LA-U dell'OLIVO
Marzo 28, 2024, 12:46:05 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2 3
  Stampa  
Autore Discussione: MONDO ULIVO (e dell'Ulivismo).  (Letto 35985 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Ottobre 14, 2007, 12:39:09 pm »

14/10/2007 (8:17)

Pier Ferdinando Casini "Ai moderati dell'Ulivo dico: alzate la testa"
 
"Votiamo insieme contro i radical"

ANTONELLA RAMPINO


ROMA
Giornata di contatti e telefonate, per Pier Ferdinando Casini: dal segretario della Cisl Bonanni, a Luca Cordero di Montezemolo. Ma non, assicura ridendo, con Lamberto Dini. Chiuso il telefono, scuote la testa. «Già avevamo una finanziarietta di fine legislatura, che disperde risorse in mille mance. Adesso, con una pratica senza precedenti, si modifica un accordo sul welfare che ha già avuto il via libera di milioni di lavoratori». Il leader dell’Udc, e di quella che Prodi una volta chiamava «la seconda opposizione», ascolta il telegiornale, e lo sconforto diventa una mezza rabbia. «E’ una vera falsità sostenere, come ha fatto Prodi, che le modifiche non sono sostanziali: bisognerebbe chiederlo ai lavoratori stagionali che pagheranno pesantemente le modifiche fatte al Protocollo». Per cui «noi dell’Udc all’interno del gioco parlamentare intendiamo bocciare quelle modifiche che la sinistra ha imposto al Consiglio dei ministri. Cercheremo una convergenza con i moderati del centrosinistra, che dall’ultrasinistra si sono presi un calcio in faccia e che dovranno così dimostrare la loro coerenza. Mi auguro che Dini e gli altri battano un colpo».

Casini, si prepara ad impallinare il governo, in sodalizio con settori centristi della maggioranza?
«Di certo non daremo una mano a Prodi, questo glielo posso assicurare. Questa Finanziaria è una grande occasione persa, e un’opposizione seria non fa la bella statuina. Ogni giorno che passa si vede che Prodi è sotto scacco della sinistra estrema. Presenteremo anche dei nostri emendamenti, che spero possano ottenere il più largo consenso».

Perché è così impegnato sul disegno di welfare?
«Perché ci sono fatti gravissimi. Ci sono state consultazioni con le parti sociali, sindacato e Confindustria. Poi, senza coinvolgere né gli uni né gli altri, in Consiglio dei ministri si è cambiato il Protocollo, e lo si è fatto dopo che milioni di lavoratori si erano esposti approvandolo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Una follia. L’avesse fatto un governo di centrodestra, l’avrebbero preso per un colpo di Stato».

Nasce il Partito democratico. Lei conosce bene Veltroni: si aspetta che cambi l’alleanza a sinistra dei riformisti?
«E’ chiaro che dal 15 ottobre il Partito democratico cercherà di affrancarsi dalla sinistra, mentre il governo è sempre più subalterno. Veltroni si troverà davanti a una scelta. O sostenere un governo al suo massimo indice di impopolarità, o liquidarlo, operazione assai difficile. Poi, come dato soggettivo, c’è il fatto che Veltroni rappresenta al meglio il piacionismo politico...».

Cosa che accade anche a tanti altri politici...
«Infatti. Però a un certo punto si deve passare dalle parole ai fatti. Se uno parla di modernizzazione del Paese, prima o poi deve affrontare il tema del nucleare, il rapporto col sindacato, dire se sta col ministro o con i trecentomila studenti che manifestano contro Fioroni per la reintroduzione degli esami di riparazione...»

E anche pronunciarsi sul sistema elettorale, sul sistema tedesco per il quale invece Veltroni nutre riserve?
«Si sa che io sono interessato a quel tipo di legge elettorale. Ma sono anche ormai oggettivamente disinteressato. E’ un problema che riguarda il sistema politico: se il Partito democratico rappresenta la continuità del prodismo dice no al sistema tedesco, e va avanti così. Anche andando al referendum. Il sistema elettorale è la cartina di tornasole del grado di discontinuità che Veltroni ha rispetto a Prodi».

C’è anche chi dice sia lei, Casini, un ostacolo sulla via di quel tipo di legge elettorale. Sarebbe disponibile a lasciare il centrodestra in nome di un sistema per il quale il partito che lei guida si è impegnato con una decisione congressuale?
«Mi sembra davvero una pretesa singolare subordinare un nuovo sistema elettorale a supposte convenienze politiche. Il sistema tedesco richiede un riposizionamento di tutti, non solo nostro».

C’è stata una manifestazione di Alleanza nazionale su Finanziaria e sicurezza, cui lei ha aderito solo «idealmente». Perché? Per non trovarsi in piazza con croci celtiche e saluti romani, oltre che a striscioni contro la sua persona?
«Figurarsi, striscioni creativi ce ne sono in tutte le manifestazioni. Ho aderito idealmente perché il tema merita un grande sforzo, e mi è sembrata una bella manifestazione, piena anche di proposte e non solo di proteste. E’ un tema nobile e serio, e sul quale pure il governo Prodi si comporta male. Non è solo il fatto che il famoso pacchetto Amato non esiste, nessuno ne sa niente, viene pure rimandato da un Consiglio dei ministri all’altro per i veti dell’ultra-sinistra. E’ che riforme a costo zero non ce ne sono. Noi presenteremo degli emendamenti alla Finanziaria perché i fondi stanziati per la sicurezza sono assolutamente insufficienti. Il Siulp, che è il sindacato della polizia, già la prossima settimana farà un appello a tutte le forze politiche. E’ un’idea alla quale ho lavorato personalmente con gli amici della polizia, e che mi auguro avrà il più largo consenso: bisogna ripristinare i fondi, o ci saranno 7-8mila poliziotti in meno sulla strada ad affrontare i criminali».

da lastampa.it
« Ultima modifica: Gennaio 22, 2009, 03:29:37 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Marzo 11, 2008, 08:55:20 am »


Ulivismo nero

Nelle giornate che hanno preceduto – e propiziato – la prima crisi del secondo governo Prodi sono riemerse al suo interno due linee politiche inconciliabili, esattamente come accadde nell’ottobre del ’98, al tempo della seconda crisi del primo governo Prodi. Ma quel conflitto, in verità, non è mai venuto meno. Semplicemente, a partire dall’estate del 2003, quel conflitto è passato – per dirla con parole antiche – dalla guerra di movimento alla guerra di posizione. Sin dalla nascita dell’Ulivo come coalizione elettorale nel 1995, infatti, al suo interno si sono confrontate due opposte linee strategiche, fondate su due opposte letture della crisi degli anni Novanta.
Per Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, dopo il collasso del sistema politico nel ’92-93 si era aperta in Italia una questione democratica, che aveva avuto nella vittoria della destra populista guidata da Silvio Berlusconi il suo esito naturale. In questo senso l’Ulivo era dunque ai suoi occhi l’alleanza delle forze democratiche chiamate a ristabilire il primato della politica, contrastando la campagna di delegittimazione dei partiti animata dagli spiriti animali di una parte cospicua della società e delle classi dirigenti italiane. Da chi, dopo avere felicemente convissuto nel precedente sistema politico con i partiti e con le loro correnti maggiormente responsabili della crisi – godendo delle loro protezioni e dei loro favori, ricambiandoli – al momento di pagare il conto puntava a far saltare il banco, passando inopinatamente dalla parte dell’opposizione al sistema, rappresentando attraverso i propri giornali un sistema politico corrotto in cui tutti erano colpevoli allo stesso modo. Un sistema politico – la celebre partitocrazia – oppressore di quella virtuosa società civile di cui essi si proclamavano alfieri.
Per Arturo Parisi, al contrario, l’Ulivo era la prosecuzione e in un certo senso il compimento della battaglia per il rinnovamento della politica cominciata con i referendum Segni. La campagna contro i partiti, la sua saldatura con le inchieste giudiziarie e infine l’adozione di un sistema elettorale maggioritario erano le fondamenta su cui ricostruire un sistema politico fondato sui principi della “democrazia governante”. L’obiettivo era il primato del governo sulla mediazione parlamentare, attraverso le opportune riforme istituzionali, per arrivare a un sistema sostanzialmente bipartitico. Sciogliendo definitivamente all’interno dei due partiti-coalizioni quello che restava dei partiti tradizionali. Era il primato della società civile sugli apparati, tenuti sotto lo schiaffo permanente del sospetto nelle ricorrenti campagne incentrate sulla questione morale, svuotati dall’interno attraverso meccanismi di selezione dei dirigenti incardinati sullo schema delle primarie a tutti i livelli.
L’apparente inconciliabilità delle due posizioni si manifestava sin dall’inizio. Inevitabilmente: la prima puntava a ricostruire una democrazia dei partiti, la seconda a cancellarla per sempre dalla storia d’Italia. All’indomani della caduta di Romano Prodi e dell’ascesa di Massimo D’Alema, nell’ottobre del ’98, tale conflitto a lungo covato esplodeva finalmente in tutta la sua portata distruttiva. Gli strascichi e le macerie di quella guerra civile all’interno della sinistra italiana sono ancora sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di farne l’elenco.
Nulla sembra essere cambiato quando nell’estate del 2003, ancora presidente della Commissione europea, Romano Prodi chiede come condizione per tornare in Italia alla guida della coalizione di centrosinistra una lista unica di tutte le forze dell’Ulivo. Ma ecco che Massimo D’Alema gli risponde con la proposta di una lista delle forze che ormai da anni condividono una stessa linea politica, che può dirsi riformista – Ds, Margherita, Sdi – e propone che non sia solo una lista elettorale, ma il primo passo per la costruzione di un nuovo partito. E proprio questo è il compromesso con cui si chiude quella lunga guerra civile che oggi qualcuno vorrebbe riaprire.
Possiamo tralasciare le complicate vicende della lista unitaria che si sono sviluppate nel frattempo, con le spregiudicate manovre di tanti protagonisti. Questo sito internet è nato anche per quell’obiettivo, alla fine del 2003, e quelle vicende le ha raccontate in dettaglio, nella convinzione che la costruzione del Partito riformista – come si diceva allora – fosse l’unico modo di uscire dagli anni Novanta. E il Partito democratico continua a sembrarci una sintesi tra le posizioni dalemiana e ulivista di gran lunga preferibile a ciascuna delle due.
Dinanzi alla possibilità di chiudere felicemente quella stagione, però, riemergono oggi i fantasmi degli antichi contendenti: da un lato i nuovi difensori dell’identità socialista, il correntone diessino innanzi tutto; dall’altro una sorta di ulivismo nero, che vede uniti nella lotta contro il Partito democratico che c’è – o quantomeno potrebbe esserci – Arturo Parisi e Walter Veltroni. Attraverso un nuovo referendum, entrambi aspirano a disarticolare l’aggregazione Ds-Margherita, per tornare a quello che Veltroni ha evocato come “lo schema del ’96”: un partito democratico i cui confini vadano da Mastella e Di Pietro a Pecoraro Scanio e Cossutta, tenuto insieme – sul modello del comune di Roma – da una legge elettorale e da opportune riforme istituzionali che consentano al capo del governo, direttamente eletto dai cittadini, di tenere in pugno la sua maggioranza con la minaccia delle elezioni anticipate. Uno schema che in noi suscita diverse perplessità nella sua concreta applicazione ai comuni, specialmente a Roma, ma che assume un carattere semplicemente inquietante se proiettato su scala nazionale. In questo schema, evidentemente, la partecipazione democratica tanto solennemente invocata si ridurrebbe in realtà a un plebiscito per il leader in occasione delle primarie e poi del voto. E così, con sorprendente sincerità, tale proposta viene presentata dall’impaziente sindaco della capitale: un premier che sia garante del programma con cui si presenta agli elettori perché dotato dei poteri per realizzarlo, e dopo cinque anni se ne riparla. Tanto varrebbe chiudere giornali e partiti, rassegnarsi all’idea che discutere e organizzarsi per i propri diritti e per i propri interessi sia non solo inutile, ma addirittura dannoso al buon funzionamento della democrazia. Una democrazia governante perché basata sul principio della delega in bianco al leader. Ma anche una democrazia in cui i gruppi economici e d’interesse capaci di influenzare il voto e l’opinione pubblica per altri canali al di fuori del gioco politico democratico – così imbrigliato – continuerebbero naturalmente a contare. Anzi, conterebbero più che mai, senza l’impaccio costituito dai partiti, o più semplicemente dalla politica, e dovendo trattare di fatto con una sola persona. Non per nulla Walter Veltroni gode di ottima stampa. ■


