutto quel materiale, e quello ancora da scoprire tra le email e i server, non apparterà legalmente più a Bush, ma alla nazione.
Queste sono le ore nelle quali l'uomo più potente del mondo assiste al proprio funerale civile a mezzogiorno e un minuto di domani, il momento fino al quale potrebbe ordinare il bombardamento atomico di Teheran o Mosca, e alle 12.02, neppure un caffè. Senza "rischi per la democrazia", nelle certezza di una liturgia che tutti, da 209 anni quando fu aperta la Casa Bianca, rispettano anche se dentro di loro si divincolano.

Come lo stile fa la persona, così il rito fa la religione e le ultime 24 ore di un presidente alla fine sono, da quando Truman cedette l'ufficio a Eisenhower consegnandogli "la chiave", cioè i codici, per la guerra atomica, molto più di una transizione costituzionale.
E' il trasferimento del potere dell'Apocalisse. Nella loro ultima notte al terzo piano, dove sta la camera da letto matrimoniale, George e Laura Bush dormiranno dentro una casa di fantasmi, svuotata e quindi un po' sinistra, in attesa che la nuova signora, Michelle, decida dove disporre il mobilio di Stato e quello personale, gli accessori, le foto di famiglia.

Persino lo Studio Ovale, la sacrestia, viene ripulito e ridipinto, i due divanetti delle decisioni tremende, la scrivania di legno navale massiccio che la regina Vittoria regalò nel 1890, i vasi, e che tutti da allora hanno usato, meno Johnson che la trovava lugubre, immagazzinati durante la notte. Bush questa sera avrà ancora un tavolo da lavoro. Al risveglio non lo troverà più.

Ricorda Ken Duberstein, il capo gabinetto di Ronald Reagan, che la mattina del 20 gennaio 1989, quando entrò con Colin Powell nello Studio Ovale alle 9 esatte, per fare a Reagan l'ultimo rapporto, rimase di sasso scoprendo che la stanza era completamente spoglia. "Vuol dire che proprio non esisto più", commentò malinconico Reagan, "tanto vale che vi restituisca questa" aggiunse allungando la "chiave" nucleare, in realtà una custodia di plastica da spezzare. "Per carità, mister President, la tenga stretta, fino a mezzogiorno appartiene a lei". Per fortuna, quella mattina, in piedi, Colin Powell, consigliere per la sicurezza nazionale, potè annunciare: "Signor Presidente, il mondo è in pace". Cosa che domattina, Steve Hadley, il capo gabinetto, non potrà dire a George W Bush.

Il momento più amaro avviene quando finalmente, finito il corteo trionfale, il morto deve pure offrire il caffè con pasticcini al vivo, scambiando frasi fatte. Nessuno sa che cosa dire e tutti hanno fretta di farla finita, mentre già l'ufficiale con il "football", la valigetta dei nuovi codici nucleari che devono corrispondere a quelli che il presidente porta sempre in tasca, si è piazzato discretamente alle sue spalle. I nuovi arrivati fremono per mettersi al lavoro, per impadronirsi fisicamente e psicologicamente di quella Casa vuota nella quale per almeno quattro anni dovranno vivere momenti di esaltazione e di angoscia che nessuno può mai prevedere. I vecchi si sentono ormai estranei, appunto morti in casa.

Negli uffici al piano terra, i nuovi funzionari sciamano come scolaretti in una nuova classe occupando le sedie ancora calde liberate pochi minuti prima, perché la cancelleria dell'impero deve funzionare senza interruzioni, sperando che gli uscenti non si siano abbandonati a vandalismi e dispetti come i clintoniani fecero lasciando il posto agli odiati bushisti. Poi, tra il sollievo generale, i saluti. Il nuovo pontefice e quello che contempla un futuro di pipì ai giardinetti con il cane Barney, si stringono la mano, le signore si scambiano "air kisses", baci teatrali in aria, senza contatto. Lo zombie civile cammina verso l'elicottero dei Marines, accenna a un saluto, militaresco o mite, secondo il temperamento, sale a bordo, l'elicottero stacca le ruote dal prato e in quell'istante perde la propria denominazione ufficiale di "Marine One" per diventare un qualsiasi velivolo militare.

Compirà un ultimo sorvolo a 360 gradi sopra la Casa Bianca, virando sul lato dove siede il dipartito per offrirgli la vista del mondo che non gli appartiene più e poi le depositerà alla scaletta del 747 bianco e azzurro per l'ultimo volo verso la casa in Texas. Non più "Air Force One", anche se il Boeing è lo stesso, ma "Air Force volo numero 7000". "Guarda, Nancy - disse Reagan alla moglie poggiandole una mano sul ginocchio - quello è il nostro piccolo bungalow" e tutti, anche i bulli del Servizio Segreto, piansero.

Piangeranno anche domani, perché ai funerali si piange. Là sotto, impazziranno le feste, i Te Deum e i balli per Barack Hussein Obama. La chiesa americana sarà sopravvissuta intatta e la chiave dell'inferno avrà cambiato tasca.

(19 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 22, 2009, 03:27:17 pm »

I PROTAGONISTI.

A Washington tanti parenti della coppia presidenziale, dall'Africa all'Indonesia.

Famiglia in technicolor

La favola della famiglia globale e il mondo sbarca alla Casa Bianca

di VITTORIO ZUCCONI


WASHINGTON - Sono stati necessari duecento vent'anni, 650 mila morti in un massacro fratricida e varie guerre mondiali, ma un altro muro è caduto: nella casa più esclusiva del pianeta ha fatto irruzione il mondo intero, al seguito di un Orfeo nero. Con Barack Hussein Obama, con la sua storia familiare cucita come un "patchwork" di pezze a colori diversi, alla Casa Bianca è entrato il dna dell'umanità intera.

Europeo con i cromosomi della mamma, africano con quello del padre e della moglie Michelle, asiatico con quello del patrigno e della sorella, fra parenti sparsi nei campi di mais del Kansas e tra gli ananas delle Hawaii, in Indonesia e in quel Kenya dove vivono sette dei suoi fratelli e sorelle. Per decenni si è lamentato che i 43 capi di Stato e governo, da George Washington a George Bush, non somigliassero all'America, tutti maschi, tutti - meno uno - bianchi protestanti, ma con l'avvento del 44esimo la storia ha saltato un passaggio. Ora la Casa Bianca somiglia al mondo. Una presidenza in Technicolor.

Tutto parte da una piccola, irrequieta donna, una ragazza chiamata Stanley Ann Dunham che avrebbe consumato la propria vita nelle grandi praterie del Midwest, se non avesse avuto come padre un commesso viaggiatore di mobili, perennemente on the road. Contagiò Ann con il suo wanderlust, con la sua smania di vagabondare. Dal Kansas, al Texas, a Seattle, sulla costa del Pacifico, fu facile per questa giovane donna seguire ancora il padre, che rincorse il sogno di un grande negozio di mobili fino a Honolulu, l'estrema Thule degli Stati Uniti, dove avrebbe conosciuto uno studente kenyano, innamorandosene dopo essere stata stregata dall'"Orfeo Nero" di Marcel Camus, il primo film straniero che lei avesse mai visto. E addirittura sposandolo, troppo giovane, fortunatamente troppo impulsiva. Se Stanley Ann fosse stata una ragazza con la testa sulle spalle, oggi non ci sarebbe un presidente chiamato Obama alla Casa Bianca.

Da quell'incontro, dal prevedibile divorzio, dalla sua fuga ancora più oltre il mare, in Indonesia per sposare Lolo, un militare incontrato alle Hawaii, comincia l'esplosione di quella famiglia globale che abbiamo visto irrompere alla Inauguration e che nei prossimi mesi vedremo sicuramente ospite alla Casa Bianca, in un quadro che scandalizzerà i benpensanti e conforterà gli spiriti liberi. Un'indonesiana, la sorellastra Maya Soetoro Ng, che dormirà nella stanza di Lincoln. La trisnipote di schiavi, la nonna e madre di Michelle, che pranzerà con le preziose porcellane comperate da Nancy Reagan. Qualche fratello kenyano che conversando nei dialetti del suo villaggio, si muoverà tra i mobili aristocraticamente scelti da Jacqueline Bouvier Kennedy.

Ma se in questa "famiglia globale" nella quale il New York Times ha calcolato ci siano le impronte e i conflitti di tutte le etnie umane e i suoni di tutte le lingue, inglese, creolo, dal sud di provenienza della famiglia di Michelle, francese, ebraico, cantonese, tedesco, swahili (nel nome Obama) e arabo, che il Presidente orecchiò studiando il Corano nelle scuole elementari di Giacarta, il mondo può specchiarsi, è nella mater familias, nella nuova First Lady che si concentra la sfida più crudele. Il marito sarà alla fine giudicato per quello che farà. La moglie sarà esaminata, bocciata o promossa, per come apparirà, secondo la condanna delle donne.