da:   http://www.leftwing.it/index.php?id=1305
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Marzo 11, 2008, 08:56:18 am »

Un Veltroni sempre pericoloso fra ulivismo e riformismo       

di Pietro Armani     

lunedì 30 luglio 2007 


Lo show politico-mediatico di Walter Veltroni nella sala gialla del Lingotto di Torino è stato senza dubbio il più importante avvenimento dello stagnante quadro politico italiano di questi ultimi mesi, al di là dei giudizi che si possono dare sui contenuti del suo dicorso di 95 minuti alla presenza di una platea osannante.

Veltroni non ha detto effettivamente se accetta la candidatura di leader del costituendo Partito Democratico, perché ovviamente attendeva la definizione finale delle regole per l’elezione dell’Assemblea costituente (poi avvenuta dopo la prima settimana di luglio) e, quindi, l’emergenza o meno di candidature alternative alla sua (per ora non emerse o comunque scoraggiate) per le elezioni primarie del 14 ottobre.

Ma è come se quella candidatura da lui fosse stata già accettata, vista la coralità dei consensi, soprattutto fra i DS ma non solo fra essi, che ha accompagnato prima l’affacciarsi del suo nome e, poi, i giudizi positivi sul suo discorso di Torino, considerato da quasi tutti nell’Ulivo un grande programma per il rilancio del centrosinistra, anche al di là delle ambiguità che in esso si sono largamente annidate. Ambiguità che da Veltroni, del resto era comunque facile attendersi, data la sua figura politica e il suo passato (ad un tempo di leader post comunista e pseudo americano, ma anche di ispiratore e capo “in pectore” del famoso Correntone della sinistra DS al congresso che elesse segretario Piero Fassino).

Sul Corriere della sera del 25 giugno scorso il professor Angelo Panebianco, cercando di immaginare anticipatamente le linee del discorso di Veltroni al Lingotto, ha scritto che egli avrebbe potuto parlare alternativamente da “leader ulivista” oppure da “leader democratico”.

Nel primo caso, Veltroni avrebbe scelto di usare il PD come semplice rampa di lancio per il governo in continuità con le scelte di Prodi, pur rinunciando così a dare una vera caratterizzazione riformista al nuovo soggetto politico.

Con le ulteriori conseguenze, in questa ipotesi, di non poter recuperare al centrosinistra un valido rapporto con il nord del Paese (proprio compromesso dalla politica del governo Prodi) e di non obbligare l’opposizione di centrodestra ad abbandonare la sua comoda rendita di posizione per arrivare finalmente ad un proprio serio chiarimento interno, atto a superare gli errori commessi purtroppo anche dal governo Berlusconi e, quindi, a superare criticamente le cause della sua sconfitta elettorale dell’aprile 2006.

Se, invece, Veltroni avesse scelto nel suo discorso di Torino la linea di una “leadership democratica”, con pronunciamenti netti sulle cose che contano (pensioni, DPEF, riduzioni fiscali, TAV, ordine pubblico, collocazione internazionale dell’Italia coerente con le posizioni occidentali, ecc.), avrebbe dato al PD una vera caratterizzazione riformista e alla sua stessa figura di capo “in pectore”, ma sarebbe andato subito ad uno scontro con la sinistra massimalista con ovvie conseguenze negative sul governo in carica. Pur potendo però recuperare – secondo Panebianco – al momento della campagna elettorale, un rapporto col mondo della sinistra antagonista, ma da una nuova posizione di chiarezza e di forza.

Nel suo affettivo discorso di Torino Walter Veltroni, tuttavia, non ha seguito in concreto né l’una né l’altra delle due linee indicate dal prof.Panebianco, perchè ha battuto invece – e come non poteva, conoscendo il sindaco di Roma? – una strada intermedia, un misto di continuismo con Prodi e con la tradizionale linea ulivista, ma di marca soprattutto DS, condito da un riformismo emozionale, prendendo di peso molti temi del centrodestra cari al popolo dei ceti medi, delle partite IVA e dei disagi cittadini in materia di sicurezza e di immigrazione.

Ma la declinazione di questi temi è stata generica, in superficie, pur non negandosi una esposizione carica di ovvio buon senso: tanto da fare colpo (e come non avrebbe potuto) sul presidente di Confindustria e sulla stampa del capitalismo di relazione, che si richiama al patto di sindacato di Mediobanca e a quello della RCS.

Ha detto che non è di buon senso opporsi all’innalzamento dell’età pensionabile, ma si è guardato bene dal criticare la CGIL di Epifani e la sinistra radicale di Bertinotti, Giordano e Diliberto per la rottura, allora, delle trattative col governo sullo scalone.

Ha spezzato varie lance a favore di una riforma costituzionale che dia maggiori poteri al capo del governo, abolisca il bicameralismo perfetto, riduca il numero dei parlamentari e riorganizzi razionalmente il federalismo confuso del vigente titolo V della Costituzione. Ma si è guardato bene dal riconoscere che tali riforme erano già contenute, in definitiva, nella proposta costituzionale del centrodestra varata nel 2005 con la feroce opposizione del centrosinistra, convalidata poi dalla campagna per la bocciatura del referendum conseguente.

Ha perorato la causa di una riforma elettorale che semplifichi gli schieramenti politici italiani, giungendo fino a dire che, in alternativa ad un accordo su di essa, il referendum del prof.Guzzetta sarebbe l’unica soluzione possibile: ma non si è schierato a favore della raccolta delle firme necessarie per ammetterlo. Anzi, successivamente ha teorizzato con i referendari un “appoggio esterno” al referendum: fate bene a raccogliere le firme, auspico che ne raccogliate tante, ma io non firmo per non andare contro una parte della maggioranza di centrosinistra che vede il referendum come il fumo negli occhi.

Un colpo al cerchio ed uno alla botte, dunque. Da Veltroni, specie oggi, non ci si poteva attendere molto di più. Ma, come ha bene sottolineato Oscar Giannino su “Tempi” del 28 giugno scorso, commetterebbe un grave errore il centrodestra se prendesse sottogamba il discorso del sindaco di Roma. Già i riscontri del Corriere della sera e del Sole24Ore dimostrano come il capitalismo relazionale di Piazzetta Cuccia, di Via Solforino e magari delle grandi banche le proprie orecchie le ha drizzate, costruendo sondaggi post-Lingotto lusinghieri per Veltroni e tirate di giacca per il centrodestra che si attarda nei suoi contrasti sulla leadership e si crogiola nella comoda rendita di posizione della opposizione a Prodi.

Sottovalutare Veltroni per il centrodestra potrebbe, dunque, essere pericoloso se non si affrettasse a costruire un proprio forte programma di “rottura” alla Sarkozy, non limitandosi a mobilitare solo le pur benemerite proprie Fondazioni, Ma affrontando finalmente un serio percorso verso il partito unico con Berlusconi, finalmente incontestato, al suo vertice come il solo capace di tenere insieme le tante anime che convivono nell’attuale opposizione al morituro governo Prodi, in preparazione di una prova elettorale forse più vicina di quanto si pensi.

Un Berlusconi al vertice del centrodestra ormai indiscusso anche da Gianfranco Fini, che lo ha dichiarato pubblicamente nel momento in cui ha ventilato anche una ipotesi di sua candidatura a sindaco di Roma, quando Veltroni dovrà per forza abbandonare il Campidoglio per guidare le incerte sorti del Partito Democratico.
 
da  confronto.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Aprile 12, 2008, 09:51:21 pm »



... si parla sempre meno.

Sapete perchè?

Tra poche settimane lo sapremo.

ciaooooooooooo
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Aprile 13, 2008, 12:30:31 pm »

Ferrara: Veltroni tra le macerie del prodismo
 

Posso sbagliarmi, ma penso che Walter Veltroni perderà le elezioni. Non si sopravvive alla catastrofe combinata di un governo e di una alleanza politica, alla caduta rovinosa di Romano Prodi e alla scomparsa dell’Unione e dell’Ulivo. Questa però è una previsione facile e molto diffusa. Se vogliamo andare sul complicato, sull’azzardo, si può pensare che, sconfitto nella battaglia per il governo, il capo del Partito democratico vincerà quella per la guida dell’opposizione. Invece di essere buttato giù dal cavallo, Veltroni resterà in sella e, magari con l’aiuto del Cavaliere, farà la sua brava traversata nel deserto fino alla costruzione compiuta di quel soggetto politico nuovo della democrazia italiana che è nei suoi sogni.

Quanti sono contrari al progetto del Partito democratico si dicono difensori della tradizione del socialismo europeo. Ma è un po’ tardi per farsi alfieri di una simbologia e di una forma politica sommersa dal naufragio della vecchia repubblica dei partiti. Dovevano pensarci prima. Che il socialismo europeo possa essere resuscitato dagli eredi del partito comunista e della sinistra democristiana è un’ipotesi che fa sorridere.

Il fenomeno Berlusconi ha imposto un nuovo schema di gioco alla politica e alle istituzioni in Italia. Occorrono anche a sinistra idee e forme nuove capaci di contenere e di dare voce all’Italia che non si riconosce nella cultura, nella prassi e nella classe dirigente berlusconiana.
La vera questione è fino a che punto Veltroni ha capito questa necessità, la crisi traumatica del governo Prodi e della legislatura ha portato a una campagna elettorale vecchia e stanca nei toni, e ha mascherato l’unica vera novità politica degli ultimi 15 anni: l’abbattimento del muro di separazione e di inimicizia fondamentalista, antropologica, fra destra e sinistra. Comunque vada, dopo il voto è di lì che Veltroni e Berlusconi devono ripartire. Un’opposizione misurata e intelligente, capace di costruire un’alternativa e non di perseguire di nuovo lo sfascio, è nell’interesse del vincitore e anche del vinto.

Veltroni non ha rinunciato a battersi, ma è restato leale verso la sua idea di farla finita con la poltiglia neoqualunquista e demagogica del vecchio antiberlusconismo. In questi giorni finali gli argomenti si faranno di nuovo contundenti e assisteremo a qualche sparatoria di moda negli anni scorsi, ma chiunque sappia leggere tra le righe avrà capito che qualcosa è cambiato. Il progetto politico di Veltroni si salverà solo se ci sarà un’intesa generale per una vera modifica del sistema istituzionale e se il Partito democratico non tornerà a essere un’arena per la lotta tra capi e correnti in cui l’ultima parola spetta sempre a chi la spara più grossa contro il «nemico ideologico».

Il Pd deve ridefinirsi intorno alla sua leadership indicando un altro modo di pensare e praticare la politica moderna e riformista che Veltroni dice di avere in mente. Se dovesse prevalere la solita ansia revanscista, ci troveremmo in pochi mesi di fronte a un nuovo fallimento strategico a sinistra. Guardare lontano, inventare un nuovo contenitore del blocco sociale progressista, ricreare le condizioni di una visione per un popolo che si sentirà battuto ed escluso dai dividendi sociali della politica: per Veltroni non sarà affatto facile evitare la ricaduta negli incubi del passato, ma è nel tremendo stridore di denti del dopoelezioni che si vedrà se ha il coraggio di cambiare il codice, il linguaggio di base, la cultura della sinistra. Se sarà finalmente un uomo capace di rottura, Veltroni costruirà qualcosa sulle macerie che il prodismo e la infinita lotta dei capi gli hanno lasciato. Altrimenti si spezzerà.


da panorama.it

Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Aprile 27, 2008, 11:22:22 am »

27/4/2008
 
Vivere male parlando peggio
 
ALFIO CARUSO

 
Parliamo male perché viviamo male o viviamo male perché parliamo male? Nello sfogo appassionato del supporter la sconfitta della Sinistra Arcobaleno è stata così spiegata: c'è mancata la capacità di entrismo nelle pieghe più frastagliate della realtà zigzagante. E volevano anche sopravvivere...

Presi in mezzo tra una burocrazia legislativa che ha fatto dell'incomprensibilità il tratto distintivo e la propria forza (in Sicilia vige una legge che a Palermo viene considerata ultimativa contro gli abusivi della Valle dei Templi e ad Agrigento una sorta di condono tombale) e una lingua plasmata dalla televisione, la semplicità delle parole non ci basta più. Nutriamo la costante ossessione di andare oltre, di pronunciare affermazioni che abbiano in sé qualcosa di definitivo. Così abbiamo inventato il supervertice (dimenticando che vertice è già il punto più elevato), la super top model e la classifica dei dieci super top manager (benché top in inglese significhi cima). Non esiste oramai una tragedia che non sia vera, una strage che non sia cruenta, un trionfo che non sia autentico. L'abitudine dell'aggettivo rafforzativo si è talmente radicata da aver creato una nuova scala di valori: l'incidente automobilistico con un morto e tre feriti è stato definito nel tg una strage. La sciagura ferroviaria non presuppone più la presenza di vittime, basta una semplice ammaccatura di lamiere.

Tramonta la buona usanza di rispondere sì o no a una domanda. Peste lo colga chi non premette l'avverbio assolutamente, il quale sta dilagando nell'eloquio giornaliero peggio della rucola nei ristoranti milanesi d'inizio Anni 80. Fanno persino sorridere le battaglie stilistiche condotte da Montanelli contro taluni modi di dire - nella misura in cui, i ragionamenti che potevano stare a monte e a valle - i quali, a suo avviso, ingarbugliavano il corretto uso dell'italiano. Oggi voliamo molto più in basso con la trasformazione dello scontato in traguardo ambito. Dunque l'accordo sull'Alitalia dev'essere alto; il dibattito sulle riforme costituzionali ampio; il prossimo governo funzionante; gli assassini condannati; i corrotti e i corruttori puniti. Eppure ognuna di queste banalità è stata pronunciata con la stessa solenne compostezza usata da Churchill quando nel 1940 promise agli inglesi lacrime, sudore e sangue. A meno che il degrado nel quale sprofondiamo non costringa a ricominciare da zero, smentendo persino la felice intuizione di Troisi: ricomincio da tre.

Siamo circondati da avventurieri del risaputo (Casini: in Parlamento faremo un'opposizione repubblicana) e da esploratori dell'ovvio (Tronchetti Provera: la cordata si farà se i patti saranno chiari e i conti trasparenti). Dietro si muovono gli arditi dell'imperativo esortativo, sempre pronti a ricordarci le basi della convivenza civile: non si guardi in faccia a nessuno; chi ha sbagliato, paghi; si accerti la verità; chi sa, parli. Mentre a loro stessi riservano una prima persona che cerca di mescolare autorevolezza e modestia: non sottovaluterei; non passerei sotto silenzio; non mi crogiolerei.