E' lei, assai più di Barack che non ha mai davvero vissuto l'esperienza dell'essere nero in America, colei che porta il segno della black experience. Il padre di Obama era kenyano, ma studiò a Harvard. La famiglia di Michelle, cresciuta a Chicago, discende direttamente da schiavi della Sierra Leone incatenati nelle risaie delle Caroline. E dietro i i titoli di studio, la laurea a Princeton, poi il dottorato in legge a Harvard, rimane la ferita di una donna di colore in un'America bianca, come la sua tesi di laurea in sociologia a Princeton raccontò. E si lasciò scappare una frase che le fu duramente rinfacciata: "Ora posso dire di essere orgogliosa di essere americana".

Le sue toilette, da quegli abiti che esibiva durante le campagne elettorali a quell'aggressivo "rosso e nero", che indossò nella sera del trionfo di Chicago, alle "mise" usate per l'insediamento e poi per i 10 balli ai quali ha dovuto partecipare nel suo nuovo lavoro di first lady, sono letti attraverso la lente della sua etnia, prima che quella della moda. Troppo da madre di famiglia in una chiesa battista dell'Alabama per ascoltare il gospel del coro, quell'abito color canarino alla cerimonia, hanno storto il naso. Troppo sfacciato, con quelle spalle ai balli, corretto in extremis da una bretella che lei aveva voluto nella paura di sembrare troppo disinvolta, dopo quelle first lady in tailleur pantalone da preside stile Hillary, i completini da maestrina di Laura, il glamour hollywoodiano di Nancy nei suoi Oscar de la Renta e l'incubo inarrivabile, Jackie eterea nei suoi Oleg Cassini.

Esiste una soluzione "interraziale", non bianca e non nera, ma americana, di essere la matriarca di una nidiata globale?

Al marito potranno essere perdonate o imputate azioni distorte dal prisma della politica. Non a lei. Ha iscritto le figlie a una scuola privata di Quaccheri, nel cuore del ghetto bianco di Washington, Sidwell Friends, perché lei si considera prima di tutto una madre che si deve preoccupare dell'istruzione delle figlie, e a Washington le scuole pubbliche sono deprimenti. Ha arruolato la madre, Margaret Hamilton, la "prima suocera" che, caso senza precedenti nel secolo scorso, vivrà alla Casa Bianca per rassicurare le bambine, come ha fatto durante la campagna elettorale. E dovrà danzare in punta di piedi fra la nuova borghesia nera della capitale e l'arcigno generone bianco, che se la contenderanno, ciascuno giudicandola per suoi "tradimenti" o le sue concessioni agli altri. Letti, in lei donna, nella semantica dell'abito, nel trucco, nelle scarpe, nell'acconciatura.

Tutte le nuove famiglie che in 200 anni erano entrate alla Casa Bianca avevano potuto consultare il libro dei precedenti, per copiare o per fare l'opposto. Ma non c'è un manuale d'istruzioni, un precedente per questa signora, per le bambine, per la nonna. Il mondo era stato ospitato, dalla Regina Elisabetta ai miliardari amici di Clinton che affittavano la stanza da letto di Lincoln. Ma il mondo non era mai stato il padrone di casa, come ora è, attraverso la magnifica babele che la ha invasa.

(22 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Gennaio 27, 2009, 09:47:03 am »

L'ANALISI

Il piccone di Barack

di VITTORIO ZUCCONI


NON è passato un giorno, dei sette trascorsi dalla cerimonia di insediamento, senza che dalla Casa Bianca di Obama non sia arrivata una decisione che picconi un altro mattone dell'edificio politico costruito dal predecessore George Bush, culminata nella tremenda botta ai consumi di carburante annunciata ieri. Perché questa vuole essere una presidenza "basata sui fatti", dice il presidente, non sulle disquisizioni di chiese e circoli, e i fatti indicano l'ovvio, a chi lo vuol vedere. E cioè che il mondo, e l'America per prima, stanno bruciando troppo petrolio, con tutte le disastrose conseguenze politiche, economiche ed ambientali che questa orgia quotidiana provoca.

Non tutto quello che il nuovo presidente ha annunciato può avere effetti esecutivi immediati, come nel caso del viluppo costituzionale e morale creato a Guantanamo e ora complicatissimo da dipanare, ma certamente è riuscito a dare l'impressione di voler demolire e ribaltare il passato, secondo il mandato elettorale ricevuto. Il che, nella nostra epoca della politica per immagini e per "breaking news", per notizie spacciate per ultim'ora anche quando non lo sono, è già realtà. Il messaggio è la sostanza. Mi avete eletto nel nome del "change", del cambiamento, e io cambio, sta dicendo da sette giorni Obama alla nazione e al mondo.

L'occupazione quotidiana dello spazio informativo è l'obbiettivo evidente di questo nuovo leader americano che ha capito in pieno la lezione del cosiddetto "ciclo delle 24 ore", quel flusso e riflusso di annunci che nell'arco di una giornata devono soddisfare l'appetito insaziabile della "bestia", di televisione, radio, Internet, quotidiani, blog, e che, se non viene placata con qualche nutrimento positivo inesorabilmente divora nella negatività chi s'illude di domarla. Almeno in un sistema di media indipendenti e non addomesticati.

Obama l'ha nutrita di tutte quelle decisioni che lui, presidente di una repubblica davvero costituzionale, poteva prendere, perché non si tratta di leggi, o di nuove spese pubbliche, ma di rovesciamenti di decisioni esecutive uguali e contrarie prese dal predecessore. Era stato Bush, nel primo giorno di presidenza, a bloccare i finanziamenti americani alle organizzazioni volontarie internazionali che nel Terzo Mondo tentano di diffondere, soprattutto fra le donne, principi e pratiche di controllo della natalità esplosiva, fino al caso estremo dell'aborto, per ricompensare la destra cristiana che lo aveva puntellato alle elezioni. Ed è stato Obama a cancellare il divieto.

Il lager di Guantanamo, oscenità costituzionale come l'autorizzazione a forme di interrogatorio che qualsiasi persona razionale considererebbe tortura, erano state scelte fatte dall'esecutivo e come tali potevano essere ribaltate senza voti del Congresso. Anche la ostinata difesa dei consumi astronomici di carburante, che avrebbe dovuto proteggere le case di Detroit e le ha invece attardate sulla via dello sviluppo e sfiancate, nasceva dal rifiuto opposto dalla presidenza Bush ad Arnold Schwarzenegger, il "governator" della California, che implorava il presunto compagno di partito Bush di permettere al proprio stato di introdurre limiti drastici al consumo di benzina. Infatti Obama non ha "fatto una legge", che non avrebbe potuto fare, per imporre automobili più sobrie a Gm, Ford o Chrysler. Ha riautorizzato i singoli Stati a fissare i chilometraggi per litro consumato, dunque la California a bandire i "gas guzzlers", i tracanna benzina.

Questa scarica di direttive ci dà non soltanto la misura politica dell'uomo, che, in attesa della battaglia campale con il Parlamento per gli 850 miliardi di flebo all'economia, sta accumulando punti credibilità con l'opinione pubblica, alla quale farà fortemente appello perché lo sostenga nella lotta contro Camera e Senato recalcitranti. Essa ci offre, in più, indizi importanti sul "modus operandi" di Obama, sulla sua abilità di muoversi con sgusciante decisionismo tra le trincee ideologiche opposte creando, o cercando di creare, negli ingenui, l'impressione di non indossare davvero l'uniforme di nessuno. E facendo impazzire coloro che non sanno se definirlo un moderato travestito da radicale o, come in campagna elettorale, un radicale nei panni del moderato.

Ogni sua decisione ha infatti un risvolto flessibile dietro l'aspetto rigido e appunto "decisionista". Guantanamo sarà chiusa, ma soltanto dopo avere pesato bene e uno per uno i casi dei 250 detenuti. La scelta di accelerare i tempi dei risparmi di energia fossile sarà concordata con gli stati, nel rispetto del vero federalismo. Le torture erano già vietate esplicitamente dal nuovo manuale operativo della US Army e appaltate, attraverso la Cia, a governi stranieri o ad aguzzini noleggiati. Si tornano quindi ad applicare i principi, sapendo che il passaggio dai principi alla pratica non è mai agevole e il decisionismo senza moralità e intelligenza è soltanto fanatismo o dispotismo. Per questo le sue azioni appaiono a volte ambigue, perché la democrazia è ambigua e il mondo è un luogo lievemente più complesso di come se lo immaginava chi pretendeva di cambiarlo senza conoscerlo.

(27 gennaio 2009)
da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 06, 2009, 06:57:08 pm »

Vittorio Zucconi.