Nella nostra epoca infelice anche la cultura può arrecare danni e senza fare distinzioni tra il maestro e l'esordiente. I titoli di un capolavoro di García Márquez (Cronaca di una morte annunciata) e di un'azzeccata autobiografia di Marina Lante della Rovere (I miei primi quarant'anni) hanno assunto il ritmo e la frequenza di una persecuzione. Da un quarto di secolo ogni calamità, ogni sventura sono, a posteriori, annunciate. Abbiamo cancellato il Caso, Dio, la Natura nella sicumera che tutto sia prevedibile. Peccato che a noi mai riesca di prevederlo e di scongiurarlo. Da un quarto di secolo non esiste genetliaco che, in pubblico o in privato, non sia preceduto dall'immancabile «primi» alla faccia dei confini anagrafici. Per cui, passi per i primi cinquant'anni di Madonna, ma in televisione sono stati appena festeggiati i primi ottant'anni dell'artista che davanti alla telecamera appariva molto più di là che di qua.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Aprile 27, 2008, 06:17:24 pm »

Il futuro della politica (fuori e dentro il Pd)

Vincenzo Vita


Rivendico il diritto a un dubbio e a una sofferenza che investe, d'altronde, un tratto della nostra storia. L’essere rimasti - più d'uno - alle soglie dell'uscio dei Democratici di sinistra, non aderendo al percorso avviato ormai definitivamente dall’ex mozione Mussi ora divenuta Sinistra democratica per il socialismo europeo, ha prodotto un turbamento forse poco compreso da chi suppone una politica spogliata di qualsiasi soggettività, ridotta a una mera «linea», ma che pesa invece come un macigno se la politica è stata ed è una scelta profonda, per certi versi una «totalità». Confesso con prudenza, ma anche con determinazione, che la scelta di dar luogo alla costituente della sinistra nei termini proposti nella bella e riuscita manifestazione del 5 maggio può rischiare di evocare un modello già sperimentato, sempre che siano vere le riflessioni sui cambiamenti profondi introdotti via via dalla crisi dei vecchi sistemi cognitivi e sociali, dal capovolgimento di tanti archetipi che nell'era del fordismo e della grande fabbrica capitalistica hanno reso più drammatico, ma anche più semplice, declinare il termine «sinistra». Per questo, benché di fronte all’attuale configurazione del Partito democratico da ritenersi, senza improbabili improvvise folgorazioni, né tuttora adeguata né motivata (come si vede dalle quasi quotidiani polemiche), si era suggerito un tempo di scelta - sul «che fare» - più lungo.

Il tempo è, notoriamente, una variabile fondamentale, anche nella sfera pubblica. Forse un tempo più lungo avrebbe permesso una concreta verifica sul campo, utile soprattutto se si è convinti che il Pd non è un progetto compiuto, bensì un territorio aperto di lotta politica e culturale dentro il quale si gioca una partita cruciale per la ristrutturazione dei poteri nel nostro paese. Si è definitivamente concluso un ciclo della politica, con le sue forme consolidate nel secolo scorso, i suoi stili e i suoi riti. La «forma partito», così come era stata concepita, difficilmente potrà avere futuro. È il secolo della rete, di internet, che rappresentano non solo una tecnica, quanto anche un modello di organizzazione sociale e persino una metafora del cambiamento in corso lungo i percorsi dei saperi e dei soggetti. Il Pd, dunque, persino al di là delle intenzioni dei suoi stessi proponenti, sarà la premessa e l'occasione per un mutamento non ancora del tutto prevedibile del sistema politico italiano. Tuttavia, qui passa la parte più rilevante del cambiamento. Certo, meglio sarebbe stato stare dentro o nei pressi di un più laborioso e meno concitato flusso critico. L'area della sinistra dei Ds, con la Fondazione («Una sola terra») cui aveva di recente contribuito a dare vita, poteva (e doveva) rimanere almeno nell'incipit di tale processo per coglierne meglio, oltre che le verosimili ombre, anche le auspicabili luci. Per scegliere, se del caso, solo in un secondo momento un'altra strada, ma con la forza di chi partecipa ai grandi processi dall'interno, pur mantenendo lo spirito e la coscienza più critici.

Del resto, la vicenda che ha segnato la nostra «sinistra» dall'epoca della svolta dell’89 in poi è sempre stata una sapiente miscela di oggettività e soggettività, nella consapevolezza che la vicenda politica ha le sue scosse e le sue rotture, ma all'interno di ciò che la storia e il modo di viverla costruiscono. Insomma, più utile e originale sarebbe stato il contributo al non più rinviabile ripensamento della sinistra l'agire nei luoghi in cui siamo stati fin qui. Non replicando ai rischi della fusione a freddo tra i Ds e la Margherita con quelli di una separazione anch'essa affrettata per ipotizzare la via di una nuova sinistra. Coinvolgente, ma non facilmente praticabile.

Il quadro è ora ben lontano da quello che sembrava essere il primigenio spirito dell'Ulivo, quello che portò alla vittoria del '96, ripiegato com'è in un'alleanza (tuttora qua e là conflittuale) di soli due partiti, e perdendo per strada persino socialisti e repubblicani europei. Tutto questo non è casuale. Attiene alla crisi profonda di una politica (della politica?), che non riesce più a stare al passo con la contemporaneità, rinchiusa com'è in un ceto spesso autoreferenziale. Non a caso centinaia e centinaia di giovani (e meno giovani) fanno la fila per andare a sentire un ciclo di lezioni sulla storia antica, o sulla filosofia, e la gran parte dei ragazzi dialoga attraverso la rete e gli sms, si costruisce il proprio blog, lontano dalle modeste partecipazioni alle canoniche sedute delle sezioni. E ciò vale per tutti, anche per l'itinerario immaginato per ricostruire la sinistra, come se un così straordinario obiettivo potesse limitarsi, oggi, a rifare un accordo con i pezzi separati della vecchia sinistra. No. Non sembra la modalità giusta a chi è rimasto nell'attuale travaglio, dopo il congresso nazionale dei democratici di sinistra, cioè su quell'uscio di casa, ma senza varcarlo. E con quale disagio dopo tanti anni di appartenenza a un'area del partito che, in larga maggioranza, ha fatto un'altra scelta. Tuttavia, al disagio dei sentimenti non corrisponde altrettanto disagio della ragione. È il motivo per cui mi interpello, ad esempio, su cosa si dirà nella costituente della sinistra che non potesse trovare spazio in quella del Partito democratico, quanto meno finché fossero esistiti i Ds. Trascorsi i primi mesi sarebbe stato più agevole tirare le fila e prendere una decisione che ormai non riguarda più (il coraggio di rimettersi in discussione questo, sì, manca) solo una parte, bensì tutta l'area di sinistra, laddove sinistra poco si coniuga con i rituali dell'astrazione politica. La fortuna dei movimenti più significativi degli anni in corso - a cominciare dal movimento pacifista, che ha colto nel segno dandosi il linguaggio di una globalizzazione governata democraticamente, o dalla mobilitazione contro la tragedia della precarietà - sta nell'essersi occupati della vita reale, della «biopolitica». La politica, in assenza di teoria, è sempre più un mero apparato burocratico.

Un esempio per tutti: banco di prova è, in questi giorni, il dibattito in Parlamento sul conflitto di interessi, su cui non devono essere possibili altre mediazioni. È un problema che si risolve definitivamente, come è noto, applicando il principio dell'ineleggibilità a chi dispone del «potere dei poteri» nella «società informazionale», cioè quello mediatico.

Non è credibile, del resto, che si parli di sinistra e di democrazia senza mettere in cima alla gerarchia delle priorità i temi della cultura e della comunicazione che sono tanta parte della politica di oggi, ivi compreso il tema ormai drammatico della Rai. L'ecologia del pianeta per la sua sopravvivenza, l'ecologia della comunicazione per togliere i lucchetti ai saperi, la pace come esperanto del nuovo secolo, la questione morale, la dignità del lavoro come parte costitutiva della dignità umana, i nuovi diritti di cittadinanza dell'epoca digitale, la laicità delle istituzioni in quanto cardine dell'edificio democratico, la collocazione nel socialismo europeo costituiscono i punti di una verifica puntuale per chi è al di qua e al di là dell'uscio! La Fondazione «Una sola terra» potrebbe essere il canale di un dialogo che non si può interrompere.

Torniamo al punto. L'essere rimasti nei Ds è stata una scelta faticosa, con molti disagi e dubbi numerosi. Guai, però, se accettassimo la divisione dei compiti tra quanti supponessero di detenere per diritto naturale una cultura riformista di governo e quanti privilegiassero una «sinistra-sinistra», detta impropriamente radicale. Non siamo, per fortuna, alla conclusione, bensì solo all'inizio di una scossa tellurica a largo spettro e di lungo periodo.

A «dispetto dei santi» si può sperare, dunque, che le scelte fatte finora non siano conclusive. A meno che non si voglia compiere un'accelerazione impropria, tale da far coincidere la 'costituzione' con la «costituente» del Pd. Tutto in quel caso diverrebbe, o rimarrebbe, un puro atto di fede.

O viceversa.

Perché la sinistra non è un perimetro da recintare. È una soggettività da ricostruire, contaminando e rinnovando vecchie culture politiche ormai prosciugate dalla storia.

Pubblicato il: 14.05.07
Modificato il: 14.05.07 alle ore 8.07   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Maggio 07, 2008, 04:21:12 pm »

Rosy Bindi - Blog


7 Dicembre 2007

Franco Monaco: Ulivo addio?

Dobbiamo mettere a tema il nesso che unisce legge elettorale e PD. Nei prossimi mesi investiremo cospicue energie intellettuali e pratiche nel processo costituente del PD ai vari livelli.
di Franco Monaco

Dobbiamo mettere a tema il nesso che unisce legge elettorale e PD. Nei prossimi mesi investiremo cospicue energie intellettuali e pratiche nel processo costituente del PD ai vari livelli. E’ bene essere consapevoli che, nel mentre siamo concentrati su quel fronte, buona parte della partita si gioca altrove. Il profilo, il posizionamento, la missione del PD saranno in larga misura determinati dalla legge elettorale che sortirà dal parlamento o dai referendum.

Essa è la madre di tutte le questioni, lo “statuto dello statuto” del PD, secondo la felice formula di Parisi. Ecco perché, su di essa, esigiamo la più larga consultazione. Non c’è organo provvisorio del PD che abbia titolo per prendere una decisione identitaria e costituzionale di tale portata.

Non dobbiamo farci distrarre dalle tecnicalità delle più diverse soluzioni elettorali. Ci si deve piuttosto concentrare sulla sostanza politica. Ciò che a noi preme è la visione del sistema politico cui attendere, il centrosinistra che vogliamo e, in esso, l’identità del PD. In gioco c’è la continuità o la discontinuità rispetto all’Ulivo, sino al suo abbandono da più parti (specie rutelliane) da tempo teorizzato. Il quotidiano “Europa” in prima fila.

È bene fare un po’ di memoria. Pur dentro percorsi diversi, la più parte di quanti oggi si riconoscono nel Partito Democratico, nel recente passato, si sono riconosciuti nell’esperienza e nel progetto dell’Ulivo inteso quale strumento a servizio dell’evoluzione della democrazia italiana, dei suoi attori, delle sue regole, delle sue istituzioni.

Due sono stati gli antefatti decisivi dell’Ulivo:

- l’Antefatto per eccellenza, con la maiuscola, è stato il 1989: la caduta del muro di Berlino, lo scongelamento del sistema politico italiano, il collasso del sistema dei partiti della prima Repubblica;

- l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria sulla spinta dei referendum elettorali dell’inizio anni novanta.

Il maggioritario ha rappresentato un mezzo e tuttavia un mezzo necessario per produrre una positiva evoluzione della democrazia italiana in tre direzioni: 1) la restituzione di una effettiva sovranità ai cittadini elettori, sovranità usurpata dai vertici dei partiti già ridottisi a gusci vuoti, nella scelta di maggioranze, governi, premier (ricordate? “restituire lo scettro al principe-cittadino”, fare il “cittadino arbitro-decisore” dei governi…); 2) l’introduzione di una democrazia finalmente competitiva e dell’alternanza di forze e coalizioni alla guida del paese; 3) la maturazione di una democrazia governante, dopo cinquant’anni segnati da governi della durata media di dieci mesi: da allora il più forte deterrente alla precarietà dei governi è stata la drammatizzazione delle crisi, con la concreta minaccia di scioglimento delle Camere.

Fa impressione la smemoratezza delle classe dirigenti e ahinoi anche dell’opinione pubblica. Nel giro di un mese, abbiamo assistito all’improvviso rovesciamento del paradigma, dei fondamentali di quel ragionamento e di quel progetto cui abbiamo dato il nome di Ulivo (prima Rutelli, poi D’Alema, infine Veltroni). E ciò in aperto contrasto con gli enunciai della bozza di manifesto del Partito democratico stilata solo qualche mese fa dai “saggi”, ove si ribadisce a chiare lettere che il PD rappresenterebbe lo sviluppo e il compimento dell’Ulivo.

I segnali e l’enfasi sulla discontinuità sono parecchi. Penso alla “nuova stagione” che Veltroni ha assunto a proprio motto, al nuovo simbolo ove l’Ulivo è quasi scomparso, ma penso soprattutto ai presupposti istituzionali:

1. l’adozione di un impianto proporzionale per la nuova legge elettorale, un piano inclinato e un nuovo e opposto terreno di gioco mutuato da altri;

2. l’accento posto sul “vero” bipolarismo da opporre a quello “coatto” di ieri;

3. la rinuncia al vincolo di coalizione previo al voto, cioè a un patto politico stretto davanti ai cittadini;

4. la nozione di “partito a vocazione maggioritaria” assunto a sinonimo di autosufficienza e di “mani libere”, anziché come partito coalizionale teso alla sintesi di governo;

5. più generalmente la tesi, più o meno esplicitata, secondo la quale gli ultimi dodici anni della nostra esperienza politica sarebbero stati sprecati. C’è chi ha parlato di fallimento.

Tutto questo è precipitato nella proposta del cosiddetto “Vassallum”, che mira a un compromesso tra convenienze di parte, che sconta un deficit di visione e di convinzione a sostegno di essa. Senza visione e senza convinzione non si viene a capo dei veti incrociati ispirati a convenienze partigiane. Uno scatto di generosità, un sacrificio degli interessi particolari  può essere chiesto solo in nome di un patto politico alto e della condivisione di un progetto sistemico. Se comprendiamo bene, dietro il “Vassallum”, si intuisce la scommessa su una nuova mappa politica: un PD che esploda elettoralmente al 40% strategicamente alleato con una Cosa bianca di cui incoraggiare lo sviluppo grazie alla legge proporzionale. Su questo il più esplicito è D’Alema.

Faccio quattro domande: è sufficiente quantitativamente a vincere o quanto meno a competere con ragionevoli speranze di vittoria (gli studi e le stime di D’Alimonte lo negano categoricamente)? E’ rassicurante la qualità riformatrice di un centro strategicamente alleato, intestato ai Casini, Mastella, Dini, Di Pietro, che non promette il massimo in termini di innovazione e modernizzazione? produrrebbe stabilità o non piuttosto il suo contrario, conferendo a quel centro un potere di coalizione-ricatto esorbitante? Un tale centro mobile non eserciterebbe un insidioso potere attrattivo per settori ex popolari mettendo a rischio l’unità del PD?

Concludo: ammesso e non concesso che il vaglio parlamentare non travolga gli arzigogolati correttivi maggioritari contemplati dal “Vassallum” che già ora, dentro il PD, declina verso un proporzionale puro, un tale schema di gioco giova al sistema politico italiano e al centrosinistra che, storicamente, con il proporzionale non ha mai vinto? La mia risposta è no. Del resto, già stiamo raccogliendo i primi frutti avvelenati: possiamo e dobbiamo esprimere disappunto per la irrituale e brutale dissociazione di Bertinotti dal governo, ma essa va letta anche come il prodotto del virus divisivo del proporzionalismo e di mesi di predicazione delle alleanze di “nuovo conio”.

Un divorzio auspicato, annunciato, incoraggiato, con l’idea che esso giovi elettoralmente ad entrambi, PD e Cosa rossa, ma che mina l’unità dell’Unione oggi e la fa improbabile domani. Una divisione che promette sicura sconfitta del centrosinistra o rapporti incestuosi con Berlusconi.  Certo, anche la destra è divisa, ma essa ci metterebbe un minuto a ricomporsi se si precipitasse verso elezioni. Non così noi. Complimenti ai nostri strateghi.

Franco Monaco


da www.scelgorosy.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Giugno 02, 2008, 05:09:15 pm »

Prodi sistemò i conti, Tremonti si becca i complimenti



Il commissario Ue AlmuniaLa Banca centrale europea festeggia lunedì i suoi dieci anni di vita. E a Francoforte si riuniscono tutti i ministri economici europei per fare il quadro sui paesi dell’eurozona. Si parla soprattutto di Italia e Francia, i paesi con i conti più in rosso. Ma per noi c’è una buona notizia: dopo tre anni, siamo usciti finalmente dalla procedura d’infrazione per deficit: «Il disavanzo eccessivo dell'Italia – dicono dall’Ue – è stato corretto e la procedura deve essere quindi abrogata». Peccato che sia tutto merito della politica di risanamento di Prodi e Padoa Schioppa. E che ora, a beccarsi i complimenti, sia il ministro Tremonti.

Secondo la banca europea, «l'aggiustamento è stato guidato principalmente da un aumento delle entrate fiscali permanenti nel periodo 2006-2007, ben superiore alle aspettative. È stato soprattutto grazie ad un'efficacia superiore al previsto delle misure adottate e ad una crescita economica più alta del previsto». Insomma, anche Visco, quello che la destra chiama «vampiro» ha messo del suo.

Ora l’Europa ci dice di «continuare il consolidamento». «Tutto quello che va in questa direzione – ha detto il presidente della Bce Jean Claude Juncker – va bene»: via libera quindi alle linee del governo illustrate da Tremonti. Una manovra da dieci miliardi di euro, che il neo ministro può sostenere grazie ai conti lasciati in regola dal suo predecessore.

In Europa, comunque, resta vivo lo spettro dell’inflazione: il presidente della Bce Jean Claude Juncker e il commissario Ue agli Affari economici Joaquin Almunia hanno ribadito di essere «preoccupati» e invitano nuovamente i paesi membri a evitare effetti di «rincorsa dei prezzi», salari compresi. Anche per questo, ha aggiunto Almunia, i bilanci 2009 dovranno essere preparati con «molta attenzione e prudenza» valutando che «le entrate diminuiranno». E si fa all’Italia una raccomandazione particolare: «Evitare qualsiasi spesa addizionale, tagli delle tasse compresi, che non sia bilanciata da altri tagli in grado di non deteriorare il bilancio strutturale 2008». Quello lasciato da Prodi.

Pubblicato il: 02.06.08
Modificato il: 02.06.08 alle ore 15.05   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Giugno 06, 2008, 04:45:52 pm »


Un consistente gruppo di "protagonisti" del forum www.forumista.net ( ex www.ulivo.it ) ha dato vita al sito in oggetto.