6
Feb
2009

La macchinetta per fare bambini

“Una persona che potrebbe anche in ipotesi generare un figlio in stato vegetativo” spiega il dottor Berlusconi, dopo avere esaminato la cartella clinica della signorina Eluana Englaro. Fantastica e illuminante ammissione involontaria, questa del Presidente del Consiglio: una donna, per i talebani e per gli opportunisti, è una fotocopiatrice biologica, un apparecchio di riproduzione, semplice terra nella quale buttare un seme e poi vederlo germogliare, senza che la terra stessa, fertile, ma sorda, possa obbiettare. La sua volontà non conta. Le donne, come la terra, non possono decidere se e quando generare, nella visione di questi seminatori assoluti. Il solo fatto che questa ipotesi sia stata pensata, senza avere visto le immagini di quei resti umani che rendono disumano il solo pensiero di una gravidanza, dimostra la desolazione morale e la insensibilità di chi l’ha formulata. Ora quel corpo è stato anche, figurativamente, violentato nella sua intimità più vulnerabile.

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6
Feb
2009

Eutanasia per la Costituzione

Proviamo a girare il tavolo, nella guerra dichiarata dal governo alla famiglia Englaro e alla magistratura italiana. Se tutti i tribunali avessero sentenziato in via definitiva e inappellabile che i resti della signorina Eluana devono essere mantenuti in alimentazione forzata “sine die” e il governo avesse varato un decreto d’urgenza per staccarle invece il sondino, oggi giustamente grideremmo all’invasione di campo e alla barbarie, se non al colpo di stato. L’esecutivo e il legislativo, nelle democrazie reali, possono fare tutte le leggi che vogliono purchè abbiano i voti e non violentino la Costituzione, possono graziare, perdonare o ridurre le pene a un condannato, ma non possono dichiararlo innocente o proclamare colpevole un assolto in via definitiva. Immaginiamo se, tanto per fare un esempio a caso, un ministro o un presidente del consiglio fosse riconosciuto colpevole di qualche reato fino alla Cassazione e il il governo, per decreto, bloccasse l’applicazione della sentenza. Impossibile da immaginare? Non in Italia, dove si sta tentando di introdurre, su un corpo torturato da 17 anni, l’ eutanasia della Costituzione. Fu quella la ragione per la quale i tribunali americani respinsero seccamente il goffo e demagogico tentativo di Bush e della allora maggioranza repubblicana di impedire l’applicazione della sentenza che permetteva - non imponeva - la fine del dramma di Terri Schiavo.

da zucconi.blogautore.repubblica.it
« Ultima modifica: Febbraio 10, 2009, 05:04:01 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 09, 2009, 05:06:41 pm »

VITTORIO ZUCCONI

 Lunga giornata verso la notte

9
Feb
2009

Il governo nel letto


Un governo, che purtroppo in Italia è sinonimo di Stato, capace di farfugliare frasi fatte e imparaticce, trasformarle in decreto e far timbrare da un Parlamento addomesticato e ricattato dal pietismo televisivo una legge che si appropria della vita dei cittadini, ordinando a tutti di prolungare senza senso il calvario di una paziente usata come pretesto, dovrebbe terrorizzarci. Con la stessa facilità e faciloneria, uno Stato che si impadronisce di ciò che non gli appartiene, la mia vita, la vita degli individui, può farne quello che vuole e può domani decidere, con la stessa garrula superficialità da talk show o da predellino con la quale questa classe dirigente si muove, di fissare dove e come quella stessa vita possa finire. Quando si agisce per sondaggi, per diversivi o per demagogia, la “difesa della vita” può diventare il giorno dopo “un’apologia della morte”, magari di fronte al prossimo “rumeno assassino” e alla conseguente collera popolare. Uno Stato che entra nel letto dei pazienti (o degli amanti) naturalmente “a fin di bene”, che è sempre stata la giustificazione di tutti gli orrori della storia e il fondamento di ogni totalitarismo, tende a non uscirne più, perchè questa, di essere invadente, è la natura di ogni Stato, se non viene fermato sulla soglia. Soltanto in Italia chi si proclama “liberale” può non vederlo. Questo, oltre il calvario di una famiglia, è ciò che in queste ore disperanti è in gioco anche per coloro che dicono di non avere opinioni sulla signorina Eluana Englaro e si credono fuori dalla tragedia. Non lo siamo.

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« Risposta #21 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:04:25 pm »

10
Feb
2009


Piccole lucertole crescono

Il ministro degli Interni della Repubblica Italiana, on. Roberto Maroni, ha querelato il noto settimanale sovversivo “Famiglia Cristiana” per avere definito “razziste” e rigurgito da “osterie padane” le sue nuove leggi, tra le quali brilla la denuncia di pazienti non italiani senza “papieren” ricoverati, magari privi di sensi oltre che di documenti, negli ospedali.

Nel 1935, oopo la promulgazione delle Leggi di Norimberga per il salvataggio e la protezione del sangue ariano, gli ospedali pubblici tedeschi cominciarono a rifiutare pazienti ebrei per ordine del sindaco, come a Berlino, o, se questi avessero chiesto soccorso presso uno di essi, a denunciarli alle autorità, “sotto pena di carcere o di campo di lavoro duro”, come specificava la legge.

Anche gli alligatori più feroci, da piccoli, sembrano soltanto lucertole.


Vittorio Zucconi (da blogautore.repubblica.it) 

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« Risposta #22 inserito:: Febbraio 25, 2009, 05:46:07 pm »

25
Feb
2009

Quanto vale la speranza


Se le parole bastassero per far uscire dal sepolcro il Lazzaro dell’economia americana, stroncato da 8 anni di follie di bilancio da parte di una Presidenza repubblicana che ha lasciato in eredità uno scolapasta sfondato, il primo discorso a Camere riunite di Barack Obama quello che dal secondo anno di presidenza diviene “Lo Stato dell’Unione” questa mattina farebbe il miracolo di saldare tutti i debiti, risanare i bilanci delle banche e disintossicare il sistema dai veleni della mascalzonaggini e della complicità poiliica che lo hanno intossicato. Ieri sera, gli americani, i parlamentari e chi lo aveva seguito durante la campagna elettorale, hanno ritrovato quell’ “Obama in Concert”, quel meglio di Obama, quell’affascinante personalità che ha inflitto al tandem Repubblicano quasi dieci milioni di voti di distacco, dopo essere stato licenziato all’inizio come una creatura del media.

Naturalmente, le parole non bastano per resuscitare i morti o guarire i moribondi e la promessa di “ricostruire l’America”, di aumentare gli investimenti nelle nuove energie, nella salute pubblica e nell’istruzione proprio perchè la nazione è in crisi è entusiasmante, e tutta da mantenere. Ma le parole non sono neppure inutili.

Insieme con la slavina di dollari che stanno per arrivare sull’economia, l’industria, la finanza per salvare chi ha risparmiato, non chi ha speculato, l’America alla quale il mondo continua guardare come alla sola che può tirarci fuori dalle sabbie mobli, ha un disperato bisogno di una buona parola. Non delle fatue chiacchiere degli ottimisti per impotenza, o le manovre diversive per distogliere l’attenzione e puntarlo sopra “l’emergenza” del momenti. Ha bisogno dell’indicazione che sul sedile sinistro dell’aereo, quello dove siede il comandante, ci sia qualcuno che vede oltre le nuvole e la turbolenza. Insieme con i soldi, l’economia americana ha la necessità urgente di una buona notizia, di qualcosa che cambi quello che nello sport si chiama il “momentum”, la forza inerziale che in certi momenti della partita sembra gonfiare le vele dell’ avversarioi.
Per qualche ora, le parole del Presidente, la sua capacità di offrirci “the best of Obama” dopo che abbiamo visto anche il peggio, cioè la sua inesperienza e titubanza dal 20 gennaio, sono servite a spingere via dai teleschermi, dai monitor, dalle prime pagine quel fumo lugubre di cattive notizie che ogni giorno, si tratti di immobiliare, di banche, di lavoro, ammorbano le nostre giornate e tolgono il respiro. E per chi si è ostinato a credere nei valori della democrazia americana, la promessa solenne, davanti al mondo, di “non torturare” e di chiudere il lager di Guantanamo processando e punendo gli eventuali colpevoli in tempi civili, è stato un sollievo a lungo atteso.
La sua è stata una boccata di ossigeno retorico, ma ossigeno non di meno, e un tentativo di cambiare segno al discorso collettivo, alla lugubre “narrazione” quotidiana, per spostarla dalle attese del peggio alla speranze del meglio.

Tutta l’attività finanziaria ed economica è costruita sulla speranza, se è onesta, come lo è la vita. Si acquistano titoli e obbligazioni nella speranza che aumentino di valore, senza averne certezza. Ci si sposa nella speranza che il matrimonio sia felice e che i figli siano sani, buoni, sereni. Si compra casa nella speranza di avere soldi per pagare il mutuo, e che la casa accresca il proprio valore. Si esce di casa al mattina nella speranza, senza certezza, di tornare alla sera. La speranza ha un corso, un valore materiale, un peso di bilancio. Lazzaro non è uscito dalla caverna soltanto perchè Obama glielo ha chiesto per 56 minuti, non essendo il messia delle bisbetiche caricature anti obamiste della Destra durante la campagna. Ma non era quello lo scopo del suo discorso. Era quello di ricordare - ed è meno ovvio di quanto sembri - agli altri che sono ancora vivi.

da zucconi.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Marzo 01, 2009, 10:33:57 am »

Ogni presidente Usa deve fare i conti con gli interessi di associazioni e imprese

Un esercito di quindicimila professionisti al servizio del potere

Da Boeing a Exxon, tutti gli affari dell'industria della "spintarella"

di VITTORIO ZUCCONI


WASHINGTON - "Tu pensa al ministro che al Parlamento ci pensiamo noi" disse il lobbista di un governo straniero a un avvocato che lo rappresentava. Bei tempi. Oggi un vento freddo soffia lungo il "Fossato di Gucci", la K Street di Washington dove ronza la massima concentrazione al mondo di lobbisti in lussuosi mocassini italiani: il presidente Barack Obama gli ha dichiarato ufficialmente guerra.

Non è il primo leader americano a farlo, nella processione di politici mandati dagli elettori alla Casa Bianca per bonificare la foresta pietrificata di interessi, di gruppi di pressione, di trafficoni, spesso di esimi farabutti, che governano la nazione dietro il palcoscenico della democrazia, più dei rappresentanti scelti per farlo, per conto di chiunque le paghi, siano essi gli avvocati dei processi per danni personali, il sindacato insegnanti - potentissimo - gli industriali siderurgici o i petrolieri rimasti orfani del loro ragazzo alla Casa Bianca, George W. E non sarebbe neppure il primo a fallire miseramente.

Ma ciò che fa rabbrividire i 15 mila e 150 lobbisti registrati ufficialmente in quella bella strada Washington - 28 per ognuno dei 535 deputati e senatori che devono marcare a uomo in un pressing quotidiano - e minaccia i 3 miliardi e mezzo che l'industria della "spintarella" legislativa produce, è il fatto che per realizzare le proprie promesse, per essere Obama, per tradurre in realtà gli impegni della sua finanziaria, il presidente dovrà inevitabilmente entrare in collisione con molti degli interessi che l'armata della K Street rappresenta.

La forza, e la prepotenza, delle lobby è sempre inversamente proporzionale alla debolezza della politica, da quando, forse nel 1865 come vuole la leggenda etimologica, personaggi di varia estrazione e di diversi interessi si accalcavano nella "lobby", nell'atrio dell'Hotel Willard di Washington dove il presidente Ulysses Grant preferiva vivere, fumando corposi Havana. I lobbysti non sono onnipotenti. Posso essere, e sono stati, sconfitti come accadde nel "massacro del 1986", quando l'alleanza ferrea tra i boss democratici del Parlamento, e il popolarissimo presidente repubblicano Reagan, sconfissero i battaglioni di avvocati al servizio delle grandi corporation e vararono una riforma fiscale che alzò le imposte sui profitti finanziari, i "capital gain" alle stesse aliquote dei redditi da lavoro.

Ma la rivoluzione budgetaria disegnata da Obama garantisce dolori e sconfitte più estese di quelle scritte nella legge del 1986. Praticamente tutti i lobbisti del "Fossato di Gucci" hanno qualcosa da perdere, se diventasse legge. I petrolieri, che hanno fatto scandalosi profitti con record assoluti come la Exxon Mobil negli ultimi due anni, tremano al pensiero di miliardi investiti per superare la tossicodipendenza dai carburanti fossili. Il famigerato "complesso militar industriale", quello che Dwight Eisenhower denunciò come un cancro in via di metastasi, vede in pericolo almeno 100 miliardi di dollari di commesse nei prossimi 4 anni, se davvero il Pentagono sarà costretto a rinunciare a progetti d'arma obsoleti, roba "da Guerra Fredda", come ha detto Obama.

Grazie alle irresistibili pressioni sul Senato, l'industria aerospaziale americana è riuscita ad abbattere il contratto che legittimamente l'Airbus aveva firmato per la nuova flotta di aerei cisterna, come ormai morto è anche uno dei cosiddetti trionfi italiani concesso da Bush a Berlusconi, la fornitura dei nuovi elicotteri presidenziali costruiti dalla Alenia. Società come la Halliburton, cara al cuore dell'inflessibile crociato per l'esportazione della democrazia, il vice di Bush Cheney che ne era stato a capo e ancora ne possedeva azioni, dovranno affrontare l'orrore i aste pubbliche per offrire i loro servizi logistici alle truppe in guerra, anziché incassare i miliardi - almeno 20 - regalati senza concorrenza.

I tentacoli del lobbismi per interesse, diverso dal potente lobbismo per cause senza profitto, come i gruppi ecologisti o l'Unione Legale per le Libertà Civili, la Aclu, che tallona le scelte governative considerate anticostituzionali, si estendono a ogni angolo della vita nazionale, ovunque ci siano leggi da fare, da bloccare o finanziamenti da stanziare. Furono le "sturmtruppen" della Assicurazioni ad assalire e demolire l'offensiva di Hillary Clinton nel 1993 per creare un servizio sanitario nazionale, e saranno di nuovo loro, insieme con l'altro mostro da 800 miliardi di dollari l'anno, il "complesso medical-industriale" a battersi contro il tentativo di mettere le compagnie, gli ospedali, la professione medica in lotta gli uni contro gi altri, per abbassare i costi. "Le compagnie d'assicurazione non vogliono competere, e noi le costringeremo a farle", ha promesso ieri Obama. E se la grande finanza, colpita e umiliata dal crac, oggi è, più che lobbista, orfanella, i grandi capitali rimangono e non accetteranno gli aumenti delle tasse oltre i 250 mila dollari di reddito annuo lordo, senza muovere le proprie pedine alla Camera e in Senato, alle quali affettuosamente ricorderanno che, senza i loro finanziamenti elettorali, sarebbero ancora sindaci di paese, azzegarbugli i provincia o venditori di auto usate in Alabama.

Non c'è bisogno di arrivare alla mafia di Jack Abramoff, il gangster associato alle carceri federali fino al 2011, che comperava funzionari della Casa Bianca, parlamentari, assistenti e portaborse all'ingrosso, con una spiccata preferenza per i repubblicani, per sapere in quale limbo grigio fra legalità e illegalità si muovano personaggi capaci di decidere, con i finanziamenti elettorali, il destino di deputati e senatori. E non è neppure una questione di "destra" o "sinistra", perché il lobbista è un perfetto camaleonte, servo di tutti i padroni. Forte della immortale verità pronunciata dal democratico della California, James Unruh soprannominato "Bid Daddy", il paperone ancora nel 1922: "Il danaro è il latte materno della politica".

Nessuno è mai riuscito a svezzarsi, nonostante riforme su riforme che arrivano alla ridicola minuzia di proibire allo staff di un parlamentare di accettare pizze offerta un lobbista e obbligano, sotto pena detentiva, i 3000 funzionari ministeriali di vertice a denunciare ogni contatto con un lobbista. Come prima di lui Reagan, Obama ha una sola arma efficace per combattere le lobby: la popolarità, dunque il mandato e l'abilità di parlare direttamente alla nazione. Paradossalmente, la Depressione in atto sarà la sua migliore alleata, per domare la prepotenza dei grandi interessi costituiti e dei loro armigeri in mocassini lucidi. Almeno fino a quando anche questa crisi passerà le incrostazioni del lobbismo sulla chiglia della nave di governo, ricominceranno a formarsi.

(1 marzo 2009)
da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Marzo 21, 2009, 12:06:15 pm »

IL COMMENTO

Obama, lo show globale del Presidente

di VITTORIO ZUCCONI


C'E' UN FILO forte che lega due avvenimenti in apparenza inconciliabili come la mano tesa all'Iran non più "canaglia" dal Presidente Obama e la sua temeraria partecipazione a uno show televisivo di satire canagliesche contro di lui. Il filo è l'essenza stessa dell'uomo, la convinzione che parlare con la gente, che "essere Obama" e mobilitare la forza del proprio carisma sia la chiave d'oro che apre ogni porta e sgretola ogni muraglia. Ci sono state molte maniere diverse tentate nella storia per affrontare e contenere un avversario pericoloso oltremare e addomesticare le opposizioni interne.

Dalle censure più grevi come quelle cercate da Nixon, alla tentazione di riportare all'età della pietra i regimi ostili a cannonate. Quella scelta dal Presidente Obama con il suo appello televisivo all'Iran e con la sfida ai propri tormentatori satirici, si colloca a metà fra gli estremi tragici e fallimentari dell'"appeasement" europeo, delle concessioni verso Hitler e della "guerra preventiva" di Bush, puntando sul disarmo della retorica per vincere. E sulla certezza che l'Obamismo sia lui, Obama.

È la strada più difficile, questa scelta dal presidente degli Stati Uniti per rintuzzare la maretta crescente del malcontento interno contro il suo governo e per compiere il suo primo atto insieme simbolico e concreto verso quella nazione che da 1958, quando i servizi inglesi e americani rovesciarono il presidente eletto Mossadeq per compiacere i petrolieri, coltiva ed esporta l'odio per il "Satana americano" e sionista. È la strada della comunicazione diretta, lastricata dalla convinzione di essere, nella propria "coolness", nella distaccata, un po' snobistica sensazione di padronanza che trasmette, insieme il messaggio e messaggero.