A loro auguro buon lavoro e spirito sereno... aiuta.

ciao
ggiannig


Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Giugno 07, 2008, 11:01:05 am »

ESTERI


Lo sfogo dell'ex premier per il difficile rapporto con la Conferenza episcopale

"Ho avuto l'impressione di scontrarmi con un'opposizione politica"

Prodi: "I leader della Cei sempre contro di me"

di MARCO MAROZZI

 

ROMA - "Dissi di essere un cattolico adulto. La frase non mi è stata mai perdonata. Con la presidenza della Conferenza episcopale, ho avuto l'impressione di scontrarmi con un'opposizione politica". Romano Prodi cerca di organizzare la sua vita da ex, ma rivive ancora con amarezza il rapporto con uno degli interlocutori a cui teneva di più. La Chiesa cattolica. Le sue difficoltà terribili come capo di un governo di centrosinistra le ha raccontate anche a La Croix, il più grande quotidiano cattolico francese. "Mai sono stato intervistato dall'Avvenire, il giornale italiano di ispirazione cattolica, mentre La Croix mi ha dedicato due pagine nel maggio 2007".

Prodi non è mai stato intervistato non solo dal giornale della Cei, nemmeno - a differenza di Silvio Berlusconi - dall'Osservatore Romano. Organo della Santa Sede.
Le differenze volute bruciano sulla pelle del professore cattolico che il 31 maggio ha festeggiato i 39 anni di matrimonio, padre di due figli, nonno di quattro nipoti. Ha scritto un suo amico dagli anni di Reggio Emilia, Raffaele Crovi, cattolico, intellettuale anche democristiano, in "Nerofumo", profetico romanzo poco prima della morte: "Perché la Curia Vaticana, ai politici cattolici praticanti e osservanti dei comandamenti, preferisce i politici laici, magari puttanieri, ma osservanti".

E Crovi, vaticinando la caduta del governo Prodi, fa rispondere a un monsignore: "Perché i cattolici praticanti, ritenendosi parte della Chiesa, mettono bocca nelle scelte delle autorità ecclesiastiche, mentre i laici, senza far domande, mettono mano alla borsa".
Prodi, che il libro ha ricevuto, scansa i rimandi. Né parla di politica italiana. "Aspettiamo che il polverone si fermi" dice ai pochi fedelissimi superstiti. "Coerenza e discrezione" ripete, sono il suo atteggiamento rispetto alla Chiesa. A La Croix - fra un cenno all'unica udienza da Benedetto XVI e un affettuoso dilungarsi sugli incontri con Giovanni Paolo II - ha raccontato l'amarezza "soprattutto per le critiche delle gerarchie cattoliche quando adottai provvedimenti in favore degli esclusi". "Telefonai anche per dir loro che prima comunque non c'era niente. Non mi hanno risposto".

Rapporto di spine con Camillo Ruini, l'allora presidente della Cei e rimasto potentissimo, anche se da un anno la Conferenza è guidata da Angelo Bagnasco. Il reggiano Ruini fece conoscere e sposò Prodi e Flavia, né fu assistente, ma ruppe per sempre quando, dopo il crollo della Dc, chiese all'allora discepolo di guidare la rinascita di un partito cattolico. Ottenendo un rifiuto da colui che già pensava all'Ulivo. Prodì rivendica quel "cattolico adulto" con cui si definì quando andò a votare nel referendum sulla fecondazione assistita. Non rispettando - pur votando da cattolico osservante - la chiamata di Ruini all'astensione. Richiamandosi piuttosto a De Gasperi che disobbedì a Pio XII che voleva l'alleanza Dc-Msi al Comune di Roma.


(7 giugno 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Giugno 21, 2008, 04:50:57 pm »

Assemblea Pd, Veltroni: «Non siamo più ex»


«Basta con essere "ex" di qualcosa, con l'avere ancora l'idea che c'è un'identità allo stesso livello di quella nuova, nella nostra gente questo è già successo, ora deve succedere a salire, nei Comuni, nelle città, da lì deve venire la spinta forte al 'rimescolò». Walter Veltroni, concludendo l'assemblea costituente del Pd, rinnova l'appello a superare le rispettive appartenenze di partito.

«So che bisogna garantire ancora gli equilibri - aggiunge Veltroni - ma io spero che tra qualche mese, o un anno, ognuno si sentirà solo Democratico, per quello che significa, cioè la capacità di coniugare culture diverse».

Il segretario del Pd aggiunge: «Non c'è ritorno o alternativa al Pd, se non lo sgretolamento del riformismo, che sarebbe una tragedia per l'Italia. Abbiamo perciò la responsabilità di capire che dobbiamo accelerare la fusione. So che ci vuole tempo, so che le urla fanno male al corpo collettivo», ma assicura anche che «chi ha la responsabilità della sintesi sa che non è un'improvvisazione di un giorno, che è una costruzione complessa, ma non mi piace la schizofrenia di chi se non vede un tornaconto non tollera le approssimazioni».

È stato però Arturo Parisi ad animare l'assemblea del Pd. L'ex ministro della Difesa è il più critico nei confronti della relazione di Veltroni e su come sta procedendo l'organizzazione del partito e la discussione interna. Tanto da decidere di rifiutarsi di fare parte della Direzione del partito.

«Cosa vuole che resti. Di interventi ne ho sentito a sufficienza. La differenza tra una assemblea politica e una accademia culturale è tuttavia il fatto che in una assemblea di partito le parole sono chiamate a trasformarsi in decisioni nel quadro delle regole concordate», aveva commentato Parisi.

«Sapendo che i presenti erano l'assoluta minoranza dei componenti della Assemblea, nonostante le richieste - ricorda Parisi - non è stata consentita neppure la verifica del numero legale. E dire che abbiamo cambiato con raffiche di voti lo Statuto che costituisce il quadro di garanzia e di legalità della nostra convivenza. Uno Statuto che, anche se per applauso, era stato approvato appena nella precedente assemblea. Oltre a non chiederci perchè gli elettori ci hanno abbandonato il guaio - conclude l'ex ministro della Difesa - è che qua non abbiamo avuto neppure il coraggio di chiederci come mai ci hanno abbandonato anche i delegati».

È Piero Fassino a rispondere a Parisi, difendendo l'organizzazione per aree politiche. «Siamo nella fase di costruzione del Pd - ricorda - lo abbiamo fondato poco più di nove mesi fa sulla base dell'esperienza dell'Ulivo, alla nascita vale per un partito quello che vale per una persona: per generarla ci vuole l'accordo di due volontà. Poi man mano che cresce si costruisce una sua autonomia, una sua identità che si distacca da quella di chi l'ha generato». «Riconoscere che siamo un partito plurale - garantisce l'ex segretario dei Ds - non vuol dire cristallizzarlo nelle vecchie appartenenze».

Parisi aveva iniziato a dare battaglia sul numero legale. Lo statuto del partito richiede che le votazioni dell'Assemblea la maggioranza assoluta dei componenti delle Assise, che sono 2.800. In sala, invece, si sono registrati circa 800 delegati.

Lo strappo di Arturo Parisi con il Pd si consuma fino in fondo e l'ex ministro della Difesa rimane fuori dalla Direzione del partito, visto che aveva rifiutando di entrarvi in "quota Bindi" ma esigeva di farne parte a capo di una propria componente.

La Direzione è stata eletta con una lista unitaria proposta dal segretario Walter Veltroni, lista composta su base proporzionale, come prevede lo statuto, delle varie componenti.

Per registrare il peso interno di queste ultime sono stati presi i risultati delle primarie e in particolare i voti ottenuti dalle tre liste che il 14 ottobre sostennero Veltroni, e le due che appoggiarono rispettivamente la candidatura di Rosy Bindi e Enrico Letta.

Parisi il 14 ottobre è stato eletto all'Assemblea del Pd nelle liste a sostegno della Bindi e quest'ultima lo aveva inserito tra i nominativi dati a Veltroni per la composizione della Direzione. Parisi però ha messo in discussione la validità di tale criterio di appartenenza a una componente; d'altra parte con Bindi aveva già rotto nelle scorse settimane, disertando il seminario dell'Associazione «Democratici per davvero» che fa capo all'ex ministro per la Famiglia. E così Parisi e gli esponenti a lui vicini (tra gli altri l'ex sottosegretario Mario Lettieri, Gad Lerner e Mario Barbi) sono rimasti fuori dalla Direzione eletta dall'Assemblea.


Pubblicato il: 20.06.08
Modificato il: 20.06.08 alle ore 19.35   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Giugno 21, 2008, 11:28:13 pm »

POLITICA

IL RETROSCENA

Nel partito-labirinto di Walter tra sedie vuote e musica rock

di FILIPPO CECCARELLI

 

SEMBRA che un paio di registi, Ettore Scola e Paolo Virzì, avessero in animo di girare un film sul "pazzesco tour" - così si legge su un trafiletto - del pullman elettorale veltroniano. Ore e ore di girato già le possiede l'emittente Nessuno tv. Bene. Per la storia politica del Pd si potrebbe integrare il progetto con le immagini di ieri. Per il luogo innanzitutto, la Nuova Fiera di Roma, questo sì veramente pazzesco. Enorme e praticamente irraggiungibile: gioiellone urbanistico pianificato e realizzato nell'era delle amministrazioni di centrosinistra. Un bianco, labirintico blocco di tubi, vetro e cemento sorto nel bel mezzo del nulla.

Incongrui ascensori, interminabili scalinate, lentissimi sferraglianti tapis-roulant, infiniti camminamenti da percorrere sotto lo schioppo del sole. Venti minuti almeno per arrivare all'assemblea - eppure ci sono anche persone anziane, donne con i tacchi, qualche disabile. Ogni tanto un cartello surreale: "Area smoking & relax".