Molti ironizzarono sulla sua proposta ripetuta in campagna elettorale di "parlare anche con i nemici", nel timore che vacui summit sarebbero serviti soltanto a dare credito ai teo-despoti dell'Iran e un megafono all'idrofobia antisemita della loro marionetta Ahmadinejad. Ma esisteva, lo si capisce ora, un'altra possibile interpretazione di quella formula elettorale. Quella di parlare "agli" avversari, di scavalcare anche i loro mediatori culturali, appunto i "media" o i loro regimi, come Obama sta cercando di fare scavalcando le cricche parlamentari incrostate a Washington e le lobby di potere anche a costo di incappare in gaffe da improvvisazione, come gli è capitato nel Tonight Show del comico Jay Leno quando è sembrato scherzare sulle Paraolimpiadi, scorrettezza politica estrema.

Ma la posta supera l'azzardo, se il risultato è raggiungere la gente, i cittadini scettici o avversi in casa, addirittura gli iraniani per offrire quello che nessuno prima aveva osato promettere, il "rispetto" al quale tutte le culture asiatiche, dalle Steppe Russe all'arcipelago nipponico, e tutti i cittadini, agognano.

Obama non promette nulla di concreto nel suo "Obama Show" globale. Non agita nessuna carota materiale, ma propone qualcosa di potenzialmente ancor più ghiotto ed esplosivo: trattare chi lo ascolta da adulto, ancora meglio, da suo pari. Andare in un teatrino televisivo come nessun Presidente prima di lui aveva osato fare è infatti prima di tutto un segnale di rispetto per quegli americani che non leggono l'Economist e non studiano le analisi delle banche centrali, ma dei quali egli mostra di avere bisogno, e stima, ridendo con loro, non contro di loro, non trattandoli da ignoranti zotici perché non lo venerano o non afferrano le sottigliezze ideologiche.

Mandare un video alla "canaglia della canaglie", offrendosi di trattarli da "eguali", di "riaccoglierli nella comunità internazionale", di "rispettarli", ripete poi la stessa operazione che l'America condusse nei confronti dell'altra "super canaglia", dell'Unione Sovietica, i cui dirigenti, che erano russi o ucraini prima di essere comunisti, anelavano soprattutto a essere rispettati. E quando furono finalmente trattati da pari, avviluppati nei bozzoli dei vertici e corteggiati anche da colui che li aveva definiti "Impero del Male", rivelarono tutto il vuoto che si nascondeva dietro il cipiglio.

"Obama is back", come avrebbe detto il Terminator di Schwarzenegger, Obama è tornato ed è particolarmente insidioso per gli avversari sia quando parla dallo studio di un comico all'America minuta, sia quando si rivolge ai reietti della Terra facilmente sedotti dal fanatismo fondamentalista, perché lui, con la propria pelle, la propria genealogia, la propria storia rappresenta nei fatti ciò che dice nelle parole, come un Bush, superfiglio di papà, mai avrebbe potuto fare. Un nero americano, figlio di un musulmano, con un nome swahili come Barack e un secondo nome come Hussein, è istantaneamente credibile quando parla di "rispetto" e della fatica tremenda che ai nati nel posto sbagliato dai genitori sbagliati si richiede per conquistarselo. Un leader americano che avesse davvero la capacità, e la possibilità, di parlare con leggerezza "cool", disinvolta e serena, ma non con freddezza, a coloro ai quali nessuno ha mai parlato se non per chiedere voti, dare ordini, lezioni o insulti potrebbe - ed è soltanto un'ipotesi - prosciugare molta di quell'acqua marcia nella quale sguazzano i teocrati lontani e i demagoghi vicini.


(21 marzo 2009)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 23, 2009, 11:24:46 am da Admin » Registrato
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:25:19 am »

IL PERSONAGGIO

Filo tra Camelot e Asburgo "Ecco il figlio segreto di JFK"

Un giornale austriaco scova in California un presunto erede del Presidente-Casanova assassinato a Dallas.

Sarebbe nato nel 1946 da una relazione con una ballerina, nipote dell'ultimo Imperatore d'Austria-Ungheria


di VITTORIO ZUCCONI

 

WASHINGTON - Nella nebbia infinita e densa di amori veri o immaginari, fra stelle di Hollywood e "pupe" della Mafia, affiora dal mito che non morirà mai, John F. Kennedy, anche un nome gigantesco che ha fatto la storia dell'Europa: gli Asburgo. Tra i discendenti ignoti del presidente ucciso ci sarebbe un Kennedy-Asburgo, frutto di un'unione illegittima tra due dinastie collegate dall'amore di una ballerina di nobile lignaggio.

Se dobbiamo credere alla confessione di una elegante e dignitosissima signora di 87 anni, Elisabeth Hortenau oggi sposata Linnet, il suo sesto marito, che ha raccontato una sua storia d'amore con JFK al quotidiano di Vienna Kurier, vive oggi in California commerciando in arte un signore di 63 anni, dall'umile nome di Antonio, "Tony", figlio di una lunga relazione che lei avrebbe avuto con il presidente. Non sarebbe il primo, né certamente l'ultimo, dei figli d'amore e non di talamo nuziale, attribuiti a lui, e almeno due casi, uno recente in Canada, sono passati sulle pagine dei giornali. Ma è la genealogia di questa signora, e la sua storia, a rendere l'idea di un connubio dinastico euro-americano decisamente nuova.

Elisabeth, Lisa per gli amici e i numerosi coniugi, è la nipote del granduca Otto d'Asburgo detto "il Bello", padre dell'ultimo Kaiser dell'Impero Austro-Ungarico morente, Carlo I, che la concepì naturalmente fuori dal matrimonio, secondo le devote consuetudini dei cristianissimi sovrani d'Europa, ma ebbe poi il buon gusto di riconoscerla. Ad appena 20 anni, già sposata una volta, la signora fuggì dall'Austria inghiottita dalla Germania nazista nel 1938 per rifugiarsi a Roma, città dalla quale, con ammirevole sensibilità politica, pensò di andarsene rapidamente all'inizio della guerra. Raggiunse la madre, l'ex amante del padre del Kaiser, che dalle corti viennesi era passata a gestire un motel a Phoenix, in Arizona, il "Monterey Lights".


E sarebbe stato proprio sotto il sole rovente dell'Arizona, che il sangue degli ultimi "Sacri Romani Imperatori" e quello di un ufficialetto di marina, rampollo di una nobile famiglia di contrabbandieri irlandesi di melassa durante il Proibizionismo, i Kennedy, si scaldarono e di mescolarono.

Lisa conobbe John, convalescente proprio a Phoenix - e questo è un fatto riconosciuto anche nella biografia di JFK, "Una vita incompiuta" - dalle ferite di guerra alle schiena subite comandando una motosilurante nel Pacifico. Era più grande di lei di quattro anni, e fu amore. Lei campava come "ballerina e attrice", racconta, definizione notoriamente elastica e soggetta a varie interpretazioni, ma JFK, che aveva un debole per lo show business poi esploso nella frequentazione della gang di Frank Sinatra, di Las Vegas e di Hollywood, non era schizzinoso. Trascorsero weekend in Florida, nel deserto del Sud Ovest americano, e una settimana a Cuba, alla fine degli anni '40, allora il parco divertimenti dell'America sotto il paterno controllo dei "bravi ragazzi" di Cosa Nostra. E nacque, nel 1946, Antonio, oggi Tony.

Un cinico potrebbe chiedersi perché proprio ora, sei decenni più tardi, la nipote del Kaiser decida di rivelare la sua love story austro-ungaro-americana, e domandarsi se la crisi della professione che lei svolge, quella di agente immobiliare in una Florida dove l'immobiliare è devastato dalla crisi, non l'abbia motivata. Ma lei, dignitosa e distinta nel suo appartamento arredato con eleganti e forse autentici mobili d'epoca, nega ogni interesse venale. Il suo "Jack", come tutti chiamavano John Kennedy, le aveva proposto addirittura il matrimonio, scoprendola incinta. Nozze che lei, contravvenendo al motto che aveva guidato per secoli l'espansione dell'impero asburgico attraverso connubi dinastici - "Tu, felix Austria, nube", sposati, Austria felice - aveva rifiutato. Accettò soltano aiuti finanziari per l'istruzione di Tony, che continuarono anche dopo il matrimonio fra l'ex ufficialetto e Jackie Bouvier Kennedy, poi Onassis.