Perfetta location per un partito che dopo aver perso voti e frequentatori, sembra essersi perso esso stesso nel verde stento di questa infuocata periferia tecnologica e penitenziale. I massimi dirigenti arrivano invece a destinazione in automobile, belli freschi - per quanto la macchina di Veltroni, che di lì a poco citerà "i dannati della terra", gira e gira e gira attorno al mostro, lato est, lato nord, lato boh, senza trovare il pertugio giusto. I dannati della Nuova Fiera, d'altra parte, vengono accolti da un essenziale fast-food che si chiama "Very italiano" e offre "mezze maniche alla puttanesca". Ancorché vagamente ingiuriosa, la circostanza non contribuisce né alla potenza drammatica né alla desolante solennità dell'occasione.

Nella sala semideserta un'allegra marcetta rock fa cadere le braccia. Alle 10 e 20 ci sono Follini, Carra, Zanone e il mitico Diego Bianchi, che gira i corrosivi video "Tolleranza Zoro", disponibili su You-tube. Quando ancora nessuno dei big è presente Arturo Parisi pone la questione del numero dei presenti. Ha contato le sedie e si è accorto che ce ne sono meno della metà dei membri dell'assemblea (2800). Ma in quel momento sono anche vuote per la metà.

Sui maxi-schermi, dopo la batosta, le tardo-icone della fondalistica veltroniana - neonati dormienti, bimbi che giocano, graziose ragazze, simpatici vecchietti, allegre nonnine, extracomunitari in bici - hanno perduto la loro magia e adesso sembrano la pubblicità di qualche fondo-vita delle assicurazioni. Non possono che cogliere un che di svogliato nell'organizzazione, i delegati che arrivano stanchi e sfiniti con i trolley, "come pecore senza pastore". Ma nessuno s'impietosisce per loro - né essi lo pretendono.

L'impressione è che reggano meglio dei notabili il colpo anche psicologico della sconfitta: forse perché non vivono di politica, forse perché non agognano l'occhio delle telecamere. Si salutano, si siedono, prendono appunti, sbadigliano, alcuni qui e là si addormentano. Forse qualcuno riflette su una terribile frase che in un attimo di verità Parisi pronuncia al microfono: "Un'assemblea che con difficoltà associa al nome di partito l'aggettivo democratico"...

Si avverte una separatezza anche fisica tra ottimati e popolo, una distanza moltiplicata dallo scarto fra vana liturgia e cruda realtà. Dal palco verde emergono tante testoline eccellenti, una lunga fila di faccette malinconiche e distratte. I responsabili che finora non si sono assunti la responsabilità. In mattinata sembrano anche un po' spaventati; più tardi, evidentemente a loro agio, ricominciano a chiamarsi per nome, Walter, Dario, Piero, Enrico: un segno di reciproca e cordiale spontaneità che però a volte suona come un certificato di appartenenza all'oligarchia.

Bettini traffica con fogli, biglietti, elenchi, liste; Fioroni sta al telefonino dalle tre alle quattro ore, in posa bisbigliante, con la manina a coprire l'apparecchio; alcuni guardano nel vuoto; altri, come Bersani, hanno improvvisi scoppi di ilarità; altri ancora, specialisti di convegni e seminari "a porte chiuse" convocano i rispettivi scudieri, li spediscono dai giornalisti. Veltroni, senza cravatta, distribuisce sorrisi tirati.

La nomenklatura, in altre parole, si basta. Questo è abbastanza normale, ma dopo la sconfitta, per quanto a lungo la si sia cercata di nascondere o negare, lo è molto meno. Così, sopra il Pd, grava una coltre anche rabbiosa di non detto, una cappa di sfiducia che nessun generoso tentativo di rianimazione riesce a rompere, e nemmeno a perforare.

Mai come in questa assemblea lo sconforto, da stato dell'animo, si è convertito in evidente e conseguente categoria politica. Tiepidi applausi segnano la relazione di Veltroni, diligente, ma priva di autocritica e comunque sorvegliatissima rispetto a temi scottanti. A partire da certe candidature troppo fantasiose e per continuare con certe altre fin troppo comode e furbastre. Non una parola sulla debacle anche personale di Roma. Niente sui sondaggi balenghi, sulla sopravvalutazione di vip e testimonial, sugli sprechi economici tipo il loft, durato meno di nove mesi. Nulla sulla laicità, i vescovi, i radicali, il rapporto con Di Pietro, gli scandali delle giunte rosse.

E le feste dell'Unità? Che "si chiamino come si vuole". E già: ma come? E la presidenza del partito dopo l'ennesimo no di Prodi? Vattelappesca, come diceva Craxi. E l'eterna storia dei patrimoni ereditati e del finanziamento? Chissà. E la sorte dei dipendenti? Non è materia da discutere assemblea.

Anche il dibattito sembrava a tratti una recita. La passerella dei pochi. La consueta retorica dell'orgoglio, dell'innovazione e dell'identità plurale. Il "rimescolo" di Bersani, l'"autocoscienza costruttiva" della Bindi, Marini che fa l'elogio del "caminetto", richiamando anche quello di sua nonna. Partito insieme leaderistico e correntizio, ibrido non proprio felice. Nella replica il segretario ha invocato la necessità di "liberarci dal dominio dell'io". Prima del voto la Finocchiaro s'è inerpicata in una davvero complessa disquisizione statutaria sulla maggioranza qualificata. Quelli che c'erano hanno alzato la delega. E poi anche sulla Nuova Fiera è calata la sera.

(21 giugno 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Giugno 25, 2008, 11:10:12 pm »


Intervento di Arturo Parisi all'Assemblea nazionale del Pd

Questo è l'intervento di Arturo Parisi tenuto all'Assemblea nazionale del Pd a Roma lo scorso 20 giugno 2008. L'intervento richiama all'ordine procedurale e al rispetto dello Statuto del partito. Arturo Parisi si riprometteva di fare successivamente un intervento politico, ma le condizioni date non lo hanno consentito.

20 Giugno 2008   


Debbo dire che dopo la relazione densa e compiuta di Veltroni è sempre faticoso intervenire come io intendo intervenire sull’ordine dei lavori. Era mia intenzione rivolgere una domanda alla presidenza, ho già avuto una risposta ed è quindi con questa risposta che è sottoforma di proposta che io mi confronto. La proposta e la linea che è stata formulata dal gruppo dirigente perché è chiaro che la presidente se n’e’ fatta semplicemente portatrice, ha un contenuto che è a tutti evidente: formalmente compatibile con lo statuto che per la prima volta ci troviamo ad applicare, essa mette capo ad un assetto del partito che rischia di definirne il dna da questo momento in poi. Lo dico a partire da un ragionamento, lo dico a partire dall’esperienza. E’ evidente che quella proporzionalità che compone la lista unica che viene annunciata come da sottoporre ad un voto di assemblea, che non corrisponde esattamente alla categoria dell’elezione, cosi come la si potrebbe dedurre dall’articolo 8 dello statuto, evoca infatti una proporzionalità nascosta che non corrisponde purtroppo alla preoccupazione appena evocata dal segretario in ordine all’inopportunità che il partito nasca costruito su un sistema di equilibrio di correnti. Io so che di queste cose, probabilmente, avremo difficoltà a parlarne in pubblico. E già questo sta ad indicare quello che è lo stato di salute del partito. Credo che sia difficilmente accettabile confrontarsi con un appello ulteriore alto da parte del segretario. Leggere con parole che non posso non far mie, ieri sui giornali, attribuito a D’Alema o a Bettini, vi era l’invito a mescolarsi a partire dalla politica e a superare ogni tentazione di corrente, per di più che nasca non più nella forma delle correnti alla fine del loro percorso da gruppi ideali, ma da gruppi di difesa del ceto politico. Come riconoscere in queste preoccupazioni la proposta che ci viene sottoposta? Un partito che nasce dovrebbe avere il coraggio di aprire un largo dibattito. Perché solo a partire dal dibattito dal confronto delle scelte le persone si possono riaggregare in termini nuovi, in riferimento alle domande che diamo nel presente per il futuro. E non in riferimento alle aggregazioni che noi raccogliamo dal passato. E’ una preoccupazione che sottopongo alla presidenza e all’assemblea nel momento in cui con una proposta della quale vengo a conoscenza in questo momento, che è in distribuzione tra i banchi da parte di responsabili dell’organizzazione sento proporre questa assemblea come l’ultima assemblea, un’assemblea che conferisce e trasferisce i suoi poteri alla direzione, un’assemblea che confermando, ahimè, la prima e la seconda assemblea associa con difficoltà al nome di partito l’aggettivo democratico, l’unico al quale ci siamo aggrappati non sapendo definirci altrimenti. Per questo motivo formulando una proposta io chiedo che oggi si consenta un dibattito e si trasferisca ad un’assemblea successiva la decisione sul proprio scioglimento e sull’elezione della direzione.


da ulivisti.it


-------------------------------------------------



'Ripartire da L'Ulivo': Arturo Parisi il 30 giugno a Genova con gli Ulivisti

Ulivisti di Liguria - 25 Giugno 2008   


La sconfitta politica delle elezioni di aprile impone a tutto il centrosinistra ed in particolare al Partito Democratico, che ne è pressoché rimasto la sola espressione parlamentare, una severa ed attenta riflessione sugli errori compiuti per ritrovare le ragioni di un impegno alternativo al modo di far politica della destra, ai suoi obiettivi e alle sue scelte programmatiche.

Il popolo de L’Ulivo deve ricompattarsi e darsi ragioni antiche e nuove di rilancio.