Può essere soltanto l'effetto apparente della eleganza e della severità di questa signora anziana e ancora bella, a rendere più credibile la sua storia, certamente più di quella del "figlio illegittimo" in Canada che la rivista Vanity Fair disse di avere scoperto un anno fa, ma poi ritirò, per mancanza di prove concrete. La nobildonna Elizabeth Hortenau, che avrebbe diritto al titolo per nascita, ha soltanto voluto che il mondo sapesse, come sa da tempo il figlio al quale rivelò il nome del padre naturale soltanto dopo il regicidio di Dallas nel 1963. Chi la conosce dice al Kurier di Vienna che Lisa è assolutamente credibile e non spinta da altro che il timore di portarsi nella tomba il segreto di un incrocio dinastico fra il sangue del Sacro Romano Impero e quello del nuovo, meno sacro, Impero d'Occidente. Ma le probabilità che Antonio l'Antiquario diventi Tony Primo, imperatore d'America, sono modeste.

(23 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Marzo 25, 2009, 08:48:51 am »

ECONOMIA     

Sono stati rovinati dal finanziere imbroglione: Non possono più pagare il college ai figli, si sono ammalati.

Ecco le storie dei truffati dal "diavolo" della finanza

Le vittime di Madoff e le lettere dal crac

di VITTORIO ZUCCONI
 

WASHINGTON - "Madoff ha derubato i bambini paralizzati dell'Ospedale pediatrico di Blythdale a New York che oggi è senza fondi. Chiedo che la loro voce sia ascoltata in tribunale". Ascoltate le voci dei dannati nell'inferno del grande magliaro globale, Bernie Madoff. Arrivano a casse ogni giorno, recapitate al giudice Dennis Chin del tribunale di Manhattan che lo sta processando, le lettere delle vite che lui ha distrutto. È un coro tragico di un'umanità dolente che aveva affidato almeno 50 miliardi di risparmi, di speranze, di beneficenza, di futuro a un gioviale ladro che se li è intascati tutti.

"Vostro onore, vorrei venire a raccontarle come Madoff ha spazzato via l'esistenza di quattro generazioni, mio nonno reduce, mio padre, io, e i miei figli, ma non ho più neppure i soldi per pagarmi il biglietto d'aereo". È facile raccontare la storia di questo nipote di immigrati polacchi cresciuto nella comunità israelita di New York, che riuscì a portare via a "polli" ricchi e meno ricchi, in 49 anni di attività almeno un miliardo di dollari all'anno, promettendo profitti favolosi, del 25% all'anno sui loro risparmi. Li pagava con i soldi di altri truffati, in una piramide di carta costruita soltanto sul suo talento di iper magliaro, succhiando soldi a Pietro per pagare Paolo, fino a quando non ci furono più altri da spennare. Niente altro che una classica "catena di Ponzi", dal nome dell'italo americano che per primo la applicò a Boston negli anni '20, ma che Madoff aveva portato a vette sublimi. Rapinando Steven Spielberg come gli ospedali per bambini paralizzati, sinagoghe di Brooklyn ed ereditiere dell'East Side di Manhattan, bottegai e rabbini, cucine per i poveri e università.

Arrivò a fumarsi i risparmi del Nobel per la pace Elie Wiesel superstite di Auschwitz, in un parossismo cinico che ha prodotto la crudele battuta del comico televisivo Jay Leno: "Quando Hitler lo ha saputo, ha detto a Madoff, ehi, Bernie, adesso stai esagerando". Madoff come Hitler. Ma dietro i numeri, i miliardi, i castelli in Francia, e il fondo privato della moglie Ruth ci sono le voci, l'umanità che scrive al giudice Chin, lettere che il New York Times ha potuto pubblicare. Dalla California: "Sono una donna di 61 anni, sposata con un uomo di 70. Nel 2007 ho investito con Madoff tutti i 250 mila dollari dei nostri risparmi. Mio marito da allora ha avuto due ictus ed è paralizzato. Io non ho lavoro. Come vivremo?". Dalla Florida: "Dopo 45 anni di carriera come insegnante, avevo messo 225 mila dollari raschiati dal mio stipendio nel suo fondo, dopo averlo incontrato ed essermi fidata di lui. Non chiedo che di poterlo guardare negli occhi, per fargli vedere chi ha ucciso".

Persone colpevoli di null'altro che di avere creduto al micidiale "passaparola", al nome sussurrato nella caffetteria di una scuola, alla funzione del sabato in sinagoga, su un campo da golf, in un aereo fermo sulla pista, saldato spesso dalla comune appartenenza religiosa. "Mia madre è paralizzata dall'artrite e non può più permettersi gli anti-infiammatori dopo avere perduto tutto. Posso venire io in tribunale a testimoniare contro Madoff?". "Sono una madre single di 60 anni, che era riuscita a risparmiare 18 mila dollari per l'istruzione di mio figlio e ora l'ho dovuto mandare a lavorare perché non posso più neppure mantenerlo a casa". Era democratico, nelle sue truffe, il caro "Bernie". Accettava i 150 milioni (si dice) del creatore di E. T., Spielberg come i 50 milioni del fondo caritatevole della Yeshiva University di New York per gli studenti poveri, ma anche i 18 mila dollari della madre single di Brooklyn. La pecunia, soprattutto se rubata, non puzza.

"Le chiedo soltanto, Vostro Onore, di condannare Madoff a una cella solitaria per il resto della sua vita, solo con le voci di coloro che ha condannato a mort con le sue azioni". "Non posso mettere le mie lacrime su un foglio, ma posso dirti che sei un assassino, perché già due persone si sono suicidate per colpa tua, sei uno stupratore, perché hai violato l'intimità della nostra vita, sei un truffatore, perché hai rubato i sogni di un'intera generazione che su di te aveva contato per il proprio avvenire".

Nella misura gigantesca dell'imbroglio di quest'uomo di 70 anni già dichiarato colpevole di 11 reati, divenuto "un'arma di distruzione di massa", un distruttore di vite senza sparare un colpo, c'è appunto il senso di una "truffa generazionale", di una generazione devastata dalla avidità sua e della sua famiglia. "La moglie sapeva tutto! Andate a cercare i conti e i soldi della moglie!", grida uno dei "morti civili", sperando di recuperare almeno qualcosa dalle proprietà immobiliari e dal miliardo di dollari scoperto a nome della signora oltre mare. "Madoff è l'uomo più odiato d'America. Perseguitate le moglie, il fratello, i figli, i figli dei figli" invoca un uomo con accenti da maledizioni bibliche.

"Scrivo da Berlino e sono un pittore. I miei 300 mila euro, una vita, sono volati via con lui e sono meno soldi di quanto valga la gioielleria che la moglie indossa su una sola mano". Aveva filiali e uffici in Europa, Madoff, per spennare anche polli europei. Truffa generazionale, furto globale senza frontiere. Madoff ha fatto almeno 6 mila vittime.

"Mio padre ha 80 anni, non può più lavorare, non può pagare le tasse e le bollette sulla casa dove vive che sosteneva con il piano pensione gestito da Madoff e deve cercare di venderla in questo momento di crollo immobiliare". "Abbiamo perso 40 anni in 30 secondi, dopo avere investito 375 mila dollari, tutti i nostri risparmi in un fondo che apparteneva al suo gruppo. Saremo presto sfrattati, perché la nostra casa, qui in Florida, non si vende e non possiamo permetterci una casa di riposo. Anche pochi dollari recuperati, magari dai 50 milioni di dollari in contanti della moglie o dalle vendita del suoi chateau in Francia ci farebbero comodo, Vostro Onore". "E ora che cosa racconto ai miei figli, che il lavoro onesto non serve e che la truffa negli Usa paga?" si domanda un padre. "Sono la moglie del maggiore inglese William Foxton, pluridecorato della Seconda Guerra mondiale che aveva affidato la vecchiaia a Madoff. Mio marito si è ucciso". "Mandatelo a pulire i cessi in un parco divertimenti con una forchetta". "Vivo un incubo. Nel 2008 ho venduto l'impresa che avevo costruito per 35 anni e ho investito tutto con Madoff. Oggi ho 66 anni e non ho più nulla. Non posso, non riesco a crederci".

Ma dal coro delle anime innocenti dannate da Madoff e dalla loro credulità nei favolosi profitti promessi dal magliaro globale, secondo la logica necessaria del truffato che s'illude di comperare stoffe pregiate al prezzo di stracci, affiora la domanda che sta nel fondo di questa catastrofe pubblica, della quale il rotondetto, giovale "Bernie", frequentatore assiduo di camere ardenti, bar mitzah, battesimi (il truffatore non è mai fondamentalista) cresime, cerimonie di laurea presso le università che mandava in rovina intascando i loro fondi, è soltanto il "cartoon" più ignobile. "Perché?" chiede un derubato dal Minnesota. "Come è potuto accadere che per decenni quest'uomo, che molti sospettavano di truffa in denunce inviate alle autorità di Borsa, alla Procura, alla Fed, che era diventato presidente del Nasdaq, la borsa delle aziende tecnologiche, che pagava pure le tasse, abbia potuto farla franca fino al 2008 e al crollo della bolla speculativa? Il governo non ha fatto il suo dovere". Perché?

(25 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Marzo 31, 2009, 03:55:48 pm »

ECONOMIA      IL COMMENTO

L'agonia di Detroit

di VITTORIO ZUCCONI


NELLA rivincita sbalorditiva della lamiera sulla finanza, e del piccolo sul grande, oggi è la Fiat a dover salvare Detroit dalle follie finanziarie e manageriali, e sono gli organismi piccoli, dunque più adattabili e astuti, a sperare di sopravvivere e prosperare, mentre i dinosauri soffocati dalle proprie dimensioni crollano.

Insieme con la testa di Rick Wagoner, dell'uomo che in otto anni di regno assoluto ha distrutto il "tirannosauro" dell'auto, la General Motors, e che Barack Obama ha preteso di far cadere per continuare a foraggiarla, è caduto il mito del gigantismo industriale, piegato dal proprio peso. La Fiat, essa stessa strappata al baratro dalla collaborazione fra la mano pubblica, le banche e un nuovo management, è diventata da peso una "risorsa" e la sola speranza di salvezza per un'altra casa di Detroit agonizzante, la Chrysler, nelle parole dello stesso presidente americano.

C'è un elemento di crudele ironia nel fatto che proprio Wagoner, colui che aveva individuato nella Casa di Torino una possibile via d'uscita dalla incapacità americana di produrre automobili competitive con l'Asia e in sintonia con il nuovo mercato emergente, sia colui che abbia dovuto andarsene, per salvare la Gm e dare al governo americano l'alibi per continuare quella forma di alimentazione forzata che sono i 26 miliardi di dollari concessi in due tranche, prima da Bush e oggi da Obama. Ma la "gestione Wagoner", incluso quell'accordo mai del tutto spiegato con la Fiat, è stata disastrosa, come il corso delle azioni Gm, passate da 60 dollari a poco più di uno, dimostra.

Con la complicità del troppo potente sindacato dell'auto, lo United Auto Workers, e con la propria incapacità di pensare al futuro del mercato scommettendo sul cavallo drogato dei Suv e delle grosse cilindrate, come invece aveva saputo fare la Toyota divenuta ormai numero uno nel mondo sia pure nella corsa del gambero delle vendite, Wagoner ha saputo affondare una società che ancora nel 2008 aveva un fatturato globale di 148 miliardi di dollari. E che sarebbe fallita senza quel presidente Obama che ha voluto la sua testa, per puntellare una città moribonda come Detroit e uno Stato al quale molto era stato promesso, il Michigan, il cuore infartuato del Midwest industriale.

Nell'album degli orrori che il collasso del capitalismo lasciato alla propria, illusoria capacità rigenerativa, il volto di Rick Wagoner avrà diritto a un posto speciale accanto ai magliari della finanza tossica, i farabutti come Bernie Madoff, un semplice ladro di galline su scala globale, o i presidenti avventurieri di banche d'affari come la Bear Sterns, la Lehman Brothers o la assicurazione Aig, un'altra floridissima società che si è suicidata per gli errori e l'ingordigia dei propri strateghi. L'agonia della sua General Motors, di quella azienda che per 101 anni si era considerata l'incarnazione stessa della potenza industriale americana, che era stata "l'arsenale della democrazia" vincente nella guerra materiale contro l'Asse, che identificava i propri interessi con quelli della intera nazione, è il prodotto perfetto di una combinazione micidiale, che mescola tutto ciò che si è concentrato in questi ultimi 24 mesi, devastando l'economia americana.

Al vertice, con Bob Lutz e con lui, regnava un management imperioso e arrogante, convinto della propria infallibilità e indotto a tentativi giusti, ma dei quali non era stato mai convinto davvero, come il patto di reciproco acquisto con Gianni Agnelli, poi frettolosamente e costosamente annullato proprio quando la Fiat sarebbe potuta diventare, come oggi per la Chrysler, una risorsa. Nella "corporate culture", nella cultura aziendale di una società arroccata nei grattacieli di cristallo blu a Detroit, il "Rinascimento", dominava l'incapacità di proteggere il proprio "brand", il proprio marchio, disperso su troppe etichette e su troppa confusione di "badge", di distintivi diversi per gli stessi prodotti, sfornati fino a 14 milioni di pezzi l'anno e destinati a deprezzarsi nei parcheggi degli autonoleggiatori negli aeroporti. I marchi Gm, dalla Cadillac già leggendaria alle banali Chevrolet si deprezzano dopo l'acquisto più di ogni altra casa giapponese, europea o americana.

Ma l'errore fatale, insieme con quello di portarsi il fardello di contratti sindacali concessi negli anni di vacche grasse quando l'aristocrazia operaia dei suoi stabilimenti era la vera "classe media" americana, di avere puntato tutto sui mega Suv, sui Pick Up da cinque litri di cilindrata, sugli ecomostri come la Hummer che promettevano margini di profitto elevati e immediati. Era pura droga in vena. Mentre la Toyota si ostinava a sviluppare quella linea di auto ibride, a batteria e a motore, che soltanto ora cominciano a rendere qualcosa e che per anni la casa di Nagoya ha continuano a finanziare in perdita, non in alternativa, ma accanto a modelli più costosi. La logica micidiale della "trimestrale", del misurare il successo o a difficoltà di un'azienda con il respiro dei risultati calcolati ogni tre mesi, che è la molla, ma anche la maledizione dell'economia americana, aveva drogato la Gm, portandone il titolo a 60 dollari. E portato alla coincidenza fra l'economia "virtuale" e quella "reale" suggellata dalle attività creditizie della stessa Gm che finanziava se stessa, i clienti, i concessionari, i mutui immobiliari.

In questo anello, si è chiuso il cerchio fra "la carta" e la "lamiera" che ha strangolato la regina caduta e portato alla cacciata di Rick Wagoner. Non piace, disturba, questo imperio del governo anche nel santuario dei "board", dei consigli di amministrazione, che somiglia troppo a un'economia dirigista, per i neo liberali e puzza di "welfare state" per i capitalisti falliti, agli occhi dei duri e puri della sinistra come il Nobel Paul Krugman, che attacca Obama, dopo avere visto la sua favorita, la Clinton, sconfitta. Ma senza quella mano che aiuta e quindi impone la propria volontà, soltanto la Ford sopravvivrebbe. E la Fiat, neppure la nuova Fiat, non può da sola salvare tutta l'industria americana.

(31 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Aprile 20, 2009, 04:58:17 pm »

IL COMMENTO

La politica equilibrista

di VITTORIO ZUCCONI


È con "great regrets", spiega il governo americano con l'eufemismo del "rammarico" con il quale ci si sgancia educatamente da un noioso invito a cena, che Barack Obama non parteciperà alla conferenza dell'Onu contro il razzismo da oggi a Ginevra, creando in apparenza un colossale paradosso: quello del primo presidente americano nero, eletto nel trionfo dell'antirazzismo, assente da un'iniziativa internazionale contro il razzismo.
Il rifiuto di Obama, e il ritiro della delegazione americana che pure fino a pochi giorni or sono aveva partecipato alla preparazione di questa "Durban 2", come si chiama perché è la continuazione della prima, organizzata nella città sudafricana di Durban nel 2001, vengono dopo settimane di esitazione, di "nì", di "forse" e di "ma", di sofferenze e di ambiguità che il Presidente stesso si è deciso a tagliare "con rammarico" per non offendere coloro, Israele e la comunità ebraica per prime, che leggono in questo incontro soltanto un'occasione di propaganda antisemita. E dunque una cassa di risonanza per quelle nazioni, come Iran e Libia, che bizzarramente fanno parte della commissione Onu per "i diritti umani", e usano il Palazzo di Vetro come megafono anti israeliano, mentre al proprio interno calpestano proprio quei diritti civili e individuali che domandano agli altri di rispettare.

Ma se il rifiuto di partecipare è stato più facile per i governi che hanno detto "no", come l'Australia, la Francia, l'Olanda, che è agitata al proprio interno dalla più acuta "questione islamica" in tutta l'Europa o l'Italia, mentre il Vaticano, l'Inghilterra, la Spagna hanno accettato l'invito, l'assenza dell'uomo che incarna in questo momento la più alta speranza di superamento del razzismo sembra una contraddizione lancinante. Per questo, e fino all'ultimo, gli inviati americani a Ginevra, e la stessa Casa Bianca avevano tentato di lavorare per linee interne, di modificare dal di dentro quei documenti nei quali i promotori cercano di indicare nel "sionismo", sinonimo di Israele, il bastione del razzismo, che definiscono la barriera costruita dal governo ebraico "il muro dell'apartheid" e riconoscono soltanto nella "Nakba", nella catastrofe e nella diaspora palestinese, l'unico, autentico esempio di tentato genocidio.