A tal fine, pensiamo che sia indispensabile ripartire da L’Ulivo dal suo significato, dal grande incontro di culture e di storie politiche che esso ha rappresentato negli ultimi 15 anni di vita politica del nostro Paese.

Ne parliamo con chi è stato interprete autentico della cultura ulivista anche come culla di quello che avrebbe dovuto e dovrà essere il Partito Democratico

Arturo PARISI che sarà con noi

lunedì 30 giugno 2008, ore 17.45
Jolly Hotel Plaza – Sala Paganini
via M. Piaggio 11 Genova


ripreso da ulivisti.it


----------------------------------------------------------


Pd: Marino, non parli chi ha disprezzato regole Assemblea

AGI - 25 Giugno 2008   

(AGI) - Roma, 25 giu.

- "Sicuramente la Picierno era distratta. Ma Parisi, a differenza di lei, in Assemblea e' intervenuto.

E se ne sono accorti sia quelli che c'erano e ancor piu' quelli che non c'erano. Come e' noto non c'e' peggior sordo di chi non vuol sentire. Parisi e' rimasto, pur in una assemblea invalida, ad ascoltare gli interventi fino alla fine. I primi a non avere diritto di dare lezioni di rispetto della Assemblea sono quelli che hanno manifestato ben altro disprezzo, dissattendendo ogni regola, e sciogliendola di fatto con un colpo di mano, deludendo cosi' definitivamente la domanda di partecipazione espressa nelle primarie prima da milioni di cittadini e poi da 2858 delegati eletti in loro rappresentanza". Lo afferma l'ulivista Mauro Marino, senatore del Pd e delegato all'Assemblea Nazionale, che cosi' replica a Pina Picierno che in un'intervista oggi bacchetta Parisi accusandolo di aver lasciato l'Assemblea di venerdi' senza prendere la parola.

"Chi rispetta dunque di piu' l'Assemblea: chi a viso aperto e nel rispetto delle regole si batte per i suoi diritti - conclude Marino - o chi ha lavorato e lavora con determinazione contro di essa?". 

da ulivisti.it


---------------------------------------------------------


Pd: Parisi, D'Alema sia più chiaro su proposta alternativa

Adnkronos - 25 Giugno 2008   


Roma, 25 giu. - (Adnkronos) - "Sento D'alema avanzare una proposta per il futuro del Paese diversa da quella di Veltroni. Sento, appunto. Vorrei essere piu' sicuro che lui si faccia promotore di idee alternative". Arturo Parisi, a Radio24, ha rinnovato le sue critiche alla linea politica del Partito democratico ed ha sottolineato che bisogna "aprire un dibattito tra persone e, soprattutto, tra idee", anche se "dentro il confronto politico ogni discussione che si concentrasse sui nomi sarebbe stupida".

L'ex ministro della Difesa ha parlato apertamente di una alternativa a Veltroni. "In Italia siamo 60milioni persone. Piu' o meno la meta' facevano riferimento al campo del centrosinistra.
Figuriamoci se non riusciamo a trovarne due o tre che alzino la mano per dichiarare la loro idea del Paese e confrontarla con quella che non ha compiutamente esposto Veltroni". Le critiche ai dirigenti del partito sono mosse anche seguendo il filone calcistico: "Nel calcio la sconfitta e' evidente a tutti ed e' un punto di partenza inevitabile.
In politica e' possibile chiamare vittoria anche quelle che sono sconfitte plateali. Quello che oggi si tarda a riconoscere".

Parisi ha rimproverato la decisione di andare a "separazione consensuale" tra Veltroni e Bertinotti, poi "i risultati di Roma, dove i dirigenti nazionali, Veltroni, Rutelli e Bettini sono stati bocciati sonoramente" e anche il risultato delle amministrative in Sicilia. "Si deve riprendere il cammino laddove lo abbiamo interrotto -ha spiegato ancora Parisi-. Che non e' l'Unione ma e' il progetto dell'Ulivo, un'alleanza attorno ad un programma nostro. Del resto, cosi' aveva detto Il Pd. Ma abbiamo prima saputo della chiusura del confronto e poi, dopo, abbiamo appreso del programma che vedo allontanarsi nella memoria".
 

da ulivisti.it



Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:39:55 pm »

Tronti: «La sinistra debole ha nutrito una destra forte»

Bruno Gravagnuolo


«La sinistra debole declinata come "centrosinistra" ha generato una destra forte». È la tesi di fondo della relazione che Mario Tronti, terrà domani alla Sala della Colonne di Palazzo Marini in Roma, all´Assemblea del Centro per la Riforma dello stato di cui è presidente. Occasione di confronto politico intenso, con protagonisti come D´Alema, Mussi, Reichlin, Bertinotti, Rodotà, Vacca, Ida Dominjanni, Maria Luisa Boccia e tanti altri. Dopo la sconfitta di aprile. E dopo che già il Crs aveva lanciato l´allarme e chiesto un rilancio della sinistra. In base a un documento intitolato «11 tesi dopo lo Tusunami». Ora Tronti, filosofo e pensatore politico, ritorna su quelle tesi, e specifica meglio il profilo della sinistra da inseguire. Sentiamo.

Fare società con la politica. Slogan suggestivo e un po´ criptico per l´assemblea di domani. Di nuovo alle prese con la sinistra e la sua sconfitta?
«È inevitabile. E il titolo indica l´ambizione che dovrebbe essere la ragione stessa della sinistra: fare politica. Contro l´ideologia della società civile "buona" e della politica "cattiva", tipica della destra. E a cui la sinistra è stata subalterna negli ultimi decenni. La società non è qualcosa di statico da rappresentare e basta, ma qualcosa da costruire»

Da costruire attraverso la sinistra?
«Sì, la sinistra ha il compito di ricostruire un sociale sbriciolato e corporativo, che genera ansia e insicurezza e che alimenta la destra. Perciò ci vuole una politica attiva, capacità espressiva e linguistica a sinistra. Invece l´impressione è che la sinistra non abbia parlato molto...».

Soprattutto che non abbia parlato di sé, né a nome di sé
«Appunto, non ha presentato in alcun modo se stessa come alternativa o progetto. Come forza in grado di esprimere un´idea di società, non totalizzante, ma almeno coerente».

Voi dite «sinistra non come blocco ma come campo». Che significa?
«Vuol dire oltrepassare l´idea di "blocco sociale", che era un´idea storica della sinistra e che oggi appare superata, in una società scomposta e disomogenea come l´attuale. Il blocco presupponeva grandi classi e aggregati da rappresentare, oggi sfuggenti. Il "campo" consente di includere i frammenti del lavoro in un orizzonte».

Ma gli operai da noi sono 7 milioni e mezzo. Esistono o no?
«Sì, sono quelli, ma non esistono nell´immaginario attuale. Del resto non sono mai esististi di per sé. Se non nello sguardo e nelle reti del movimento operaio: sindacati,cooperative, partiti. Erano quei mondi a far parlare gli operai. Oggi magari c´è un po´ di rappresentanza, ma non rappresentazione del mondo del lavoro. È un universo da raffigurare in modo nuovo».

Ma la "sinistra nuova" deve partire dal lavoro oppure no?
«Il lavoro deve riconquistare una sua centralità politica, attorno a cui aggregare tutte le altre opzioni e le altre culture della soggettività diffusa. Non è operazione facile ed esige un grande sforzo di analisi e di ricerca».

Puntate a una inedita centralità del lavoro nel segno di una rinnovata critica del capitalismo e delle sue forme sociali?
«Dentro la prospettiva che cercerò di esprimere domani, dirò intanto che occorre chiudere una fase. La fase delle scissioni a sinistra. Per aprire un´epoca di ricomposizione. E che dentro possa includere tante anime. Quella socialista e comunista della critica al capitalismo. Quella femminista, quella cattolico-sociale, quella riformista. Sì, anche quella riformista, che pur avendo abbandonato la critica al capitalismo, lavora in società dall´interno. Nel tentativo di privilegiare aspetti del capitalismo contro altri, per rinnovarlo nel suo insieme».

Che messaggio politico inviate al Pd, su queste basi?
«Al Pd diciamo che l´idea di una sinistra che si fa "centrosinistra" è conclusa. Sconfitta, e non solo in Italia, perchè il "blairismo" è finito. Aggiungendo anche che questa impostazione da "terza via" ha generato una destra peggiore, più rigida che in passato. Insomma, è nata una nuova destra identitaria, alimentata proprio dal riformismo debole. D´altro canto va pure superata una sinistra minoritaria, arroccata e autoreferenziale. La sinistra che critica il capitalismo a parole, ma è priva della forza necessaria per mettere in pratica certi obiettivi».

Pensate a una sinistra diffusa, di massa e popolare, che si allea autonomamente con il centro moderato?
«Esattamente. La grande sinistra che immagino non sarà mai maggioritaria, in una società "scomposta" come l´attuale. E deve allearsi, come soggetto egemone e in coalizione, con il centro moderato. Penso quindi a un bipolarismo di coalizione o a un bipartitismo imperfetto. Contro l´errore del bipartitismo perfetto, che in Italia non funziona. E contro le ricadute decisioniste, presidenziali e premierali, tipiche di un´idea secca del bipolarismo, maggioritario o bipartitico. E questo resta un terreno di sfida decisivo e privilegiato per la sinistra contro la destra».


Pubblicato il: 26.06.08
Modificato il: 26.06.08 alle ore 12.14   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: [1] 2 3
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!