Di fronte alla nettezza inconciliabile di questa interpretazione del razzismo, che già aveva spinto George Bush a boicottare "Durban 1", neppure la consumata abilità obamiana di ricomporre gli opposti con il carisma o la sua capacità di fare annunci trancianti seguiti da azioni concrete molto più ambigue, sarebbe bastata. Benedetto XVI può, nel suo ruolo di pontefice di una confessione religiosa senza autentico potere politico, permettersi di sperare che questa conferenza sia "un passo fondamentale verso l'affermazione del valore universale della dignità dell'uomo, contro ogni forma di discriminazione", ma il Papa non deve vedersela con la comunità ebraica americana, con un governo di falchiestremisti come il neo insediato in Israele, con un capo di gabinetto come Rahm Emanuel già volontario con le forze armate israeliane, con lobbies che avrebbero considerato la sua presenza a Ginevra come assenso implicito alle tesi di chi nega l'Olocausto.

La tecnica di governo di Barack Obama, quasi una edizione americana dei "due forni", il presidente che annuncia la chiusura di Guantanamo ma per il momento la lascia aperta, che ammorbidisce l'embargo anti cubano ma non lo cancella, che condanna la tortura ma non i torturatori, che fustiga i bonus e i profitti dei finanzieri ma poi puntella le loro banche agonizzanti, non poteva funzionare di fronte a una conferenza che esalta e sancisce il razzismo mentre dichiara di volerlo estirpare. E non è soltanto il nocciolo radioattivo dell'antisemitismo contenuto già nel primo documento approvato sette anni or sono a inquietare. C'è anche il tentativo di dichiarare ogni "discorso blasfemo" come proibito e di considerare "l'incitamento" alla critica antireligiosa come prova di discriminazione razziale, una tesi cara alle teocrazie fondamentaliste e integraliste che in sostanza sperano di avere il beneplacito dell'Onu alla loro "fatwa", alla persecuzione e repressione di ogni critica e di ogni opposizione vista come satanica.

Il paradosso del presidente venuto dal Terzo Mondo, del primo capo di stato americano eletto "nonostante" la propria diversità e minorità etnica è dunque più apparente che reale. Questa volta, Obama il formidabile equilibrista che riesce a sembrare sempre troppo rivoluzionario ai conservatori e sempre troppo conservatore ai rivoluzionari, essendo tanto un centrista nell'azione quanto appare "estremista" nella parole, non ha potuto camminare sul filo dell'ambiguità. Obama, come gli rimproverano i delusi, è, prima di ogni altra cosa, un realista e lo ha dimostrato, con qualche imbarazzo, rifiutando di presentarsi a questo invito a cena. La realtà, oggi come negli ultimi 60 anni di politica estera americana, con presidenti democratici o repubblicani, insegna che, al momento delle strette, Washington, bianca o nera che sia, si collocherà sempre dalla parte di Israele.

(20 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 21, 2009, 11:25:45 pm »

ECONOMIA     

Dopo anni di rincorsa, nel 2002 l'uso del denaro di plastica negli Stati Uniti scavalcò ogni altra forma di pagamento

Stop al regno delle credit card

Così gli Usa si scoprono europei

Nell'ultimo anno il numero di debitori che negli Stati Uniti non riescono a saldare le rate è cresciuto del 260 per cento


di VITTORIO ZUCCONI
 
WASHINGTON - Deve finire il regno dell'oro di plastica, del tesserino di 8 cm. per 5 che, dalla prima "carta" emessa dal Diners Club nel 1949 per cenare a credito, era divenuta l'arma di distruzione di massa dell'economia domestica e poi nazionale. I consumatori devono disintossicarsi e riscoprire le virtù delle nonne italiane: mai fare il passo più lungo della gamba.

Basta con l'orgia delle cartine, ha ordinato la Casa Bianca e ha spiegato Larry Summers, il cardinale della finanza più ascoltato da Obama. Basta con gli acquisti al grido di "charge it!", me lo carichi sulla carta, che hanno sostenuto la falsa prosperità e divorato il risparmio, ridotto a zero dal luglio del 2004. Sono state "the fool's gold", la ricchezza dei folli e quella follia sta costando troppo cara.

Ma staccare i 250 milioni di americani che portano in tasca e in borsetta un miliardo e mezzo di carte di credito - almeno cinque a testa in media - sarà come svezzare un neonato dal biberon. Da quasi sessant'anni, appunto dalla prima carta della Diners, due generazioni sono cresciute aggrappate a quel rettangolino plastificato, sprofondando nell'illusione di essere più ricchi di quel che in realtà erano. Vittime della praticità, e della tentazione, fino all'apoteosi del 2002 quando i pagamenti con l'oro di plastica scavalcarono ogni altra forma di pagamento.

Quella che la presidenza Obama e il suo cardinale Summers vogliono fare è dunque più di una riforma, è una rivoluzione del "modo di consumare", dunque di essere, americano. Non ci sarebbero shopping centers sparsi in ogni sobborgo, cattedrali dell'acquisto come quel mostro nato nel Minnesota, il "Mall America", per due decenni il più vasto del pianeta, e non ci sarebbe stato il boom cinese alimentato dalle esportazioni a credito, senza quelle carte che sono il mattone sul quale è stata costruita l'impressione di prosperità. Ma che hanno divorato ogni forma di risparmio e hanno arricchito le società di emissione fino a corrodere anche loro. Come l'American Express, che offre soldi, 300 dollari, ai clienti perché chiudano i loro conti, quegli stessi consumatori ai quali venivano aperti crediti sempre più alti e proposti ghiotti incentivi per sprofondare nei debiti.

Né Summers, né Obama, lo hanno detto, ma il loro è di fatto un invito a diventare un po' più europei e un po' meno americani, addirittura un po' più italiani, uno dei popoli più recalcitranti nell'accettare l'economia dell'"oro di plastica" e ancora affezionati al "libretto" e al risparmio, tra la diffidenza di negozianti a volte preoccupati per la implacabile tracciabilità fiscale del pagamento con carta e la cautela arcigna delle banche. Come il provincialismo linguistico delle banche italiane le avrebbe protette dall'uragano dei prodotti tossici, secondo la celebre frase di Giulio Tremonti, così la taccagneria degli istituti di credito e la tenace cultura dell'economia domestica ha evitato che oggi l'Italia si trovi con un immenso conto non saldabile. Gli americani eravamo noi, secondo Summers, scopriamo adesso con qualche sorpresa, eravamo le formiche del futuro contro le cicale della plastica.

Ma l'oro dei folli non era soltanto vizio. Nella estensione delle linee di credito, nell'offerta martellante di nuove carte che ogni giorno ingombravano le nostre cassette ("Congratulations! Lei è stato preapprovato per una nuova credit card! Metta una firma qui e avrà 15 mila dollari di credito immediato!") c'era la apparente soluzione miracolosa al problema della piattezza dei redditi reali e alla ormai oscena sperequazione fra chi aveva troppo e chi troppo poco, che il vecchio meccanismo delle rate e delle cambiali non riusciva più ad alimentare. La carta, offerta ormai come oggetto di consumo essa stessa, con l'immagine della squadra preferita, la foto dei bambini o del cane, il logo del proprio partito, era il falso moltiplicatore di reddito per i salari fissi, in un'economia che penalizza il lavoro a favore della rendita. E il ponte che collegava lo stipendio all'imperativo morale del consumo era l'abitazione che generava il margine fra mutuo e valore dell'immobile sul quale tutto il castello del credito tossico era costruito.

Quando il valore nominale della casa si è sgonfiato, milioni di consumatori si sono trovati, fra mutui, ipoteche e linee di credito, con più debiti di quanto la casa valesse. Incapaci, o non più disposti, a pagare. E la grande festa è finita. E' finita per i signori Joe e Jane, che non hanno risparmi ai quali attingere e non hanno spesso più neppure il lavoro. E' finita per le banche, che nei contratti stampati in caratteri invisibili si riservavano il diritto di alzare a piacere gli interessi fino a livelli da usura, al 20% od oltre, e che potevano permettersi, legalmente, di far pagare questi interessi sul totale del debito, anche se in parte saldato. Chi avesse avuto un debito da mille dollari e avesse versato 999 dollari, avrebbe continuato a vedersi addebitare l'interesse sui mille dollari. E guai al moroso: gli avrebbero distrutto il "rating", il grado di affidabilità finanziaria. In un'economia fondata sul credito, avere un basso punteggio nel "rating" equivale alla morte civile.

Tutto questo dovrebbe finire, vuole la Casa Bianca che promette nuove leggi per impedire le pratiche predatorie dei pirati in grisaglia. Ed esorta il pubblico a ridurre quel mazzo di carte di plastica acquisite per portare ciascuna fino al limite, "max out" nel gergo degli indebitati, facendo di loro schiavi a vita, come i contadini che non riescono mai a rimborsare il padrone. Il numero di debitori non in grado di saldare o di pagare le rate mensili è cresciuto nel 260% fra il 2008 e il 2009 e pullulano le organizzazione che vogliono aiutare i tossici della plastica a riabilitarsi e riscoprire la saggezza della nonna. Quella che esecrava i clienti del macellaio che comperavano il lesso a "libretto", cioè a credito.

(21 aprile 2009)

da repubblica.it
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